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    Allargamento UE, nuova metodologia per adesione di Serbia e Montenegro: focus su riforme e gruppi di capitoli negoziali

    Bruxelles – Una nuova prospettiva per l’allargamento dell’Unione Europea nei Balcani occidentali è possibile. O almeno, è quanto si augurano gli Stati membri UE con la nuova metodologia prevista per i negoziati di adesione di Serbia e Montenegro, dopo l’intesa trovata tra i due Paesi e il Consiglio dell’UE. Focus sulle riforme e i progressi nello Stato di diritto, conferenze intergovernative periodiche a livello ministeriale e soprattutto un accorpamento di 33 capitoli negoziali in 6 gruppi tematici (rimangono a parte i capitoli 34 e 35, sulle istituzioni e altri problemi).
    A partire dalle prossime conferenze intergovernative si affronteranno i cluster relativi ai fondamenti dello Stato di diritto (sistema giudiziario, funzionamento della democrazia, riforme della pubblica amministrazione), Mercato interno (libera circolazione di beni, capitali e lavoratori), competitività e crescita inclusiva (informazione ed educazione, politica monetaria e industriale, tassazione e Unione doganale), Agenda verde e connettività sostenibile (energia, trasporti, lotta ai cambiamenti climatici), agricoltura e coesione (tra cui sviluppo rurale e coordinamento di strumenti regionali) e relazioni esterne (politica estera, di sicurezza e difesa).
    Nelle intenzioni dell’UE, questo approccio dovrebbe dare maggiore dinamismo al processo di adesione, accelerando le azioni da adottare. Al centro dell’attenzione rimangono proprio le riforme strutturali, che dovranno produrre “risultati tangibili”, si legge nel documento. La prospettiva europea richiede “impegni” a livello di Stato di diritto, diritti fondamentali, funzionamento delle istituzioni democratiche e della pubblica amministrazione, ma anche di criteri economici. Per arrivare a questi risultati, l’Unione si impegna a promuovere conferenze intergovernative e consigli di stabilizzazione e associazione più frequenti, per rafforzare il dialogo con i Paesi candidati: l’obiettivo è “migliorare la prevedibilità del processo, sulla base di criteri oggettivi“.
    In questo modo, gli Stati membri UE cercano di dare un segnale forte ai due Paesi balcanici che si trovano attualmente allo stadio più avanzato del processo di adesione all’Unione. Solo lunedì (10 maggio), l’alto rappresentante per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, aveva rimproverato i ministri degli Esteri europei di non guardare sufficientemente alla regione in ottica geo-strategica e di aver lasciato la questione fuori dalla propria agenda per due anni.
    La questione dell’allargamento nei Balcani occidentali è però una delle priorità della presidenza di turno portoghese del Consiglio dell’UE. Lo hanno dimostrato non solo le ripetute dichiarazioni della sottosegretaria di Stato per gli Affari europei, Ana Paula Zacarias, ma anche questo primo passo verso l’accelerazione dei negoziati. “Una prospettiva di adesione credibile è il motore fondamentale della trasformazione nella regione e aumenta le opportunità per la nostra sicurezza e prosperità collettive”, ha commentato il risultato proprio Zacarias. “Il mantenimento e il miglioramento di questa politica è indispensabile per la credibilità, il successo e l’influenza dell’Unione nella regione“.
    Il rischio, sempre più chiaro a Bruxelles, è che sui Balcani si inneschi un processo inverso di disillusione nei confronti dell’Unione Europea. Ma anche che i sei Paesi (oltre a Serbia e Montenegro, anche Macedonia del Nord, Albania, Bosnia ed Erzegovina e Kosovo) guardino sempre più ad altre potenze (Cina e Russia, su tutti) in un momento delicato come la lotta alla pandemia COVID-19 e la fornitura di vaccini.
    I negoziati di adesione del Montenegro sono iniziati nove anni fa, con la presentazione del quadro negoziale durante la prima conferenza ministeriale il 29 giugno 2012, mentre per la Serbia il processo è in corso da sette anni, dopo l’avvio il 21 gennaio 2014. Ancora in attesa della prima conferenza intergovernativa sono invece Albania e Macedonia del Nord, dopo aver ottenuto lo status di Paesi candidati rispettivamente nel 2014 e nel 2005.

    Il Consiglio dell’UE ha approvato le linee per dare “maggiore dinamismo e prevedibilità” al processo. I 6 cluster tematici al centro delle prossime conferenze intergovernative (più frequenti)

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    Tensione a Gaza, l’UE invita alla de-escalation e alla protezione dei civili

    Bruxelles – L’Unione Europea è coinvolta in un’intensa attività diplomatica da quando lunedì 10 maggio sono ricominciate nuove tensioni tra Palestina e Israele. Lo ha riferito durante il punto giornaliero con la stampa Peter Stano, il portavoce dell’Alto Rappresentante per la Politica estera e la Sicurezza comune, interpellato sulla posizione di Bruxelles sugli scontri che hanno nuovamente infiammato il conflitto tra le due parti nell’area.
    “Da quando le tensioni sono ricominciate l’UE è impegnata a parlare e a lavorare con le parti a livello internazionale”, ha affermato il portavoce. Le priorità per l’Unione restano la de-escalation e la protezione delle vite dei civili e quindi il rispetto del diritto internazionale umanitario da parte di “tutte e due i fronti”.
    In un comunicato l’Alto Rappresentante Josep Borrell ha definito “inaccettabile” il lancio dei razzi organizzato da Gaza verso la popolazione civile israeliana. “La violenza degli ultimi giorni dimostra la necessità di rilanciare i negoziati per cercare una soluzione pacifica sostenibile per l’attuale situazione, l’orizzonte politico deve essere ristabilito”, ha continuato Stano. Il portavoce ha anche dichiarato che gli sforzi dell’UE si stanno tutti concentrando sulla ripresa di un negoziato diretto che promuova la soluzione dell’esistenza di due Stati, uno di Israele e uno di Palestina.
    I missili lanciati da Gaza sono stati una risposta agli scontri registratisi lunedì mattina sulla Spianata delle Moschee, il principale sito religioso palestinese nella città di Gerusalemme. A fronte dei trecento feriti comunicati, Hamas, il movimento radicale che controlla la Striscia di Gaza ha lanciato decine di razzi verso lo Stato ebraico senza provocare morti. La reazione di Tel Aviv non si è fatta attendere: l’aviazione israeliana ha colpito 140 obiettivi militari a Gaza e ora minaccia un’operazione di terra. Le autorità palestinesi finora parlano di 20 morti e decine di feriti.

    Dopo gli scontri alla Spianata delle Moschee la risposta di Gaza e la successiva ritorsione da parte di Tel Aviv. Bruxelles tenta di mediare: “L’orizzonte politico deve essere ristabilito”

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    Bielorussia, Consiglio Affari Esteri lavora al nuovo pacchetto di sanzioni UE contro regime Lukashenko

    Bruxelles – Non sono bastati tre pacchetti di sanzioni contro il regime del presidente bielorusso, Alexander Lukashenko, per mettere fine alla repressione nel Paese. Nel corso del Consiglio Affari Esteri di oggi (lunedì 10 maggio), i ministri UE hanno deciso di iniziare a lavorare su un quarto ciclo di sanzioni, che dovrebbe essere in arrivo “nelle prossime settimane”.
    È quanto anticipato in conferenza stampa dall’alto rappresentante per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell: “Non si ferma in Bielorussia la repressione e l’opera di intimidazione da parte del regime contro i suoi cittadini“, che dal 9 agosto dello scorso anno, il giorno delle contestate elezioni presidenziali, stanno dando vita a proteste pacifiche. “Nel nuovo pacchetto prenderemo in considerazione tutto quello che sta succedendo nel Paese”, ha aggiunto l’alto rappresentante UE, incluso il fatto che “ora è stata presa di mira anche la comunità polacca“.

    Lo ha annunciato l’alto rappresentante Borrell al termine del vertice con i ministri dei Paesi membri: “Non si ferma la repressione nel Paese, ora è stata presa di mira anche la comunità polacca”

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    Balcani occidentali, Borrell agli Stati: “Allargamento nella regione è l’unica prospettiva”

    Bruxelles – I Paesi membri UE stanno continuando a temporeggiare su dossier che andrebbero trattati come prioritari, e il tempo a disposizione sta finendo. È questo il rimprovero dell’alto rappresentante per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, ai ministri degli Esteri europei, troppo disattenti su una parte d’Europa su cui l’Unione si gioca futuro e credibilità. “È la prima volta da due anni che il Consiglio Affari Esteri prende una posizione sui Balcani occidentali, è ora di guardare alla regione in ottica geo-strategica”. Uno sfogo che riassume le difficoltà a lavorare sul file nonostante il ripetere ai Paesi balcanici di essere a un passo dall’obiettivo.
    Al termine del Consiglio Affari Esteri di oggi (lunedì 10 maggio), l’alto rappresentante UE ha ribadito una volta di più come l’allargamento verso i Balcani occidentali sia “una delle nostre priorità strategiche” e lo dimostra il fatto che oggi questo punto sia stato discusso anche prima del rapporto con gli Stati Uniti nella lotta ai cambiamenti climatici, due temi – clima e relazioni transatlantiche – in alto nelle agende delle capitali. “C’è stata una lunga discussione”, ha spiegato Borrell in conferenza stampa, che tra le righe ha coinvolto la questione del presunto non paper della Slovenia sul completamento della dissoluzione dell’ex-Jugoslavia. Non è un caso se i ministri hanno ribadito con fermezza il “rispetto dei confini e della regione in generale“, mentre Borrell ha aggiunto che “non ci devono essere dubbi sull’integrità e la sovranità della Bosnia-Erzegovina”.
    L’alto rappresentante UE per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell
    Ma la questione è più complessa e coinvolge le difficoltà dell’Unione nel farsi percepire come presenza affidabile sia a livello di distribuzione dei vaccini anti-COVID, sia come garante di un futuro europeo per i Balcani. “Sul fronte della pandemia COVID-19, dobbiamo ricordare costantemente che stiamo donando i vaccini, non li stiamo vendendo“, è stato il secco commento di Borrell, “e soprattutto non mettiamo condizioni a chi li riceve”.
    Sul fronte della prospettiva europea, invece, “c’è bisogno di un impegno politico più forte con i nostri partner nella regione“. Per Borrell è necessario rinforzare la “narrativa positiva” sull’attuazione delle riforme che garantiscono l’accesso all’Unione, ma anche i Paesi membri devono fare di più. “Oggi abbiamo parlato a livello teorico, adesso bisogna prendere azioni concrete“, perché “non possono passare altri due anni prima di rivedere i Balcani occidentali nell’agenda del Consiglio”. C’è bisogno di aprire i quadri negoziali con Albania e Macedonia del Nord, portare avanti i negoziati con Serbia e Montenegro, liberalizzare i visti per i cittadini del Kosovo e stimolare il processo di riforme costituzionali in Bosnia ed Erzegovina: “Parleremo di tutto questo con i leader balcanici a Bruxelles la settimana prossima“, ha anticipato Borrell.
    Scendendo più nel dettaglio, l’alto rappresentante UE ha dichiarato che “la Bulgaria è stata incoraggiata a trovare una soluzione con la Macedonia del Nord, perché Skopje ha rispettato tutte le condizioni e tutti gli altri ministri sono d’accordo” (spegnendo per il momento le ipotesi di una separazione dei dossier Albania-Macedonia per permettere a Tirana di andare avanti più velocemente). Mentre il dialogo tra Serbia e Kosovo “riprenderà entro la fine di giugno” ed è stata scartata qualsiasi ipotesi di ripartenza dei negoziati su presupposti diversi da quelli del 2020, come ventilato dai nuovi leader kosovari: “Devono studiare il dossier con attenzione e possiamo dare loro tutte le informazioni di cui hanno bisogno”, ha puntualizzato l’alto rappresentante Borrell.
    La posizione dell’Italia
    Da quanto si apprende a Bruxelles, durante il Consiglio Affari Esteri il ministro italiano Luigi Di Maio ha avvertito che “dopo l’eccellente risposta data nella prima fase della pandemia”, l’Unione Europea “si sta giocando la credibilità nei Balcani occidentali”. Questo perché non si riesce a trovare una soluzione alle difficoltà nell’aiutare la regione attraverso l’invio di vaccini. “Si sta generando un sentimento di sfiducia nei confronti dell’Unione Europea“. Secondo Di Maio, non bastano i messaggi di sostegno e lo dimostra il fatto che “la nostra postura politica è troppo debole rispetto all’impegno finanziario elevato” nella penisola.
    Il ministro degli Esteri italiano, Luigi Di Maio
    Al centro dell’intervento del ministro degli Esteri italiano c’è “l’adozione di conclusioni sui Balcani occidentali” e soprattutto il “rilancio del processo di allargamento” dell’UE nella regione. “Appare ancor più urgente, alla luce del rinnovato attivismo di attori terzi che possono facilmente riempire il vuoto creato dalle nostre indecisioni“. Nonostante non si possano “né creare scorciatoie, né diluire le riforme”, allo stesso tempo va evitato un circolo vizioso per cui l’assenza di una prospettiva europea concreta “rallenti o arresti il progresso dello Stato di diritto”, ha aggiunto Di Maio.
    Da parte dell’Italia c’è l’impegno per rivitalizzare il processo di allargamento, attraverso un “documento recentemente predisposto, con messaggi-chiave”. Il primo punto è lo sblocco dello stallo sull’adozione dei quadri negoziali con Albania e Macedonia del Nord. Il secondo passo, l’avanzamento nei negoziati con la Serbia, “in occasione della Conferenza intergovernativa di fine giugno”. L’UE non potrà permettersi di ignorare “quella che resta la domanda più forte che proviene dalla regione”, ha concluso il ministro italiano, con una nota sinistra: “Senza risultati sul fronte dell’allargamento, sarà difficile stabilizzare definitivamente la regione”.

    L’alto rappresentate duro con i ministri degli Esteri: “Non possono passare altri due anni prima che il Consiglio prenda una posizione sulla regione”. Rispetto dei confini, non si separano i dossier Albania-Macedonia del Nord e ripresa del dialogo Serbia-Kosovo entro fine giugno

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    Elezioni Scozia, effetto Brexit: gli indipendentisti a un soffio dalla maggioranza assoluta. Ma c’è la stampella dei Verdi

    Bruxelles – È gelido il vento che soffia a nord del Vallo di Adriano sulle speranze del premier britannico, Boris Johnson, di tenere a bada le istanze indipendentiste della Scozia. Con 64 seggi conquistati su 129 in palio, il Partito Nazionale Scozzese (SNP) della prima ministra, Nicola Sturgeon, ha trionfato alle elezioni per il rinnovo del Parlamento di Holyrood e ora punta all’obiettivo di indire un nuovo referendum per la separazione del Paese dal Regno Unito.
    Gli scozzesi si sono recati alle urne durante il Super Thursday (giovedì 6 maggio), la grande giornata elettorale che ha coinvolto anche i gallesi – per il Parlamento – e gli inglesi – per le elezioni locali. Il partito nazionalista della premier Sturgeon partiva da una base di 62 seggi, conquistati alle legislative del maggio 2016 (un deputato è uscito dal partito durante la legislatura). Ma già alla vigilia del voto era chiara l’intenzione di puntare al pesce grosso: la maggioranza assoluta (65 seggi), per rendere incontestabile la richiesta a Londra di un secondo referendum, dopo quello del 2014 fallito con l’opposizione del 55 per cento degli elettori.
    La prima ministra e leader del Partito Nazionale Scozzese, Nicola Sturgeon
    Nonostante l’obiettivo sia sfumato per un soffio, anche solo con in mano un primato rafforzato la prima ministra si è opposta all’idea che la Scozia non possa tornare a esprimersi: “Non c’è alcuna giustificazione democratica per Boris Johnson per tentare di bloccare il diritto del popolo scozzese di decidere il proprio avvenire”, ha commentato il risultato ai media britannici. “A qualsiasi politico a Westminster che voglia mettersi di traverso, dico due cose: primo, non andate allo scontro con l’SNP, secondo, non riuscirete a contrastare i desideri democratici del popolo”, ha aggiunto, sottolineando che “senza alcun dubbio in Parlamento c’è una maggioranza pro-indipendenza“.
    Una dichiarazione che incontra le prospettive dei Verdi scozzesi, che hanno conquistato 8 seggi (+6 rispetto alle elezioni del 2016). La co-leader, Lorna Slater, ha già reso nota l’intenzione di sostenere un nuovo referendum, anche se gli indipendentisti non sono riusciti a conquistare la maggioranza assoluta: “È un processo democratico. Che Paese saremmo se lo ignorassimo?” Grazie alla stampella dei Verdi, le forze a favore dell’indipendenza raggiungerebbero così i 72 seggi, contro i 57 contrari: 31 conservatori (allineati al risultato del 2016, ma si confermano seconda forza nel Paese), 22 laburisti (-2) e 4 liberal-democratici (-1).
    A pesare sulla volontà di far tornare gli elettori scozzesi a pronunciarsi su questo tema è la variabile Brexit, condizione che invece non sussisteva sette anni fa. Il governo di Edimburgo, fortemente europeista (almeno da quando è diventata reale l’uscita del Regno Unito dall’UE), ha protestato con forza contro Downing Street per le condizioni imposte all’economia e alla società scozzese da una scelta non condivisa a Holyrood. Il 23 giugno del 2016, solo il 38 per cento degli scozzesi aveva votato Leave, nella scelta se rimanere o abbandonare l’Unione Europea (nel Regno Unito, complessivamente era stato il 51,9). Quel referendum storico ha ricordato ai cittadini a nord del Vallo che rappresentano solo l’8 per cento della popolazione britannica e che possono essere facilmente messi in minoranza dai vicini meridionali. L’esclusione dal programma Erasmus+, imposta dalla decisione del governo Johnson durante i negoziati Brexit, ha dato il colpo di grazia.

    🏴󠁧󠁢󠁳󠁣󠁴󠁿 The people of Scotland have spoken – it’s an SNP landslide.
    ✅ Highest number of votes✅ Highest number of constituency seats ever✅ Highest vote share ever in a Scottish election
    👇 Once we rebuild Scotland from COVID, there will be an independence referendum. pic.twitter.com/k5Oq4hndh1
    — The SNP (@theSNP) May 8, 2021

    I risultati del ‘Super Thursday’ per il rinnovo del Parlamento di Holyrood hanno confermato la vittoria della premier Sturgeon, con 64 seggi su 129 (più gli 8 della forza ecologista): “Ora nulla giustifica un ‘no’ al referendum per l’indipendenza”

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    Deroga brevetti, leader UE rispondono a Biden: “Vaccini servono ora, via il blocco sulle esportazioni”

    Bruxelles – Servono vaccini nel mondo ora, anche con una deroga temporanea sui brevetti si parla di mesi se non anni per la distribuzione su larga scala. L’Unione europea si mostra scettica sul fatto che rinunciare ai diritti di “proprietà intellettuale” sui vaccini COVID-19 sia il modo giusto per combattere la pandemia “qui e ora”, i capi di Stato e governo sono aperti a discutere di sospensione temporanea, ma non è la soluzione a breve termine per l’urgente necessità di vaccinare tutti, anche i Paesi più poveri.
    È quanto affermano Ursula von der Leyen e Charles Michel riassumendo gli esiti della prima discussione tra capi di Stato e Governo sulla sospensione temporanea dei brevetti sui vaccini, una proposta avanzata dal presidente USA Joe Biden nei giorni scorsi. Un’idea su cui vale la pena riflettere, ma che non sarà risolutiva se il problema è garantire accesso ai vaccini a chi non può permettersi di pagarli quanto i Paesi più sviluppati, o di sviluppare una propria capacità di produzione. I presidenti di Commissione europea e Consiglio europeo tirano le fila delle conclusioni a cui sono giunti i leader europei a Oporto, in Portogallo, durante un vertice informale (7 e 8 maggio) che ha discusso anche di pandemia.
    Non c’è solo timidezza nei confronti della proposta di Washington, ma anche qualche controproposta. Prioritario rimane aumentare la capacità produttiva non solo in Europa e assicurare che le dosi di vaccini siano distribuite in maniera equa in tutto il mondo. Questo il punto fondamentale: “le esportazioni sono il modo migliore per approcciare l’assenza di vaccini nel mondo”, ha detto von der Leyen. Il messaggio a Biden è chiaro: si parta prima dal consentire l’esportazione delle dosi che vengono prodotte nelle regioni più ricche del mondo, come l’Europa ma come anche gli Stati Uniti.
    Proprio l’Unione Europea “è l’unica regione democratica che produce su larga scala ed esporta su larga scala”, puntualizza la presidente della Commissione europea. Precisamente 200 milioni di dosi (la metà esatta delle dosi prodotte) in circa novanta Paesi. Una precisazione che arriva e che l’UE si sente in dovere di fare, perché dopo l’apertura di Biden Bruxelles è accusata di mancanza di solidarietà perché non vuole rinunciare ai diritti dei brevetti sui vaccini. Quindi, bene l’apertura su questa discussione circa la proprietà intellettuale dei vaccini, ma bisogna andare oltre e cercare un approccio che aiuti a “risolvere l’urgenza di ora”. Anche perché, la sospensione dei diritti di proprietà intellettuale su un vaccino non significa per forza un trasferimento di conoscenze e tecnologie da parte delle società farmaceutiche, quindi si viene a creare anche un problema di sicurezza sulla produzione.
    Ricorda il ruolo di Covax – il programma globale delle Nazioni Unite, guidato dall’Organizzazione mondiale della Sanità a cui aderisce anche l’Unione Europea – nella distribuzione dei vaccini in Paesi a basso reddito. Ci sono due vie per la distribuzione in Paesi terzi per gli Stati membri: attraverso il sistema COVAX, oppure anche bilateralmente. Romania, Austria e Francia hanno già distribuito in maniera indipendenti “dosi in eccesso” a partner, ma ci sono altri Paesi che hanno confermato l’impegno a fare lo stesso, come Spagna e Portogallo. Von der Leyen ha chiarito che anche l’ultimo contratto con BioNTech-Pfizer per 1,8 miliardi di dosi per gli anni 2021-2023 siglato oggi prevede la possibilità per gli Stati di donare o eventualmente rivendere dosi a Paesi poveri.
    C’è poi la terza via di mobilitare più investimenti in loco per l’aumento della capacità di produzione a livello globale, quindi anche nei Paesi in via di sviluppo. La presidente sostiene che la Commissione insieme alla Germania stanno investendo nel Sud Africa e sotto l’ombrello della BEI (Banca europea degli Investimenti) in Senegal. Questo per ribadire che secondo l’UE ci sono altri modi, più rapidi, per distribuire i vaccini, ma tutto deve partire dal porre fine al blocco sulle esportazioni. Una linea comune che viene confermata in conferenza stampa anche dal premier italiano Mario Draghi e dal presidente francese Emmanuel Macron, che rispondendo in conferenza stampa ha ricordato che l’UE è “stata più lenta con le campagne di immunizzazione in Europa perché siamo stati aperti fin dall’inizio. Gli Stati Uniti per ora hanno esportato solo il 5 per cento a Canada e Messico, mettano fine alle restrizioni sull’export”, ha richiamato Macron.
    Impegno UE sul versante internazionale che viene riconosciuto anche dal presidente del Consiglio e uropeo, Charles Michel: “Nessuno di noi sarà pienamente al sicuro dal COVID se non è al sicuro tutto il mondo”, ribadendo l’importanza di aprire alle esportazioni dei vaccini. Rimane l’impegno a discutere sulla sospensione dei brevetti ma non sarà di certo “la soluzione magica”. Oltre ai brevetti, anche il Certificato verde digitale: i leader hanno discusso anche dello strumento da implementare per tornare a viaggiare senza troppe restrizioni in area Schengen. Von der Leyen vede la possibilità di un accordo entro maggio, e assicura che “il lavoro tecnico e legale è in carreggiata. Il sistema operativo sarà operativo a giugno”. Come avevamo scritto, il sistema operativo comincerà la fase pilota di sperimentazione in 16 stati membri da lunedì 10 maggio. Se la parte tecnica è a buon punto, rimane da capire cosa accadrà all’accordo politico tra negoziatori di Parlamento e Consiglio. Sul fronte politico “possiamo puntare realisticamente all’obiettivo di raggiungere un accordo tra Consiglio e Parlamento europeo per fine maggio”, ha detto la presidente von der Leyen. Prossimo trilogo previsto per l’11 maggio.

    “L’export di dosi è il modo migliore per risolvere l’urgente problema dell’assenza di vaccini nel mondo”, ha chiarito la presidente della Commissione von der Leyen. L’Unione Europea “è l’unica regione democratica che produce su larga scala ed esporta su larga scala”, ha puntualizzato al termine del Summit UE di Oporto, invitando anche gli Stati Uniti a fare lo stesso

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    Borrell: “Politica estera comune? Gli Stati UE non sono pronti a rinunciare al loro diritto di veto”

    Bruxelles – Una politica estera comune a livello europeo? Non ci sono le premesse, gli Stati europei non sono ancora pronti ad abbandonare il loro potere di veto. Una riflessione non nuova che arriva ancora una volta dall’alto rappresentante UE per la politica estera e di sicurezza, Josep Borrell, intervenuto oggi (7 maggio) all’evento annuale sullo Stato dell’Unione organizzato dall’Istituto universitario europeo di Firenze. È noto che a frenare in qualche modo una definizione comune della politica estera dell’Unione è anche la necessità di raggiungere ogni volta l’unanimità in Consiglio per le decisioni in materia di politica estera e di diritti umani, uno scoglio che secondo l’alto rappresentante andrebbe superato e sostituito con un voto a maggioranza qualificata ma per ora non ci sono le premesse. “Il mio lavoro sarebbe molto più semplice”, ha scherzato il capo della diplomazia europea, “ma gli Stati non sono disposti a rinunciare al loro diritto di veto”, perché il principio dell’unanimità da raggiungere in seno al Consiglio non è altro che questo: la possibilità per tutti e Ventisette di esercitare il proprio diritto di dire ‘no’.
    Tante lacune in quella che si chiama “Azione esterna” dell’Unione europea, che non si definisce una politica estera perché agli Stati membri manca una visione comune di quello che c’è fuori dall’UE e alle sue minacce. A quasi due anni dall’insediamento della Commissione geopolitica di Ursula von der Leyen, l’atto più significativo che rimarrà legato all’eredità di Borrell è probabilmente l’introduzione di una ‘legge Magnitsky europea’, ovvero un nuovo regime di sanzioni dedicato a colpire i responsabili di violazioni dei diritti umani, introdotto dall’UE alla fine dell’anno scorso. “Sanzioni limitate”, riconosce Borrell ma solo perché l’idea di questo nuovo regime di sanzioni è quello di colpire individui o entità, non sanzioni o restrizioni economiche che possano andare a mettere in difficoltà la popolazione dei Paesi che ne sono colpiti. Una scelta di campo, apprezzabile, diversa ad esempio da quella degli Stati Uniti che nei casi di Iran e Venezuela non ha preso lo stesso tipo di impegno. Individui o enti e istituzioni: è chiaro che l’effetto è meno d’impatto rispetto a sanzioni più imponenti di tipo economico nei confronti della popolazione. “Non vogliamo aggravare una situazione umanitaria”.
    Borrell fissa poi come priorità per l’Unione europea il lavoro per ristabilire un ordine multilaterale a livello globale “profondamente danneggiato, al momento non c’è accordo su praticamente nulla”, avverte il capo della diplomazia europea. Fondamentale prima ristabilire un ordine mondiale “per avere un quadro di riferimento in cui agire” e affrontare tutte le altre questioni che per l’UE sono priorità, a partire dal cambiamento climatico. Come Unione europea “dobbiamo renderci conto della velocità e della portata dei cambiamenti che avvengono intorno a noi”, anche se l’UE non riceve abbastanza credito per ciò che ha fatto come Istituzione “sia internamente che esternamente”, conclude.

    L’alto rappresentante UE per la politica estera e di sicurezza all’evento annuale sullo Stato dell’Unione organizzato dall’Istituto universitario europeo di Firenze

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    Biden scuote l’Europa. Von der Leyen: su vaccini e brevetti pronti a discutere

    Roma – Dopo mesi di pressioni da ogni parte il tema della sospensione temporanea della proprietà intellettuale sui vaccini comincia potrebbe sbloccarsi. A sollecitare una decisione nell’ambito dell’Organizzazione mondiale del commercio WTO, anche gli Stati Uniti favorevoli a una deroga.
    Da sempre sostenitori della difesa della proprietà intellettuale, la nota diffusa ieri appare come una svolta storica: “Questa è una crisi sanitaria globale e circostanze eccezionali richiedono misure eccezionali”, ha scritto l’inviata Usa per il commercio Katherine Tai, stretta collaboratrice di Joe Biden.
    Oggi la presidente della Commissione Ursula von der Leyen ha accolto positivamente la proposta: “Pronti a discuterne”, ha detto durante il suo discorso sullo Stato dell’Unione europea anche se, a dire il vero, non aveva dato molto peso al voto del Parlamento che a marzo votò un emendamento in questa direzione.
    Nessun entusiasmo anzi, più propensa al no è la cancelliera tedesca Angela Merkel, più vicina alla posizione dell’industria farmaceutica (in testa Pfizer) che stamani aveva bocciato la mossa dell’amministrazione Biden.  Per il governo tedesco la revoca dei brevetti “provocherebbe serie complicazioni per la produzione dei vaccini, aggiungendo che la protezione della proprietà intellettuale è una fonte di innovazione e deve rimanere tale anche in futuro”.
    Sembra approvare, tiepidamente, il presidente del Consiglio Mario Draghi, che in una nota afferma:  “I vaccini sono un bene comune globale. È prioritario aumentare la loro produzione, garantendone la sicurezza, e abbattere gli ostacoli che limitano le campagne vaccinali”.
    Maglio tardi che mai e così ance il Commissario al mercato interno e innovazione con delega al Covid, Thierry Breton si è messo in scia annunciando che “ora che la produzione di vaccini sta per raggiungere i nostri obiettivi, è tempo di aprire una nuova fase e affrontare la questione dei brevetti”.
    Anche il presidente del Parlamento David Sassoli, annuncia in un tweet che l’aula è “pronta a discutere qualsiasi proposta che aiuti ad accelerare la vaccinazione a livello global”, dunque a valutare la questione dei brevetti e delle licenze.

    The @Europarl_EN is ready to discuss any proposal that will help speed up vaccination globally.
    In these exceptional times, we must make sure patents and licences work to protect the interests of all.
    — David Sassoli (@EP_President) May 6, 2021

    Iniziativa su cui preme anche il presidente del gruppo dei Verdi Philippe Lamberts che chiede all’Eurocamera una “posizione inequivocabile” nella prossima sessione, e sollecita l’UE “oltre a sostenere la revoca dei brevetti, a favorire il trasferimento di tecnologie e di know-how verso i paesi terzi al fine di aumentare la produzione mondiale di vaccini”.
    Il cambio di rotta a Bruxelles raccoglie i commenti degli europaralmentari italiani. Patrizia Toia, del Pd spiega che “lasciare miliardi di persone nei Paesi in via di sviluppo in balìa del coronavirus è una scelta contraria ai nostri valori” sottolineando che “il ritardo dell’Unione europea nel riconoscere questa realtà, ha dimostrato una debolezza di leadership. Ora è il momento di cambiare”. Ritardo segnalato anche da Sabrina Pignedoli del Movimento 5 Stelle, scrivendo che “avremmo desiderato che l’UE fosse stata portabandiera nel mondo di questa solidarietà e non a rimorchio ma va bene così se raggiungiamo l’obiettivo”.
    Appena annunciato il traguardo del vaccino, poco prima della fine del 2020, era stato Papa Francesco nel suo messaggio di Natale Urbi et orbi a chiedere che il vaccino doveva essere a disposizione di tutti, specie alle popolazioni più vulnerabili. Una sollecitazione ufficiale inviata dal Vaticano in ambito WTO già nel mese di febbraio.
    Ora l’obiettivo è ravvicinato. La spinta di Biden dovrebbe portare a discuterne subito fra qualche giorno nell’ambito del Consiglio europeo di Oporto. Subito dopo ci sarà l’appuntamento del 21 maggio al Global Health summit di Roma in ambito G20 dove anche l’Italia che lo presiede potrà recuperare il tempo perduto.
    Per i grandi del pianeta, vaccinare tutto il mondo è prima di tutto giusto e diventerebbe quasi un gesto di egoismo.

    Con la proposta USA, gli equilibri in ambito del WTO potrebbero cambiare anche se in Europa Angela Merkel si schiera il no alla revoca della proprietà intellettuale. Contro anche l’industria farmaceutica