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    Moldova al bivio, ecco il referendum che può portarla nell’Ue o lanciarla nell’orbita di Putin

    Bruxelles – La Moldova al bivio. Scegliere se restare nel limbo di un Paese sospeso tra Unione europea e interessi russi, o seguire la via che porta all’adesione al club a dodici stelle. Le elezioni di domenica (20 ottobre) non sono solo un momento per capire chi guiderà il Paese, se la presidente uscente a caccia di un nuovo mandato, Maia Sandu, dichiaratamente pro-Ue, o altri leader con diverse visioni. Si deve anche decidere se emendare la costituzione nazionale prevedendo l’accesso all’Unione europea come obiettivo. La consultazione referendaria assume nuove valenza geopolitiche alla luce del rinnovato scontro tra Russia e blocco euro-occidentale.“Sostieni la modifica della costituzione in vista dell’adesione della Repubblica di Moldavia all’Unione Europea?” è il quesito che sarà posto agli elettori. Un eventuale ‘sì’ renderà il tutto vincolante, segnando un momento storico nella vita della repubblica. Non sembra impossibile, dati i quorum previsti nel Paese. Per modificare la costituzione è necessario un risultato positivo, con la partecipazione di almeno un terzo degli elettori. Gli ultimi sondaggi disponibili, a cui da Bruxelles si guarda con grande attenzione, suggeriscono che il 69 per cento degli aventi diritto intendono partecipare al voto, e che il 63 per cento di loro intenda esprimersi per l’adesione all’Ue. Le premesse pre-voto inviano già un messaggio chiaro.Più nello specifico il preambolo della Carta nazionale sarebbe completato con due nuovi paragrafi per “riconfermare l’identità europea del popolo della Repubblica di Moldova e l’irreversibilità del percorso europeo” e per “dichiarare l’integrazione nell’Unione Europea un obiettivo strategico della Repubblica di Moldova”.L’Unione europea teme l’attività russa, in particolare i tentativi di influenzare il voto attraverso interferenze, contro-informazione e anche corruzione. Un’operazione mirata sarebbe stata messa in piedi appositamente per creare reti di supporto alla campagna del ‘no’ in cambio di denaro, con oltre 15 milioni di dollari inviati dalla Russia a più di 130mila cittadini moldavi per votare contro la prospettiva a dodici stelle. L’operazione sarebbe stata guidata da Ilan Shor, imprenditore in esilio in Russia. “La Russia ha aumentato la propria attività per intervenire direttamente nel voto”, denuncia Peter Stano, portavoce dell’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza dell’Ue, Josep Borrell: “Spetta al popolo moldavo decidere dove andare, se verso di noi o se abbracciare la Russia che vuole imporre il suo imperialismo per soggiogare il Paese”.Ufficialmente l’esecutivo comunitario non entra nel merito del segreto delle urne, ma offre indicazioni di voto chiaro, dalle non scontate conseguenze. Perché la Moldova è un Paese i cui confini non sono chiari. La Transnistria ha auto-proclamato la propria indipendenza dalla Moldova nel 1990. La comunità internazionale non riconosce quello che è un territorio indipendente sotto tutela e controllo russi. Qui Mosca schiera ancora un contingente di 1.500 soldati. A loro e al ministero delle Difesa russo le autorità di Tiraspol hanno chiesto più protezione dai vicini moldavi.Incide inoltra la decisione della commissione elettorale di non iscrivere Pobeda, formazione vicina a Ilan Shor e con posizioni filo-russe. Una mossa che acuisce ancora di più le tensioni per un voto che diventa anche un referendum su Putin. La Moldova per un momento sarà al centro del mondo. Qualunque cosa accada domenica la storia in movimento proporrà nuovi scenari, nuovi assetti e nuovi motivi di tensione e contrapposizione.

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    Nelle elezioni farsa in Tunisia il presidente Kais Saied ha stravinto. L’Ue: “Prendiamo atto delle denunce della società civile”

    Bruxelles – Nessuna sorpresa a Tunisi: secondo gli exit poll, il presidente in carica Kais Saied ha stravinto le elezioni presidenziali con l’89,2 per cento dei voti. Non pervenuti gli altri due candidati figuranti, che insieme avrebbero totalizzato circa l’11 per cento. Di fronte alle denunce di brogli e abusi di potere lanciate dalle opposizioni e dalla società civile, l’Unione europea – che con l’autoritario presidente ha rafforzato la propria partnership – ha commentato: “Ne prendiamo atto, rimaniamo a fianco del popolo tunisino”.Un popolo che ha ampiamente boicottato l’appuntamento elettorale: nella giornata di ieri (6 ottobre), alle urne si è presentato soltanto il 28 per cento degli aventi diritto di voto. Nel 2019, quando Saied ricevette il suo primo mandato, l’affluenza era stata del 49 per cento. C’è anche chi alle urne proprio non poteva arrivarci: i centinaia di oppositori politici imprigionati dal regime, tra cui Ayachi Zammel, l’unico vero sfidante ammesso alle elezioni presidenziali. Zammel, ex deputato liberale e imprenditore agricolo, è in carcere dallo scorso 3 settembre, condannato a scontare tredici anni e otto mesi con l’accusa di aver falsificato i moduli elettorali richiesti per la candidatura.Dal carcere, secondo gli exit poll Zammel avrebbe conquistato il 6,9 per cento dei voti. Al terzo posto, con il 3,9 per cento, Zouhair Maghzaoui, candidato fantoccio che non ha mai messo in discussione il progetto politico di Saied e anzi l’ha apertamente sostenuto nel corso dello smantellamento delle istituzioni democratiche messo in atto dal presidente. La percentuale “bulgara” ottenuta da Saied non si vedeva dai tempi di Ben Ali, che nel 1999 e nel 2004 venne eletto con più del 90 per cento dei voti. E contro cui, nel 2010, sfociarono le proteste che dilagarono nella primavera araba.Il presidente Kais Saied, alle urne domenica 6 ottobre (Photo by FETHI BELAID / AFP)I risultati preliminari saranno comunicati questa sera dall’Istanza Superiore Indipendente per le Elezioni (Isie), ma per conoscere quelli definitivi bisognerà aspettare il 24 ottobre, trascorso il periodo per la valutazione di eventuali ricorsi. Tuttavia, a margine della chiusura delle urne, Saied ha già dichiarato che nei prossimi cinque anni “ripulirà il paese da tutti i corrotti e dai cospiratori“.La repressione messa in atto da Saied, che si è intensificata ulteriormente in un clima elettorale segnato da vessazioni nei confronti di oppositori politici, giornalisti e ong per i diritti umani, rischia di mettere in imbarazzo Bruxelles, che con il presidente tunisino ha rafforzato i propri legami e siglato nell’estate dell’anno scorso una partnership comprensiva e globale. Garantendo a Saied oltre un miliardo di euro, nel tentativo di stabilizzare il Paese colpito da una profondissima crisi economica. E con l’obiettivo di fermare le partenze di migranti subsahariani dalle coste tunisine verso l’Europa.Interpellata dalla stampa internazionale a Bruxelles, la portavoce della Commissione europea per gli Affari esteri, Nabila Massrali. ha dichiarato che l’Ue “prende atto della posizione espressa da molti attori sociali e politici tunisini in merito all’integrità del processo elettorale, in particolare per quanto riguarda le varie misure ritenute lesive dei requisiti democratici di credibilità e inclusività, tra cui la modifica sostanziale della legge elettorale alla vigilia delle elezioni”.Solo dieci giorni fa, il Parlamento di Tunisi ha approvato la riforma voluta dal governo, che prevede il passaggio della competenza sulle controversie dal Tribunale amministrativo alla giustizia ordinaria. In sostanza, gli eventuali ricorsi dei candidati contro le decisioni dell’Isie dovranno essere presentate direttamente in Corte d’Appello e in Cassazione. In base alla nuova legge, i risultati preliminari delle elezioni presidenziali potranno essere contestati solo dinanzi al Tribunale di primo grado di Tunisi. Una modifica che ha suscitato le proteste delle opposizioni e della società civile, che si sono radunati fuori dal Parlamento di Tunisi lo scorso 27 settembre.“Ovviamente, l’Ue è al fianco del popolo tunisino e rimane attenta alle sue legittime esigenze e aspirazioni in termini di libertà fondamentali, democrazia e sviluppo sostenibile, in conformità con l’accordo di associazione Ue-Tunisia”, ha proseguito Massrali. Una dichiarazione che lascia intendere che l’Ue sarà pronta a fare la voce grossa con il presidente. Ma la coperta è corta, come dimostrano le sistematiche violazioni dei diritti delle persone migranti perpetrate dalle forze di sicurezza tunisine, su cui l’Ue sta facendo spallucce. L’amico-partner Saied tiene sotto scacco Bruxelles, terrorizzata da una fantomatica invasione dal continente africano.

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    Crosetto: “Bene un Commissario alla difesa, ma vanno anche riviste le regole per la spesa degli Stati”

    Bruxelles – Per il ministro italiano alla Difesa Guido Crosetto è un bene che l’Unione europea abbia iniziato ad occuparsi più seriamente di difesa, anche creando un nuovo portafoglio dedicato nella prossima Commissione. Le questioni strategiche sono diventate centrali in questa fase storica, ha dichiarato il titolare del dicastero ai margini del Consiglio informale a Bruxelles. Ma per centrare gli obiettivi di spesa fissati dall’Europa e dalla Nato è necessario rivedere le regole di bilancio comunitarie, che impediscono agli Stati membri di mettere in campo le risorse necessarie. “Ho letto” che la presidente eletta dell’esecutivo comunitario Ursula von der Leyen “nominerà un commissario europeo per la Difesa: la cosa non può che farmi piacere”, ha dichiarato il ministro ai giornalisti in uscita dalla riunione con gli omologhi dei Ventisette. L’incontro di oggi chiude la due giorni di informali – ieri (29 agosto) si sono visti i titolari degli Affari esteri – nota come Gymnich, che segna la ripresa dei lavori dopo la pausa estiva. In uno strappo alla regola, i meeting si sono tenuti a Bruxelles anziché a Budapest (capitale del Paese che detiene la presidenza di turno dell’Ue) come forma di sanzione al governo ungherese, il cui leader Viktor Orbán ha indispettito Commissione e cancellerie per i suoi disinvolti tour “diplomatici” tra Ucraina, Russia, Cina e Stati Uniti. Crosetto si augura anche “che la sottocommissione Difesa diventi una commissione permanente anche all’interno del Parlamento europeo“, sostenendo che “se è così rilevante costruire la difesa del futuro per ogni Paese europeo, per l’Europa intera, allora bisogna adeguarsi e quindi ridare uno spazio che la difesa non ha avuto in questi anni, soprattutto quella europea”. Data la centralità acquisita dal tema in questo periodo, ha ribadito il ministro, è necessario che il blocco si attrezzi con adeguate strutture politiche. Ma soprattutto, ha insistito, è fondamentale che venga adeguato anche il quadro normativo che determina lo spazio di manovra finanziaria degli Stati membri. Crosetto ha chiesto all’Ue di “decidere” tra il rigore di bilancio e la spesa militare, ora che inizia un nuovo ciclo istituzionale fino al 2029: “Se la difesa è fondamentale in questa fase che stiamo vivendo”, ha spiegato, “l’Europa deve decidere se escludere le spese della difesa” dal Patto di stabilità e crescita (Psc), quello che elenca i vincoli che i Ventisette devono rispettare (come rapporto debito/Pil al 60 per cento e quello deficit/Pil al 3 per cento). A decidere sul budget per la difesa, nelle parole del ministro, non è il ministro della Difesa ma quello dell’Economia e delle finanze, che “non decide in base alla situazione di sicurezza nel mondo, ma in base ai vincoli che arrivano dall’Unione europea”.  E ha avvertito: “Se questo non accade non riusciremo ad assumerci gli impegni che l’Europa stessa vuole assumersi”, sottolineando che il Segretario generale aggiunto della Nato Angus Lapsley “mi ha dato ragione”. Lo stesso funzionario dell’Alleanza, ha continuato Crosetto, “ha detto che all’Alleanza non basterà più il 2 per cento” del Pil nazionale da destinare alle spese militari, ma “si andrà al 2,5 per cento o al 3 per cento“. Nel caso italiano, dove attualmente non si riesce a centrare nemmeno il target del 2 per cento fissato dall’Alleanza atlantica, la difesa andrà adeguata “alle nuove sfide e al nuovo mondo”: e per farlo, occorrono risorse che solo il Mef può gestire, ma finora ha avuto le mani legate da Bruxelles.

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    Per la Commissione Ue Kiev ha “il diritto” di colpire l’esercito russo “anche nel territorio del nemico”

    Bruxelles – È ancora in corso l’operazione militare dell’Ucraina nella regione russa di Kursk, e la domanda è una: è giustificato un attacco armato di Kiev per la propria autodifesa, non sul proprio territorio ma su quello della Russia? Mentre gli analisti stanno scorrendo gli articoli e le interpretazioni del diritto internazionale alla ricerca di una risposta che non può essere né bianca né nera (si intersecano questioni complesse come il diritto all’auto-difesa, il non-uso della forza e le sue eccezioni, la proporzionalità delle misure), da Bruxelles arriva invece una posizione netta: “L’Ucraina ha il diritto di colpire il nemico ovunque sia necessario sul suo territorio, ma anche nel territorio del nemico“, è quanto messo in chiaro da Peter Stano, portavoce dell’alto rappresentante Ue e vicepresidente della Commissione Europea, Josep Borrell, rispondendo alla stampa a proposito della posizione dell’Unione sugli ultimi sviluppi della guerra.(credits: Anatolii Stepanov / Afp)Ribandendo che l’Ue “non è coinvolta” nel conflitto e che “sosteniamo gli sforzi dell’Ucraina nel ripristinare la sua integrità territoriale e la sovranità, respingendo l’aggressione illegale della Russia”, incalzato dai giornalisti al punto quotidiano con la stampa di ieri (8 agosto), Stano si è spinto oltre: “L’Ucraina è sotto aggressione illegale, sta combattendo una guerra difensiva legittima secondo il diritto internazionale”, e questo “diritto di difendersi include anche combattere il nemico sul suo territorio”. Una posizione netta, che non lascia spazio a dubbi nell’esecutivo dell’Unione e nel suo Servizio europeo per l’azione esterna (Seae). A maggior ragione se si considera che poco più di un mese fa, a margine del Consiglio Europeo, i vertici delle istituzioni Ue hanno siglato insieme al presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, nuovi accordi di sicurezza con l’Ucraina.L’operazione militare di Kiev nella regione della Russia occidentale, al confine con l’Ucraina stessa, è iniziata martedì (6 agosto) ed è entrata nel suo quarto giorno di offensiva, con centinaia di soldati e decine di mezzi  corazzati che stanno combattendo contro l’esercito russo attorno alla cittadina di Sudzha e ora hanno nel mirino Lipetsk. A differenza di alcune operazioni dello scorso anno compiute da formazioni paramilitari (come la Legione Russia Libera) sostenute in modo indiretto da Kiev, ciò che è in atto è un attacco guidato dall’esercito ucraino, per la prima volta dopo oltre due anni di guerra. Come risposta Mosca ha inviato soldati e mezzi aerei, e proprio questo potrebbe essere l’obiettivo di Kiev: creare un diversivo per alleggerire alcuni fronti di guerra più sotto pressione – come quello orientale del Donbass – costringendo una parte dell’esercito russo a riorganizzarsi anche in un’altra regione finora non toccata dalla guerra, ma soprattutto, sul proprio territorio nazionale.

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    In Medio Oriente l’Ue mette pezze dove può: via libera a un pacchetto da 500 milioni per il Libano

    Bruxelles – Prosegue lo sforzo dell’Ue per assicurare un cuscinetto di stabilità attorno alla polveriera in Medio oriente. In linea con quanto annunciato da Ursula von der Leyen durante la sua visita a Beirut lo scorso maggio, la Commissione europea ha adottato oggi (1 agosto) un pacchetto di assistenza finanziaria da 500 milioni di euro per il Libano.Si tratta di una prima sostanziosa tranche del più ampio supporto da un miliardo fino al 2027 stipulato tra Bruxelles e Beirut e auspicato dai capi di Stato e di governo dell’Ue nelle conclusioni del Consiglio europeo del 17-18 aprile, in cui l’Unione europea ha ribadito il suo forte sostegno al Libano e ha riconosciuto le “difficili circostanze che il Paese sta attraversando a livello nazionale e a causa delle tensioni regionali”. Tensioni che nel frattempo sono aumentate in modo esponenziale, per culminare nei raid a Beirut e a Teheran con cui Israele ha ucciso Fuad Shukr, uno dei comandanti di Hezbollah, e il leader politico di Hamas, Ismail Haniyeh.Con i 500 milioni per il biennio 2024-25, la Commissione europea spera di innescare un percorso di riforme nel Paese dei Cedri, una più fiorente attività economica e di sostenere le misure sociali per la fetta di popolazione più vulnerabile. Come annunciato da von der Leyen a maggio, in occasione dell’incontro con il primo ministro libanese Najib Mikati, il pacchetto di assistenza ha almeno altri due obiettivi prioritari: la sicurezza e la gestione dei flussi migratori e dei rifugiati nel Paese. “Sosterremo le forze armate libanesi e le forze di sicurezza generali e interne”, aveva dichiarato la leader Ue, fornendo “attrezzature, formazione e le infrastrutture necessarie per la gestione delle frontiere”. In cambio, Bruxelles “conta sulla vostra (del Libano, ndr) buona cooperazione per prevenire la migrazione illegale e combattere il traffico di migranti”.Oltre ai rifugiati provenienti dalla Siria – quasi un milione di persone, secondo i dati dell’Unhcr -, il Libano in profonda crisi economica e sociale deve affrontare l’impatto del conflitto tra Israele e Hamas a Gaza. E gli scambi di cortesie sempre più gravi tra lo Stato ebraico ed Hezbollah, l’organizzazione politica e militare filo-iraniana che controlla ampi territori del sud del Libano. In cui per altro sono presenti contingenti militari  importanti da Francia, Italia e Spagna, nell’ambito della missione di pace dell’Onu Unifil.  “Siamo profondamente preoccupati per l’instabilità della situazione nel Libano meridionale, la posta in gioco è la sicurezza del Libano e di Israele”, aveva sottolineato von der Leyen a Mikati, aggiugendo: “Anche in questo caso, le forze armate libanesi sono fondamentali e l’Unione Europea è pronta a lavorare su come rafforzarne le capacità”.

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    Via al sostegno di emergenza Ue per l’Autorità palestinese, erogati i primi 150 milioni

    Bruxelles – 150 milioni di euro oggi, altri 250 tra agosto e settembre. In linea con quanto annunciato il 19 luglio nella lettera d’intenti tra Bruxelles e Ramallah, l’Unione europea ha erogato la prima tranche di sostegno finanziario d’emergenza a breve termine all’Autorità nazionale palestinese (Anp). Un’assistenza vitale per affrontare le esigenze finanziarie più urgenti dell’Anp e fondamentale per sostenere il programma di riforme concordato con Bruxelles.La priorità è far fronte al blocco delle entrate fiscali dell’Anp imposto da Israele, che sta paralizzando la macchina pubblica in Cisgiordania e nei territori palestinesi occupati. Questa prima rata include 58 milioni di euro in sovvenzioni per pagare gli stipendi e le pensioni dei dipendenti pubblici e sostenere le famiglie più vulnerabili. I restanti 92 milioni di euro sono forniti dalla Banca europea per gli investimenti (Bei) all’Autorità monetaria palestinese attraverso una linea di credito dedicata.I successivi pagamenti di questo sostegno finanziario a breve termine dovrebbero seguire nei mesi di agosto e settembre, a seconda dei progressi nell’attuazione dell’agenda di riforme da parte dell’Anp. “La nostra assistenza d’emergenza di 400 milioni di euro sostiene un programma di riforme sostanziali e apre la strada alla ripresa e alla ricostruzione di Gaza”, ha dichiarato la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, secondo cui “un’Autorità palestinese forte e riformata è fondamentale per il nostro obiettivo comune di una soluzione a due Stati“.Il primo ministro dell’Autorità palestinese, Mohammed Mustafa, a Nablus, in Cisgiordania (Photo by Jaafar ASHTIYEH / AFP)Secondo l’intesa siglata il 19 luglio, entro fine agosto il governo di Mohammed Mustafa dovrà riuscire a razionalizzare la spesa pubblica, riducendo le spese ricorrenti di almeno il 5 per cento rispetto all’anno precedente, istituire l’età pensionabile per tutti i lavoratori della Cisgiordania, pubblicare una nuova legge sulla protezione sociale e preparare un piano di riforma dell’istruzione. Tra le azioni preliminari concordate, figura anche l’approvazione di una legge sui pagamenti elettronici e il miglioramento dell’accesso alla giustizia e ai meccanismi di reclamo per i cittadini nei confronti degli enti governativi.A quel punto, all’inizio di settembre, la Commissione presenterà una proposta legislativa per un programma globale per la ripresa e la resilienza della Palestina, che sarà concepito per aiutare l’Autorità Palestinese a raggiungere l’equilibrio di bilancio entro il 2026 e garantire la sostenibilità finanziaria a lungo termine. Sempre con il vincolo dell’attuazione delle tappe di riforma concordate, per fare in modo che l’embrione statale palestinese diventi una vera e propria macchina pubblica e un interlocutore stabile e credibile nello sforzo diplomatico verso la creazione di uno Stato di Palestina.

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    In Bosnia non c’è l’accordo sull’Agenda di riforme. A rischio i fondi Ue del Piano di crescita

    Bruxelles – Non basta il via libera del Consiglio Europeo all’avvio dei negoziati di adesione. La Bosnia ed Erzegovina rimane nel caos istituzionale, che ora mette a rischio – come da tempo temuto – i fondi Ue stanziati dal nuovo Piano per i Balcani Occidentali che lega la crescita economica con le riforme interne. “La Bosnia ed Erzegovina non ha ancora presentato alla Commissione Europea un’agenda di riforma definitiva, è quindi molto probabile che non riceva già dopo l’estate la prima rata non condizionata di prefinanziamento del 7 cento”, è quanto reso noto dalla delegazione Ue a Sarajevo in una nota pubblicata su X: “Si tratta di un’occasione persa per un finanziamento anticipato e sostanziale“.Da sinistra: la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, e la presidente del Consiglio dei ministri della Bosnia ed Erzegovina, Borjana Krišto, a Sarajevo (primo novembre 2023)Che Sarajevo corresse questo pericolo era già emerso lo scorso autunno, quando la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, nella sua tappa bosniaca del consueto viaggio annuale nei Balcani Occidentali aveva messo in chiaro che la mancata implementazione delle riforme fondamentali comporterà che “le risorse saranno ridistribuite ad altri Paesi che sono in grado di farlo“. Con il Piano di crescita approvato in tempi record dai co-legislatori Ue all’inizio di quest’anno, l’esecutivo Ue aveva confermato due mesi fa che in caso di non rispetto degli standard sulle riforme l’Ue potrà decidere di tagliare i fondi. “La prima rata del Piano di crescita potrà essere erogata solo dopo che l’Agenda di riforma sarà stata presentata e formalmente approvata dalla Commissione Europea e dalla Bosnia ed Erzegovina”, ha precisato ieri (25 luglio) la delegazione Ue a Sarajevo, incoraggiando il lavoro “senza ulteriori ritardi, per non perdere del tutto questa opportunità”. La quota di finanziamenti per la Bosnia ed Erzegovina dal Piano di crescita è stimata complessivamente a un miliardo di euro: al momento salta una prima rata di prefinanziamento senza condizioni dal valore di circa 70 milioni di euro.A provocare lo stallo istituzionale sull’approvazione dell’Agenda di riforma è stato il caos istituzionale emerso di fronte alla bozza presentata dal Gruppo di lavoro ad hoc, nonostante la proroga alla scadenza concessa dalla Commissione Ue per raggiungere in extremis in accordo. In quello che a tutti gli effetti è uno degli assetti istituzionali più complicati al mondo – come emerso dagli Accordi di Dayton del 1995 che hanno chiuso tre anni e mezzo di guerra civile ed etnica nel Paese – prima il presidente della Republika Srpska, Milorad Dodik, si è rifiutato di accettare due punti (dei 112 dell’Agenda) sulla nomina dei giudici della Corte costituzionale centrale e sul riconoscimento delle decisioni della Corte stessa, poi i rappresentanti di quattro cantoni della Federazione di Bosnia ed Erzegovina (Bosnia Centrale, Tuzla, Zenica-Doboj e Una-Sana) non hanno dato il consenso al documento, accusandolo di privilegiare le istituzioni delle due entità rispetto a quelle statali e di dare priorità ai progetti nella Republika Srpska e nei cantoni a maggioranza croato-bosniaca rispetto a quelli a maggioranza bosgnacca.Il presidente della Republika Srpska, Milorad Dodik (credits: Elvis Barukcic / Afp)“Nonostante tutti gli sforzi e il sostegno delle istituzioni europee, non tutti hanno mostrato un livello minimo di responsabilità politica per indirizzare le nostre attività verso un percorso europeo comune“, ha attaccato la presidente del Consiglio dei ministri della Bosnia ed Erzegovina, Borjana Krišto, annunciando mercoledì (24 luglio) il fallimento delle trattative sull’Agenda di riforme. Oltre alla delegazione Ue, che ribadisce la disponibilità a continuare a supportare le autorità bosniache “se necessario”, è intervenuta in modo duro anche l’ambasciata statunitense a Sarajevo a difesa del Piano di crescita per i Balcani Occidentali, definito in una nota pubblicata ieri “un’offerta senza precedenti dell’Ue ai cittadini della Bosnia ed Erzegovina”. L’attacco diretto di Washington è non solo al presidente serbo-bosniaco Dodik – “un uomo che mette costantemente i suoi interessi davanti a quelli di coloro che dice di rappresentare” e che rappresenta “la più grande minaccia al futuro europeo” del Paese balcanico – ma anche al principale partito bosniaco-musulmano, il Partito d’Azione Democratica (Sda): “La decisione di sfruttare l’occasione per un’esibizione politica, invece di lavorare con gli altri partiti per ottenere l’approvazione degli ultimi due punti in sospeso, è stata inutile e irresponsabile”.Cos’è il Piano di crescita per i Balcani OccidentaliIl Piano di crescita per i Balcani Occidentali è stato presentato dalla presidente von der Leyen lo scorso 8 novembre in parallelo con la pubblicazione del Pacchetto Allargamento Ue 2023. “È qualcosa di eccezionale, sappiamo che il miracolo della prosperità arriva con l’accesso al Mercato unico e stiamo già iniziando questo processo, non stiamo aspettando la decisione finale sull’adesione politica“, aveva rivendicato la numero uno della Commissione Ue, illustrando i 4 pilastri di un Piano che dovrebbe sia “chiudere il gap economico e sociale” tra Ue e regione balcanica sia permettere “l’integrazione sul campo anche prima che entrino formalmente come Paesi membri”.Il primo pilastro è proprio l’integrazione economica nel Mercato unico in sette settori fondamentali, a condizione di un allineamento alle regole Ue e dell’apertura dei settori pertinenti ai Paesi vicini: libera circolazione delle merci, libera circolazione dei servizi e dei lavoratori, accesso all’Area unica dei pagamenti in euro (Sepa), facilitazione del trasporto su strada, integrazione e de-carbonizzazione dei mercati energetici, mercato unico digitale e integrazione nelle catene di approvvigionamento industriale. Il secondo pilastro è quello dell’integrazione economica interna attraverso il Mercato regionale comune (basato su regole e standard Ue): Bruxelles stima che solo questo fattore potrebbe potenzialmente aggiungere un 10 per cento alle economie dei Sei balcanici. Il terzo pilastro riguarda le riforme socio-economiche e fondamentali da intraprendere tra il 2024 e il 2027, che nel Piano di Bruxelles andranno da una parte a sostenere il percorso dei Balcani Occidentali verso l’adesione Ue e dall’altro sosterranno gli investimenti esteri e il rafforzamento della stabilità regionale.A proposito di investimenti, è qui che si inserisce il quarto pilastro dell’assistenza finanziaria Ue alle riforme per tutti i sei partner. Si tratta nello specifico di un nuovo Strumento di riforma e crescita per i Balcani Occidentali da 6 miliardi di euro per il periodo 2024-2027, i cui pagamenti saranno vincolati all’attuazione delle riforme concordate nelle rispettive Agende (esattamente come Next Generation Eu per i Ventisette). Con la revisione intermedia del Quadro finanziario pluriennale Ue 2021-2027 è stato dato il via libera allo strumento composto di 2 miliardi di euro in sovvenzioni (finite nel bilancio Ue senza modifiche alla proposta della Commissione) e 4 miliardi in prestiti agevolati, con le assegnazioni per ciascun Paese stabilite sulla base del Pil e della popolazione. Il sostegno del Piano di crescita – effettuato due volte l’anno e condizionato dal rispetto delle fasi qualitative e quantitative delle Agende – sarà fornito per metà dal Quadro per gli investimenti nei Balcani Occidentali (Wbif) e per metà da prestiti erogati direttamente ai bilanci nazionali dei partner.La ‘grana’ Republika Srpska per la BosniaÈ proprio Dodik uno degli ostacoli maggiori per il percorso di avvicinamento della Bosnia ed Erzegovina all’Unione Europea – e oggi dell’accesso ai fondi Ue del Piano di crescita – da quando si è fatto promotore di un progetto secessionista dall’ottobre del 2021. L’obiettivo è quello di sottrarsi dal controllo dello Stato centrale in settori fondamentali come l’esercito, il sistema fiscale e il sistema giudiziario, a più di 20 anni dalla fine della guerra etnica in Bosnia ed Erzegovina. Il Parlamento Europeo ha evocato sanzioni economiche e, dopo la dura condanna dei tentativi secessionisti dell’entità a maggioranza serba in Bosnia (con un progetto di legge per l’istituzione di un Consiglio superiore della magistratura autonomo), a metà giugno del 2022 i leader bosniaci si sono radunati a Bruxelles per siglare una carta per la stabilità e la pace, incentrata soprattutto sulle riforme elettorali e costituzionali nel Paese balcanico.Da sinistra: il presidente della Republika Srpska, Milorad Dodik, e l’autocrate russo, Vladimir Putin, al Cremlino il 23 maggio 2023 (credits: Alexey Filippov / Sputnik / Afp)Ma le preoccupazioni si sono fatte sempre più concrete da fine marzo 2023, quando il governo dell’entità serbo-bosniaca ha presentato un progetto di legge per istituire un registro di associazioni e fondazioni finanziate dall’estero. La cosiddetta legge sugli ‘agenti stranieri’ è simile a quella adottata da Mosca nel dicembre 2022 ed è stata approvata a fine settembre dall’Assemblea nazionale di Banja Luka, tra le apre critiche di Bruxelles. Parallelamente è avanzato anche l’iter per l’adozione degli emendamenti al Codice Penale che reintroducono sanzioni penali per diffamazione. Dopo la proposta – anch’essa a fine marzo – l’entrata in vigore è datata 18 agosto e ora sono previste multe da 5 mila a 20 mila marchi bosniaci (2.550-10.200 euro) se la diffamazione avviene “attraverso la stampa, la radio, la televisione o altri mezzi di informazione pubblica, durante un incontro pubblico o in altro modo”. Il Servizio europeo per l’azione esterna (Seae) e la delegazione Ue a Sarajevo hanno attaccato Banja Luka, mettendo in luce che le due leggi “hanno avuto un effetto spaventoso sulla libertà di parola nella Republika Srpska“.Alle provocazioni secessioniste si è affiancata la questione del rapporto con la Russia post-invasione ucraina. Già il 20 settembre 2022 Dodik aveva viaggiato a Mosca per un incontro bilaterale con Putin, dopo le provocazioni ai partner occidentali sull’annessione illegale delle regioni ucraine occupate dalla Russia. Provocazioni che sono continuate a inizio gennaio 2023 con il conferimento all’autocrate russo dell’Ordine della Republika Srpska (la più alta onorificenza dell’entità a maggioranza serba del Paese balcanico) – come riconoscimento della “preoccupazione patriottica e l’amore” nei confronti delle istanze di Banja Luka – in occasione della Giornata nazionale della Republika Srpska, festività incostituzionale secondo l’ordinamento bosniaco. Come se bastasse, Dodik ha compiuto un secondo viaggio a Mosca il successivo 23 maggio, mentre a Bruxelles sono emerse perplessità sulla mancata reazione da parte dell’Unione con sanzioni. Fonti Ue hanno rivelato a Eunews che esiste già da tempo un quadro di misure restrittive pronto per essere applicato, ma l’Ungheria di Viktor Orbán non permette il via libera. Per qualsiasi azione del genere di politica estera serve l’unanimità in seno al Consiglio.Trovi ulteriori approfondimenti sulla regione balcanica nella newsletter BarBalcani ospitata da Eunews

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    Quattro Paesi candidati all’adesione entrano per la prima volta nel rapporto Ue sullo Stato di diritto

    Bruxelles – È una prima volta storica, che “mira a mettere subito sullo stesso piano degli Stati membri” i quattro Paesi candidati all’adesione Ue che hanno già avviato i negoziati con Bruxelles. Nel rapporto sullo Stato di diritto 2024 pubblicato oggi (24 luglio) dalla Commissione Europea fanno ingresso anche Albania, Macedonia del Nord, Montenegro e Serbia, con quattro capitoli specifici per i più avanzati tra i 10 Paesi coinvolti nel processo di allargamento Ue. Quella che lo stesso esecutivo dell’Unione definisce “la principale novità” del rapporto annuale sullo Stato di diritto arrivato alla sua quinta edizione, costituirà insieme alle raccomandazione del Pacchetto Allargamento Ue la base per “sostenere i loro sforzi di riforma, aiutare le autorità a compiere ulteriori progressi nel processo di adesione, e prepararsi a continuare il lavoro sullo Stato di diritto come futuri Stati membri”.La commissaria europea per i Valori e la trasparenza, Vera Jourová (24 luglio 2024)Nella visione di Bruxelles, rispetto dello Stato di diritto e allargamento Ue vanno di pari passo, in quanto “un obiettivo fondamentale dell’allargamento dell’Unione è quello di radicare saldamente lo Stato di diritto nel nostro continente“. Di qui deriva la decisione di estendere la valutazione del quadro dei progressi e delle carenze su questo “elemento centrale” dell’impalcatura dell’Unione – solitamente riservato ai Ventisette – anche a quattro Paesi che hanno già avviato i negoziati di adesione. L’esclusione momentanea di Ucraina e Moldova è dovuta al fatto che si sono unite da troppo poco tempo (un mese esatto), mentre la Turchia è già stata analizzata separatamente nel novembre dello scorso anno per il suo stallo ormai totale dal 2018.L’analisi generale del gabinetto von der Leyen sul quadro dello Stato di diritto in Albania, Macedonia del Nord, Montenegro e Serbia parte dallo scenario “particolarmente preoccupante” dei “tentativi di interferenza da parte della Russia, con la disinformazione e la retorica antidemocratica e anti-Ue“, in particolare dopo l’inizio dell’invasione dell’Ucraina nel febbraio 2022. Ma c’è di più, ovvero la necessità di “riforme credibili e sostenibili per progredire verso l’adesione all’Unione” da parte di questi Paesi candidati, oltre che per accedere ai finanziamenti consistenti dello Strumento per la riforma e la crescita dei Balcani occidentali e dello Strumento per l’Ucraina. “Sulla base di criteri oggettivi e basati sul merito” il nuovo approccio adottato dalla Commissione potrà essere “esteso in futuro ad altri Paesi dell’allargamento Ue” (Bosnia ed Erzegovina, Georgia, Kosovo, Moldova, Turchia e Ucraina), non solo “per ottenere progressi irreversibili in materia di democrazia e Stato di diritto prima dell’adesione”, ma anche “per garantire standard elevati e duraturi dopo l’adesione”.Lo Stato di diritto in AlbaniaL’analisi dello Stato di diritto in Albania parte dalla questione della riforma giudiziaria “sostanziale” attuata dal 2016. Nonostante “il controllo di tutti i giudici e procuratori ha rafforzato la responsabilità”, la Commissione rileva “carenze nelle nomine dei membri non magistrati del Consiglio superiore della magistratura e del Consiglio superiore della procura”, ma soprattutto “preoccupazioni” per la “limitata trasparenza e difficoltà nel garantire valutazioni tempestive e qualitative” nel processo di nomina, promozione e trasferimento dei magistrati, così come per i “tentativi di interferenza e pressione sul sistema giudiziario da parte di funzionari pubblici o politici“. Grosse sfide derivano dalla carenza di risorse finanziarie e umane, che influisce “negativamente” sulla qualità della giustizia, e dalla “lunghezza e grande arretrato” dei procedimenti giudiziari.Da sinistra: la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, e il primo ministro dell’Albania, Edi Rama“Sono incoraggianti” i risultati iniziali della Struttura speciale anticorruzione (Spak), ma le autorità specializzate nella repressione e nella prevenzione “segnalano carenze per quanto riguarda le risorse specializzate e gli strumenti disponibili”, mentre il numero di persone indagate, perseguite e condannate per reati in questo campo “è aumentato negli ultimi tre anni”. Dal momento in cui la corruzione “è diffusa in molti settori, anche durante le campagne elettorali” e il quadro giuridico “troppo complesso” limita le misure preventive, Bruxelles punta il dito sia contro la recente legge sull’amnistia sia sulla carenza di coordinamento tra le autorità nazionali. Vengono menzionate anche la “profonda” polarizzazione politica, che ha “un impatto negativo sull’efficacia, la trasparenza e l’obiettività del lavoro parlamentare”, e il “contesto difficile” per le organizzazioni della società civile, “anche in relazione ai requisiti di registrazione e ai limitati finanziamenti pubblici”.Tra gli elementi di maggiore preoccupazione per il rispetto dello Stato di diritto in Albania ci sono in particolare quelli relativi al settore della libertà dei media, tra cui spiccano soprattutto quelli sull’indipendenza dell’emittente pubblica, sulla “limitata regolamentazione sulla trasparenza della proprietà dei media e l’elevata concentrazione“, e sul mancato rispetto di “un’equa allocazione della pubblicità statale e di altre risorse statali”. Anche se il quadro per la protezione dei giornalisti è già in vigore, “le aggressioni verbali e fisiche, le campagne diffamatorie e le azioni legali strategiche contro la partecipazione pubblica sono motivo di preoccupazione”.Lo Stato di diritto in Macedonia del NordLa Macedonia del Nord “ha subito diverse ondate di riforme giudiziarie”, ma l’indipendenza della magistratura e la capacità istituzionale di proteggerla da influenze indebite “rimangono una seria preoccupazione”, così come il livello di indipendenza giudiziaria percepito “è molto basso”. Le decisioni di nomina di pubblici ministeri e giudici “sono state criticate dalla società civile perché non sono motivate in modo esaustivo o basate su criteri oggettivi”, le “limitate” risorse stanziate “possono incidere sull’autonomia finanziaria” e il deficit di risorse umane “potrebbe avere un impatto sulla qualità e sull’efficienza della giustizia”, come dimostrato dal fatto che “sono diminuite per le cause civili, commerciali e penali di primo grado”.Il nuovo primo ministro della Macedonia del Nord, Hristijan Mickoski (credits: Robert Atanasovski / Afp)Nonostante esista una strategia nazionale contro la corruzione, “la sua attuazione è in ritardo”, avverte la Commissione: “Il rischio rimane elevato in molte aree” e le recenti modifiche al Codice penale “hanno indebolito il quadro giuridico, incidendo negativamente sul perseguimento della corruzione”, soprattutto nei casi di alto livello. Tra le maggiori criticità c’è la “scarsità di risorse e la mancanza di cooperazione tra le autorità nazionali”, le lacune sul finanziamento dei partiti politici e “nessun lobbista registrato” nelle liste ufficiali apposite.Rimane centrale la polarizzazione politica al Parlamento nazionale, che “ha causato ritardi nel suo lavoro e ha portato a un uso eccessivo e talvolta inappropriato di procedure legislative accelerate”, anche se le organizzazioni della società civile possono operare in un ambiente “complessivamente favorevole”. A questo proposito le misure legislative “hanno rafforzato le garanzie legali” per la protezione dei giornalisti, “ma sono state registrate minacce e atti di violenza contro i giornalisti”. Il Consiglio per l’etica dei media “continua a essere messo sotto pressione” e persistono sfide sulla trasparenza della proprietà dei media, con “preoccupazioni su alcuni elementi della reintroduzione della pubblicità finanziata dallo Stato”.Lo Stato di diritto in MontenegroPer quanto riguarda il Montenegro, il Paese più avanzato sulla strada di adesione all’Ue, “sta attraversando un’intensa fase di riforme, che prevede l’adozione e la revisione di un pacchetto completo di leggi” sull’indipendenza, la responsabilità e l’imparzialità del sistema giudiziario e della procura, compresa una nuova strategia di riforma giudiziaria 2024-2027. I significativi ritardi nelle nomine giudiziarie di alto livello andati in scena tra il 2022 e l’inizio del 2023 hanno avuto un impatto sul sistema in generale, “ma ormai manca solo la nomina del nuovo presidente della Corte suprema” ed esistono ancora “serie sfide” in particolare per la lunghezza dei procedimenti per le cause amministrative.Da sinistra: la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, e il primo ministro del Montenegro, Milojko SpajićAll’interno della strategia 2024-2028 per la lotta alla corruzione, il Montenegro “criminalizza la maggior parte delle forme di corruzione” e il bilancio delle indagini e dei procedimenti giudiziari nei casi di alto livello “è stabile”, anche se “la mancanza di processi e decisioni finali contribuisce a creare una percezione di impunità“. Mentre numerose istituzioni hanno codici di condotta specifici, quello del governo “è inefficace” e attende l’adozione della legge sul governo con sanzioni disciplinari. Se è positiva l’adozione della nuova legislazione sul lobbismo lo scorso 6 giugno, lo è meno il fatto che il quadro giuridico che regola il finanziamento dei partiti politici “è ostacolato da carenze nella sua portata, chiarezza e attuazione”.Approfondito il capitolo sul pluralismo e la libertà dei media, con il pacchetto legislativo ad hoc composto da emendamenti alla legge sull’emittente pubblica nazionale, una nuova legge sui servizi di media audiovisivi e una sui media che “introduce miglioramenti sulla trasparenza della proprietà e su altre aree sistemiche, con l’obiettivo di allinearla all’acquis dell’Ue“. La nuova legislazione conferisce nuovi poteri all’Agenzia per i servizi di media audiovisivi, “affrontando l’annosa questione della sua efficacia nell’applicazione del quadro normativo, dotandola di strumenti sanzionatori completi”, rileva la Commissione Ue, anche se non si può dimenticare che “sono limitate” le informazioni su pagamenti del settore pubblico e pubblicità istituzionale. Nei casi di violenza contro i giornalisti le autorità montenegrine “forniscono risposte efficaci” a livello istituzionale e di applicazione della legge, “ma non è stato dato un seguito giudiziario efficace a casi emblematici del passato”.Lo Stato di diritto in SerbiaIl rapporto sullo Stato di diritto 2024 si conclude con il capitolo sulla Serbia. “L’attuazione della riforma costituzionale per il rafforzamento dell’indipendenza giudiziaria è in corso”, sottolinea la Commissione, che rileva come “le pressioni politiche sul sistema giudiziario e sulla procura rimangono elevate“. Nel Paese balcanico manca ancora un sistema completo di gestione dei tribunali che colleghi i casi tra i vari tribunali e le procure, mentre “l’efficienza mostra una tendenza positiva per le cause civili, commerciali e penali, ma ci sono serie difficoltà nella gestione delle cause amministrative e dei reclami costituzionali”. La capacità del Parlamento di garantire l’esercizio dei necessari controlli e contrappesi “è limitata da questioni di efficacia, autonomia e trasparenza, anche in termini di supervisione dell’esecutivo e del processo legislativo”.Da sinistra: la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, e il presidente della Serbia, Aleksandar VučićL’adozione della Strategia nazionale anticorruzione 2023-2028 “è ancora in sospeso” e il quadro giuridico in vigore mostra “carenze nella pratica”. Nonostante la maggior parte delle forme di corruzione siano considerate reato, “sono necessari ulteriori miglioramenti per stabilire un solido track record di indagini, rinvii a giudizio e condanne definitive nei casi di alto livello”, anche considerate le carenze nella verifica e nell’applicazione delle dichiarazioni patrimoniali e nel finanziamento dei partiti politici. La normativa sul lobbismo “è di portata limitata”, la legislazione sulla protezione degli informatori “non è ancora allineata” all’acquis Ue e quello degli appalti pubblici è un settore “ad alto rischio” di corruzione. Le organizzazioni della società civile “non dispongono di un ambiente favorevole alla loro costituzione, alle loro attività e al loro finanziamento”, avvisa la Commissione, aprendo uno dei capitoli più delicati per il rispetto dello Stato di diritto in Serbia.L’Autorità di regolamentazione per i media elettronici “non riesce a esercitare appieno il suo mandato di salvaguardia del pluralismo e degli standard professionali, e vi sono anche serie preoccupazioni sulla sua indipendenza”. Le misure per la trasparenza delle strutture proprietarie e della pubblicità con risorse statali “non sono ancora state pienamente attuate” e, “sullo sfondo delle denunce di notizie tendenziose”, rimane critica l’autonomia editoriale e il pluralismo del servizio pubblico. A questo si somma il fatto che i giornalisti continuano a trovarsi di fronte a “frequenti rifiuti da parte di enti pubblici di divulgare informazioni di importanza pubblica o a non ricevere alcuna risposta”, e la loro sicurezza “è fonte di preoccupazione, così come la crescente pressione esercitata da cause legali abusive”. A questo proposito, rispondendo alle domande della stampa sul rispetto dello Stato di diritto in Serbia, la commissaria europea per i Valori e la trasparenza, Vera Jourová, ha messo in chiaro che “seguiremo molto da vicino la situazione in Serbia” e la Commissione non tollererà “attacchi, minacce o intimidazioni da parte di politici che bollano i giornalisti come minacce pubbliche”.