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    Montenegro, pagata la prima rata del debito da 809 milioni con la Cina grazie al supporto di tre banche occidentali

    Bruxelles – Dalle sabbie mobili del debito cinese il Montenegro potrebbe aver fatto il primo significativo passo per uscirne. Il condizionale è d’obbligo, perché la somma dovuta a Pechino è vertiginosa: 809 milioni di euro, un quinto del debito pubblico complessivo di 4,33 miliardi, il 103 per cento del prodotto interno lordo del Paese. Il governo di Podgorica ha annunciato mercoledì 21 luglio il pagamento della prima rata da 33 milioni all’Export-Import (Exim) Bank of China, ente di credito statale con vocazione internazionale, e spera di essersi messo alle spalle lo scenario peggiore: quello di cedere porzioni del territorio nazionale alla Cina.
    “L’incredibile successo”, come lo ha definito il ministro delle Finanze, Milojko Spajić, è un accordo di “copertura” con tre banche occidentali per proteggere il rischio valutario (perdita potenziale per chi investe all’estero) di un prestito contratto con la Cina nel 2014, che ha abbassato il tasso di interesse dal 2 allo 0,88 per cento (e scambiato da dollaro a euro). Il governo guidato da Zdravko Krivokapić non ha voluto rendere noto quali enti hanno sostenuto l’operazione, ma il ministro delle Finanze ha specificato che “il creditore è ancora la cinese Exim Bank, ma alla transazione hanno partecipato due banche americane e una banca francese“.
    Il percorso dell’autostrada A1 Bar-Boljare in costruzione, Montenegro (fonte: Il Post)
    Il finanziamento all’ente di credito cinese era stato chiesto sette anni fa dal governo di Milo Đukanović (allora premier, oggi presidente della Repubblica) per finanziare la costruzione del primo tratto dell’autostrada che collegherà il porto montenegrino di Antivari (Bar) alla località di Boljare, circa 160 chilometri dal Mar Adriatico al confine con la Serbia. I 41 chilometri in costruzione a nord di Podgorica costituiscono uno dei tratti autostradali più costosi al mondo: oltre 20 milioni di euro al chilometro, più di dieci volte il costo medio europeo.
    Gli altri 120 sono ancora da costruire e dipenderanno dalle capacità di Podgorica di ripagare il debito: la prossima rata è fissata a gennaio 2022, anche se potrebbe essere concessa una proroga per le difficoltà economiche causate dalla pandemia COVID-19. Secondo quanto riportato dal Financial Times, se Podgorica non fosse riuscita ad adempiere ai propri obblighi entro la fine di luglio, Pechino avrebbe avuto il diritto di acquisire il controllo di parte del territorio montenegrino, verosimilmente uno sbocco sul Mediterraneo.
    La notizia dell’intervento dei tre istituti di credito occidentali ha fatto tirare un sospiro di sollievo anche a Bruxelles, dove da mesi la questione è rimasta pendente. Le conseguenze di un’eventuale cessione parziale di sovranità da parte del governo di Podgorica alla Cina per insolvenza non coinvolgono direttamente l’Unione Europea, ma gli effetti indiretti sarebbero molto gravi sul piano dell’allargamento UE nella regione balcanica.
    Attualmente il Montenegro è il Paese allo stadio più avanzato nel processo di adesione all’UE tra i sei dei Balcani occidentali (Albania, Bosnia ed Erzegovina, Kosovo, Serbia, Macedonia del Nord). Tuttavia, la presenza e il controllo diretto di una porzione del territorio nazionale da parte di uno degli avversari geopolitici più temuti dall’Unione nell’area balcanica potrebbe mettere a serio rischio l’intero progetto di fare del Montenegro il ventottesimo Paese membro UE. Rischio noto sia al Parlamento Europeo, che già a maggio chiedeva un intervento a sostegno del vicino balcanico, sia alla Commissione UE.
    Il ponte Moracica, presso Podgorica, lungo l’autostrada A1 Bar-Boljare, Montenegro
    La richiesta di assistenza inviata in primavera dal vicepremier del Montenegro, Dritan Abazović, è rimasta solo all’apparenza inascoltata (anche perché l’Unione non era tenuta a pagare di tasca propria il debito di un Paese non-membro). È già in campo uno schema di aiuti finanziari da 60 milioni di euro, oltre al Piano economico e di investimenti da 29 miliardi per la regione sbloccato dall’accordo sullo strumento di assistenza pre-adesione IPA III. Parallelamente, fonti a Bruxelles hanno fatto sapere che erano state sondate le piste del Kreditanstalt für Wiederaufbau (istituto di credito per la ricostruzione tedesco), dell’Agenzia di sviluppo francese e della Cassa Depositi e Prestiti italiana, per guidare gli aiuti finanziari europei. Tutto questo prima dell’intervento dei tre istituti di credito di cui ancora non si conoscono i dettagli.
    In attesa di avere più informazioni a disposizione, la Commissione Europea “continuerà a sostenere il Montenegro nel suo percorso verso l’adesione”, ha assicurato la portavoce per la Politica di vicinato e l’allargamento, Anna Pisonero. “In questo contesto lavorerà con il Paese per trovare soluzioni finanziarie per i suoi progetti di investimento e per garantire anche la sostenibilità del suo debito pubblico”. In cantiere per il governo Krivokapić c’è la rivalutazione dei beni dello Stato, con l’obiettivo di venderne alcuni per raccogliere soldi da destinare al ripianamento dei debiti.
    È comunque difficile che la sola vendita di asset statali – di cui il ministro delle Finanze non ha saputo dare una stima – e le privatizzazioni possano essere sufficienti per colmare il buco da 809 milioni di euro con Pechino. Ecco perché dovrà mettersi in moto un circolo virtuoso nell’economia del Paese. Le sabbie mobili del debito cinese non sono ancora superate e la strada verso l’adesione all’Unione Europea chiede continui sforzi politici e finanziari al Montenegro.
    Trovi un ulteriore approfondimento nella newsletter BarBalcani, curata da Federico Baccini

    Podgorica ha raggiunto un accordo di “copertura” con due istituti di credito statunitensi e uno francese, rimettendosi sulla strada dell’adesione all’Unione Europea. Il prestito era stato chiesto nel 2014 per la costruzione dell’autostrada A1 Bar-Boljare

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    Brexit, Londra ci riprova: chiesta una rinegoziazione del Protocollo sull’Irlanda del Nord. Porta chiusa dall’UE

    Bruxelles – Ci risiamo. A nemmeno un mese dalle concessioni dell’Unione Europea a Londra sull’estensione del periodo di grazia per il commercio nel Mare d’Irlanda fino al 30 settembre (doveva scadere lo scorso primo aprile), Downing Street alza la posta e chiede a Bruxelles un “nuovo equilibrio” nell’attuazione del Protocollo sull’Irlanda del Nord all’interno del quadro dell’Accordo di recesso tra UE e Regno Unito.
    Dal 30 giugno ci si chiedeva cosa significasse l’avvertimento del consigliere britannico per la Sicurezza nazionale, David Frost, sulla necessità di “un’attuazione pragmatica e proporzionata dell’intesa” per arrivare a una soluzione permanente con i Ventisette. Ora è chiaro: se non saranno saranno riviste le regole sul commercio tra Gran Bretagna e Irlanda del Nord, la minaccia è di annullare unilateralmente l’intero Accordo di recesso. “Non possiamo andare avanti così”, è stato il commento di Frost ieri (mercoledì 21 luglio) di fronte ai deputati britannici. “Non c’è niente di insolito nel rinegoziare un trattato”, ha aggiunto, dal momento in cui “l’accordo non sta funzionando come ci aspettavamo“.
    Non stupisce che per Londra il “nuovo equilibrio” punti a eliminare la supervisione dell’Unione Europea sull’Accordo di recesso e sul transito di beni nell’Irlanda del Nord (volto a mantenere integro il Mercato Unico sull’isola d’Irlanda). Frost ha puntualizzato che “c’è un’opportunità per trovare un accordo con l’UE attraverso i negoziati“, ma che se dovessero fallire il Regno Unito avrà “una giustificazione per invocare l’articolo 16 del Protocollo” (che permette alle parti di rinunciare ai suoi termini se nella pratica si rivelano dannosi).
    L’improvvisa offerta del governo presieduto da Boris Johnson ha trovato le porte sbarrate a Bruxelles, nel frattempo impegnato a rinegoziare il futuro di Gibilterra. “Non accetteremo una rinegoziazione del Protocollo“, ha tagliato corto il vicepresidente della Commissione UE per le Relazioni interistituzionali e le prospettive strategiche, Maroš Šefčovič. “Il rispetto degli obblighi legali internazionali è di fondamentale importanza”, anche se questo non ha fermato l’Unione Europea dal cercare “soluzioni pratiche e flessibili” come quella dello scorso 30 giugno “per superare le difficoltà che i cittadini dell’Irlanda del Nord stanno incontrando”.
    Preso atto della dichiarazione di Frost, il vicepresidente dell’esecutivo UE ha intimato il “rispetto del Protocollo” che “ha lo scopo di mantenere la pace sull’isola d’Irlanda”. Lo spiraglio lasciato aperto da Šefčovič riguarda solo “l’azione congiunta negli organismi paritetici” e il confronto su nuove “soluzioni creative”. Su tutto il resto, Bruxelles fa muro e a poco più di due mesi dall’entrata in vigore dell’accordo commerciale e di cooperazione con il Regno Unito già si inizia a parlare di annullamento dell’Accordo di recesso.

    Il “no grazie” è stato ribadito anche dalla presidente dell’esecutivo UE, Ursula von der Leyen, dopo una conversazione telefonica con il premier britannico Johnson: “L’Unione continuerà a essere creativa e flessibile nel quadro del Protocollo, ma non lo rinegozieremo“, ha risposto al Command paper di Downing Street inerente al Protocollo sull’Irlanda del Nord. “Dobbiamo garantire insieme stabilità e prevedibilità sull’isola”.

    Il Regno Unito chiede un “nuovo equilibrio” sull’Accordo di recesso, altrimenti minaccia di annullarlo unilateralmente. Il vicepresidente della Commissione Šefčovič respinge l’offerta e intima il rispetto degli “obblighi legali internazionali”

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    Nord Stream 2, da USA e Germania sì al completamento del gasdotto ma previste sanzioni alla Russia in caso di pressioni sull’Ucraina

    Bruxelles – Il Nord Stream 2 si farà, ma saranno previste sanzioni se la Russia dovesse usare il suo gas per fare pressioni sui Paesi dell’Europa centrale e orientale e in particolare sull’Ucraina. Dopo anni di posizioni inconciliabili, gli Stati Uniti e la Germania hanno rivelato mercoledì 21 luglio un accordo per portare a termine i lavori del gasdotto Nord Stream 2, ormai completo quasi al 98 per cento, ma contro cui gli USA si erano detti molto contrari per i timori di una maggiore influenza geopolitica e dipendenza energetica dell’Europa dal presidente russo Vladimir Putin, attraverso il gas naturale. Mosca è uno dei più grandi esportatori di gas naturale al mondo.
    Il gasdotto Nord Stream 2 collegherà la Germania alla Russia
    Il controverso gasdotto guidato dalla compagnia energetica russa Gazprom, raddoppierà il volume di gas naturale trasportato dalla Russia alla Germania attraverso il mar Baltico. Replicando, nei fatti, il percorso del gasdotto gemello Nord Stream che è già in attività. Si parla di circa 55 miliardi di metri cubi all’anno di gas verso la Germania a capacità massima. In una nota congiunta pubblicata ieri in serata, Berlino si è impegnata a rispondere a qualsiasi tentativo della Russia di usare l’energia come arma geopolitica contro l’Ucraina e altri paesi dell’Europa centrale e orientale.
    “Ci impegniamo a lavorare insieme per garantire che gli Stati Uniti e la Unione Europea possano rispondere insieme all’aggressione russa e alle attività maligne, compresi gli sforzi russi per usare l’energia come arma”, si legge nel comunicato. Se la Russia tenterà di utilizzare l’energia come arma o “commetterà ulteriori atti aggressivi contro l’Ucraina” come l’annessione illegale della penisola di Crimea nel 2014 “la Germania agirà a livello nazionale e premerà per misure efficaci a livello europeo, comprese sanzioni, per limitare le capacità di esportazione russa in Europa nel settore energetico, compreso il gas. “Questo impegno”, conclude la nota, “è progettato per garantire che la Russia non utilizzi impropriamente alcun gasdotto, incluso il Nord Stream 2, per raggiungere obiettivi politici aggressivi utilizzando l’energia come arma”.
    L’accordo tra Berlino e Washington cerca di rassicurare chi teme – anche negli Stati Uniti – i pericoli strategici del gasdotto da 11 miliardi di dollari. In caso di sanzione, Berlino promette dunque di limitare il flusso di gas russo in arrivo in Germania ed eventualmente trascinare il caso a Bruxelles per chiedere misure comuni europee. Le Istituzioni di Bruxelles per ora se ne sono chiamate fuori, il progetto è nazionale e riguarda solo la Germania e soprattutto l’UE ritiene che un nuovo gasdotto non sia necessario per l’approvvigionamento energetico del Continente. Negli ultimi dieci anni ha investito “in altri gasdotti, terminali di importazione di gas naturale liquefatto (GNL) e interconnettori in Europa che assicurano forniture sufficienti per soddisfare le esigenze energetiche del Continente”, ha chiarito Ditte Juul Jorgensen, direttore generale del dipartimento per l’energia della Commissione europea in audizione in Parlamento Ue qualche mese fa.
    Berlino prevede di nominare inoltre un inviato speciale incaricato di sostenere progetti energetici bilaterali con l’Ucraina, con un budget di 70 milioni di dollari e anche un Fondo verde per l’Ucraina per sostenere la transizione energetica, l’efficienza energetica e la sicurezza energetica dell’Ucraina con una dotazione iniziale di almeno 170 milioni di dollari. Nonostante le promesse, l’Ucraina non sembra aver preso bene la notizia definendo il Nord Stream 2 “un’arma geopolitica che sarà senz’altro usata contro l’Ucraina e contro l’Europa”, ha detto Andriy Yermak, il capo di gabinetto del presidente ucraino.

    Washington cede alla cancelliera Merkel e dà il suo via libera a completare la costruzione del controverso gasdotto per portare il gas naturale russo in Europa. Per rassicurare gli alleati, Berlino promette di limitare il flusso di gas russo in arrivo in Germania in caso di pressioni sull’Europa orientale e centrale ed eventualmente trascinare il caso a Bruxelles per chiedere misure comuni europee

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    Gibilterra, nuove tensioni UE-UK. Bruxelles presenta il suo mandato negoziale. Londra: “Minano la nostra sovranità”

    Bruxelles – La Brexit torna ad agitare Unione europea e Regno Unito, che si scontrano su Gibilterra. Bruxelles è decisa a rinegoziare il futuro della rocca, e forza la mano negoziale approvando una raccomandazione per una decisione del Consiglio dell’UE che autorizza l’apertura di trattative per un accordo bilaterale UE-Regno Unito sul possedimento britannico.
    La decisione del collegio dei commissari si spiega col fatto che l’accordo commerciale e di cooperazione raggiunto tra le due parti non comprende Gibilterra. Le relazioni della piccola penisola non sono con il blocco dei 27 è dunque privo di regolamentazioni, e Bruxelles ha deciso di colmare questo vuoto legislativo. Tanto che la decisione di intavolare trattative è accompagnata da orientamenti.

    Our proposed mandate for 🇪🇺🇬🇧 negotiations on Gibraltar aims to have a positive impact for those living and working on either side of the border between Spain and Gibraltar, while protecting the integrity of the Schengen Area and the Single Market.
    👉 https://t.co/gKjFW5oY35 pic.twitter.com/gk2oakaUoi
    — Maroš Šefčovič🇪🇺 (@MarosSefcovic) July 20, 2021

    Il team von der Leyen intende eliminare i controlli fisici e i controlli su persone e merci alla frontiera terrestre tra la Spagna e Gibilterra, garantendo nel contempo l’integrità dello spazio Schengen di libera circolazione e del mercato unico. Si intende inoltre stabilire responsabilità in materia di asilo, rimpatri, visti, permessi di soggiorno, cooperazione operativa di polizia e scambio di informazioni.
    E non finisce qui. Si intende rimettere mano al settore trasporti (areo e terrestre), lavoro (diritti dei lavoratori transfrontalieri), ambiente, cooperazione di polizia, sostegno finanziario nonché la creazione di “condizioni di parità”, quella reciprocità (level playingfield) su cui Boris Johnson e il suo governo tanto hanno protestato prima di siglare l’accordo commerciale con Bruxelles.
    Anche stavolta le reazioni britanniche non si sono fatte attendere. Londra denuncia un’invasione di campo da parte dell’UE. “Il Regno Unito, con Gibilterra, e la Spagna hanno attentamente concordato un accordo quadro pragmatico, in piena consultazione con la Commissione europea”, ricorda il ministro degli Esteri di sua Maestà, Dominic Raab, secondo cui “il mandato proposto dalla Commissione è direttamente in conflitto con tale quadro“. Secondo il capo della diplomazia britannica l’esecutivo comunitario “cerca di minare la sovranità del Regno Unito su Gibilterra”, e perciò il mandato “non può costituire una base per i negoziati”.

    UK, Gibraltar & Spain agreed balanced & pragmatic framework on Gibraltar.
    The Commission’s draft mandate fails to respect essential elements of the framework, does not reflect a real-world solution, and cannot form a basis for negotiations. https://t.co/7WFdm7aXxr
    — Dominic Raab (@DominicRaab) July 20, 2021

    Londra contesta l’azione unilaterale dell’UE. E’ vero che, come recita anche i documento di 26 pagine licenziato dal collegio dei commissari, “la Commissione è nominata negoziatore dell’Unione”, ma non piace il blitz a dodici stelle. “Abbiamo costantemente dimostrato pragmatismo e flessibilità nella ricerca di accordi che funzionino per tutte le parti e siamo delusi che questo non sia stato ricambiato”, continua Raab. “Il mandato dell’UE non riflette una soluzione concreta. Esortiamo l’UE a ripensarci”.
    Quello che non piace a Londra è l’ingerenza negli affari di un territorio sotto il controllo della corona britannica. Maros Sefcovic, il vicepresidente della Commissione responsabile del dossier, afferma che con questa iniziativa “mandiamo un segnale positivo a tutti coloro che vivono e lavorano da entrambe le parti della frontiera” di Gibilterra. Specifica che “si tratta di cooperazione regionale, non di sovranità o giurisdizione”, ma oltre Manica stigmatizzano le manovre a dodici stelle. Il braccio di ferro tra Unione europea e il suo ex Stato membro dunque continua e si rinnova.

    La Commissione europea mette a punto la linea per il futuro della Rocca: via controlli alla frontiera, uniformità di regole per trasporti, scambio di informazioni di polizia, diritti dei lavoratori. Raab: “Fuori dalla realtà, non può essere una base per trattative”

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    Dialogo Serbia-Kosovo, ennesima fumata nera. Ora per l’UE diventa difficile gestire le tensioni tra Vučić e Kurti

    Bruxelles – Così non va. Dopo un anno dalla ripresa del dialogo tra Serbia e Kosovo mediato dall’UE, è difficile continuare a illudersi alla vigilia di ogni incontro che possa essere arrivato il momento dello sblocco delle trattative e ritrovarsi l’indomani a tracciare l’ennesimo bilancio negativo. Parlare di “approcci molto diversi delle due parti“, come ha fatto il rappresentante speciale per il dialogo Belgrado-Pristina, Miroslav Lajčák, al termine della riunione ad alto vertice di ieri (lunedì 19 luglio), la quinta dal 12 luglio del 2020, sembra ormai un eufemismo.
    Il confronto tra Pristina e Belgrado, che si era interrotto per nove mesi tra settembre 2020 e giugno 2021, sembrava essere pronto per approdare in un porto sicuro, sotto le pressioni dell’Unione di risolvere le questioni regionali come prerequisito per l’adesione UE. E invece a Bruxelles si sta arenando nelle secche delle accuse reciproche e della mancanza di volontà di cercare un compromesso. Le grandi speranze dell’alto rappresentante UE per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, ogni volta vengono spente dagli scontri tra i rappresentanti serbi e kosovari. Era successo al vertice di giugno, è riaccaduto ieri: “Abbiamo ottenuto pochissimi progressi“, ha confessato Lajčák in conferenza stampa.
    Il rappresentante speciale per il dialogo Belgrado-Pristina, Miroslav Lajčák
    Il confronto tra Serbia e Kosovo facilitato dall’UE inizia ad assumere i tratti di un processo autoreferenziale: l’importante è che non si fermi, nella speranza che prima o poi qualcosa si sblocchi. “L’unico risultato che posso riferire è che il dialogo continuerà“, ha rivendicato il rappresentante speciale, tentando di far passare per promettente un risultato che non può essere all’altezza delle ambizioni che si è fissata la Commissione Europea. In particolare, continuano a pesare le parole di Borrell dell’ottobre dello scorso anno, quando prometteva che un accordo “è questione di mesi, non di anni”.
    Di mensile c’è invece solo la continuazione delle riunioni tecniche dei negoziatori, con la prospettiva di un sesto incontro di alto livello a settembre. Sarà il terzo per il premier kosovaro, Albin Kurti, ma con le premesse dell’incontro di ieri si fatica a capire come in soli due mesi si potranno ricucire i rapporti lacerati con il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić.
    Fuoco incrociato
    All’apertura del quinto incontro del dialogo Serbia-Kosovo l’alto rappresentante Borrell aveva richiamato le parti a un “approccio costruttivo e pragmatico”, per “chiudere una volta per tutte i capitoli del loro doloroso passato con un accordo definitivo e giuridicamente vincolante”. Auspici che sono stati vanificati dall’atteggiamento di Kurti e Vučić nei confronti della rispettiva controparte.
    L’alto rappresentante UE per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, e il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić
    Il presidente serbo ha definito l’incontro “molto negativo in tutti i sensi” e si è scagliato contro la delegazione kosovara per aver respinto una proposta in tre punti avanzata dai mediatori europei. Oltre agli incontri mensili tra i capi-delegazione, la proposta UE “si riferiva all’intensificazione degli sforzi comuni per l’identificazione dei resti delle persone scomparse e all’impegno ad astenersi da azioni destabilizzanti”. Stando alle parole di Vučic, Kurti avrebbe risposto solo accusando Belgrado di essere responsabile di tre genocidi: nel 1878 dopo l’indipendenza ottenuta al congresso di Berlino, durante le guerre balcaniche e la prima guerra mondiale, e infine durante la guerra in Kosovo nel 1998-1999. “Non hanno fatto altro che chiedere alla Serbia di rispondere del suo passato“.
    Il presidente serbo ha detto di aver insistito sul “rispetto degli accordi raggiunti nell’aprile 2013 a Bruxelles”, a partire dalla creazione della Comunità delle municipalità serbe in Kosovo. Un tema su cui Pristina sembra essere sorda. “Non ci sarà molto da aspettarsi” da un nuovo round di negoziati tecnici a fine agosto, si è sbilanciato Vučic. A suo avviso, la parte kosovara “non ha alcun interesse a negoziare”, perché il suo unico obiettivo sarebbe “ottenere il sì della Serbia all’indipendenza del Kosovo e imporci di riconoscere presunti crimini e genocidi ai danni del popolo kosovaro albanese”.
    L’alto rappresentante UE per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, e il primo ministro del Kosovo, Albin Kurti
    Dal canto suo, il premier Kurti ha denunciato che la proposta di un accordo di pace in sei punti presentata dalla sua delegazione “è stata respinta senza essere neanche letta” dal presidente serbo. Questo dimostrerebbe “la loro riluttanza a raggiungere un’intesa”. Il primo ministro kosovaro non ha negato di aver insistito sul passato tra Pristina e Belgrado: “Non capisco perché dovremmo avere paura di affrontarlo, quando sappiamo di avere problemi”. Secondo lui la Serbia “non vuole riconoscere il suo passato criminale, né l’indipendenza del Kosovo“, due fattori del dialogo “strettamente collegati l’uno all’altro”.
    Da quando Kurti è stato nominato nuovo premier del Kosovo, i rapporti con Belgrado sono diventati sempre più tesi, alimentando una spirale di nazionalismo nei rispettivi territori. Con un atto palesemente provocatorio Kurti ieri ha regalato a Borrell e soprattutto a Vučić tre libri sui crimini serbi in Kosovo: una confessione di donne violentate durante la guerra, il lavoro dell’attivista serba per i diritti umani, Nataša Kandić, sull’uccisione di 1.133 bambini e la scomparsa di altri 109 nel conflitto del 1998-1999, e un’opera sullo sterminio degli albanesi fra il 1878 e il 1884 nel Sangiaccato di Niš. “La Serbia è arrivata in Kosovo con un genocidio ed è andata via con un altro genocidio“, ha attaccato il premier kosovaro. Le premesse in vista dell’incontro di settembre, tutt’altro che incoraggianti, sono tutte qui.

    Nessun progresso dal quinto vertice di alto livello a Bruxelles, che evidenzia l’incapacità di cercare un compromesso tra Pristina e Belgrado. Le parti si accusano reciprocamente di voler affossare il confronto, con la ripresa programmata a settembre

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    Sicurezza informatica, l’Unione Europea subisce attacchi e accusa la Cina: “Ha agevolato hacker sul suo territorio”

    Bruxelles – L’Unione Europea prova a ruggire contro la Cina, ma è difficile che Pechino si lascerà spaventare dall’accusa arrivata oggi (lunedì 19 luglio) sulla responsabilità per gli attacchi informatici ai Ventisette. L’alto rappresentante UE per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, ha denunciato “attività informatiche dannose intraprese dal territorio della Cina”, che “ha consentito l’accesso a un numero significativo di hacker” nella falla del server Microsoft Exchange. Come se lo sfruttamento delle armi informatiche per affrontare le guerre ibride non fosse un segreto di Pulcinella.
    “Questo comportamento irresponsabile e dannoso ha comportato rischi per la sicurezza e significative perdite economiche per le nostre istituzioni governative e aziende private”, ha attaccato Borrell in una nota. Inoltre, “ha mostrato significative ricadute ed effetti sistemici per la nostra sicurezza, economia e società in generale”. Attacchi informatici non episodici, ma continuativi e globali, collegati a gruppi di hacker come Advanced Persistent Threat 40 e Advanced Persistent Threat 31. Lo scopo rimane sempre il furto di proprietà intellettuale e lo spionaggio indirizzato nei conforti di istituzioni governative, organizzazioni politiche e industrie strategiche sul territorio comunitario.
    L’individuazione della Cina come luogo di provenienza – nonostante sia già noto il suo coinvolgimento anche nella diffusione di fake news in Europa tramite azioni informatiche – pone questioni di “irresponsabilità” da parte di Pechino sul fronte del rispetto delle norme internazionali sottoscritte in sede ONU. “Continuiamo a sollecitare le autorità cinesi ad aderire a queste norme e a non consentire che il suo territorio venga utilizzato per attività informatiche dannose”, è stata l’esortazione dell’alto rappresentante UE, che ha anche invitato la controparte ad “adottare tutte le misure appropriate e ragionevolmente disponibili per rilevare, indagare e affrontare la situazione“.
    Per Bruxelles l’obiettivo rimane il “forte impegno” per garantire uno spazio digitale “globale, aperto, libero, stabile e sicuro”, rafforzando la cooperazione con partner internazionali e parti interessate “attraverso un maggiore scambio di informazioni e un impegno diplomatico continuo”. Ma soprattutto attraverso l’istituzione della Joint Cyber Unit, una nuova unità cibernetica comune per rispondere alle minacce informatiche che incidono sui servizi pubblici, sulle imprese e sulla vita dei cittadini europei, secondo le linee presentate dalla Commissione UE a fine giugno. “Servono sforzi continui per migliorare la sicurezza generale dei software e le loro catene di approvvigionamento“, ha avvertito Borrell. Lasciando già intuire che da Pechino ci si aspetta una risposta, ma non necessariamente positiva.

    La denuncia dell’Alto rappresentante UE Borrell: “Comportamento irresponsabile e dannoso, con significative perdite economiche”. Pechino avrebbe consentito l’accesso nella falla del server Microsoft Exchange per furti di proprietà intellettuale e spionaggio

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    La Commissione UE smentisce l’avvio di una missione militare in Libia. Per ora.

    Bruxelles – Una missione militare dell’UE in Libia non è in programma. Non per ora, almeno. La Commissione smentisce le voci che iniziano a circolare su un possibile impegno europeo di diversa natura nel Paese nordafricano. Il clima di instabilità è tale da indurre a pensare che l’Unione dovrebbe intervenire con una presenza militare organizzata nel contesto della Politica di sicurezza e difesa comune (CSDP), con l’obiettivo di non lasciare campo libero a forze straniere. Questo è quello a cui si starebbe ragionando, secondo indiscrezioni di stampa. 
    La linea della Commissione è quella del “no comment”. Arianna Podestà, portavoce facente funzioni di responsabile del servizio di comunicazione dell’esecutivo comunitario, ricorda a Bruxelles “non si commentano mai le indiscrezioni”. Ad ogni modo, aggiunge, “non siamo a conoscenza di alcuna discussione di missioni militari in Libia”. Al momento, ricorda, restano in essere le due missioni già operative. Si tratta di EUBAM Libia, missione civile avviata nel 2013 e gestita a livello di Politica di sicurezza e difesa comune volta ad aiutare le autorità libiche a smantellare le reti di trafficanti di esseri umani, e di EUNAVFOR MED IRINI, avviata nel 2015 con  l’obiettivo di neutralizzare le rotte consolidate del traffico di profughi nel Mediterraneo. 
    Le risposte fornite a Bruxelles però non sembrano sgombrare il campo da dubbi per il medio termine. Il 24 dicembre in Libia sono previste le elezioni politiche e presidenziali, che dovranno delineare il futuro assetto dello Stato, comunque lontano da una piena stabilità. “Siamo ad un punto critico”, che non può non indurre a “guardare oltre e vedere come aiutare la Libia” nel rafforzamento dei progressi compiuti fin qui e consolidare il processo di stabilizzazione. Possibile dunque che si prepari una nuova missione per i prossimi mesi, date le risposte criptiche fornite dalla Commissione UE.

    L’esecutivo comunitario smentisce indiscrezioni circa l’avvio di un nuovo impegno nel Paese, ma ammette che occorre “guardare oltre e vedere come aiutare la Libia”

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    Clima, Pechino segue l’UE e lancia il suo mercato del carbonio

    Bruxelles – Poche ore dalla presentazione a Bruxelles del nuovo meccanismo europeo di aggiustamento del carbonio alle frontiere (CBAM) e la Cina ha lanciato il proprio mercato del carbonio, che probabilmente sarà il più grande al mondo. I primi scambi di quote di emissioni – che per ora riguardano solo l’energia elettrica – si sono svolti venerdì 16 luglio, coprendo oltre 2mila produttori di elettricità in oltre 4 miliardi di tonnellate all’anno”, ha fatto sapere in una nota l’agenzia di stampa ufficiale cinese. Lo strumento cinese, però, è stato già criticato a livello internazionale per il suo livello di prezzo relativamente basso: 52,78 yuan (sono circa 8 dollari) per tonnellata di carbonio durante la prima transazione, contro i 47 euro (55 dollari) di media attualmente stimati nell’UE. 
    Pechino è il principale produttore al mondo di gas serra e il presidente cinese Xi Jinping ha fissato per la Cina l’obiettivo di raggiungere la neutralità carbonica entro il 2060, un decennio dopo rispetto agli obiettivi fissati dall’Unione Europea. Secondo i piani di Pechino il mercato del carbonio sarà esteso ai produttori di cemento e alluminio a partire dal 2022. La notizia è accolta con favore da Bruxelles, dove si tenta di dar vita a una alleanza globale sul prezzo del carbonio che potrebbe essere stabilita alla prossima Conferenza sul clima delle Nazioni Unite, la COP26 in programma a Glasgow dal 31 ottobre al 12 novembre sotto la presidenza di Boris Johnson.
    “La Commissione Europea continua a sostenere la Cina nello sviluppo di un sistema nazionale di scambio delle emissioni efficace ed efficiente che contribuisca all’attuazione degli obiettivi climatici cinesi”, ha scritto su twitter il vicepresidente esecutivo per il Green Deal, Frans Timmermans.

    Today I congratulated China on starting its national emission trading market. The @EU_Commission continues to support China in developing an effective and efficient nationwide emissions trading system that contributes to implementing the Chinese climate objectives.
    — Frans Timmermans (@TimmermansEU) July 16, 2021

    Il nuovo CBAM dell’UE è una delle dodici proposte legislative avanzate la settimana scorsa dalla Commissione UE nel pacchetto Fit for 55. Dare un prezzo alle emissioni di CO2 importate in UE dovrebbe avere proprio questo scopo: indurre gli altri partner globali a introdurre misure climatiche altrettanto stringenti. “Una misura di diplomazia climatica”, dice Bruxelles. Se tutti avessero un meccanismo di scambio di quote di emissioni simile all’ETS europeo non ci sarebbe bisogno di un dazio sulle importazioni. Il CBAM non è ancora operativo (non lo sarà prima del 2026) ma già fa discutere. Se la Cina si sta adeguando all’idea di un ETS cinese, la misura non è stata accolta altrettanto bene in Australia. “L’ultima cosa di cui il mondo ha bisogno ora è che vengano messe in campo ulteriori misure protezionistiche”, ha detto il ministro del commercio australiano Dan Tehan, all’indomani della presentazione da parte di Bruxelles. A detta del ministro, l’Europa starebbe “imponendo unilateralmente la propria visione a tutti gli altri Paesi”.
    L’argomento entra nel vivo anche negli Stati Uniti, l’altro grande partner che l’UE vuole portare sulla stessa strada. Il partito democratico del presidente statunitense Joe Biden ha proposto, nel giorno della presentazione da parte della Commissione europea (14 luglio), un’analoga carbon tax alle frontiere negli Stati Uniti. Il New York Times scrive che ancora non sono noti i dettagli della potenziale tassa statunitense, e dunque non è ancora certo se sia simile all’iniziativa europea. Da quando Biden è salito alla Casa Bianca a gennaio, Bruxelles ha avviato il dialogo con gli USA su questo argomento ed evitare possibili frizioni commerciali con un partner appena ritrovato. L’inviato speciale Usa per il clima, John Kerry, si è detto in più di una occasione “preoccupato” per i piani di Bruxelles, affermando che il meccanismo di aggiustamento del carbonio dovrebbe essere solo una soluzione di “ultima risorsa”.

    Parte l’Ets del primo produttore al mondo di CO2, anche se non mancano le critiche per il prezzo delle emissioni più basso rispetto a quello europeo. Timmermans: “Pronti a sostenere la Cina nello sviluppo di un sistema nazionale per l’attuazione degli obiettivi climatici cinesi”