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    La Strategia UE per l’Indo Pacifico: diritti, semiconduttori e libertà di navigazione

    Bruxelles – L’Unione europea arriva al banco di prova dell’Indo Pacifico. L’Alto rappresentante Josep Borrell ha presentato il 16 settembre la Strategia dell’Unione europea per la cooperazione nell’Indo-Pacifico. Si tratta di un documento programmatico che muove i suoi passi dalle conclusioni approvate dal Consiglio lo scorso aprile. In quell’occasione si era parlato della necessità di elaborare un approccio comune dei 27 per “contribuire alla stabilità regionale, alla sicurezza, alla prosperità e allo sviluppo sostenibile” della regione.
    La Strategia UE per l’Indo Pacifico: gli interessi europei
    Il documento conferma l’impegno delle istituzioni europee nella stabilità del quadrante, così come quello per “promuovere i diritti umani” e “dare solidità all’ordine internazionale democratico”. Secondo la Strategia la presenza europea nel quadrante si impone alla luce della crescente centralità economica dello spazio Indo Pacifico e dei recenti sviluppi geopolitici che lo hanno trasformato in un teatro di intensa competizione geopolitica.
    Tra gli interessi dell’UE vengono nominati anche la salvaguardia del clima e la necessità di mettere al sicuro le catene del valore che assicurano l’approvvigionamento – con un occhio particolare ai semiconduttori, nominati anche nel discorso sullo stato dell’Unione di Ursula von der Leyen del 15 settembre scorso. Obiettivo che dovrà essere raggiunto grazie alle partnership con alcuni paesi locali, principalmente Giappone, Corea del Sud e Taiwan.
    I rapporti con la Cina
    All’interno del documento si parla di un approccio “dalle molte sfaccettature” nei confronti della Cina, additata ora come uno dei responsabili della corsa agli armamenti della regione, ora come partner con cui affrontare sfide comuni. Un approccio che gli USA continuano a considerare troppo ambiguo. Il 15 settembre, appena un giorno prima della presentazione del piano dell’UE, l’annuncio di un partenariato strategico tra Stati Uniti, Australia e Regno Unito che esclude ogni partecipazione europea – e rottama un accordo di forniture militari francesi da 34 miliardi, ha fatto saltare i nervi a Parigi. Borrell ha confermato di non essere stato informato delle trattative.
    In conferenza stampa, l’Alto rappresentante è tornato sulla questione del rapporto con gli USA, affermando che “gli Americani sembrano di non fidarsi di noi quando devono portare avanti i loro interessi, in questo caso verso la Cina”. Da Washington probabilmente ci si aspettava una presa di posizione più netta nei confronti delle ingerenze cinesi, in cui magari si ricordasse (ancora una volta) che insieme ad un partner Pechino è anche un “rivale sistemico” – come specificato in una serie di documenti della Commissione e del Servizio di azione esterna a partire dal marzo 2019.
    Ostilità nei confronti della Cina che potrebbe forse ravvisarsi tra le righe della Strategia UE per l’Indo Pacifico. In particolare nel passaggio in cui viene ribadito l’impegno dell’UE per “assicurare la sicurezza marittima e la libertà di navigazione, in accordo con il diritto internazionale e in particolare con la Convenzione per la legge del mare delle Nazioni unite (UNCLOS)”. Dicitura apparentemente neutrale che però apre alla possibilità di immaginare le marine europee impegnate in operazioni di tipo FONOPS (Freedom of navigation operations), da sempre alla base delle tensioni tra Pechino e i rivali (USA e Taiwan in testa) nei mari antistanti le coste cinesi.

    Un giorno dopo l’annuncio della storica alleanza tra USA, UK e Australia, i paesi europei presentano la Strategia di cooperazione per l’Indo Pacifico. Al centro i diritti umani, il clima e le catene del valore, con un occhio al ruolo della Cina

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    Russia al voto per il rinnovo della Duma. Mosca accusa l’UE di tentativi di interferenza nelle elezioni parlamentari

    Bruxelles – La Russia va alle urne, ma l’atmosfera che si respira è da guerra fredda. Mentre in Kamčatka, nell’estremità orientale del Paese, sono già iniziate le operazioni di voto che dureranno fino a domenica (19 settembre), Mosca e Bruxelles hanno ingaggiato una battaglia diplomatica sulla trasparenza e la democraticità delle elezioni per il rinnovo della Duma di Stato, la Camera bassa dell’Assemblea Federale.
    È stato il ministero degli Esteri russo ad attaccare direttamente l’Unione Europea, dopo l’approvazione della relazione del Parlamento UE che ha chiesto alle istituzioni comunitarie di tenersi pronte a non riconoscere l’esito delle elezioni parlamentari, se saranno riscontrate violazioni dei principi democratici e del diritto internazionale. “Condanniamo fermamente i tentativi di manipolare l’opinione pubblica e siamo convinti che questa azione porti al discredito definitivo del Parlamento Europeo”, ha affondato la portavoce Maria Zakharova. “Come in passato, ci difenderemo da interferenze inaccettabili nel processo democratico nazionale”, ha aggiunto.
    Il relatore per il Parlamento UE, Andrius Kubilius (PPE)
    La relazione presentata martedì (14 settembre) dall’eurodeputato lituano Andrius Kubilius (PPE) è passata con 494 voti a favore, 103 contrari e 72 astenuti. Valutando lo stato delle relazioni tra UE e Russia, gli eurodeoputati hanno definito il regime di Vladimir Putin una “cleptocrazia [modalità di governo deviata che rappresenta il culmine della corruzione politica, ndr] autoritaria stagnante guidata da un presidente a vita circondato da una cerchia di oligarchi”. Non esattamente parole al miele, ma con la precisazione che “bisogna distinguere questo regime dal popolo russo: un futuro democratico per il Paese è possibile“. Ecco perché vanno sì respinte le “politiche aggressive” dell’attuale governo (il cui destino dipenderà proprio dalle elezioni di questi giorni), ma allo stesso tempo è necessario “porre le basi per la cooperazione con una futura Russia democratica“. In questo senso deve essere contestualizzata la richiesta a Consiglio e Commissione UE di non riconoscere elezioni falsate da metodi non democratici.
    Repressioni e significato del voto
    La posizione dell’Eurocamera è giustificata dal contesto elettorale che ha vissuto negli ultimi mesi il regno dello zar Putin. Nonostante siano 14 i partiti che si affrontano alle urne per conquistare i 450 seggi della Duma, non si può davvero parlare di competizione elettorale: la formazione di una qualsiasi forza di opposizione significativa è stata negata o piegata con la forza, con arresti e manganellate. Basta solo citare il caso dell’oppositore Alexei Navalny – avvelenato prima e incarcerato poi – e della violenta repressione delle manifestazioni in suo sostegno a inizio dell’anno.
    Non solo. A giugno la Fondazione per la lotta alla corruzione è stata dichiarata un’organizzazione estremista dalle autorità giudiziarie russe e diversi candidati sono stati esclusi dalla corsa elettorale a causa di legami presunti o reali con Navalny. Il giro di vite si è esteso anche ai media indipendenti – come il sito Meduza – che da mesi sono stati inseriti in massa nel registro degli “agenti stranieri”, etichetta che è stata applicata a tutti quei giornalisti e aziende editoriali che ricevono sostegni o finanziamenti dall’estero.
    L’oppositore russo Alexei Navalny
    L’obiettivo principale di questa ondata di repressione sulla società civile sarebbe dimostrare che non ci sono alternative reali alla leadership di Putin. Il suo mandato presidenziale scadrà nel 2024, ma potenzialmente potrebbe durare fino al 2036, dopo l’approvazione di un apposito emendamento costituzionale nell’aprile di quest’anno. Negli ultimi giorni di campagna elettorale lo zar non è sceso direttamente nell’arena politica, dal momento in cui da martedì si è dovuto mettere in isolamento fiduciario per alcuni contatti con membri del suo entourage positivi al COVID-19. E anche se queste elezioni riguardano la formazione della Camera bassa dell’Assemblea Federale, c’è anche anche un pezzo del suo destino in ballo.
    Il partito Russia Unita – che appoggia e che viene appoggiato dal Cremlino – non dovrebbe avere problemi a mantenere la maggioranza, contando anche su “partiti cuscinetto” come il Partito Liberal-Democratico e Russia Giusta. Tuttavia, la recente impennata dei prezzi dei generi alimentari e il calo dei redditi reali hanno fatto sprofondare gli indici di gradimento del partito di governo ai minimi storici. In altre parole, questa elezione rappresenta un test-chiave per l’intero sistema di potere del Paese, a tre anni dalla scadenza del mandato presidenziale.
    L’incognita del “voto intelligente”
    È stato lo stesso inquilino del Cremlino a definire questa tornata elettorale “l’evento più importante nella vita della nostra società e del Paese intero”, scagliando ulteriori attacchi all’Occidente per “tentare di interferire nel voto nazionale”. Dopo aver messo in ginocchio l’opposizione interna, Putin ha cercato di sbarazzarsi anche dell’ultimo strumento che potrebbe veicolare il dissenso organizzato: Smart Voting, l’applicazione online per il “voto intelligente” sviluppata dai sostenitori di Navalny. Si tratta di un sito e un’app per smartphone (qui il link) che indirizza gli elettori, collegio per collegio, nella scelta del candidato da votare, tra coloro che hanno maggiori possibilità di sconfiggere i rivali di Russia Unita.
    La schermata del sito per il voto tattico dell’opposizione russa, Smart Voting
    Lo scopo di questa nuova modalità di voto tattico è soprattutto quella di spingere l’affluenza alle urne, tamponando l’evidente scoraggiamento della società civile e l’assenza di veri candidati di opposizione. È molto probabile che a incanalare il malcontento e a beneficiare dello strumento digitale sarà il Partito Comunista della Federazione Russa: delle 225 indicazioni di “voto intelligente”, più della metà sono esponenti comunisti, compresi 11 su 15 individuati nel collegio della capitale, dove il sentimento anti-Putin è più forte. Il Partito Comunista è attualmente il secondo partito per numero di membri nella Duma di Stato (43, contro i 338 di Russia Unita), anche se nella legislatura che è appena terminata non si è distinto per un’opposizione particolarmente dura.
    Se è vero che all’inizio della scorsa settimana le autorità russe hanno bloccato l’accesso al sito sul territorio nazionale, Smart Voting è ancora accessibile fuori dai confini russi, anche se Facebook e Google hanno ceduto alle pressioni del ministero degli Esteri russo di cancellarlo dai loro app store. È evidente che Russia Unita e il Cremlino vedono nelle Big Tech occidentali una minaccia alla sopravvivenza dello status quo, altrimenti non si spiegherebbe l’attacco frontale di questa ultima settimana ai “giganti digitali”, accusati di “interferire negli affari interni del nostro Paese con l’aiuto del Pentagono”. Entrati nei giorni decisivi del voto, è difficile aspettarsi da queste elezioni un ribaltone politico. Ma, come hanno sottolineato gli eurodeputati, in un’atmosfera di scoraggiamento e repressione il destino della “futura Russia democratica” passa da qui.

    Gli eurodeputati hanno chiesto alle istituzioni UE di non riconoscere il nuovo Parlamento, se ci saranno violazioni dei principi democratici. Aperte le urne fino a domenica: in un clima di repressione, l’unica incognita è il sito per il “voto intelligente” sviluppato dall’opposizione al presidente Putin

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    Stato dell’Unione, von der Leyen ripropone l’UE della Difesa: “Dobbiamo poter fare di più autonomamente”

    Bruxelles – Era uno dei punti all’ordine del giorno più attesi. Dal discorso sullo Stato dell’Unione, pronunciato oggi (mercoledì 15 settembre) davanti all’Eurocamera dalla presidente dalla Commissione UE, Ursula von der Leyen, ci si attendeva un intervento significativo sul fronte della prospettive europee in politica estera, anche e soprattutto alla luce delle vicende afghane. Come tutto il discorso in generale, le parole della presidente dell’esecutivo UE non sono state all’altezza delle aspettative. Ma se si vuole individuare quale sarà il futuro (almeno a livello teorico) dell’Unione, lo si può riassumere in due concetti: difesa e sicurezza.
    “Dopo i recenti eventi in Afghanistan, non possiamo non aumentare la cooperazione globale, con una nuova dichiarazione UE-NATO da firmare entro la fine anno”, ha spiegato von der Leyen. Tuttavia, “l’Unione Europea deve essere in grado di poter fare di più autonomamente“, in modo da “offrire stabilità nelle diverse regioni a cui siamo legati geograficamente”. La presidente della Commissione UE ha ricordato che “se le crisi non vengono gestite per tempo in loco, saranno le crisi a venire da noi”.
    La presidente dalla Commissione UE, Ursula von der Leyen (15 settembre 2021)
    Ecco perché si torna a parlare di un’Unione Europea della Difesa, su cui “abbiamo già iniziato a sviluppare un ecosistema” e che dovrebbe essere implementata sotto la presidenza francese del Consiglio dell’UE: “All’inizio del prossimo anno organizzeremo con il presidente Emmanuel Macron un vertice europeo sulla difesa“, ha annunciato von der Leyen. Per la presidente dell’esecutivo comunitario la questione non è solo di natura operativa (con l’idea delle forze a impiego rapido già presentata dall’alto rappresentante UE, Josep Borrell), ma soprattutto politica: “In passato è mancata una volontà condivisa, ma se la riuscissimo a mettere in campo potremmo ottenere grandi risultati”.
    Si parla di un “processo decisionale collettivo e condivisione di informazioni di intelligence tra Paesi membri”, con Bruxelles che sta prendendo in considerazione la “creazione di un proprio Centro di conoscenza situazionale“. Ma servirà anche un “miglioramento dell’interoperabilità con piattaforme europee comuni, jet e droni” e una politica europea incentrata sulla sicurezza informatica: “Se tutto è collegato, tutto può essere piratato”. In un mondo in cui “la natura delle minacce e degli attacchi si evolve e diventa sempre più ibrida”, i Ventisette dovranno “unire le forze per diventare leader negli strumenti di cyberdifesa“, è stato l’ultimo avvertimento della presidente von der Leyen.

    Durante il discorso in plenaria, la presidente della Commissione UE ha annunciato che a inizio 2022 si terrà in Francia un vertice europeo sulla difesa. Focus sul processo decisionale collettivo e sulla risposta agli attacchi informatici

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    Afghanistan, Borrell: “Serve una presenza UE a Kabul. Non c’è altra possibilità se non impegnarci con i talebani”

    Bruxelles – È passato un mese dall’ingresso dei talebani a Kabul e l’Unione Europea sta iniziando a fare i conti con il nuovo assetto politico e sociale in Afghanistan. “Non abbiamo altra possibilità se non impegnarci con i talebani, parlare, discutere e accordarci qualora possibile”: le parole dell’alto rappresentante UE per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, durante il dibattito di oggi (martedì 14 settembre) alla plenaria del Parlamento Europeo spazzano via ogni dubbio sulle intenzioni dell’Unione.
    L’alto rappresentante UE per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell
    Bruxelles sta considerando “come impostare una presenza UE a Kabul coordinata dal Servizio europeo per l’azione esterna“, ha specificato Borrell, dal momento in cui “la sede non è mai stata chiusa e la nostra delegazione potrebbe essere sfruttata se le condizioni di sicurezza saranno garantite”. Per i Ventisette sarà cruciale stare sul campo per valutare la natura delle azioni del nuovo governo, “da cui dipenderà il tipo di impegno con i talebani, anche se non significa che li riconosceremo”. Un rapporto che comunque non potrà prescindere dal rispetto di cinque criteri: non diventare terreno di proliferazione del terrorismo, rispetto dei diritti umani, costituzione di un governo inclusivo e rappresentativo, libertà di azione per l’aiuto umanitario e facilitazione dell’uscita dal Paese per chi vuole farlo.
    “Abbiamo visto che il nuovo governo non è inclusivo né partecipativo, ora sappiamo cosa possiamo aspettarci”, ha sottolineato l’alto rappresentante Borrell, e “parlare di diritti umani con i talebani sembra un ossimoro”. Tuttavia, l’Unione dovrà cercare un compromesso per “aiutare gli afghani che non sono riusciti a fuggire e sostenere chi rimarrà nel Paese“. All’orizzonte c’è una situazione umanitaria “drammatica”, un sistema finanziario “in caduta libera” e “un’ondata migratoria che dipenderà dalle evoluzioni nel Paese”.
    È proprio la questione migratoria a scaldare gli animi nelle capitali europee, dove “si teme che la questione del favorire l’uscita dal Paese per chi rischia di essere perseguitato diventi un appello al confluire in massa in Europa”. L’alto rappresentante ha concluso il suo intervento ricordando che “le persone si muoveranno solo quando i talebani lo permetteranno, ma non sarà un’ondata come quella del 2015”. Intanto l’UE dovrà cercare di parlare “con una sola voce, non con 27 diverse” e per questo motivo è stato indicato il Servizio europeo per l’azione esterna come lo strumento per un “impegno coordinato”.
    Il dibattito in Aula
    È stato particolarmente acceso il confronto tra gli eurodeputati, in particolare sul tema della possibile ondata migratoria dall’Afghanistan. L’asse S&D-Verdi ha insistito sulla necessità di garantire la protezione internazionale e di raggiungere un accordo tra i Paesi membri sull’accoglienza per chi fuggirà dal Paese, mentre le destre si sono scagliate contro chi vuole replicare scenari simili a quelli della crisi migratoria del 2015.
    “Tutte le parole di sostegno al popolo afghano non hanno valore se non le traduciamo in fatti e se tutti i Paesi europei non accettano di creare corridoi umanitari, mostrando umanità e solidarietà“, è stato il monito della presidente del gruppo S&D, Iratxe García Pérez. Le ha fatto eco l’eurodeputata olandese Tineke Strik (Verdi/ALE): “Dobbiamo assumerci le nostre responsabilità con visti umanitari, ricongiungimenti familiari e la piena applicazione della direttiva sulla protezione temporanea“. Spazio anche per lo sviluppo di “una politica estera comune che garantisca sovranità e forza operativa internazionale”, mentre García Pérez ha proposto simbolicamente di “riconoscere la resistenza delle donne afghane con l’assegnazione del Premio Sakharov 2021“.
    L’europarlamentare del Partito Democratico, Simona Bonafè (S&D)
    Anche l’europarlamentare in quota PD Simona Bonafè (S&D) ha ricordato il ruolo delle donne, “a cui abbiamo promesso un futuro migliore” e che ora “non possono essere lasciate sole”. Di qui la necessità di una “strategia per l’accoglienza”, che sia diversa dalle conclusioni “deludenti” dell’ultimo Consiglio Affari Esteri. Il vicepresidente del Parlamento UE Fabio Massimo Castaldo (Movimento 5 Stelle) ha portato in Aula la lettera firmata da 76 eurodeputati per chiedere alla Commissione Europea per chiedere l’apertura di corridoi umanitari con l’Afghanistan, applicando la direttiva del 2001 sulla protezione temporanea. “Serve coerenza, serve coraggio e serve ora, perché il tempo scorre veloce e contro di noi“, ha incalzato Castaldo.
    Il francese Jérôme Rivière (ID) si è invece scagliato contro “le sinistre aperturiste”, ha denunciato il fatto che “ad approfittare della nostra mancanza di coesione saranno Russia e Cina”, mentre “noi come sempre dovremo proteggerci da un’ondata di migrazioni”. Massimiliano Salini (PPE) ha insistito sulla prospettiva di “sviluppare una strategia geopolitica per fare dell’Europa una grande potenza”, mentre il collega tedesco Michael Gahler ha avvertito che “sarà necessario piuttosto appoggiare i Paesi vicini all’Afghanistan per garantire un’accoglienza dignitosa nella regione”.

    L’alto rappresentante UE è intervenuto durante la plenaria del Parlamento Europeo per spiegare l’approccio dell’Unione al nuovo governo afghano. Scontro tra S&D-Verdi e le destre sulla politica di accoglienza dei rifugiati

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    La Norvegia sceglie i laburisti: Jonas Gahr Støre sarà il prossimo primo ministro

    Bruxelles – Dopo 8 anni, la sinistra torna a vincere le elezioni in Norvegia. Con il 26,4 per cento dei voti, il partito laburista AP è la compagine più votata, staccando di sei punti i conservatori della primo ministro uscente Erna Solberg. “Come partito vincitore, ci assicureremo che la Norvegia abbia un nuovo governo e un nuovo corso. Nei prossimi giorni, inviterò i leader di tutti i partiti che vogliono un cambiamento, a cominciare dai centristi di SP e dalla Sinistra Socialista”, ha dichiarato il segretario di AP Jonas Gahr Støre. Solberg gli ha telefonato per congratularsi della vittoria e ha affermato che proverà ancora a correre per le prossime elezioni, fissate per il 2025.
    Il leader laburista sarà dunque il prossimo primo ministro norvegese. 61 anni, è stato tra il 2005 e il 2012 ministro degli Esteri del governo guidato da Jens Stoltenberg, l’attuale segretario generale della NATO. Pur essendo un milionario, Gahr Støre ha incentrato la sua campagna sulla promessa di combattere l’eccessiva diseguaglianza presente nel Paese. Il buon risultato ottenuto da centristi e Sinistra Socialista (rispettivamente 13.6 e 7.5 per cento) gli consente di tentare di creare una coalizione di governo senza lo scomodo appoggio dei marxisti del Partito Rosso, che con il 4.7 per cento hanno duplicato i consensi rispetto al 2017. Non sarà necessario nemmeno l’apporto dei Verdi, che con un risultato sotto le aspettative sono scesi sotto la soglia di sbarramento del 4 per cento ed entrano in Parlamento solo per il ripescaggio dovuto al voto nelle contee.
    La formazione del prossimo governo di centro-sinistra potrebbe però non essere così semplice. In campagna elettorale il leader centrista Trygve Slagsvold Vedum aveva escluso qualsiasi accordo con la Sinistra Socialista, per via della loro intransigenza sul tema dell’esplorazione per la scoperta di idrocarburi, punto centrale e divisivo del dibattito pre-elettorale. A differenza dei laburisti però, i due partiti condividono un certo euroscetticismo e hanno promesso di rinegoziare l’adesione della Norvegia allo Spazio Economico Europeo. A Gahr Støre il compito di fare sintesi, ma per la prima volta dal 1959 il centro-sinistra sarà nello stesso momento alla guida di tutti e cinque i Paesi nordici.

    I laburisti vincono le elezioni nel Paese scandinavo. L’ex ministro degli Esteri Gahr Støre intende creare una coalizione di governo con i centristi e Sinistra Socialista, con i partiti che sono divisi su rapporti con l’UE e transizione ecologica. Sotto le aspettative il risultato dei Verdi

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    Dialogo Serbia-Kosovo, si stringe la collaborazione tra UE e Stati Uniti per risolvere un confronto sempre più teso

    Bruxelles – Sembrano lontani i tempi in cui l’Unione Europea e gli Stati Uniti di Donald Trump si davano battaglia diplomatica sui Balcani. È passato solo un anno dai colloqui tra Serbia e Kosovo mediati da Washington che hanno rischiato di far saltare l’intero processo di mediazione UE, ma il clima politico è cambiato totalmente. “Con l’amministrazione di Joe Biden si apre uno degli scenari di cooperazione più stretta di sempre e abbiamo già visto che insieme possiamo stimolare progressi importanti nella regione”, ha confermato il rappresentante speciale dell’UE per il dialogo Pristina-Belgrado, Miroslav Lajčák.
    Parole che gettano un ponte tra le due potenze anche sul fronte della stabilizzazione dei Balcani Occidentali e che hanno trovato una sponda nella controparte statunitense durante l’evento online The Belgrade-Pristina dialogue: Getting back on track?, organizzato oggi (lunedì 13 settembre) dal think tank European Policy Centre (EPC). “Vogliamo vedere tutti i Paesi della regione entrare a far parte dell’Unione Europea, non solo Serbia e Kosovo”, ha dichiarato il vice-segretario aggiunto dell’Ufficio per gli Affari europei ed eurasiatici del Dipartimento di Stato, Gabriel Escobar.
    I relatori dell’evento organizzato dall’EPC The Belgrade-Pristina dialogue: Getting back on track? (13 settembre 2021)
    Per quanto riguarda il dialogo tra Pristina e Belgrado, Escobar ha promesso di sostenere “con tutti gli sforzi possibili” il lavoro dei colleghi europei, per “convincere le due parti che un accordo di normalizzazione dei rapporti è l’unico futuro auspicabile“. Nonostante ci sia preoccupazione “per i pochi progressi” nell’ultimo anno, Washington aiuterà il processo “sia con messaggi politici, sia vigilando che gli accordi raggiunti finora siano implementati”. In ultima battuta, il vice-segretario Escobar ha anticipato che potrebbe fare presto un viaggio in Serbia e in Kosovo con Lajčák, a seconda degli sviluppi della pandemia COVID-19.
    Proprio il rappresentante speciale dell’UE ha voluto ricordare i “risultati concreti per la vita delle persone” ottenuti in 10 anni di dialogo facilitato da Bruxelles: dalle elezioni municipali nel nord del Kosovo, al transito di merci e persone dalla frontiera, fino al controllo territoriale da parte delle autorità di Pristina e lo scambio di informazioni a livello giudiziario. Ma adesso arriva la parte più difficile: “Dobbiamo trovare un accordo sulla normalizzazione dei rapporti tra le due parti e implementare gli accordi già raggiunti”, ha indicato Lajčák.
    Più facile a dirsi che a farsi, considerati gli sviluppi politici degli ultimi mesi. Con l’elezione del nuovo primo ministro kosovaro, Albin Kurti, i rapporti tra Pristina e Belgrado sono diventati sempre più tesi, come hanno confermato gli ultimi due incontri di alto livello a Bruxelles. Il rappresentante speciale dell’UE cerca di vedere il bicchiere mezzo pieno (“Dopo lo stop per le elezioni, ora abbiamo due interlocutori con mandati forti, con cui possiamo interfacciarci e trovare dei compromessi”), ma è innegabile che il confronto si stia incrinando come non succedeva da prima della ripresa dei colloqui nel luglio del 2020.
    Lo ha sottolineato anche l’eurodeputata tedesca e relatrice sul Kosovo per il Parlamento Europeo, Viola von Cramon-Taubadel (Verdi/ALE), intervenuta nel corso dell’evento di EPC: “I due governi avranno anche un forte mandato, ma le elezioni municipali di metà ottobre in Kosovo e le elezioni presidenziali in Serbia del prossimo anno ci fanno temere che soprattutto da parte serba venga meno il supporto al compromesso con la controparte kosovara”. L’arma a disposizione dell’UE per stimolare la “volontà politica delle due parti” è l’erogazione dei fondi previsti dallo strumento di assistenza pre-adesione IPA III, che possono essere sospesi in caso di “regresso democratico”.
    La presidente del Kosovo, Vjosa Osmani, con il commissario europeo per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi
    Non che le notizie che arrivano dai Balcani siano incoraggianti. In un’intervista per il quotidiano tedesco Süddeutsche Zeitung, la presidente del Kosovo, Vjosa Osmani, ha ribadito il rifiuto di Pristina alla creazione della Comunità delle municipalità serbe nel Paese, prevista dall’accordo del 2013 del dialogo mediato dall’UE. Secondo Osmani, per la Serbia si tratterebbe solo della “fase preliminare della creazione di una seconda Republika Srpska” (l’entità a maggioranza serba della Bosnia ed Erzegovina) e “noi non vogliamo un altro Stato che non funziona, come quello bosniaco”.
    La presidente kosovara ha poi ricordato l’illegittimità della decisione contenuta nell’accordo del 2013 secondo una sentenza del 2015 della Corte Costituzionale di Pristina e ha escluso che si formi “una struttura mono-etnica di potere nel nostro Paese”. Parole che provocheranno presto una scia di polemiche a Belgrado e che renderanno ancora più necessaria la pressione congiunta di Bruxelles e Washington per superare lo stallo sui Balcani.

    Durante un evento organizzato dall’European Policy Centre, il rappresentante speciale UE Lajčák e il vice-segretario del Dipartimento di Stato Escobar hanno confermato l’impegno congiunto per raggiungere un accordo di normalizzazione dei rapporti tra Pristina e Belgrado

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    Norvegia al voto: la scelta tra transizione green e sicurezza economica

    Bruxelles – Si chiudono oggi 13 settembre alle 21 le urne in Norvegia per il rinnovo dello Storting, il Parlamento unicamerale del Paese. La primo ministro Erna Solberg, in carica dal 2013 e leader del partito di centro-destra Høyre, rischia di non essere riconfermata, in un’elezione che si gioca principalmente sul tema della transizione ecologica.
    Il dibattito elettorale
    Come negli altri Stati scandinavi, in Norvegia la questione ambientale è particolarmente sentita dalla popolazione: il 95 per cento dell’energia viene prodotto con l’idroelettrico e 7 automobili vendute su 10 sono elettriche. Tuttavia l’economia del Paese si basa quasi interamente sull’esportazione di petrolio e gas naturale, di cui è il maggior produttore dell’Europa Occidentale. Il settore dei combustibili fossili impiega oltre 200mila persone, più del 7 per cento della forza lavoro nazionale. Come gestire la futura transizione ecologica è dunque il maggior punto di divisione tra le forze politiche, con i conservatori di Høyre che sono fortemente contrari a uno stop all’esplorazione e alla produzione di idrocarburi, preoccupati per le ricadute economiche e occupazionali. Su posizioni simili il centro-sinistra laburista e i centristi di SP, oltre che la destra populista di FrP. Al contrario, tutti i partiti di sinistra a partire dai Verdi premono per uno stop immediato all’esplorazione e per la fine della produzione di combustibili fossili entro i prossimi 15-20 anni.
    Altro tema divisivo sono i rapporti con l’Unione Europea. Oslo non è membro dell’UE, ma aderisce a Schengen e allo Spazio Economico Europeo (SEE). Laburisti e Høyre sono favorevoli all’appartenenza del Paese alla SEE, mentre la sinistra e i centristi sono più euroscettici. In particolare, il carismatico leader di SP Trygve Slagsvold Vedum si è battuto affinché il comparto della regolamentazione del settore energetico torni ad essere interamente nelle mani del governo norvegese.
    Sondaggi e prospettive
    I sondaggi vedono in prima posizione il partito laburista (AP), con un consenso stimato intorno al 24 per cento. Il suo leader Jonas Gahr Støre, già ministro degli Esteri tra il 2005 e il 2012, è dunque il favorito per diventare il prossimo capo del governo. Al contrario, in caso di vittoria del centrodestra Erna Solberg (soprannominata “Iron Erna” per via della sua ammirazione per Margaret Thatcher) diventerebbe la prima premier della storia norvegese ad essere eletta per tre mandati consecutivi. Tuttavia, le rilevazioni non le sorridono. Nonostante una buona popolarità personale, il suo partito Høyre sarebbe inchiodato al 19 per cento dei consensi. A complicare la situazione, il rischio che gli alleati liberali di Venstre e cristiano-democratici di KrF non superino la soglia di sbarramento fissata al 4 per cento. Decisivo potrebbe essere il ruolo dei centristi di SP, che con un seguito stimato intorno al 13 per cento rappresentano il vero ago della bilancia di queste elezioni. 

    Più frammentata la situazione alla sinistra di AP. Sinistra Socialista (SV), Verdi (MDG) e Partito Rosso (R) sono tutti ostili al SEE e favorevoli allo stop delle esplorazioni di idrocarburi, ma si dividono sulla visione economica, con i rossi che hanno una dottrina dichiaratamente marxista. A completare il quadro politico la destra libertaria e populista del Partito del Progresso (FrP), che nonostante un seguito più che discreto dovrebbe essere esclusa dalla formazione del prossimo governo. Il leader laburista Gahr Støre ha dichiarato di augurarsi di riuscire a formare una coalizione progressista con i centristi e Sinistra Socialista. Non sarà semplice, le distanze sul tema energetico sono ampie e la strada per il nuovo governo, complici la frammentazione politica e la legge elettorale proporzionale, risulta essere tutta in salita.

    Elezioni a Oslo: il centrodestra rischia di perdere la guida del governo dopo 8 anni. Favoriti i laburisti. Il Paese, grande produttore di petrolio, alla prova della transizione green

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    L’UE invierà una missione di osservazione in Iraq per le elezioni del 10 ottobre

    Bruxelles – L’Unione Europea invierà una Missione di osservazione elettorale in Iraq per sorvegliare le elezioni legislative del Paese, che si terranno il prossimo 10 ottobre. L’alto rappresentate per gli Affari esteri e la sicurezza Josep Borrell ha nominato l’europarlamentare Viola Von Cramon-Taubadel come Capo missione.
    La rappresentanza dell’UE si occuperà di assicurare che il processo elettorale sia corretto nei confronti di tutti i candidati e rispettoso dei diritti degli attivisti e della stampa. 12 osservatori si trovano già in Iraq dal 28 agosto. A questi si aggiungeranno altri 20 funzionari nel mese di settembre. La missione, supportata anche dal personale diplomatico degli Stati membri dell’Unione in Iraq, opererà nei punti nevralgici del Paese e resterà in loco fino all’esaurimento del processo elettorale, incuso lo spoglio e gli eventuali ricorsi.
    La presenza europea, richiesta dall’Alta commissione elettorale indipendente dell’Iraq, segue la recente visita di Josep Borrel a Baghdad, che ha definito l’iniziativa “una chiara manifestazione della solidarietà e del supporto al popolo iracheno e della solida cooperazione con l’Iraq”

    Josep Borrel ha nominato Viola Von Cramon-Taubadel per guidare la commissione che si occuperà di vigilare sul corretto svolgimento del voto legislativo