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    Sul tavolo per il futuro di Gaza la carta dell’UE si chiama Autorità Palestinese

    Bruxelles – Domani (20 novembre) si terrà a Bruxelles la prima riunione del Gruppo di donatori per la Palestina, un’iniziativa annunciata da Ursula von der Leyen a settembre e che ora – alla luce della risoluzione del Consiglio di sicurezza ONU sul piano di pace per Gaza – acquisisce una nuova centralità. La conferenza non raccoglierà nuovi impegni finanziari, né si concentrerà sulla ricostruzione della Striscia. Sarà invece, spiegano funzionari europei, una “piattaforma per l’Autorità Palestinese”.Ramallah potrà fare il punto sul suo percorso di riforma, elemento chiave per un futuro passaggio di consegne nel governo di Gaza e per la fondazione di uno Stato palestinese. “Finora l’Autorità Palestinese (AP) non ha avuto la possibilità di esprimersi”, sottolineano a Bruxelles. Il piano trumpiano è stato partorito senza coinvolgere Ramallah, così come la risoluzione ONU redatta da Washington e avallata dai Paesi arabi.In questo passaggio, previsto nel penultimo dei 20 punti del piano di pace, l’Unione europea rivendica un ruolo centrale, forte di un “partenariato unico” con l’AP, consolidato lo scorso aprile con un pacchetto da 1,6 miliardi di euro in tre anni vincolato all’attuazione di una serrato programma di modifiche istituzionali, amministrative, finanziarie. La riforma dell’Autorità Palestinese “è un esercizio in comproprietà”, rivendicano fonti UE, e Bruxelles è “il miglior attore per accompagnare l’AP in questo processo”.Il premier palestinese, Mohammad Mustafa, terrà una conferenza stampa congiunta con la commissaria UE per il Mediterraneo, Dubravka Suica. Sono attese a Bruxelles una sessantina di delegazioni, “tra le 20 e 25” a livello di ministri. Israele non è tra gli invitati, e “ci sono indicazioni che non avrebbero partecipato”, ammette un funzionario UE. D’altronde, nonostante il sostegno di massimo ribadito da Benjamin Netanyahu al piano di pace, persiste la “riluttanza” di Tel Aviv per il ruolo dell’Autorità Palestinese. Non è stata invitata nemmeno Francesca Albanese, la relatrice speciale delle Nazioni Unite per i territori palestinesi occupati, a Bruxelles in questi giorni per una serie di eventi. Ma Albanese incontrerà la Commissione europea “a livello della DG Mena (la direzione generale per il Medio Oriente, il Nord Africa e il Golfo, ndr)”, ha annunciato un funzionario.Il voto sul piano per Gaza al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (Photo by ANGELA WEISS / AFP)L’Unione europea, contemporaneamente, cerca di sviluppare la sua azione su altri binari. È presente nel centro di coordinamento civile-militare (CMCC), istituito in Israele e guidato dagli Stati Uniti, che si occupa di supervisionare il piano di pace e darne seguito. Della struttura fanno parte 200 funzionari – “quasi tutti militari”, spiegano le fonti -, incluso un team UE di 10 persone, con un diplomatico di alto livello, Christian Berger, del Servizio europeo di Azione esterna.Bruxelles tiene viva la possibilità di rilanciare le due missioni già dispiegate in passato nella regione: EUBAM Rafah, con cui facilita il transito di persone e merci al valico meridionale tra la Striscia di Gaza e l’Egitto, e EUPOL COPPS, l’operazione di addestramento delle forze di polizia palestinesi in Cisgiordania. L’UE punta ad allargare il mandato dei quest’ultima missione, per poter formare “almeno 3 mila” poliziotti della Striscia: “Sarà necessario stabilizzare Gaza con una forte forza di polizia – spiega un funzionario -, ci sono 7 mila poliziotti a Gaza, che sono ancora pagati dall’Autorità nazionale palestinese e, tra questi, circa 3mila potrebbero essere addestrati”. L’addestramento verrebbe effettuato fuori dall’exclave palestinese: “Stiamo discutendo con alcuni Paesi vicini”, confermano le fonti.Su altri due punti cruciali del piano di Trump, che dovranno prendere forma in questa “fase due”, molti dettagli restano ancora ignoti. Le Forze di Stabilizzazione Internazionale, il contingente militare che dovrà garantire la tenuta del cessate il fuoco e la sicurezza a Gaza in un primo momento, non faranno capo alle Nazioni Unite. E del Peace Board, l’organo che amministrerà fino al passaggio di consegne con l’Autorità Palestinese, l’unico nome che si conosce è quello di Trump, che lo presiederà. “Per il momento non ne facciamo parte, ma nessuno ne fa parte”, precisano le fonti. E “ovviamente pensiamo l’UE dovrebbe farne parte, dato il contributo che possiamo apportare al piano”.

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    Von der Leyen mette sul tavolo tre opzioni per garantire all’Ucraina 130 miliardi nel prossimo biennio

    Bruxelles – Un mese fa, i capi di stato e di governo dell’UE avevano tentennato di fronte alle mostruose necessità economiche dell’Ucraina nel prossimo biennio, e chiesto alla Commissione europea di studiare un ventaglio di opzioni per sostenerla. Oggi (17 novembre), in una lettera spedita alle capitali, Ursula von der Leyen ha messo sul tavolo tre opzioni. Prima, ha incontrato il premier belga, Bart De Wever, per provare a convincerlo che l’unica strada percorribile è quella di utilizzare gli asset congelati (in gran parte in Belgio) della Banca Centrale Russa. L’unica opzione che non graverebbe su bilanci nazionali già compromessi dopo tre anni di conflitto.Secondo le stime del Fondo Monetario Internazionale – e ipotizzando la fine della guerra entro la fine del 2026 -, attualmente Kiev ha da coprire un buco di circa 135,7 miliardi di euro per i prossimi due anni. Un gap da colmare immediatamente, perché l’Ucraina deve essere equipaggiata per “combattere questa sera”, ha sottolineato von der Leyen. Oltre ad essere tempestivo – la decisione va presa al più tardi entro la fine dell’anno -, il sostegno finanziario dovrebbe essere “altamente agevolato”, data “l’attuale situazione di sostenibilità del debito dell’Ucraina”, flessibile, e ripartito equamente tra gli Stati membri e con i partner internazionali.La prima opzione – la più diretta – prevederebbe che gli Stati membri versino sovvenzioni bilaterali all’Unione, che a sua volta procederebbe a un sostegno a fondo perduto all’Ucraina. Un’opzione – evidenzia la Commissione – che “non comporta nuove passività congiunte, non richiede garanzie o indennizzi supplementari”, ma che “ha un impatto immediato sui bilanci degli Stati membri”. Bisognerebbe fissare un obiettivo minimo di sostegno annuale di 45 miliardi di euro, con l’auspicio che i partner del G7 contribuiscano a finanziare il fabbisogno residuo. L’impatto rispettivo per i Paesi UE sarebbe compreso tra lo 0,16 e lo 0,27 per cento del PIL all’anno.Di spalle, Ursula von der Leyen, insieme ai capi di stato e di governo dell’UE al Consiglio europeo [foto: European Council]La strada alternativa è quella tortuosa di ricorrere al debito comune. Questa seconda opzione consisterebbe nella “concessione da parte dell’Unione di un prestito con ricorso limitato finanziato dall’Unione mediante prestiti sui mercati finanziari“, spiega il documento inviato alle cancellerie europee. Un prestito che l’Ucraina rimborserebbe solo nel caso di un risarcimento da parte della Russia, e che si reggerebbe su “garanzie giuridicamente vincolanti, incondizionate, irrevocabili e su richiesta”, fornite e distribuite tra gli Stati membri in base al loro Reddito Nazionale Lordo (RNL). Le capitali dovrebbero ripagarne gli interessi e – “nello spirito di ripartizione degli oneri” – aumentare proporzionalmente i propri contributi se qualcuno tra i 27 decidesse di tirarsi indietro.Anche in questo caso, gli interessi a carico degli Stati membri “inciderebbero direttamente sul loro disavanzo e sul loro debito“. Per non parlare delle stesse garanzie, anch’esse “suscettibili” di gravare sui bilanci nazionali. Una via d’uscita potrebbe essere che il prestito fosse garantito dal margine di manovra del bilancio dell’UE: in quel caso “non si prevederebbe alcun impatto di questo tipo”, rileva la Commissione. Per mettere a bilancio UE 90 miliardi di euro per i prossimi due anni – e la copertura degli interessi – bisognerebbe modificare il regolamento del Quadro Finanziario Pluriennale, che attualmente “non consente di contrarre prestiti per un Paese terzo”.Le barricate che diversi Paesi membri ergerebbero di fronte a queste due opzioni fanno propendere Bruxelles verso la terza e ultima carta, l’asso nella manica, per quanto rischiosa essa sia. Si tratta di un prestito finanziato con gli asset statali russi congelati sul territorio europeo, che ammontano a oltre 200 miliardi di euro. L’opzione è da mesi al vaglio degli esperti legali dell’esecutivo UE: l’Unione europea stipulerebbe un contratto di debito obbligatorio con i depositari centrali di titoli che detengono attività russe immobilizzate in “diversi Stati membri” a tasso zero, per poi prestare il contante all’Ucraina in diverse tranches. Kiev rimborserebbe il prestito solo una volta che la guerra sarà finita e che la Russia avrà pagato le riparazioni. Solo a quel punto, Bruxelles rimborserebbe a sua volta gli istituti finanziari.Bart De Wever e Ursula von der Leyen a palazzo Berlaymont, sede della Commissione europea, il 14 novembre 2025. (Photo by Nicolas TUCAT / AFP)Il terreno è scivoloso, l’UE rischierebbe “ripercussioni” se il prestito venisse “erroneamente percepito da altri come una confisca”. Dal punto di vista legale, ma anche economico: “Non si può escludere che vi siano potenziali effetti a catena, anche per i mercati finanziari“, ha ammesso ancora von der Leyen, ribadendo al contempo che “la struttura di questa opzione garantisce il pieno rispetto del diritto internazionale in tutti gli scenari”.Ma soprattutto, a livello interno, c’è da superare la strenua opposizione del Belgio, il Paese in cui risiede Euroclear, la società che detiene circa 185 miliardi di Mosca e che sta già utilizzando gli interessi generati da tali asset per sostenere un prestito separato di 45 miliardi di euro per l’Ucraina. Sarebbero gli Stati membri a garantire che l’Unione europea sia in grado di rimborsare Euroclear anche senza ricevere alcun pagamento compensativo da Kiev. “L’esatta portata della copertura del rischio dovrebbe essere definita al fine di garantire la necessaria protezione degli Stati membri esposti, nonché una certezza sufficiente per gli altri Stati membri che forniscono garanzie volontarie”, sottolinea il documento.Inoltre, “in considerazione della necessaria solidarietà tra gli Stati membri, le garanzie potrebbero anche dover coprire i costi e le conseguenze finanziarie derivanti da lodi arbitrali o altre decisioni o procedimenti giudiziari contro uno Stato membro derivanti dal congelamento dei beni sovrani russi”. E il prestito all’Ucraina “dovrebbe essere concepito in modo da preservare la stabilità finanziaria degli istituti finanziari che detengono le attività immobilizzate”.Von der Leyen, e con lei la quasi totalità degli Stati membri – fatta eccezione per chi si oppone in generale a nuovi finanziamenti all’Ucraina -, sperano di scalfire le resistenze belghe, perché quella di ricorrere alle risorse della Banca Centrale Russa è per molte cancellerie l’unica opzione percorribile. Anche perché, a differenza dell’indebitamento sui mercati, le garanzie dei Paesi membri sarebbero in questo caso considerate “come passività potenziali”, senza dunque incidere sui debiti nazionali.

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    Von der Leyen vuole scippare a Kallas l’intelligence europea

    Bruxelles – La Commissione europea ha avviato la creazione di un nuovo organismo di intelligence sotto la presidenza di Ursula von der Leyen. Il leak, diffuso questa mattina dal Financial Times, è già stato confermato da palazzo Berlaymont: il piano c’è, è già più di un’idea, anche se “ancora allo stadio embrionale”. L’obiettivo non è una novità, è quello di migliorare la condivisione e l’utilizzo delle informazioni raccolte dai servizi segreti nazionali. Ma si inscrive in una tendenza all’accentramento di potere nelle mani di von der Leyen, che svuoterebbe il Servizio di Azione esterna (SEAE) di un’altra delle sue prerogative.Secondo il quotidiano britannico, la mossa sarebbe osteggiata dagli alti funzionari del SEAE, all’interno del quale esiste già il Centro di situazione e di intelligence dell’Unione europea – l’INTCEN -, posto sotto la diretta autorità dell’Alto rappresentante per gli Affari esteri, oggi l’estone Kaja Kallas. Inoltre il piano – che mira a coinvolgere funzionari distaccati dalle agenzie di intelligence nazionali – non sarebbe stato ancora comunicato formalmente a tutti i 27 Stati membri, storicamente reticenti quando si tratta di investire nell’integrazione delle proprie agenzie di spionaggio. Due fonti avrebbero ammesso al Financial Times che con ogni probabilità le cancellerie europee si opporranno al progetto.“Siamo nella fase iniziale”, ha confermato oggi Balazs Ujvari, portavoce della Commissione europea, spiegando che “si sta valutando la creazione di una cellula dedicata all’interno del Segretariato Generale“, che “integrerà il lavoro della Direzione per la sicurezza della Commissione e collaborerà strettamente con i rispettivi servizi del Servizio europeo per l’azione esterna”. Qualche indicazione in più l’ha data Paula Pinho, portavoce capo dell’esecutivo: l’unità “sarà piuttosto piccola”, ha affermato, il numero di persone che ne faranno parte “sta più probabilmente in una mano che in due o tre”, e punta a “rafforzare le strutture che già esistono” nel SEAE.La presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, e l’Alta rappresentante per gli Affari esteri, Kaja Kallas [Credits: European Commission]La condivisione di informazioni di intelligence è un argomento estremamente delicato per i Paesi membri. D’altra parte, le operazioni di guerra ibrida condotte da Russia e Bielorussia contro il blocco UE e la minaccia di disimpegno americano dal continente europeo – Trump questa primavera aveva sospeso temporaneamente il supporto di intelligence all’Ucraina -, rivelano l’urgenza di migliorare la risposta a livello UE. “I servizi segretidegli Stati membri dell’Ue sanno molto. La Commissione sa molto. Abbiamo bisogno di un modo migliore per mettere insieme tutte queste informazioni ed essere efficaci e utili ai nostri partner. Nel campo dell’intelligence, per ottenere qualcosa bisogna dare qualcosa in cambio”, ha confidato una fonte al quotidiano britannico.Parallelamente, da quando Josep Borrell ha lasciato a Kaja Kallas la guida del SEAE, von der Leyen ha rosicchiato a poco a poco diverse competenze al capo della diplomazia UE, responsabile insieme agli Stati membri della politica estera dell’Unione. Ha nominato un commissario per la Difesa all’interno del suo collegio e ha creato una Direzione generale per il Mediterraneo che spazia fino al Golfo persico, a capo della quale ha messo Stefano Sannino, ex Segretario generale del Servizio europeo per l’azione esterna. Spostare al Berlaymont anche il servizio di intelligence sarebbe un ulteriore passo nella definizione del ‘gabinetto di guerra’ di von der Leyen. L’unica donna al comando.

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    Atrocità e uccisioni di massa in Sudan, la crisi umanitaria più grave al mondo precipita ancora

    Bruxelles – Non c’è pace in Sudan, dove il conflitto in corso da due anni e mezzo sta toccando in queste ore un nuovo apice. Da El Fasher, capitale della regione del Darfur settentrionale, giungono notizie di uccisioni sommarie e atrocità da parte delle Forze di Supporto Rapido (RSF), il corpo paramilitare che si oppone all’esercito regolare e che ha preso il controllo della città dopo 18 mesi di logorante assedio. Le Forze congiunte – fedeli alla capitale Khartoum – hanno denunciato più di 2 mila esecuzioni di civili disarmati negli ultimi giorni.In un comunicato, l’Ufficio per i diritti umani delle Nazioni Unite ha affermato di aver ricevuto “numerose segnalazioni allarmanti” di crimini e violenze commesse dalle RSF a El Fasher e nella città di Bara, nello Stato del Kordofan settentrionale, nei giorni scorsi. Già lunedì Volker Türk, capo dell’Ufficio dell’Onu, aveva lanciato l’allarme per il rischio crescente di “violazioni e atrocità motivate da ragioni etniche” a El Fasher. Nella primavera del 2023, dopo aver conquistato la città di Geneina, nel Darfur occidentale, le RSF uccisero fino a 15 mila civili, per lo più appartenenti a gruppi non arabi.La situazione sul terreno è confusa, le notizie difficilmente verificabili, ma diversi filmati diffusi da attivisti locali nella città mostrano persone morte a terra e spari contro gruppi di civili disarmati. Le comunicazioni satellitari Starlink – l’unica rete funzionante – sono state interrotte, lasciando la città in un “blackout totale”, secondo il Sindacato dei giornalisti sudanesi.Tra le segnalazioni ricevute dall’UNHCR, “esecuzioni sommarie di civili che tentavano di fuggire, con indicazioni di motivazioni etniche per le uccisioni”, “violenza sessuale diffusa contro donne e ragazze da parte di gruppi armati insieme a notizie di esecuzioni raccapriccianti a El Fasher”. Domenica 26 ottobre le RSF avevano dichiarato di aver espugnato la base militare principale dell’esercito nella città e di aver “esteso il controllo sulla città di El Fasher”. Il capo dell’esercito sudanese, il generale Abdel Fattah al-Burhan, ha confermato lunedì che le truppe governative si sono ritirate “in un luogo più sicuro”.Negli ultimi mesi El Fasher era diventata uno dei principali fronti della guerra civile in corso tra la giunta militare e le RSF, guidate da Mohamed Hamdan Dagalo. Dall’inizio del conflitto, secondo l’Onu più di un milione di persone sarebbero fuggite dalla città e circa 260 mila sarebbero rimaste intrappolate all’interno, senza aiuti umanitari, strette dall’assedio e logorate dai combattimenti. Da domenica, più di 26 mila sarebbero riuscite a scappare, carcando rifugio nelle periferie o verso Tawila, a circa 70 chilometri.La lotta di potere tra le due branche dell’esercito ha innescato una delle crisi umanitarie più gravi della storia recente, in cui più di 150 mila persone sono rimaste uccise oltre 14 milioni di civili sono stati sfollati. Sia l’esercito della capitale sia le RSF sono accusate di crimini di guerra, per aver deliberatamente preso di mira i civili e bloccato gli aiuti umanitari. Già nell’ottobre 2023, l’Unione europea aveva istituito un regime di sanzioni dedicato alla crisi sudanese, inserendo nella lista individui ed entità che facevano capo ad entrambe le parti in guerra.La commissaria europea per la gestione delle crisi, Hadja Lahbib, ha scritto su X che “l’incubo a El Fasher sta raggiungendo il suo apice. I civili vengono uccisi. Le famiglie sono costrette a fuggire dalla violenza delle Fsr (Forze di sostegno rapido). Ricordiamo alle parti in conflitto il loro obbligo di rispettare il diritto internazionale umanitario. I civili devono essere protetti e beneficiare di un passaggio sicuro».Questa mattina, un portavoce della Commissione europea ha espresso “seria preoccupazione per l’intensificarsi delle ostilità a El Fasher”, ricordando che “per oltre 18 mesi, i civili sono stati sottoposti a un assedio imposto dalle Forze di supporto rapido, che ha portato a carenze croniche di cibo, acqua e assistenza medica, mentre sono esposti a bombardamenti costanti”. La Commissione europea, che negli ultimi due anni ha mobilitato più di 300 milioni di euro per l’emergenza umanitaria in Sudan, ha invitato “tutte le parti in conflitto a ridurre l’escalation della situazione, in conformità con la Risoluzione 2736 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite”, che nel giugno 2024 chiedeva di fermare l’assedio di El Fasher e di cessare i combattimenti, oltre a chiedere ad entrambe le parti di rispettare il diritto umanitario internazionale.D’altra parte la stessa UE negli anni è stata accusata da diverse inchieste e testimonianze di aver arricchito indirettamente le casse delle RSF: attraverso il cosiddetto Processo di Khartoum, il patto che nel 2014 impegnò lo Stato africano a combattere la migrazione illegale in direzione dell’Europa in cambio di finanziamenti per lo sviluppo, l’UE avrebbe versato decine di milioni di euro proprio alle milizie, che all’epoca facevano della gestione della migrazione un business con cui finanziarsi e rafforzare la loro spesa militare.La conquista dell’ultima grande città del Darfur controllata dall’esercito, conferisce ora al gruppo paramilitare delle RSF il controllo su tutte e cinque le capitali degli Stati del Darfur e potrebbe segnare una svolta significativa nella guerra. L’esercito regolare è escluso in sostanza da circa un terzo del territorio sudanese.

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    Pronto il 19esimo pacchetto di sanzioni Ue alla Russia. Von der Leyen: “Le minacce aumentano, aumentiamo la pressione”

    Bruxelles – Energia, banche e criptovalute. Nel 19esimo pacchetto di sanzioni europee alla Russia c’è tutto quello che Ursula von der Leyen aveva anticipato pochi giorni fa al presidente statunitense Donald Trump, a partire dal cambio di marcia verso l’abbandono del gas naturale liquefatto russo. “Negli ultimi mesi la Russia ha dimostrato tutto il suo disprezzo per la diplomazia e il diritto internazionale”, ha affermato la leader Ue. Oltre ai pesanti raid su abitazioni civili e edifici governativi in Ucraina, il presunto disturbo al Gps dell’aereo della presidente della Commissione europea e le violazioni dello spazio aereo polacco e rumeno.Se “le minacce alla nostra Unione aumentano, noi rispondiamo aumentando la pressione”, ha proseguito von der Leyen. Alla fine, la stretta sugli import energetici dalla Russia arriva: “È ora di chiudere il rubinetto. Siamo pronti a farlo. Abbiamo risparmiato energia, diversificato le forniture e investito in fonti a basse emissioni di carbonio come mai prima d’ora”, ha assicurato la leader rivelando il divieto di importazione di GNL russo a partire dal primo gennaio 2027. Un anno prima dunque, rispetto al calendario previsto da REPowerEU.In più, von der Leyen ha annunciato l’abbassamento al tetto sul prezzo del petrolio russo a 47,6 dollari al barile. L’Unione stringe le maglie sulle principali compagnie energetiche del Cremlino: Rosneft e Gazprom Neft saranno “soggette al divieto totale di transazioni“, mentre saranno congelati i beni sul territorio europeo a “raffinerie, commercianti di petrolio e società petrolchimiche nei Paesi terzi, compresa la Cina”. Nella lista nera dell’Ue finiscono altre 118 navi della flotta fantasma con cui il Cremlino aggira le sanzioni sul greggio. In totale, Bruxelles ha individuato e sanzionato oltre 560 imbarcazioni.La seconda traccia seguita dalla Commissione europea sono le “scappatoie finanziarie utilizzate da Mosca per eludere le sanzioni”. E dunque, divieti di transazioni per altre banche in Russia e in Paesi terzi e “per la prima volta le nostre misure restrittive colpiranno le piattaforme per le criptovalute“. Infine, come sottolineato dall’Alta rappresentante Ue per gli Affari esteri, Kaja Kallas, “dobbiamo interrompere le forniture all’industria militare russa, in modo che non possa alimentare la sua macchina da guerra”. Il 19esimo pacchetto aggiunge ulteriori prodotti chimici, componenti metallici, minerali ai divieti di esportazione. “Stiamo rafforzando i controlli sulle esportazioni verso entità russe, cinesi e indiane“, ha spiegato Kallas: nell’elenco delle misure restrittive finiscono 45 nuove società in Russia e in Paesi terzi. “Il nostro messaggio è chiaro: chi sostiene la guerra della Russia e cerca di eludere le nostre sanzioni ne subirà le conseguenze”, ha proseguito il capo della diplomazia europea.Parallelamente, von der Leyen ha annunciato che “presto” la Commissione europea presenterà una proposta per l’utilizzo dei profitti generati dagli asset russi congelati in Ue per finanziare la spesa militare dell’Ucraina. La presidente della Commissione europea si è rivolta alle capitali: “Conto ora su di voi per un’adozione rapida del pacchetto”.

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    Ucraina, si prepara un trilaterale Putin-Trump-Zelensky. Snobbata la Commissione Ue

    Bruxelles – Un vertice a tre – Stati Uniti, Russia, Ucraina – per discutere di cessate il fuoco e condizioni di pace duratura tra gli eserciti di Mosca e Kiev. Un’iniziativa diplomatica tutta russo-americana, con la Commissione europea tagliata fuori. Il presidente statunitense Donald Trump tiene contatti con il presidente russo Vladimir Putin, il Cremlino annuncia un possibile summit nei prossimi giorni, senza però fornire né data né dettagli, e l’inquilino della Casa Bianca informa i leader europei ma non la presidente dell’esecutivo comunitario.A Bruxelles fanno finta di niente. E’ vero, riconosce la vicecapo portavoce Arianna Podestà, che von der Leyen “non era parte delle telefonate” e quindi non è stata informata direttamente e, sì, la presidente dell’esecutivo comunitario “è stata aggiornata da alcuni leader” europei, ma non si drammatizza. “Non vediamo come potremmo essere delusi per qualcosa che non è stato ancora deciso”.La Commissione europea non è stata dunque considerata, neppure nella persona di Kaja Kallas, Alta rappresentante per la politica estera e di sicurezza dell’Ue. Anitta Hipper, portavoce proprio di Kallas, tira dritto: “Ogni forma di pressione è benvenuta, così come è benvenuta ogni iniziativa che va nella direzione di un cessate il fuoco credibile e duraturo”. Certo è che l’Ue non è stata considerata. Nell’Europa degli Stati, per di più senza una politica estera comune, la Commissione resta marginale.

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    L’intesa Ue-Israele sugli aiuti a Gaza è decisamente vaga. E salva gli interessi (e la faccia) dei 27

    Bruxelles – Il coniglio dal cilindro con cui l’Alta rappresentante Ue per gli Affari esteri, Kaja Kallas, ha risparmiato a Bruxelles la figuraccia di non riuscire a imporre sanzioni contro Israele, rischia nel medio termine di mettere ancor più in imbarazzo le istituzioni europee. I termini dell’accordo – o meglio, l’intesa – raggiunta il 10 luglio con Tel Aviv perché si impegni ad un aumento “sostanziale” degli aiuti umanitari a Gaza non sono stati resi noti e i 27 non torneranno sull’argomento almeno fino a fine agosto. Tra il 9 e il 16 luglio,  secondo i numeri riportati dall’Ufficio dell’Onu per il Coordinamento degli Affari Umanitari (OCHA), sono stati uccisi più di 600 cittadini palestinesi nella Striscia.A quanto si apprende, Kallas ha intavolato le discussioni con le controparti israeliane non appena – lo scorso 23 giugno – è stato diffuso il rapporto del Servizio europeo di Azione esterna che certificava il mancato rispetto da parte di Israele dell’Accordo di associazione con l’Ue a causa delle violazioni dei diritti umani a Gaza. Un team di esperti, coordinato dal Rappresentante speciale Ue per il processo di pace in Medio Oriente, Cristophe Bigot, si sarebbe recato due volte in Israele. L’obiettivo: strappare un’intesa che permettesse a Bruxelles di dimostrare il proprio peso e contemporaneamente di non andare avanti sulla strada delle sanzioni contro l’alleato mediorientale.L’Ue avrebbe messo sul tavolo le richieste pervenute da diverse agenzie delle Nazioni Unite (Undp, Wfp, Unicef) e dai partner umanitari. Prima di tutto, l’esclusione della controversa Gaza Humanitarian Foundation dalle operazioni. E poi, le riaperture di diversi varchi – soprattutto nel nord – e corridoi per la distribuzione, l’aumento massiccio di ingressi di convogli con aiuti umanitari e alimenti, la ripresa delle forniture di carburante, la riparazione delle infrastrutture vitali, la protezione degli operatori umanitari.L’Alta rappresentante Ue per la politica estera, Kaja Kallas, al Consiglio Affari Esteri il 15/07/25 (foto: Consiglio europeo)La stessa Kallas, a margine del Consiglio Affari Esteri del 15 luglio, si è appigliata ai “segnali positivi” che arrivano dalla Striscia per spiegare il congelamento di tutte le dieci misure – economiche e politiche – presentate ai ministri per dare seguito alla revisione dell’Accordo di associazione. “Vediamo entrare più camion e rifornimenti, più varchi aperti e riparazioni alle linee elettriche”, aveva dichiarato il capo della diplomazia Ue.Bruxelles sta monitorando l’attuazione dell’intesa, lavorando attivamente con le agenzie Onu presenti sul campo. Non essendo presente né ai valichi di frontiera né all’interno della Striscia, deve fare affidamento sui loro rapporti, su quelli egiziani e giordani, oltre che su quanto sosterrà di aver fatto Israele stesso. L’intenzione è riferire numeri e avanzamenti nell’attuazione ai Paesi membri ogni due settimane. A quanto si apprende, il primo aggiornamento è previsto per la prossima settimana.I termini dell’intesa restano però off-limits. Prima del 10 luglio, i camion di aiuti umanitari delle Nazioni Unite e delle Ong che entravano a Gaza ogni giorno erano meno di 20. In questi giorni, la media si attesterebbe intorno agli 80. L’accordo tra Kallas e l’omologo israeliano, Gideon Sa’ar, ne prevederebbe una cifra maggiore. Prima del 7 ottobre, ogni giorno entravano a Gaza circa 500 camion carichi di generi alimentari, carburante, aiuti umanitari.Volontari palestinesi fanno la guardia per prevenire assalti su convogli umanitari al valico di Zikim (Photo by Bashar TALEB / AFP)Secondo l’ultimo rapporto pubblicato da OCHA, relativo alla settimana dal 9 al 16 luglio, le autorità israeliane “hanno consentito l’ingresso di due camion di carburante al giorno per cinque giorni alla settimana, attraverso il valico di Kerem Shalom”, nel sud della Striscia. Mentre è stato riaperto, nel nord, quello di Zikim, da dove l’11 e il 12 luglio sarebbero partiti 20 camion al giorno che trasportavano generi alimentari.Lo scorso 12 luglio, diverse agenzie delle Nazioni Unite e l’Organizzazione mondiale della Sanità hanno diffuso un comunicato congiunto in cui sostengono che la carenza di carburante “ha raggiunto livelli critici che minacciano il funzionamento continuo di tutti i servizi essenziali per la sopravvivenza”. E dei 40 camion che hanno attraversato Zikim, la maggior parte sono stati “intercettati da folle disperate”. Dal 13 luglio, sostiene OCHA, “la raccolta dei carichi è stata nuovamente sospesa”.Gocce d’acqua nel deserto, questa sembra essere la massima pressione che può esercitare l’Ue su Israele. Perché, a dire il vero, nessuna delle misure presentate da Kallas per sanzionare Tel Aviv avrebbe in ogni caso raccolto le adesioni necessarie tra i Paesi membri. Di fronte all’insistenza con cui le opinioni pubbliche nazionali chiedono una posizione decisa per il rispetto della legge internazionale, i governi europei hanno acconsentito a compiere un piccolo passo, quello della revisione dell’Accordo di associazione. Ma il passo successivo, quello di imporre sanzioni economiche, è proibitivo: gli interessi delle capitali europee sono enormi, e questo i cittadini non lo sanno.Secondo il Centro di ricerca sulle Multinazionali SOMO, l‘Unione europea è il principale investitore in Israele a livello mondiale, con un volume quasi doppio rispetto agli Stati Uniti. Nel 2023 gli Stati membri dell’Ue detenevano 72,1 miliardi di euro in investimenti esteri in Israele, contro i 39,2 miliardi di euro degli Stati Uniti. E nel 2024, nonostante i crimini perpetrati a Gaza e le violenze nei territori palestinesi occupati, l’Ue ha addirittura aumentato le esportazioni verso Israele di 1 miliardo di euro, raggiungendo un valore di 26,7 miliardi di euro.

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    L’Ue finanzia il colosso delle armi di Israele, ma assicura: “Nessun fondo per la guerra a Gaza”

    Bruxelles – Con i riflettori accesi sulla carneficina in corso a Gaza, dove i bombardamenti israeliani hanno ucciso più di 55 mila civili palestinesi, sul banco degli imputati finisce anche la Commissione europea: oltre al supporto incondizionato che Bruxelles ha garantito a Israele all’indomani del 7 ottobre – e che solo ora sembra voler seriamente rimettere in discussione -, emergono inquietanti e controversi legami tra alcuni fondi europei e l’industria della difesa di Tel Aviv.Poche settimane fa un’inchiesta condotta dai quotidiani belgi L’Echo e De Tijd ha svelato l’impiego di circa un miliardo di euro del fondo Ue per la ricerca e l’innovazione (Horizon) da parte di aziende del settore bellico israeliane. A cui si è aggiunta ieri (11 giugno) la pubblicazione da parte di Investigate Europe di dettagli sulla partecipazione del colosso delle armi Israel Aerospace Industries (Iai) a 15 progetti finanziati con il Fondo Ue per la difesa. La stessa azienda avrebbe piede in 8 progetti del fondo Horizon.In entrambi i casi, la Commissione europea si è auto-assolta assicurando di avere “solide misure di salvaguardia” per fare in modo che nessun centesimo proveniente da Bruxelles contribuisca a commettere violazioni dei diritti fondamentali. Ma sono tanti i dubbi – condivisi anche dalla Corte dei Conti dell’Ue – sull’efficacia dei meccanismi di monitoraggio sull’utilizzo dei fondi europei.L’indagine di Investigate Europe e Reporters United ne sono una conferma. In sostanza, l’Ue avrebbe ammesso la greca Intracom Defense, di proprietà quasi integralmente della più grande compagnia pubblica di armamenti israeliana, la Israeli Aerospace Industries, a 15 progetti finanziati dal Fondo europeo per la Difesa. Il FED, istituito nel 2017 dalla Commissione presieduta da Jean Claude Juncker, dovrebbe essere riservato alle sole compagnie europee. Ma ammette la possibilità dell’estensione a Paesi terzi, vincolata ad alcune garanzie che devono essere fornite dalle società stesse.il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, e l’ex ministro della Difesa. Yoav Gallant, entrambi oggetto di un mandato d’arresto della Corte Penale Internazionale  (Photo by Abir SULTAN / POOL / AFP)Una sorta di autocertificazione, che poi viene vagliata da Bruxelles, e che ha permesso a Intracom Defense di usufruire di ben 15 progetti, di cui sette avviati dopo la risposta israeliana al 7 ottobre e dopo che la Corte penale internazionale ha emesso un mandato di arresto per crimini di guerra e contro l’umanità al premier Benjamin Netanyahu e all’allora ministro dell Difesa Yoav Gallant. In particolare, il progetto più controverso, che ha l’obiettivo di sviluppare un drone armato e per cui Intracom – ovvero la Israeli Aerospace Industries – ha ricevuto 14 milioni di euro, è stato avviato nel dicembre 2024.Atene aveva comunicato a Bruxelles l’associazione di un’impresa proveniente da un Paese terzo al progetto e fornito le garanzie necessarie per il via libera della Commissione, ha ricostruito oggi il portavoce dell’esecutivo Ue Thomas Regnier. “Per quanto riguarda le restrizioni al trasferimento di informazioni sensibili o dei risultati del progetto, disponiamo nuovamente di chiare garanzie per assicurare che nessun progetto nell’ambito dell’EDF violi il diritto dell’Unione europea, il diritto internazionale e i diritti fondamentali”, ha assicurato. Secondo quanto rivelato da Investigate Europe, la valutazione da parte di Bruxelles era stata effettuata nel giugno 2023, prima dello scoppio della guerra tra Israele e Hamas.“Naturalmente il monitoraggio e la valutazione continuano, come è sempre stato fatto”, ha aggiunto Regnier, bollando però come “altamente speculativa” qualsiasi ipotesi di revisione di tali finanziamenti.