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    Dazi, arriva lo stop Ue di 6 mesi alle contromisure. “Usa ora attuino altri punti accordo”

    Bruxelles – Arriva un’altra tappa nel percorso di ‘pacificazione’ commerciale tra Unione europea e Stati Uniti d’America dopo l’accordo politico raggiunto lo scorso 27 luglio in Scozia dalla presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, e il presidente statunitense Donald Trump. Domani (5 agosto), l’esecutivo europeo adotterà le misure per sospendere per 6 mesi i contro-dazi che, a partire dal 7 agosto, avrebbero colpito 93 miliardi di beni provenienti dagli Stati Uniti d’America.L’annuncio è stato fatto oggi dal portavoce dell’esecutivo Ue, Olof Gill, che ha precisato che “l’Unione europea continua a collaborare con gli Stati Uniti per finalizzare una dichiarazione congiunta, come concordato il 27 luglio” scorso. “Con questi obiettivi in mente, la Commissione adotterà le misure necessarie per sospendere di 6 mesi le contromisure dell’Ue contro gli Stati Uniti, che avrebbero dovuto entrare in vigore il 7 agosto.L’adozione da parte della Commissione delle misure necessarie è prevista per domani, 5 agosto, tramite procedura d’urgenza“, precisa Gill. Attraverso il suo portavoce incaricato al Commercio, Palazzo Berlaymont ribadisce che l’accordo politico raggiunto “ripristina stabilità e prevedibilità per cittadini e imprese su entrambe le sponde dell’Atlantico”. Non solo, per l’Ue l’intesa “garantisce l’accesso continuo alle esportazioni dell’Ue al mercato statunitense, preserva catene del valore transatlantiche profondamente integrate, salvaguarda efficacemente milioni di posti di lavoro e getta le basi per una cooperazione strategica continua tra Ue e Stati Uniti”.Dazi, Šefčovič difende l’accordo di von der Leyen con gli Usa. Ma i Ventisette non sono entusiastiPer la Commissione, l’Ordine Esecutivo emesso lo scorso 31 luglio da Washington “conferma il primo passo nell’attuazione dell’accordo, ovvero l’introduzione, dall’8 agosto, di un dazio unico e onnicomprensivo del 15 per cento sulle merci provenienti dall’Unione europea“. Dazio unico e onnicomprensivo perché, “a differenza di altri partner commerciali statunitensi, include le attuali aliquote della nazione più favorita (Npf, in media del 4,8 per cento con gli Usa), il che significa che non è previsto alcun cumulo oltre il limite del 15 per cento”.Quindi, a scanso di equivoci, Bruxelles vuole fare i conti e osserva che, “con questa iniziativa, l’Ue ottiene un’immediata riduzione dei dazi rispetto a quelli annunciati dagli Stati Uniti il 2 aprile, e si getta una prima importante base per ripristinare la chiarezza per le aziende dell’Ue che esportano negli Stati Uniti”. Ma in questo contesto la Commissione rileva un ‘però’: il fatto che ora sta a Washington attuare gli altri punti dell’intesa. Oltre al dazio unico e onnicomprensivo del 15 per cento, “gli altri elementi dell’accordo del 27 luglio devono ora essere attuati dagli Stati Uniti”, osserva ancora Gill. Tra questi figurano “l’impegno a ridurre i dazi della Sezione 232 sulle automobili e sui componenti di automobili importati dall’Ue a un’aliquota massima del 15 per cento, nonché il trattamento specifico concordato per alcuni prodotti strategici, ad esempio, aeromobili e componenti di aeromobili”, conclude.Un elemento che Bruxelles tiene a puntellare dal momento che l’Ordine Esecutivo statunitense affronta, sì, i dazi reciproci – fissando l’aliquota unica e onnicomprensiva del 15 per cento -, ma è silente rispetto agli altri elementi dell’accordo Ue-Usa: in particolare sull’impegno a ridurre i dazi statunitensi della Sezione 232 su automobili e componenti di automobili a un’aliquota massima del 15 per cento e a prevedere il trattamento specifico concordato per alcuni prodotti strategici, ad esempio, aeromobili e componenti di aeromobili.Dunque, all’opposto di quello che l’esecutivo Ue aveva spiegato nella sua nota stampa la settimana scorsa, dove precisava che in base all’accordo del 27 luglio “il limite del 15 per cento si applica anche alle automobili e ai relativi componenti, attualmente soggetti a un’aliquota tariffaria fino al 25 per cento con un’ulteriore tariffa Npf (Nazione più favorita, ndr) del 2,5 per cento, che garantisce un’immediata riduzione tariffaria” e che dal “primo agosto 2025, i dazi statunitensi su aeromobili e componenti di aeromobili dell’Ue, su alcune sostanze chimiche, su alcuni farmaci generici o sulle risorse naturali torneranno ai livelli precedenti a gennaio”.

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    L’Ue teme che la Bielorussia stia per inondare l’Europa di migranti dalla Libia

    Bruxelles – Sembrava relegata nel passato, ma la saga dei migranti usati come armi dalla Bielorussia potrebbe riprendere, stavolta alle frontiere meridionali dell’Ue. Lo sospetta la Commissione europea, che sta indagando su una serie di voli giudicati sospetti tra Minsk e Bengasi, la capitale della Libia orientale nelle mani del generale filorusso Khalifa Haftar.C’è una certa inquietudine, in questi giorni di pausa estiva, tra i corridoi del potere a Bruxelles. Oltre ai dazi della Casa Bianca, a rovinare l’agosto del Berlaymont rischia di essere un nuovo episodio della crisi migratoria artificiale architettata dalla Bielorussia di Alexander Lukashenko, satellite della Russia di Vladimir Putin e da anni protagonista di quella che l’Ue e i suoi Stati membri considerano una guerra ibrida in piena regola.Stavolta, a destare i sospetti dell’esecutivo comunitario sono una serie di voli osservati tra Minsk e Bengasi, dove ha sede l’autoproclamato governo della Libia orientale – in aperta opposizione a quello di Tripoli, riconosciuto dall’Onu e dall’Ue – guidato dall’autoritario generale Khalifa Haftar, alleato di ferro dello zar nella strategica regione nordafricana.La Commissione teme che l’uomo forte della Cirenaica stia allestendo una nuova ondata di migranti irregolari verso le frontiere meridionali dell’Unione, soprattutto quelle italiane e greche. Nel mirino, per l’ennesima volta, la compagnia aerea bielorussa Belavia, già al centro della bufera negli scorsi anni per il trasporto di migranti e rifugiati verso i confini europei in coordinazione col Cremlino. I flussi dalla Libia verso l’Ue sono aumentati sensibilmente nei primi sei mesi del 2025, con 27mila arrivi in Italia e oltre 7mila in Grecia, rispettivamente il doppio e il triplo rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.La Bielorussia non è nuova a questo tipo di strumentalizzazione dei flussi migratori. A partire dall’estate 2021, dal Paese esteuropeo sono stati spinti migliaia di disperati verso le frontiere di Polonia, Lituania e Lettonia, innescando una crisi politica molto seria in Ue che ha portato, tra le altre cose, alla reintroduzione di muri e barriere anti-migranti lungo i confini di diversi Stati.Da allora, Lukashenko non ha di fatto mai smesso di usare gli esseri umani come arma nella sua strategia di destabilizzazione dei Ventisette. Nuovi episodi del genere si sono registrati per l’ultima volta in ordine temporale lo scorso autunno, con i Paesi più direttamente interessati (vedi la Polonia di Donald Tusk) intenzionati a “sospendere” il diritto d’asilo, pur garantito da numerose convenzioni internazionali, nel nome della sicurezza.Per rispondere a questa emergenza – cui si è aggiunta negli ultimi tempi anche la pressione diretta dalla Russia verso la Finlandia – la Commissione europea ha deciso lo scorso dicembre di stanziare 170 milioni di euro per la militarizzazione delle frontiere con la Bielorussia e la Federazione, coincidenti in buona parte col fianco orientale della Nato (che si estende fino al Mar Nero).

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    Ucraina, indietro tutta: Zelensky ripristina l’indipendenza delle agenzie anti-corruzione

    Bruxelles – Nessuna stretta sugli enti-corruzione in Ucraina. Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha firmato i decreti che di fatto annullano le precedenti disposizioni di legge e che tornano a garantire indipendenza all’Ufficio nazionale anti-corruzione (Nabu) e all’Ufficio del procuratore speciale anti-corruzione (Sapo). Non ci sarà più, dunque, il controllo del procuratore generale, nominato direttamente dalla presidenza della Repubblica. La decisione di Zelensky arriva dopo le proteste di piazza e le pressioni internazionali dei partner di Kiev, a cominciare dall’Unione europea.Esultano proprio nella capitale dell’Unione europea. “La firma della legge che ripristina l’indipendenza di Nabu e Sapo è benvenuta”, commentano i presidenti di Consiglio europeo e Commissione Ue, Antonio Costa e Ursula von der Leyen, in una nota congiunta. “Riforme in senso di lotta alla corruzione e tutela dello Stato di diritto restano di fondamentale importanza per la via europea dell’Ucraina”, aggiunge, ricordando gli impegni necessari in ottica di adesione all’Ue.Rientrato il caso, ora l’invito e proseguire lungo il percorso concordato. “L’Unione europea continuerà a sostenere questi sforzi” di riforma necessari per l’avvicinamento di Kiev al club a dodici stelle, sottolineano i leader Ue. Certo Zelensky non fa un bella figura con i partner, e adesso lui e il suo Paese resteranno sorvegliati speciali.

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    L’accordo Ue-Usa sui dazi è “irrealizzabile” sull’energia, avverte l’Ieefa

    Bruxelles – L’accordo commerciale tra Unione europea e Stati Uniti, così com’è, non si può fare. E’ “irrealizzabile”, almeno per quanto riguarda il capitolo energetico. Lo afferma l’Istituto di economia energetica e analisi finanziaria (IEEFA), organizzazione statunitense con sede in Ohio, nell’analisi dell’intesa politica raggiunta tra Ue e Usa. Perché l’Ue possa tenere fede agli impegni assunti l’unica alternativa è dare un calcio al Green Deal e ad ogni ambizione di sostenibilità, poiché “aumentare drasticamente le importazioni di gas naturale liquefatto (Gnl) per soddisfare l’accordo è irrealizzabile“. Ciò perché “la domanda di gas in Europa è in calo e il mercato difficilmente riuscirà ad assorbire i volumi in eccesso”, denuncia l’istituto americano.Anche ammettendo che l’Ue possa sviluppare in così poco tempo una capacità di assorbimento di una risorsa energetica per cui non c’è mercato, il club a dodici stelle dovrebbe comunque investire massicciamente sui combustibili fossili, principali responsabili dei gas a effetto serra alla base del surriscaldamento planetario. Sulla base dei prezzi del 2024 e mantenendo la stessa proporzione di prodotti energetici acquistati dagli Stati Uniti rispetto alle importazioni totali di energia, l’IEEFA stima che l‘Ue “dovrà triplicare le sue importazioni di petrolio, carbone e GNL dagli Stati Uniti nel 2025 per rispettare l’impegno”. Petrolio e carbone, esattamente la ricetta opposta a quella contenuta nel Green Deal europeo.C’è anche una questione geo-strategica che rende l’accordo Ue-Usa insostenibile per gli europei. “Il progetto dell’Ue di acquistare 250 miliardi di dollari di energia americana all’anno rischia di creare un’eccessiva dipendenza da un unico fornitore”, viene messo in risalto. La versione della Commissione europea secondo cui questo accordo aiuta a svincolarsi del tutto dal fornitore russo di energia, tace sul fatto che l’Europa si sta consegnando agli Stati Uniti.  L’Istituto di economia energetica e analisi finanziaria ha fatto il calcoli: per rispettare l’accordo per la parte energetica “costringerebbe l’Ue a dipendere dagli Stati Uniti per il 70 per cento delle sue importazioni energetiche“.

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    Mattarella, Tajani e Crosetto nella lista dei “russofobi” stilata dal Cremlino, richiamato l’ambasciatore russo a Roma

    Bruxelles –E’ crisi diplomatica tra Italia e Russia, con il governo di Roma che richiama l’ambasciatore russo dopo che il capo dello Stato Sergio Mattarella è finito in una lista nera del Cremlino dove sono elencati funzionari occidentali “russofobi”. Un’iniziativa cui segue unanime condanna del mondo politico nostrano.La narrativa russa e la propaganda putiniana passano anche per la compilazione di liste di personalità e profili non graditi allo zar come che quella fa infuriare le autorità italiane. L’ultimo elenco delle personalità non gradite al Cremlino colpisce quanti sono accusati di usare un linguaggio “odioso” e “russofobo” nelle loro apparizioni pubbliche, incluso il presidente della Repubblica italiana, Sergio Mattarella, appunto.Lo scorso 24 luglio, il nome dell’inquilino del Quirinale è stato inserito nella lista di proscrizione del Cremlino insieme a quelli del ministro degli Esteri Antonio Tajani e del responsabile della Difesa Guido Crosetto, scatenando le reazioni bipartisan della politica italiana.La premier Giorgia Meloni ha derubricato l’accaduto come “l’ennesima operazione di propaganda” russa, mentre oggi (30 luglio) il titolare della Farnesina ha convocato l’ambasciatore della Federazione a Roma, definendo la mossa “una provocazione contro la Repubblica e il popolo italiano“. Per Nicola Zingaretti, capopattuglia del Partito democratico all’Eurocamera di Strasburgo, si tratta di “un atto grave e inaccettabile” che configura “un attacco ai valori democratici e alle istituzioni che difendiamo con fermezza”.Il ministro degli Esteri italiano Antonio Tajani (foto: Sara Minelli via Imagoeconomica)All’origine dell’iscrizione in questo elenco c’è un passaggio del discorso tenuto dal capo dello Stato lo scorso 5 febbraio all’università di Aix-Marseille. Nell’accettare un’onorificenza honoris causa, Mattarella ha ricordato come negli anni Trenta del Novecento si sia assistito ad “un progressivo sfaldarsi dell’ordine internazionale, che mise in discussione i principi cardine della convivenza pacifica, a cominciare dalla sovranità di ciascuna nazione nelle frontiere riconosciute“.Sottolineando come le “guerre di conquista” scaturite dal “criterio della dominazione” furono al centro del “progetto del Terzo Reich in Europa“, il presidente ha dichiarato che “l’odierna aggressione russa all’Ucraina è di questa natura“. La portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova, alzò la voce nei giorni successivi, bollando le osservazioni di Mattarella come “invenzioni blasfeme” e minacciando non meglio specificate “conseguenze”.Nella lista sono menzionati anche il suo omologo francese Emmanuel Macron, il cancelliere tedesco Friedrich Merz, l’Alta rappresentante per la politica estera dell’Ue, Kaja Kallas, e il Segretario generale della Nato Mark Rutte.

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    Anche Regno Unito e Malta verso il riconoscimento della Palestina. Dall’Onu la spinta per la soluzione a due Stati

    Bruxelles – Qualcosa, forse, si muove davvero sotto il cielo della diplomazia. Mentre volgeva al termine la conferenza Onu sulla Palestina, ieri sera anche il Regno Unito e Malta hanno annunciato che riconosceranno a breve lo Stato palestinese. La mossa del premier britannico sembra più una “minaccia” verso Israele che non una solida convinzione politica, ma potrebbe comunque produrre dei risultati.Erano in pochi ad aspettarsi l’annuncio fatto ieri sera (29 luglio) dal primo ministro di Sua Maestà, sir Keir Starmer, al termine di una riunione straordinaria del suo gabinetto sulla catastrofe umanitaria in corso nella Striscia di Gaza. L’inquilino di Downing Street ha dichiarato che “l’unico modo per porre fine a questa crisi umanitaria è attraverso un accordo a lungo termine“, sostenendo che “il nostro obiettivo rimane un Israele sicuro e protetto accanto a uno Stato palestinese sovrano e vitale, ma in questo momento tale obiettivo è sotto pressione come mai prima d’ora”.“Ora è il momento di agire“, ragiona Starmer, sulla scia della crescente pressione internazionale sullo Stato ebraico affinché fermi la strage di palestinesi che porta avanti da oltre 21 mesi (definita come genocidio dalle stesse ong israeliane) e faccia entrare nell’enclave costiera gli aiuti umanitari. “Vediamo bambini affamati, bambini troppo deboli per stare in piedi, immagini che rimarranno con noi per tutta la vita”, ha aggiunto.My statement on the humanitarian crisis in Gaza and our plan for peace including the recognition of a Palestinian State. pic.twitter.com/aMUCNwJb9z— Keir Starmer (@Keir_Starmer) July 29, 2025In realtà, il premier britannico ha posto la questione come una sorta di ultimatum al governo israeliano: Londra riconoscerà formalmente lo Stato palestinese “a meno che” Tel Aviv non adotti “misure concrete” per cessare immediatamente le ostilità a Gaza. L’autodeterminazione di un popolo e la sovranità di una nazione usati come minacce, insomma, anziché venire trattati con la dignità che, almeno teoricamente, prescrive il costume diplomatico.Sia come sia, la mossa di Starmer – che ha ceduto al fuoco di fila del suo esecutivo e di centinaia di deputati perché seguisse l’esempio di Emmanuel Macron – segnala comunque un importante cambio di passo del Regno Unito, che potrebbe diventare il secondo Paese G7 a muoversi in questa direzione.Dopo Parigi e Londra, anche La Valletta è salita sul carro. Intervenendo sui social, il primo ministro Robert Abela ha anticipato che anche Malta riconoscerà lo Stato palestinese alla prossima Assemblea generale delle Nazioni Unite, in calendario dal 9 al 23 settembre.Immediata risposta del governo israeliano, col primo ministro Benjamin Netanyahu che grida all’appeasement e parla dell’ennesima “ricompensa per Hamas“. Un disco rotto che gracchia ogni qualvolta qualcuno prenda posizione a favore della causa palestinese, dei diritti umani e del diritto internazionale e contro i crimini ingiustificabili perpetrati da Israele (valsi al premier un mandato di cattura della Corte penale internazionale).Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu (foto: Menahem Kahana/Afp)Ma nelle ultime settimane lo Stato ebraico sembra sempre più isolato, criticato aspramente anche dai suoi storici alleati. Mentre in Ue le cancellerie dei Ventisette discutono sulla sospensione parziale dei fondi Horizon+ proposta dalla Commissione, i Paesi Bassi hanno bandito dal loro territorio Bezalel Smotrich e Itamar Ben-Gvir, due ministri estremisti del sesto gabinetto Netanyahu.Giusto ieri, Smotrich ha ventilato la possibilità di costruire nuovi insediamenti a Gaza a guerra terminata, dando per scontato che Tel Aviv riprenderà il controllo della Striscia abbandonata nel 2005. La Knesset (il Parlamento monocamerale israeliano) ha recentemente approvato una mozione non vincolante sull’annessione della Cisgiordania. Su entrambi questi territori dovrebbe sorgere il futuro Stato palestinese, attualmente riconosciuto da 147 Paesi sui 193 membri dell’Onu (inclusi 11 Paesi dell’Ue) ma nessun membro del G7.E proprio al Palazzo di vetro dell’Onu si conclude oggi la conferenza internazionale sulla Palestina, sponsorizzata da Francia e Arabia Saudita. Nella “dichiarazione di New York” sottoposta alle delegazioni dei governi mondiali si propongono “misure concrete, vincolate da scadenze temporali e irreversibili” per l’attuazione della soluzione a due Stati, a partire dal cessate il fuoco. L’Autorità nazionale palestinese (Anp) dovrà poi gestire la transizione verso uno Stato di Palestina sovrano e indipendente, che viva in pace affianco a Israele, anche grazie ad una missione internazionale di peacekeeping.

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    I Ventisette sono divisi sulla sospensione dei fondi Horizon per Israele

    Bruxelles – Mentre si moltiplicano le accuse di genocidio nei confronti del governo di Benjamin Netanyahu, responsabile della carneficina in corso da oltre 21 mesi nella Striscia di Gaza, l’Unione europea fa fatica a mettere in campo azioni concrete per mettere pressione sull’alleato mediorientale. Gli Stati membri hanno discusso la proposta della Commissione di sospendere parzialmente i fondi Horizon+, il programma Ue che finanzia la ricerca accademica e industriale dentro e fuori l’Ue, ma sono già emerse divisioni.L’operato del governo di Benjamin Netanyahu (dallo scorso novembre ricercato dalla Corte penale internazionale per crimini di guerra e contro l’umanità) sta ricevendo critiche sempre più pesanti sia dai partner internazionali di Tel Aviv – persino Donald Trump ha espresso dubbi sulle più recenti mosse dell’alleato mediorientale – sia dalle stesse ong israeliane, che ora parlano apertamente di genocidio contro i palestinesi di Gaza.Eppure, nonostante si proclami paladina dei diritti e del diritto, l’Ue non è ancora riuscita ad adottare misure concrete e realmente efficaci nei confronti dello Stato ebraico, per indurlo a porre fine alla strage dei palestinesi nell’enclave costiera. Un mese fa, il Servizio europeo di azione esterna (Seae) ha certificato la violazione dell’articolo 2 dell’accordo di associazione Ue-Israele, che prescrive il rispetto dei diritti umani fondamentali e del diritto internazionale da parte di Tel Aviv.Le macerie dopo l’attacco israeliano a Jabalia, nel nord della Striscia di Gaza, il 10 novembre 2024 (foto: Omar Al-Qattaa/Afp)Il rapporto è arrivato mentre era già in corso il processo di revisione dell’accordo in questione. Come reazione a quella rilevazione, l’esecutivo a dodici stelle ha approvato ieri sera (28 luglio) una proposta interpretata soprattutto come un segnale politico, cioè la sospensione parziale dei fondi erogati a Israele nel quadro del programma Horizon+, con cui Bruxelles sostiene la ricerca accademica e industriale negli Stati membri e in alcuni Paesi terzi.Più che una dura sanzione, tuttavia, appare poco più che una misura cosmetica: se non altro perché, come confermano i funzionari del Berlaymont, non vengono toccati i fondi già stanziati nell’attuale bilancio comunitario per i progetti attualmente in corso, ma si parlerebbe di uno stop a partire dal 2028. Difficile vedere come Tel Aviv possa sentirsi sotto pressione per porre fine alle ostilità fin da ora.Oggi gli ambasciatori dei Ventisette hanno fatto un primo giro di tavolo per avviare la discussione sul tema, ma si sono già registrate le consuete divisioni. Stando a fonti comunitarie, un gruppo di Paesi, guidato dalla Germania, starebbe tirando il freno mentre almeno una decina sarebbe favorevole allo stop. Per approvarlo serve la maggioranza qualificata: almeno il 55 per cento degli Stati membri che rappresentino almeno il 65 per cento della popolazione Ue.La presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen (foto: Alexandros Michalidis via Imagoeconomica)Se mai questa verrà raggiunta, il divieto si applicherà alle aziende basate nello Stato ebraico che lavorano ad innovazioni dirompenti e tecnologie emergenti con potenziali applicazioni a duplice uso, alle quali non sarà concesso di chiedere sovvenzioni a Bruxelles nell’ambito del cosiddetto Acceleratore del Consiglio europeo dell’innovazione.L’esecutivo comunitario stima che, se lo stop fosse stato attivo già per l’attuale periodo di bilancio (2021-2027), i fondi “congelati” per Israele ammonterebbero oggi intorno ai 200 milioni di euro, cioè circa il 22 per cento dei 900 milioni che Tel Aviv ha ricevuto dal programma Horizon+ in cinque anni.La Commissione parla di una “misura appropriata e proporzionata” e sottolineano che si percepisce una “urgenza speciale” di reagire alla crescente devastazione a Gaza. Non ci sono precedenti storici analoghi di sospensioni totali o parziali dei fondi Horizon+. I casi di Regno Unito e Svizzera – che hanno visto chiudersi i rubinetti rispettivamente tra il 2020 e il 2023 e tra il 2021 e il 2024 – sono diversi perché quei congelamenti erano avvenuti mentre Londra e Berna non erano formalmente associate al programma.

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    Gaza, ora anche le ong israeliane accusano Tel Aviv di genocidio

    Bruxelles –  Dopo oltre 21 mesi di crimini di guerra commessi dall’esercito di Tel Aviv nella Striscia di Gaza, sono adesso le stesse ong israeliane a parlare esplicitamente di genocidio per descrivere l’immane massacro della popolazione palestinese orchestrato da Benjamin Netanyahu. Su tutte, è B’Tselem a inchiodare le autorità dello Stato ebraico alle proprie responsabilità, attraverso un elenco delle gravissime violazioni compiute ai danni dei gazawi sin dall’ottobre 2023.Non usa mezzi termini l’ong israeliana B’Tselem, che nelle scorse ore ha pubblicato un rapporto destinato a fare molto rumore, fuori e dentro lo Stato ebraico, dal titolo inequivocabile: “Il nostro genocidio“. Nelle 88 pagine della relazione viene accuratamente documentata una lunga serie di sistematiche violazioni dei diritti umani fondamentali e del diritto internazionale, perpetrate da Israele ai danni della popolazione palestinese nell’enclave costiera dove da quasi due anni si sta consumando una delle campagne militari più sanguinose della storia recente.La distruzione nel campo rifugiati palestinese di Nuseirat, nella Striscia di Gaza (foto: Eyad Baba/Afp)“Un’analisi della politica di Israele nella Striscia di Gaza e dei suoi terribili risultati, insieme alle dichiarazioni di alti funzionari politici e comandanti militari israeliani sugli obiettivi dell’attacco, porta alla conclusione inequivocabile che Israele sta intraprendendo un’azione coordinata e deliberata per distruggere la società palestinese“, sostiene l’associazione. Il tutto, peraltro, trasmesso quotidianamente in diretta sui social e sui mezzi d’informazione di tutto il mondo, almeno finché sopravvivono ancora giornalisti sul campo.In altre parole, dice B’Tselem, “Israele sta commettendo un genocidio contro i palestinesi nella Striscia di Gaza“, come reso evidente dal combinato disposto di “uccisioni di massa, sia dirette sia attraverso la creazione di condizioni di vita insostenibili, gravi danni fisici e mentali ad un’intera popolazione, distruzione delle infrastrutture di base in tutta la Striscia e lo sfollamento forzato su vasta scala, con la pulizia etnica che si aggiunge alla lista degli obiettivi di guerra ufficiali” del gabinetto guidato da Benjamin Netanyahu (sul cui capo pende un mandato di cattura spiccato lo scorso novembre dalla Corte penale internazionale).Ci sono poi “gli arresti di massa e gli abusi sui palestinesi nelle prigioni israeliane, che sono diventate di fatto campi di tortura, e lo strappo del tessuto sociale di Gaza, compresa la distruzione delle istituzioni educative e culturali palestinesi”, continua il rapporto. Il tutto, afferma l’ong, risulta in un deliberato “attacco all’identità stessa dei palestinesi“, dal momento che la risposta di Tel Aviv agli attacchi di Hamas del 7 ottobre 2023 si è trasformata in uno strumento di punizione collettiva del popolo palestinese, un altro reato proibito dal diritto internazionale.Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu (foto: Shaul Golan/Afp)L’Encyclopaedia Britannica definisce il genocidio come “la distruzione deliberata e sistematica di un gruppo di persone a causa della loro etnia, nazionalità, religione o razza“. La Convenzione sulla prevenzione e la punizione del crimine di genocidio è stata siglata in sede Onu nel 1948 ed è entrata in vigore nel 1951. Attualmente, ne fanno parte 149 Stati, tra cui tutti i 27 dell’Unione europea.Il termine è stato coniato durante la Seconda guerra mondiale dal giurista polacco di origini ebree Raphael Lemkin, per designare il tentativo scientifico di eliminare gli ebrei europei da parte del Terzo Reich di Adolf Hitler. Tra gli esempi storici più noti di genocidio (considerato “il crimine dei crimini”) c’è quello perpetrato ai danni degli armeni in Turchia a inizio Novecento, quello degli ucraini orchestrato dalla dirigenza sovietica nel 1932-1933 (l’Holodomor) e quello dei bosgnacchi a Srebrenica del 1995, di cui quest’anno è stato ricordato il 30esimo anniversario.“L’attuale offensiva contro il popolo palestinese, compresa la Striscia di Gaza, deve essere compresa nel contesto di oltre settant’anni in cui Israele ha imposto un regime violento e discriminatorio ai palestinesi“, spiega B’Tselem, riprendendo un suo precedente rapporto, risalente al 2021, in cui accusava lo Stato ebraico di aver messo in piedi un sistema di apartheid in piena regola non solo nei territori occupati – l’enclave costiera e la Cisgiordania, inclusa Gerusalemme est (cioè i martoriati pezzi di terra sui quali dovrebbe sorgere il futuro Stato di Palestina, del cui riconoscimento si sta parlando proprio in questi giorni al Palazzo di vetro dell’Onu) – ma in tutta l’area compresa tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo.Il memoriale del genocidio di Srebrenica, in Bosnia-Erzegovina (foto: Elvis Barukcic/Afp)La voce autorevole di B’Tselem si aggiunge così ad un lungo elenco di allarmi che si stanno susseguendo negli ultimi anni a proposito della carneficina portata avanti da Tel Aviv nella Striscia, ma (in coppia con quella dell’associazione di medici Physicians for human rights) acquisisce una rilevanza particolare proprio perché proviene dall’interno di Israele. L’ong londinese Amnesty international parla di genocidio fin dal dicembre 2024.A gennaio 2024, quando la campagna israeliana nella Striscia era in corso “solo” da tre mesi, la Corte internazionale di giustizia aveva già lanciato un altolà al governo di Netanyahu sulla possibile commissione del crimine di genocidio, a partire dall’accusa del Sudafrica. Ad aprile dello stesso anno è stata la relatrice Onu per i diritti umani nei territori palestinesi occupati, Francesca Albanese, a puntare il dito contro le ingiustificabili violazioni di Tel Aviv (una mossa che le è valsa l’imposizione di sanzioni da parte degli Stati Uniti di Donald Trump).Recentemente, la coalizione di giuristi Jurdi ha ricordato alle istituzioni comunitarie che, coi loro silenzi e le loro inerzie, si stanno di fatto rendendo complici di una delle peggiori catastrofi umanitarie degli ultimi decenni. Tutto quello che Bruxelles è riuscita a fare in oltre 21 mesi di eliminazione deliberata di un popolo da parte di una potenza alleata, nonostante abbia certificato nero su bianco le violazioni dei diritti umani di cui quest’ultima si è resa responsabile, è stato aprire la revisione dell’accordo di associazione Ue-Israele e proporre la sospensione parziale dei fondi Horizon+ per la ricerca a partire dal 2028.