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    55 morti e 146 feriti in Libia, le milizie per ora fermano gli scontri. Dall’Ue “grande preoccupazione”

    Bruxelles – La Libia è ancora una polveriera, un Paese in equilibrio precario che rischia di scivolare nel caos ad ogni azione intrapresa dalle diverse milizie che si contendono il controllo del territorio. Dopo gli scontri degli ultimi due giorni, che hanno provocato 55 morti e almeno 146 feriti, l’allarme sembra essere rientrato. Un allarme suonato forte anche a Bruxelles, che segue “con grande attenzione e preoccupazione gli ultimi avvenimenti in Libia”.
    Arriva dall’Alto rappresentante Ue per gli Affari esteri, Josep Borrell, l’invito “a tutte le parti a continuare ad astenersi dalle ostilità armate” e ad “avviare un dialogo per allentare la tensione e riportare la calma” a Tripoli. Secondo il The Libya Observer, questa mattina (17 agosto) i leader dei principali gruppi armati libici si sono incontrati e hanno deciso di “porre fine ai combattimenti e ripristinare l’ordine” nella capitale. A seguito dell’incontro, sarebbe già stato liberato il generale della brigata 444, Mohamed Hamza: allineato al primo ministro del governo di unità nazionale sotoo l’egida delle Nazioni Unite, Abdel Hamid al-Dbeibeh, Hamza era stato arrestato da un’unità affiliata alla forza di deterrenza ‘Rada’ all’inizio di questa settimana. Proprio la sua cattura ha innescato le rappresaglie da parte della brigata 444 e di altre milizie alleate.

    The commander of the 444th Brigade Mahmoud Hamza, whose detention sparked deadly clashes in Tripoli, has been released. pic.twitter.com/mXEyTbV0G6
    — The Libya Observer (@Lyobserver) August 17, 2023

    “Gli ultimi eventi sono un vivido promemoria della fragilità della situazione della sicurezza in Libia e dell’urgente necessità di elezioni per trovare una soluzione politica sostenibile e inclusiva”, ha commentato il capo della diplomazia europea. Un’instabilità su cui l’Ue ha dovuto più volte chiudere un occhio, obbligata in ogni caso ad allacciare rapporti con il Paese del vicinato meridionale. Nel complesso, Bruxelles ha stanziato 700 milioni di euro dal 2015 a oggi a sostegno della Libia attraverso vari strumenti di finanziamento. 90 milioni tra il 2021 e il 2022 e altri 95 promessi dal commissario Ue per l’Allargamento, Olivér Várhelyi. Finanziamenti che hanno convogliato diverse critiche, tra cui quelle della missione d’inchiesta dell’Onu, che in un rapporto pubblicato lo scorso marzo aveva ipotizzato che una parte dei fondi europei – in particolare quelli dedicati al contenimento del fenomeno migratorio- finanziassero in realtà una serie di attività illegali perpetrate dalle diverse milizie.
    Per il primo ministro al-Dbeibeh, che avrebbe mediato l’intesa tra i miliziani, “il ritorno della guerra in Libia è inaccettabile e il Paese non tollera alcun comportamento irresponsabile”. Borrell ha voluto ribadire “il suo fermo sostegno agli sforzi di mediazione condotti dall’Onu e dal suo rappresentante in loco, Abdoulaye Bathily“.

    Due giorni di scontri tra i gruppi armati allineati con il primo ministro al-Dbeibeh e quelli antagonisti. Ad accendere la miccia l’arresto del generale della brigata filogovernativa 444, ora rilasciato. Per l’Alto rappresentante Ue Borrell “gli ultimi eventi sono un vivido promemoria della fragilità” del Paese

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    I fondi di cooperazione Ue cambiano destinazione: 135 milioni di euro riorientati da Russia-Bielorussia a Ucraina e Moldova

    Bruxelles – Dagli aggressori agli aggrediti, per tagliare completamente ogni legame con i responsabili diretti e indiretti dell’invasione dell’Ucraina scatenata il 24 febbraio dello scorso anno. La Commissione Europea ha annunciato oggi (16 agosto) che 135 milioni di euro inizialmente previsti per i programmi di cooperazione regionale con Russia e Bielorussia hanno cambiato destinazione, passando al rafforzamento della collaborazione con Ucraina e Moldova.
    La commissaria per la Coesione e le riforme, Elisa Ferreira
    “La decisione di cancellare la cooperazione originariamente prevista con la Russia e la Bielorussia attraverso i nostri programmi Interreg è il risultato della brutale guerra della Russia contro l’Ucraina”, ha commentato la commissaria per la Coesione e le riforme, Elisa Ferreira: “Sono lieta che i fondi che avevamo inizialmente previsto per questa cooperazione andranno ora a beneficio dei programmi dell’Ue con l’Ucraina e la Moldova”. Per la commissaria europea questo “contribuirà a rafforzare la collaborazione tra le regioni dell’Ue e gli attori locali con i partner ucraini e moldavi“.
    I 135 milioni di euro ri-orientati facevano parte dei programmi Interreg Next 2021-2027 con Mosca e Minsk, all’interno dello Strumento di vicinato, sviluppo e cooperazione internazionale. Già con l’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina la Commissione aveva deciso di sospendere la cooperazione con la Russia e l’alleato bielorusso nei programmi Interreg, determinando un’immediata ridistribuzione di 26 milioni di euro (sempre verso Ucraina e Moldova) e congelando i restanti. Con la decisione di oggi è stata completata la procedura finanziamenti rimanenti del periodo 2021-2027, compresa la possibilità per le regioni di Finlandia, Estonia, Lettonia e Polonia che avrebbero dovuto partecipare ai programmi Interreg con Russia e Bielorussia di cambiare in corsa la destinazione di cooperazione.
    Il Collegio dei commissari a Kiev (2 febbraio 2023)
    Mentre da Bruxelles è arrivata la proposta di modifica del regolamento per le reti transeuropee del trasporto (Ten-t) – per estendere quattro corridoi al territorio ucraino e moldavo ed escludere quello russo e bielorusso – nel concreto i finanziamenti Interreg ri-orientati potranno sostenere attività come corsie preferenziali e lo sviluppo di collegamenti di trasporto transfrontalieri. A queste si aggiungono anche quelle per i servizi sanitari, i progetti di istruzione e ricerca, i programmi di inclusione sociale e il rafforzamento della capacità istituzionale delle autorità pubbliche ucraine e moldave. “La partecipazione ai programmi Interreg apporta anche vantaggi in termini di capacità amministrativa ed esperienza a entrambi i Paesi nella gestione e nell’attuazione dei fondi Ue”, sottolinea l’esecutivo comunitario a proposito dei percorsi di integrazione europea dei due candidati all’adesione all’Unione.

    La Commissione ha deciso di trasferire i finanziamenti rimanenti dei programmi Interreg Next 2021-2027 con Mosca e Minsk (previsti dallo Strumento di vicinato, sviluppo e cooperazione internazionale) per rafforzare la collaborazione tra le regioni europee con Kiev e Chișinău

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    Gli osservatori Ue coinvolti nelle sparatorie di confine tra Armenia e Azerbaigian. Nessun ferito

    Bruxelles – Continuano, senza pausa, le tensioni tra Armenia e Azerbaigian lungo il confine e in Nagorno-Karabakh. Ma nell’ultimo episodio di escalation armata è rimasta indirettamente coinvolta anche l’Unione Europea. Come confermato su X (precedentemente Twitter) dalla missione civile Ue in Armenia (Euma) una pattuglia di osservatori europei “è intervenuta in occasione di una sparatoria nella nostra area di responsabilità”, ma “nessun membro Euma è stato ferito“. Si tratta di una prima volta dall’inizio delle operazioni a febbraio – e nel pieno degli sforzi diplomatici di Bruxelles – anche se gli spari di confine tra i due Paesi caucasici al momento sono di origine e responsabilità non chiarita.
    La comunicazione dell’Euma è stata caratterizzata da un equivoco quantomeno bizzarro. Dopo che il segretario stampa del ministero della Difesa armeno, Aram Torosyan, aveva per primo dato notizia ieri (15 agosto) sul fatto che l’esercito azero aveva “scaricato il fuoco contro gli osservatori dell’Ue”, sulla stessa pagina X della missione civile Ue in Armenia era apparso un post (poi cancellato) con un perentorio “falso”. Solo poche ore più tardi è stato pubblicato l’aggiornamento di rettifica che ha dato ragione al portavoce armeno, almeno nella parte in cui è stata confermata la presenza della pattuglia europea durante gli spari, senza nessun riferimento alla responsabilità azera. Da parte di Baku è stata respinta l’accusa armena degli spari da parte dell’Azerbaigian come “teoricamente e praticamente impossibili”, dal momento in cui l’esercito era a conoscenza della presenza di pattuglie Ue nella zona. Dallo scorso 20 febbraio Euma è presente in Armenia con l’obiettivo di contribuire alla stabilità nelle zone di confine tra Armenia e Azerbaigian.
    Il nuovo episodio di tensione si iscrive in una guerra congelata che va avanti dal 1992 , con scoppi di violenze armate ricorrenti. Il più grave degli ultimi anni è stato quello dell’ottobre del 2020: in sei settimane di conflitto erano morti quasi 7 mila civili, prima del cessate il fuoco che ha imposto all’Armenia la cessione di ampie porzioni di territorio nel Nagorno-Karabakh. Mentre l’Ue è impegnata in un difficilissimo sforzo di mediazione diplomatica e sul campo per risolvere la questione dei confini e dell’integrità territoriale, per oggi (16 agosto) è prevista una riunione di emergenza del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite sull’aggravarsi della crisi umanitaria nel Nagorno-Karabakh, in particolare dopo che l’Azerbaigian ha preso il controllo del corridoio di Lachin e ha bloccato la fornitura di aiuti umanitari.
    La difficile mediazione Ue sul Nagorno-Karabakh
    Da sinistra: il presidente dell’Azerbaigian, Ilham Aliyev, il presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, e il primo ministro dell’Armenia, Nikol Pashinyan
    Dopo le sparatorie alla frontiera tra i due Paesi di fine maggio dello scorso anno il presidente del Consiglio Ue, Charles Michel, ha cercato di rendere sempre più frequenti i contatti diretti con il premier dell’Armenia, Nikol Pashinyan, e il presidente dell’Azerbaigian, Ilham Aliyev. La priorità dei colloqui di alto livello è sempre stata posta sulla delimitazione degli oltre mille chilometri di confine. Tuttavia, mentre a Bruxelles si sta provando da allora a trovare una difficilissima soluzione a livello diplomatico, sul terreno non si è mai allentata la tensione. Nel mese di settembre sono riprese le ostilità tra Armenia e Azerbaigian, che si accusano a vicenda di bombardamenti alle infrastrutture militari e sconfinamenti di truppe di terra.
    La mancanza di un monitoraggio diretto della situazione sul campo da parte della Russia – che fino allo scoppio della guerra in Ucraina era il principale mediatore internazionale – ha portato alla decisione di implementare una missione Ue. Dopo il compromesso iniziale con Yerevan e Baku raggiunto il 6 ottobre a Praga in occasione della prima riunione della Comunità Politica Europea, 40 esperti Ue sono stati dispiegati lungo il lato armeno del confine fino al 19 dicembre dello scorso anno. Una settimana prima della fine della missione l’Azerbaigian ha però bloccato in modo informale – attraverso la presenza di pseudo-attivisti ambientalisti armati – il corridoio di Lachin, l’unica via di accesso all’Armenia e al mondo esterno per gli oltre 120 mila abitanti dell’autoproclamata Repubblica dell’Artsakh (Nagorno-Karabakh). Da 154 giorni su questa strada sono in atto forti limitazioni del transito di beni essenziali come cibo e farmaci, gas e acqua potabile, e gli unici a poterla percorrere sono i soldati del contingente russo di mantenimento della pace e il Comitato internazionale della Croce Rossa.
    Soldati dell’Azerbaigian al posto di blocco sul corridoio di Lachin (credits: Tofik Babayev / Afp)
    A seguito dell’aggravarsi della situazione nel corridoio di Lachin, il 23 gennaio è arrivata la decisione del Consiglio dell’Ue di istituire la missione civile dell’Unione Europea in Armenia (Euma) nell’ambito della politica di sicurezza e di difesa comune, con l’obiettivo di contribuire alla stabilità nelle zone di confine e garantire un “ambiente favorevole” agli sforzi di normalizzazione dei due Paesi caucasici. Ma la tensione è tornata a crescere lo scorso 23 aprile, con la decisione di Baku di formalizzare la chiusura del collegamento strategico attraverso un posto di blocco, con la giustificazione di voler impedire la rotazione dei soldati armeni nel Nagorno-Karabakh “che continuano a stazionare illegalmente nel territorio dell’Azerbaigian”. Da Bruxelles è arrivata la risposta secca dell’alto rappresentate Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell: “I diritti e la sicurezza degli armeni del Nagorno-Karabakh devono essere sempre garantiti”. Dopo la ripresa delle discussioni a maggio, lo scorso 15 luglio si è tenuto un nuovo round di negoziati di alto livello tra Michel, Aliyev e Pashinyan – “una delle fasi più complete e vigorose dei negoziati tra Armenia e Azerbaigian”, ha garantito il presidente del Consiglio Ue – ma ormai è diventata una costante l’alternarsi di speranze diplomatiche e tensioni crescenti sul campo.

    Lo ha riportato la stessa missione civile dell’Unione Europea in Armenia (Euma) che monitora la situazione in Nagorno-Karabakh. Scambio di accuse tra Yerevan e Baku sulla responsabilità, mentre è prevista una riunione d’emergenza del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite

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    Ue preoccupata per il rischio che la Russia aggiri le sanzioni con l’Unione economica euroasiatica

    Bruxelles – Le sanzioni dell’Ue contro la Russia e il rischio di un loro aggiramento attraverso l’Unione economica euroasiatica (Eaeu). E’ più che un’ipotesi, tanto che in Parlamento europeo c’è chi si inquieta e chiede conto di alleanze politico-commerciali che rischiano di vanificare sforzi e misure senza precedenti profusi fin qui per rispondere alle manovre miliari di Mosca su suolo ucraino. 
    Fin qui l’Ue ha colpito il Cremlino, e allineato le sanzioni anti-Putin a quelle decretate contro la Bielorussia accusata di aiutare la Russia. Ma c’è l’area di libero scambio che unisce Russia, Bielorussia, Armenia, Kazakistan, Kirghizistan, garantendo un cooperazione che potrebbe permettere di aggirare le restrizioni a dodici stelle. Perché gli europei non possono vendere in Russia e Bielorussia, ma non c’è nulla che vieti loro di continuare con le esportazioni verso gli altri membri dell’Unione economica euroasiatica.
    Liudas Mažylis, europarlamentare lituano del Ppe, ha più di qualche dubbio. Innanzitutto, sottolinea, “lo scorso anno il commercio dei paesi dell’Asia centrale con la Russia è cresciuto in media dal 60 all’80 per cento” rispetto al 2021, vale a dire il periodo precedente all’avvio dell’aggressione all’Ucraina. L’europarlamentare, nella sua interrogazione in materia, cita dati commerciali riferito al periodo  gennaio-ottobre 2022. In questo lasso temporale “le aziende kazake hanno esportato in Russia oltre 500 milioni di euro in più di elettronica e telefoni cellulari, ovvero 18 volte di più rispetto allo stesso periodo del 2021“.
    I partner commerciali dell’Eaeu possono dunque contribuire a sostenere Putin, la sua economia, e la sua macchina da guerra. In barba all’Ue e alle sue sanzioni. A detta di Mažylis, “a causa dell’aumento delle esportazioni di prodotti a duplice uso in Asia centrale, i componenti fabbricati nell’Ue possono essere trovati nelle attrezzature e negli armamenti militari russi utilizzati nella guerra contro l’Ucraina”. Dunque, denuncia, “si può presumere che le sanzioni imposte dall’Ue alla Federazione russa vengano eluse deviando i flussi commerciali attraverso paesi terzi, compresi gli Stati dell’Asia centrale“.
    La questione si come eccome, tanto che “la Commissione ha avviato un dialogo con le autorità dei paesi terzi, tra cui Kazakistan, Uzbekistan e Kirghizistan, in cui è stato individuato un rischio di elusione“, riconosce la commissaria per i Servizi finanziari, Mairead McGuinness, incaricata di rispondere a nome dell’intero collegio. Questo dialogo pone “particolare attenzione agli elementi critici per lo sviluppo militare, industriale ed economico della Russia”.

    Che in Asia centrale vi siano nodi geo-politici e di alleanze da sciogliere è cosa nota. Il voto dell’Assemblea generale dell’Onu dello scorso febbraio per una pace giusta in Ucraina ha visto l’astensione sia di Kazakistan sia del Kirghizistan, entrambi membri dell’Unione economica euroasiatica. Anche l’Uzbekistan, osservatore e altro interlocutore dell’Ue, si è astenuto, al pari del Tagikistan, altro osservatore. La risoluzione votata chiede in particolare che la Russia “ritiri immediatamente, completamente e incondizionatamente tutte le sue forze militari dal territorio dell’Ucraina e chieda la cessazione delle ostilità”.
    Nessuna condanna esplicita, ma neppure uno schierarsi con l’Europa e l’occidente. Per la ‘neutralità’ scelta diventa difficile per l’Unione europea considerare questi Paesi dell’Asia centrale e membri dell’Unione economica euroasiatica come sostenitori e alleati della Russia di Putin, e dunque prendere le decisione che il caso richiederebbe. La via del convincimento è allo stato attuale l’unica che l’esecutivo comunitario ha scelto di perseguire e proseguire.
    “La Commissione ha organizzato seminari di rafforzamento delle capacità dell’Ue in materia di sanzioni in Kazakistan e Uzbekistan”, spiega ancora McGuinness, lasciando intendere che comunque non si resterà a guardare. “L’Ufficio europeo per la lotta antifrode (OLAF), in collaborazione con gli Stati membri, monitora e indaga su possibili elusioni delle sanzioni dal punto di vista antifrode”.
    L’Ue cerca di sfruttare i mutamenti di equilibri politici in Asia centrale. L’uscita di scena di Nursultan Nazarbeyv in Kazakistan ha privato la Russia di Putin di un alleato da sempre incrollabile. Il nuovo presidente, Kassym-Jomart Tokayev, ha impresso un allentamento nelle relazioni col Cremlino dopo l’avvio delle operazioni militari russe in Ucraina (non va dimenticato in Kazakistan ci sono oltre 3 milioni di russi, il 15 per cento della popolazione, concentrata soprattutto a nord, a ridosso della frontiera russo-kazaka).
    Si intravedono rischi, ma allo stesso tempo anche opportunità di dialogo con Paesi sì alleati della Russia, ma un po’ meno di un tempo. Avanti dunque con il dialogo. Nell’auspicio generale di non dover andare allo scontro con l’intera Unione economica euroasiatica.

    Dal Parlamento l’interrogazione che pone il problema. La Commissione riconosce “un rischio di elusione” via Kazakistan e Kirghizistan

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    Cresce la preoccupazione Ue per le condizioni del presidente del Niger Bazoum. L’Ecowas prepara l’intervento armato

    Bruxelles – Quando sono passate due settimane dal colpo di Stato in Niger, cresce la preoccupazione delle istituzioni comunitarie per le condizioni di detenzione dell’ormai ex-presidente del Paese, Mohamed Bazoum, e della sua famiglia, tenuti ostaggi dei golpisti e sottoposti a un trattamento durissimo. “Secondo le ultime informazioni sono stati privati di cibo, cure mediche ed elettricità per diversi giorni“, è l’allarme sollevato oggi (11 agosto) dall’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, che continua a esigere dalla giunta militare nigerina il loro “rilascio immediato e incondizionato”.
    L’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, dopo un incontro con il presidente del Niger, Mohamed Bazoum, a Niamey (5 luglio 2023)
    Per Bruxelles c’è ancora spazio di mediazione dopo il golpe militare dello scorso 26 luglio, ma la liberazione del presidente Bazoum – democraticamente eletto due anni fa – è la conditio sine qua non: “Ha dedicato la sua esistenza a migliorare la vita quotidiana del popolo nigerino, non c’è alcuna giustificazione per un simile trattamento“, è la netta condanna dell’alto rappresentante Borrell. A dimostrare che per l’Ue non è ancora arrivato il momento di gettare la spugna è la decisione di non procedere all’evacuazione totale della presenza diplomatica comunitaria. Come reso noto a Eunews da fonti interne alla Commissione, la situazione viene monitorata “minuto per minuto” ma la presenza nel Paese dell’Africa occidentale “rimarrà”, sia con la delegazione Ue sia con la missione civile Eucap Sahel Niger. Oltre a permettere “su base volontaria” di lasciare la capitale Niamey al personale diplomatico e a sospendere la cooperazione in materia di sicurezza di Eucap Sahel Niger, non sono previste ulteriori misure di emergenza, anche se la situazione è molto fluida e potrebbe cambiare nel giro di ore o giorni.
    A sinistra: il presidente attuale della Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale (Ecowas) e della Nigeria, Bola Tinubu, alla riunione d’emergenza del 10 agosto 2023 (credits: Kola Sulaimon / Afp)
    Perché è sempre più evidente il contrasto tra il Niamey e la Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale (Ecowas), l’accordo economico e di sicurezza regionale siglato da 16 Paesi (Benin, Burkina Faso, Capo Verde, Costa d’Avorio, Gambia, Ghana, Guinea, Guinea-Bissau, Liberia, Mali, Mauritania, Niger, Nigeria, Senegal, Sierra Leone e Togo). Dopo l’ultimatum scaduto domenica (6 agosto) rivolto ai golpisti a Niamey – che minacciava l’uso della forza se Bazoum non fosse stato liberato e reinsediato come presidente – alla sessione di emergenza tenutasi ieri (10 agosto) è stata decisa la “mobilitazione immediata delle forze di emergenza” per “ripristinare l’ordine costituzionale nella Repubblica del Niger”. Non si tratta di un intervento militare immediato, nonostante le inclinazioni più interventiste dell’attuale presidente del blocco e leader della Nigeria, Bola Tinubu: “Diamo la priorità alle negoziazioni diplomatiche e al dialogo, ma non c’è nessuna opzione che scartiamo, compreso l’uso della forza”. Il tutto sembra lasciare spazio a ulteriori tentativi di negoziati, sia per i tempi che richiede una mobilitazione di forze di emergenza (diverse settimane) sia per il rischio insito in una soluzione armata: in caso di un attacco da parte dell’Ecowas a Niamey non è da escludere che i golpisti decidano di vendicarsi uccidendo il presidente deposto.
    Cosa sta succedendo in Niger
    Lo scorso 26 luglio la Guardia presidenziale del Niger ha circondato il palazzo presidenziale e gli edifici di diversi ministeri a Niamey, arrestando il presidente Bazoum (in carica dal 2021), la sua famiglia e i membri dell’entourage. Lo stesso capo di quello che poi si è ribattezzato Consiglio nazionale per la salvaguardia del Paese (Cnsp), Abdourahmane Tchiani, si è autoproclamato nuovo leader del Paese: i golpisti hanno ordinato la sospensione di tutte le istituzioni, la chiusura delle frontiere aeree e terrestri e il coprifuoco notturno. Anche l’esercito del Niger – addestrato dall’Ue attraverso il partenariato militare Eumpm Niger per la lotta al terrorismo – si è unito alla Guardia Presidenziale per “preservare l’unità” nazionale. Con un decreto annunciato nella tarda serata lunedì (7 agosto) la giunta ha nominato l’ex-ministro delle Finanze, Ali Mahamane Lamine Zeine, come primo ministro di transizione, mentre ieri (10 agosto) la giunta militare ha formato un governo composto da 21 ministri.
    In meno di due anni si sono susseguiti diversi colpi di Stato nei Paesi dell’Africa occidentali – in Mali, Guinea e Burkina Faso – le cui rispettive giunte militari oggi al potere hanno minacciato di difendere i golpisti in Niger in caso di un attacco armato da parte delll’Ecowas (che al momento ha imposto sanzioni economiche e chiuso le frontiere con il Niger, mentre la Nigeria ha tagliato le forniture di elettricità al Paese confinante a nord). Per l’Unione Europea Niamey era considerato un alleato-chiave soprattutto per la lotta contro il terrorismo di matrice islamista e in ottica di partenariato sulla migrazione. “La nostra partnership con il Niger è solida e non smette di rinforzarsi in tutti i settori: sicurezza, sviluppo, educazione, transizione energetica”, aveva dichiarato il 5 luglio scorso l’alto rappresentante Borrell dopo un incontro con Bazoum a Niamey. Dal 26 luglio tutti i fondi comunitari per la cooperazione con Niamey sono stati sospesi, compresi quelli mobilitati attraverso l’European Peace Facility per “rafforzare le capacità militari delle forze armate nigerine al fine di difendere l’integrità territoriale e la sovranità del Niger”.

    L’alto rappresentante Josep Borrell denuncia che il leader nigerino e la sua famiglia sono stati privati da giorni di cibo e cure mediche: “Rilascio immediato e incondizionato”. La Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale approva la mobilitazione di una forza d’intervento

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    Nella giornata internazionale dei popoli indigeni i Paesi dell’Amazzonia formano un’alleanza contro la deforestazione

    Bruxelles – Il 5 per cento della popolazione globale, custode dei territori che ospitano l’80 per cento della biodiversità del pianeta. Basta questo per comprendere l’importanza che hanno i 476 milioni di indigeni nel mondo nel proteggere e conservare ecosistemi sempre più minacciati dai cambiamenti climatici.
    Oggi (9 agosto) si celebra la Giornata internazionale dei popoli indigeni, istituita nel 1994 per volere delle Nazioni unite. Si celebra la loro “resilienza e l’eccezionale diversità culturale”, come ha dichiarato l’Alto rappresentante Ue per gli Affari esteri, Josep Borrell, in una nota per conto delle istituzioni europee. In un periodo storico in cui in diverse regioni del pianeta i gruppi indigeni subiscono discriminazioni e un progressivo ridimensionamento delle loro aree di controllo, l’Unione europea ha voluto ribadire il suo “impegno forte e costante per il rispetto, la tutela e l’esercizio dei diritti dei popoli indigeni, sanciti dal diritto internazionale dei diritti umani e dalla Dichiarazione delle Nazioni Unite sui diritti dei popoli indigeni”.
    Oltre un milione e mezzo di indigeni, divisi in 304 gruppi etnici, vivono in Amazzonia: e non a caso nella città brasiliana di Belem, porta d’accesso ad una delle regioni simbolo della lotta per la sopravvivenza di questi gruppi etnici, è in corso un summit tra i Paesi sudamericani che condividono il polmone verde del pianeta. Aperto dal monito del presidente del Brasile, Luiz Inacio Lula da Silva, che ha ricordato che “l’Amazzonia non può più aspettare” e che prendersene cura “non è solo una responsabilità del Brasile, ma di tutti”, il vertice ha già raggiunto un obiettivo significativo, anche se salutato dagli esperti come non sufficiente. I membri dell’Organizzazione del trattato di cooperazione amazzonica (Otca), Brasile, Bolivia, Colombia, Ecuador, Guyana, Perù, Suriname e Venezuela, hanno deciso di formare una “alleanza” contro la deforestazione.
    Salutata da Lula come un “punto di svolta”, l’entità denominata “Alleanza amazzonica per la lotta alla deforestazione” si porrebbe come obiettivo “la promozione della cooperazione regionale per evitare che l’Amazzonia raggiunga il punto di non ritorno”. Non sono stati però fissati obiettivi concreti, anche se il governo di Lula ha già promesso di fermare totalmente le attività di deforestazione entro il 2030, anche in vigore della nuove regole Ue sulle importazioni di prodotti derivati da deforestazione.
    Il mantenimento e rinfoltimento della foresta pluviale amazzonica è fondamentale per l’assorbimento di carbonio e per mitigare gli effetti del riscaldamento globale. Ma lo è anche per la sopravvivenza degli indigeni e per il futuro delle nuove generazioni. Quest’anno, la Giornata internazionale è dedicata proprio ai “Giovani indigeni quali artefici del cambiamento per l’autodeterminazione“: giovani spesso in prima linea in alcune delle crisi più urgenti che l’umanità sta affrontando, ma che allo stesso tempo non dispongono dei mezzi per partecipare pienamente alla vita politica e pubblica. Per fare sì che, prendendo in prestito le parole del celebre musicista brasiliano Jorge Ben Jor, sia di nuovo “ogni giorno la giornata degli Indios”.

    Anche l’Ue celebra “la resilienza e l’eccezionale diversità culturale” degli oltre 476 milioni di persone nel mondo. Intanto al summit di Belem i Paesi dell’Otca si impegnano a “promuovere la cooperazione regionale nella lotta contro la deforestazione, per evitare che l’Amazzonia raggiunga il punto di non ritorno”

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    Bruxelles scioglie la riserva sull’evacuazione dal Niger. La delegazione Ue e la missione Eucap rimangono nel Paese

    Bruxelles – Questa volta l’Unione Europea rimane sul campo. Dopo il colpo di Stato in Niger, a Bruxelles la parola d’ordine è “monitorare la situazione minuto per minuto”, ma la presenza nel Paese dell’Africa occidentale “rimarrà”. Lo confermano fonti interne alla Commissione Ue, delineando chiaramente la differenza con quanto visto pochi mesi fa allo scoppio della guerra civile in Sudan, quando tutta la delegazione Ue a Khartum – compreso l’ambasciatore – è stata evacuata e la capitale del Paese in guerra è rimasta sguarnita della presenza diplomatica comunitaria. Dopo una settimana di riflessioni al Berlaymont, il gabinetto von der Leyen ha deciso di seguire in Niger la linea della ‘non-evacuazione’ totale, sciogliendo la riserva sulla possibilità di cambiare rotta rispetto a quanto fatto nei primissimi giorni dopo il golpe militare a Niamey.
    “La sicurezza del nostro personale è la nostra massima priorità e stiamo naturalmente prendendo tutte le misure necessarie per garantirla“, confermano le fonti parlando della situazione particolarmente tesa nella capitale Niamey dopo il colpo di Stato dello scorso 26 luglio e l’arresto del presidente democraticamente eletto, Mohamed Bazoum. Nonostante sia stata scelta la linea del garantire la presenza dell’Unione a Niamey – sia con la delegazione Ue sia con la missione civile Eucap Sahel Niger – Bruxelles non ha voluto forzare la mano e nel corso dell’ultima settimana ha offerto al personale diplomatico la possibilità di lasciare Niamey “su base volontaria”, seguendo i cittadini europei evacuati attraverso il Meccanismo di protezione civile dell’Ue. Come sottolineano al Berlaymont, “l’operazione è stata un successo, tutti coloro che volevano andarsene lo hanno fatto senza problemi”. Nel ricordare che la presenza Ue”rimarrà” nel Paese africano senza ulteriori misure di emergenza da prendere nell’immediato futuro, le fonti precisano che Eucap Sahel Niger “ha sospeso la cooperazione in materia di sicurezza”, sia come attività di formazione sia per la consulenza.
    Cosa sta succedendo in Niger
    Lo scorso 26 luglio la Guardia presidenziale del Niger ha circondato il palazzo presidenziale e gli edifici di diversi ministeri a Niamey, arrestando il presidente Bazoum (in carica dal 2021), la sua famiglia e i membri dell’entourage. Lo stesso capo di quello che poi si è ribattezzato Consiglio nazionale per la salvaguardia del Paese (Cnsp), Abdourahmane Tchiani, si è autoproclamato nuovo leader del Paese: i golpisti hanno ordinato la sospensione di tutte le istituzioni, la chiusura delle frontiere aeree e terrestri e il coprifuoco notturno. Anche l’esercito del Niger – addestrato dall’Ue attraverso il partenariato militare Eumpm Niger per la lotta al terrorismo – si è unito alla Guardia Presidenziale per “preservare l’unità” nazionale. Con un decreto annunciato nella tarda serata di ieri (7 agosto) la giunta ha nominato l’ex-ministro delle Finanze, Ali Mahamane Lamine Zeine, come primo ministro di transizione.
    Oltre alle condanne dell’Unione Europea e degli Stati Uniti, la situazione sta diventando sempre più tesa con la Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale (Ecowas), l’accordo economico e di sicurezza regionale siglato da 16 Paesi (Benin, Burkina Faso, Capo Verde, Costa d’Avorio, Gambia, Ghana, Guinea, Guinea-Bissau, Liberia, Mali, Mauritania, Niger, Nigeria, Senegal, Sierra Leone e Togo). Dopo l’ultimatum scaduto domenica (6 agosto) rivolto ai golpisti in Niger – che minacciava l’uso della forza se Bazoum non fosse stato liberato e reinsediato come presidente – si terrà giovedì (10 agosto) una sessione di emergenza per decidere se l’Ecowas entrerà in guerra con Niamey. L’attuale presidente del blocco e leader della Nigeria, Bola Tinubu, è il più favorevole a un intervento militare, nonostante stia crescendo in patria lo scontento per la sua linea intransigente ma anche per i timori sulla possibile escalation di un conflitto regionale di più vasta portata.
    L’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, dopo un incontro con il presidente del Niger, Mohamed Bazoum, a Niamey (5 luglio 2023)
    In meno di due anni si sono susseguiti diversi colpi di Stato nei Paesi dell’Africa occidentali – in Mali, Guinea e Burkina Faso – le cui rispettive giunte militari oggi al potere hanno minacciato di difendere i golpisti in Niger in caso di un attacco armato da parte delll’Ecowas (che al momento ha imposto sanzioni economiche e chiuso le frontiere con il Niger, mentre la Nigeria ha tagliato le forniture di elettricità al Paese confinante a nord). Nel frattempo cresce anche la preoccupazione dell’Unione Europea per le sorti dell’ormai ex-presidente Bazoum, alleato-chiave soprattutto per la lotta contro il terrorismo di matrice islamista e in ottica di partenariato sulla migrazione. “La nostra partnership con il Niger è solida e non smette di rinforzarsi in tutti i settori: sicurezza, sviluppo, educazione, transizione energetica”, aveva dichiarato il 5 luglio scorso l’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, dopo un incontro con Bazoum a Niamey. Dal 26 luglio tutti i fondi comunitari per la cooperazione con il Niger sono stati sospesi, compresi quelli mobilitati attraverso l’European Peace Facility per “rafforzare le capacità militari delle forze armate nigerine al fine di difendere l’integrità territoriale e la sovranità del Niger”.

    Il gabinetto von der Leyen ha permesso ai membri dello staff diplomatico di lasciare Niamey “su base volontaria” dopo il golpe del 26 luglio, cambiando linea rispetto a quanto fatto ad aprile in Sudan: “Stiamo prendendo tutte le misure necessarie per garantire la sicurezza del personale”

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    Quindici anni dopo. L’Ue sempre al fianco della Georgia contro la Russia per riconquistare l’integrità territoriale

    Bruxelles – Era il 7 agosto 2008 e, in un certo senso, la Russia forniva già un’anteprima di quello che avrebbe fatto qualche anno più tardi sul territorio dell’Ucraina. Sono passati esattamente 15 anni da quando i carri armati russi entravano in Georgia per mettere a tacere con la forza le rivendicazioni di Tbilisi sui due territori separatisti sostenuti dal Cremlino – l’Abkhazia a nord-ovest e l’Ossezia del Sud (per i georgiani Samkhret Oseti) nel nord – ma per l’Unione Europea non è un’opzione far venire meno il supporto all’alleato caucasico nel ribadire ogni giorno la propria sovranità e integrità territoriale. “Il sostegno dell’Ue alla Georgia rimane saldo, siamo al fianco del coraggioso popolo georgiano che ha scelto un percorso pro-Ue e pro-Nato“, ha scritto questa mattina il presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, su X (piattaforma precedentemente conosciuta come Twitter), ricordando l’anniversario di una delle pagine più controverse della storia recente europea.
    Scritte contro la Russia durante le proteste a Tbilisi il 7 marzo 2023
    Perché 15 anni fa il mondo è rimasto quasi inerme di fronte all’invasione armata di un Paese sovrano, durata solo cinque giorni per il cessate il fuoco invocato dai georgiani per scongiurare il peggio, ovvero l’occupazione militare russa della capitale Tbilisi. Al contrario di quanto accaduto dal 24 febbraio 2022 in Ucraina, dai Paesi membri Ue e dagli Stati Uniti non era arrivato nessun sostegno alla Georgia né l’isolamento della Russia, ma esclusivamente un impegno diplomatico da parte dell’allora presidente di turno francese del Consiglio dell’Ue, Nicolas Sarkozy, per negoziare le condizioni del cessate il fuoco. Da allora – ma più verosimilmente proprio dal 24 febbraio dello scorso anno – a Bruxelles la musica è cambiata e per Tbilisi è pieno il sostegno alla sovranità e all’integrità territoriale, ma anche al cammino di avvicinamento all’Unione Europea iniziato a tutti gli effetti dopo pochi giorni dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina.
    Dal 2008 “le vite georgiane sono sotto la minaccia di una pesante presenza militare russa nelle regioni occupate”, ha attaccato sempre oggi il commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi, chiedendo nuovamente a Mosca di “rispettare i suoi obblighi internazionali”. Sullo stesso tono l’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, che in una nota ha ribadito come “l’impegno dell’Unione Europea per la risoluzione pacifica del conflitto in Georgia è più forte che mai“. Il punto di partenza è proprio l’accordo in sei punti del 12 agosto 2008, violato dalla Russia con la “continua presenza militare” nelle due regioni separatiste: “Persistono gli ostacoli al ritorno degli sfollati interni e dei rifugiati nei loro luoghi di origine”, a cui si sommano “restrizioni alla libertà di movimento e detenzioni illegali”, ha ribadito Borrell. La presenza di 200 osservatori civili della Missione di monitoraggio Eumm in Georgia – il cui mandato è stato rinnovato fino a dicembre 2024 – “ha contribuito alla stabilizzazione e alla sicurezza”, dal momento in cui quella dell’Ue rimane “l’unica missione internazionale sul campo per facilitare una vita sicura e normale per le comunità locali che vivono su entrambi i lati delle linee di confine amministrativo con l’Abkhazia e l’Ossezia del Sud”.
    Tbilisi, Georgia (agosto 2023)
    Dopo i conflitti degli anni Novanta con le due regioni separatiste (1991-1992 in Ossezia del Sud e 1991-1993 in Abkhazia) a seguito dell’indipendenza della Georgia nel 1991 dall’Unione Sovietica, sul terreno la situazione è rimasta di fatto congelata per 15 anni, con le truppe della neonata Federazione Russa a difendere i secessionisti all’interno del territorio rivendicato. Il tentativo di riaffermare il controllo di Tbilisi sulle due regioni nell’estate del 2008 – voluto dall’allora presidente Mikheil Saakashvili – determinò il 7 agosto una violenta reazione russa non solo nel respingere l’offensiva dell’esercito georgiano, ma portando anche all’invasione del resto del territorio nazionale con carri armati e incursioni aeree. La guerra durò solo cinque giorni, ma le città di Zugdidi, Gori, Senaki e Poti (a ridosso delle due autoproclamate Repubbliche separatiste) rimasero occupate per settimane dall’esercito invasore anche dopo il cessate il fuoco. Non solo, da allora la Russia di Vladimir Putin riconosce l’indipendenza di Abkhazia e Ossezia del Sud e ha dislocato migliaia di soldati nei due territori per aumentare la propria sfera d’influenza nella regione della Ciscaucasia, in violazione degli accordi del 12 agosto.
    L’attacco della Russia alla Georgia nel 2008 fu determinato anche da motivazioni strategiche e politiche. Dopo la cosiddetta ‘Rivoluzione delle rose’ del 2003 con cui Saakashvili ha pacificamente preso il potere e iniziato un decennio di rinascita economica e sociale, Tbilisi ha sancito nella propria Costituzione nazionale l’aspirazione alla candidatura sia all’Unione Europea sia alla Nato. Una decisione che ha reso ancora più tese le relazioni con Mosca, nonostante gli stretti rapporti commerciali ed economici, e che ha portato a un primo risultato tangibile con la richiesta di adesione all’Ue il 3 marzo 2022. Tuttavia, in linea con il parere della Commissione, al vertice dei leader del 23 giugno è stato deciso di garantire non lo status di Paese candidato ma la “prospettiva europea” e da allora è iniziato il lavoro per l’allineamento alle priorità definite da Bruxelles. Lo scorso 22 giugno la Commissione ha delineato in un rapporto orale i progressi compiuti sullo stato di avanzamento delle riforme: su 12 priorità, al momento solo 3 sono state completate. L’appuntamento è ora per ottobre con l’annuale Pacchetto sull’allargamento Ue, ma la presidente della Georgia, Salomé Zourabichvili, alla sessione plenaria di maggio dell’Eurocamera ha chiesto di concedere entro il 2023 lo status di Paese candidato come “riconoscimento delle lotte del nostro popolo, dell’identità e dell’importanza dell’Ue”.
    Il difficile cammino della Georgia verso l’Ue
    Per l’Unione Europea la Georgia rimane uno dei Paesi partner più complessi da gestire, a causa dello scollamento tra una popolazione a stragrande maggioranza filo-Ue e un governo quantomeno controverso sulle tendenze filo-russe (anche se poi ha fatto richiesta di aderire all’Unione per i timori sollevati dall’espansionismo del Cremlino concretizzatosi il 24 febbraio 2022 in Ucraina). Tra le notizie che hanno sollevato più preoccupazioni a Bruxelles va ricordata la ripresa dei voli tra Georgia e Russia dopo la decisione di Mosca di eliminare il divieto in vigore, ma anche il ritiro del partito al potere a Tbilisi, Sogno Georgiano, come membro osservatore del Partito del Socialismo Europeo (Pes) a causa dell’avvicinamento del premier Irakli Garibashvili (che ha partecipato alla convention dei conservatori europei e statunitensi a Budapest) all’omologo ungherese, Viktor Orbán.
    A cavallo della decisione di Bruxelles di giugno 2022 di non concedere ancora alla Georgia lo status di candidato all’adesione, a Tbilisi si sono svolte due grandi manifestazioni pro-Ue: una ‘marcia per l’Europa’ per ribadire l’allineamento del popolo georgiano ai valori dell’Unione e una richiesta di piazza di dimissioni del governo per aver fallito l’obiettivo sulla candidatura all’adesione. I tratti comuni di queste manifestazioni sono state le bandiere – bianca e rossa delle cinque croci (nazionale) e con le dodici stelle su campo blu (dell’Ue) – cartelli con rivendicazioni europeiste e l’inno georgiano intervallato dall’Inno alla Gioia (quello ufficiale dell’Unione Europea). Ora l’attenzione è tutta rivolta all’esito delle valutazioni della Commissione e alla decisione del Consiglio di dicembre sul percorso di allineamento di Tbilisi alle priorità per la candidatura all’adesione Ue. In caso di nuovo responso negativo si potrebbe assistere ad ancora più rabbia sociale contro il governo e al rischio di un crescente risentimento verso Bruxelles, con conseguenze al momento non prevedibili sull’appuntamento elettorale per il rinnovo del Parlamento georgiano nel 2024.
    Le proteste dei manifestanti georgiani a Tbilisi contro il progetto di legge sulla “trasparenza dell’influenza straniera”, 7 marzo 2023 (credits: Afp)
    Non va dimenticato che solo cinque mesi fa sono scoppiate dure proteste popolari contro un controverso progetto di legge sulla ‘trasparenza dell’influenza straniera’ di filo-russa memoria, voluta proprio dal premier Garibashvili per registrare tutte le organizzazioni che ricevono più del 20 per cento dei loro finanziamenti dall’estero come ‘agente straniero’ (in modo simile a quanto in vigore in Russia dal primo dicembre dello scorso anno). Dopo l’approvazione in prima lettura da parte del Parlamento decine di migliaia di cittadini georgiani sono scesi in piazza con le bandiere della Georgia e dell’Unione Europea – gridando slogan come Fuck Russian law e tappezzando la città di insulti a Putin – sostenuti sia dalle istituzioni comunitarie sia dalla presidente Zourabichvili. Dopo due giorni di proteste ininterrotte il partito Sogno Georgiano ha ritirato il progetto di legge, ma senza sconfessare la propria iniziativa. Il leader del partito al potere è l’oligarca Bidzina Ivanishvili, che compare nella risoluzione non vincolante del Parlamento Europeo in cui è richiesto alla Commissione di imporre nei suoi confronti sanzioni personali.

    “Siamo al fianco del coraggioso popolo georgiano che ha scelto un percorso pro-Ue e pro-Nato”, ribadisce il leader del Consiglio, Charles Michel, ricordando l’anniversario dell’invasione russa del Paese caucasico a sostegno delle Repubbliche separatiste dell’Abkhazia e dell’Ossezia del Sud