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    Trump torna alla Casa Bianca, e l’Unione europea si preoccupa

    Bruxelles – Dopo aver tenuto il mondo col fiato sospeso per mesi, alla fine le presidenziali statunitensi si sono concluse con la rielezione di Donald Trump. Lo scrutinio dei voti non è ancora completato, ma dai risultati parziali disponibili mercoledì mattina (6 novembre) è già certo che sarà il tycoon newyorkese a varcare, per la seconda volta, la soglia dell’ufficio ovale della Casa Bianca, da cui rimarrà invece esclusa la vicepresidente in carica, la candidata democratica Kamala Harris. È l’esito che temevano (quasi) tutti sull’altra sponda dell’Atlantico, poiché rischia di mettere nuovamente a dura prova le relazioni tra Washington e Bruxelles, nonostante i leader europei si stiano già congratulando con il presidente neo-rieletto.I risultati parzialiMancano ancora i risultati definitivi di cinque Stati – Alaska, Arizona, Maine, Michigan e Nevada – ma il quadro finale è già abbondantemente chiaro. Con 277 delegati già assicurati contro i 224 cui è rimasta inchiodata la sfidante democratica, il capo-padrone del Partito repubblicano (il Grand old party, come lo chiamano negli Usa) può dirsi già certo della rielezione, per la quale gliene bastavano 270. (Qui avevamo spiegato come funziona il complesso meccanismo del voto indiretto negli Usa.)Il voto popolare riflette del resto il vantaggio di Donald Trump su Kamala Harris: oltre 71 milioni per il primo, poco più di 66 milioni per la seconda. Così, dopo essere stato il 45esimo, Trump sarà il 47esimo presidente degli Stati Uniti, anche se la sua nomina formale da parte dei delegati all’Electoral college non avverrà prima di dicembre. L’insediamento è in calendario per il 20 gennaio 2025, qualche giorno dopo l’anniversario dell’assalto a Capitol Hill, da lui stesso fomentato il 6 gennaio 2021.Com’è andata l’elezionePer la seconda volta nella storia degli Usa, un ex presidente ha ottenuto un secondo mandato non consecutivo al primo (il precedente è di Grover Cleveland, presidente dal 1885 al 1889 e poi dal 1893 al 1897). Per la seconda volta, la candidata donna è stata sconfitta, ed entrambe le volte a vincere è stato proprio Trump (con Harris ora, con Hillary Clinton otto anni fa).Ma un dato importante da osservare è quello relativo ai consensi. Il candidato del Gop ha fatto meglio rispetto alla volta scorsa virtualmente ovunque: in ogni Stato, in ogni gruppo etnico, in ogni segmento d’età della popolazione (con aumenti anche di 12 punti percentuali, come in alcune contee in Florida). Dei sette swing states che secondo i pronostici avrebbero deciso l’esito della corsa presidenziale, l’ex inquilino della Casa Bianca ha sicuramente conquistato la Georgia, il North Carolina, la Pennsylvania (il più succulento in termini di voti, coi suoi 19 grandi elettori) e il Wisconsin, ed è in vantaggio anche in quelli dove il conteggio non è ancora terminato.Scoramento tra i sostenitori della candidata democratica Kamala Harris all’evento elettorale della Howard University a Washington, il 5 novembre 2024 (foto: Charly Triballeau/Afp)Soprattutto, Trump è riuscito a “ribaltare” tre Stati che erano blu (cioè erano andati ai dem) nell’ultima tornata elettorale del 2020, vinta dal presidente uscente Joe Biden, e facendoli diventare rossi (cioè a maggioranza repubblicana): Georgia, Pennsylvania e Wisconsin, cui si sta per aggiungere il Michigan. Insomma, nel cosiddetto blue wall – letteralmente “muro blu”, costituito da una dozzina di Stati che avevano rappresentato altrettante roccaforti democratiche dai primi anni Novanta (pur con qualche oscillazione nelle ultime tre elezioni) – si sono aperti dei buchi importanti, spalancando al tycoon le porte della Casa Bianca. Viceversa, Harris è andata male anche in quei distretti dove ci si aspettava una vittoria dei democratici.Non solo. Oltre alla presidenza, gli elettori votavano ieri anche per rinnovare un terzo dei senatori e l’intera Camera dei rappresentanti. I repubblicani hanno ottenuto la maggioranza al Senato (il che faciliterà il processo con cui Trump dovrà nominare esponenti dei rami esecutivo e giudiziario), mentre non è ancora detta per la Camera, dove i dem potrebbero avere ancora qualche flebile speranza. Se pure quella andrà al Gop, Trump avrà il Congresso in pugno almeno fino alle prossime elezioni di mid-term.Le reazioni dall’EuropaMercoledì mattina, Trump ha reclamato la vittoria durante un comizio in Florida, annunciando l’inizio di “una nuova età dell’oro per l’America”. Ma già nella notte tra martedì e mercoledì, dall’altra sponda dell’oceano sono cominciate ad arrivare le prime reazioni dei leader europei. La presidente dell’esecutivo Ue, Ursula von der Leyen, si è congratulata “calorosamente” con il candidato repubblicano, sottolineando la volontà di “lavorare insieme su un’agenda transatlantica forte”.Le ha fatto eco il presidente uscente del Consiglio europeo, Charles Michel, che ha ribadito come tra Usa e Ue ci sia “un’alleanza duratura e un legame storico” e come vada mantenuta la “cooperazione costruttiva” tra Washington e Bruxelles, “difendendo il sistema multilaterale basato sulle regole”. Al momento in cui scriviamo, non c’è alcuna comunicazione ufficiale da parte del capo della diplomazia comunitaria, l’Alto rappresentante Josep Borrell.Congratulations to President-elect @realDonaldTrump.& have an enduring alliance and a historic bond. As allies and friends, the EU looks forward to continuing our constructive cooperation.The EU will pursue its course in line with the strategic agenda as a strong,…— Charles Michel (@CharlesMichel) November 6, 2024Che la maggior parte delle cancellerie europee sperassero in una vittoria di Harris, comunque, è un segreto di Pulcinella. Il ritorno di Trump alla Casa Bianca ha il potenziale di cambiare molte cose per Bruxelles in diversi dossier cruciali e in una congiuntura internazionale particolarmente delicata. Un cambiamento che avrebbe il sapore del ritorno ad un passato che l’Ue aveva vissuto con estrema difficoltà e che era ben contenta di aver archiviato.Le conseguenze per l’Ue (e il mondo)Uno dei sismi maggiori arriverà in politica estera. A partire dall’Ucraina, dove da due anni e mezzo infuria una guerra che il neo-eletto presidente ha millantato di poter far finire nel giro di 24 ore. Non a caso, una delle prime reazioni alle elezioni è arrivata proprio da Kiev: “Continuiamo a contare sul forte supporto bipartisan per l’Ucraina negli Stati Uniti”, ha scritto su X Volodymyr Zelensky. Il suo Paese, ha detto, “è impegnato nell’assicurare pace e sicurezza a lungo termine all’Europa e alla comunità transatlantica, con il sostegno dei nostri alleati”. Come a dire: noi vogliamo continuare a difenderci, ma ci serve l’aiuto di Washington. Che, con Trump alla Casa Bianca, non può essere dato per scontato, dato che il presidente eletto ha fatto ampiamente intendere che punta a ridurre fortemente, o addirittura interrompere completamente, gli aiuti militari e finanziari a Kiev.Sullo scacchiere mediorientale, una seconda presidenza Trump significherà con ogni probabilità che il premier israeliano Benjamin Netanyahu avrà carta bianca per continuare la sua guerra regionale, potendo contare sulla protezione incondizionata dell’ombrello a stelle e strisce in qualsiasi confronto miliare con i molti nemici dello Stato ebraico. Si spiega così la reazione di giubilo del capo del governo di Tel Aviv per la “enorme vittoria” del candidato repubblicano: “Congratulazioni per il ritorno più grande della storia!”, ha scritto Netanyahu su X, aggiungendo che tale “ritorno storico alla Casa Bianca offre un nuovo inizio all’America e un rinnovo del convinto impegno nella grande alleanza tra Israele e l’America”.Il premier israeliano Benjamin Netanyahu (sinistra) e la moglie Sara in visita alla residenza di Donald Trump a Mar-a-Lago, in Florida (foto: Afp via Israeli government)In dubbio, almeno in termini di contribuzione finanziaria, potrebbe essere anche la partecipazione statunitense alla Nato. L’uscita di Washington dall’Alleanza appare ad oggi remota, ma è verosimile che nei prossimi quattro anni l’Europa debba ripensare in maniera strutturale la propria sicurezza, nel caso in cui Trump non voglia garantirla di fronte, ad esempio, all’aggressivo neo-imperialismo del presidente russo Vladimir Putin.Anche il commercio internazionale subirà un duro colpo a causa dei pesanti dazi che Trump ha annunciato di voler reintrodurre non soltanto sui prodotti made in China ma anche su quelli provenienti dal Vecchio continente. Un problema che si presenterà non solo per la Germania, che di fatto vive del suo export, ma anche per l’Italia (vedi ad esempio alla voce esportazioni casearie). Tanto che la premier Giorgia Meloni ha provato subito a metterci una pezza, richiamando l’importanza dei legami transatlantici come fatto dai vertici comunitari e ricordando come i due Paesi siano “Nazioni sorelle, legate da un’alleanza incrollabile, valori comuni e una storica amicizia” e da un “legame strategico”.Altri ambiti in cui la cooperazione tra Europa e Stati Uniti potrebbe presto entrare in crisi sono quelli del contrasto al cambiamento climatico (Trump nel 2020 ha ritirato Washington dagli accordi di Parigi) e della transizione energetica, visto che il neo-eletto presidente è un fautore del ricorso alle fonti fossili e di tecniche di estrazione controverse come il fracking.

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    Presidenziali Usa, come funziona l’elezione dal risultato imprevedibile

    Bruxelles – Sembra quasi un paradosso, ma forse dice qualcosa sullo stato del mondo di questi tempi. Le presidenziali negli Stati Uniti, cioè le elezioni più importanti del 2024 – un anno elettorale senza precedenti nella storia globale – sono praticamente impossibili da prevedere. La posta in gioco è decisamente alta, soprattutto sullo scacchiere internazionale, ma mai come stavolta il risultato della sfida a due per la Casa Bianca è stato così difficile da anticipare. E si ridurrà tutto, alla fine, alla conquista di pochi Stati in bilico, o addirittura di uno solo. Potrebbe essere decisiva una manciata di voti. Ecco cosa c’è da sapere sul testa a testa tra la candidata democratica e vicepresidente in carica, Kamala Harris, e lo sfidante repubblicano ed ex presidente, Donald Trump, che si sta combattendo oggi (5 novembre) e che avrà enormi ripercussioni per il mondo in generale e per l’Europa in particolare.Come funziona il votoPer cominciare, va ricordato che quelle per la scelta del presidente degli Stati Uniti non sono elezioni dirette ma indirette: i cittadini non votano per il loro candidato preferito, bensì per la lista dei cosiddetti grandi elettori collegata al candidato suddetto. Ciascuno Stato federato dispone di un numero di grandi elettori (detti anche delegati) pari alla somma totale dei suoi rappresentanti al Congresso: il numero dei deputati alla Camera varia in base alla popolazione, mentre ogni Stato ha due senatori. Così, ad esempio, quest’anno la California ha 54 grandi elettori e il Delaware tre. Ci sono inoltre tre rappresentanti per il District of Columbia, il territorio non statale dove ha sede la capitale federale di Washington.Ora, l’assegnazione dei delegati avviene quasi sempre con il sistema winner-takes-all: tutti i grandi elettori di uno specifico Stato vengono ottenuti dal candidato presidente che ottiene la maggioranza semplice nel voto popolare di quello Stato (50 per cento più uno dei consensi). Solo due Stati, il Maine e il Nebraska (quattro e cinque delegati rispettivamente), adottano un metodo proporzionale: i due delegati “territoriali” (cioè quelli in rappresentanza del Senato) vengono ottenuti da chi vince il voto popolare su base statale, mentre gli altri vengono ripartiti tra i vari distretti elettorali in cui si dividono i due Stati.Il collegio elettoraleI grandi elettori sono in tutto 538 e si riuniranno a dicembre formando quello che si chiama Electoral college, letteralmente collegio elettorale, un organo che decide tramite un voto di “secondo livello” chi guiderà la Casa Bianca a partire dal 6 gennaio 2025. Il “numero magico”, cioè la soglia da superare per ottenere la presidenza, è di 270 voti, la maggioranza semplice dei grandi elettori. Nel caso in cui si arrivasse ad un pareggio (entrambi i candidati a 269 voti), a decidere tra i due è la Camera dei deputati, che attualmente è a maggioranza repubblicana.Un simile meccanismo comporta che, tecnicamente, per i candidati presidenti non è tanto importante vincere il voto popolare quanto assicurarsi un numero sufficiente di delegati nell’Electoral college. Per quanto possa sembrare controintuitivo, le due cose non sono necessariamente collegate: vincere il voto popolare su base nazionale (cioè quello dei cittadini in tutti e 50 gli Stati della federazione) non assicura automaticamente la presidenza se non si vincono abbastanza grandi elettori. Nell’ultimo quarto di secolo, per due volte è stato eletto presidente il candidato che aveva perso il voto popolare: nel 2000 con George W. Bush (contro lo sfidante Al Gore) e nel 2016 con Donald Trump (contro Hillary Clinton).Gli Stati in bilicoEcco perché, in questa competizione elettorale, la geografia politica gioca un ruolo determinante. Alcuni Stati sono tradizionalmente democratici (o blu, dal colore del partito) mentre altri sono roccaforti repubblicane (o rossi). La vera battaglia si combatterà invece in una manciata di Stati che si suole definire “in bilico” (gli swing states), in cui cioè non c’è una netta preferenza per nessuno dei due partiti: si tratta di Arizona (11 delegati), Georgia (16), Michigan (15), Nevada (6), North Carolina (16), Pennsylvania (19) e Wisconsin (10).Attualmente, secondo le ultime proiezioni, Harris dovrebbe già contare con ragionevole certezza su un tesoretto di 226 delegati mentre Trump su un numero che andrebbe da 219 a 230. Ad essere determinanti saranno insomma le “combinazioni” di Stati in bilico che ciascuno dei due candidati potrà portare a casa: se è pur vero che la Pennsylvania, coi suoi 19 grandi elettori, è quello più “succulento”, è anche vero che vincere solo quello non sarà sufficiente se non verranno conquistati anche i delegati di almeno altri due swing states. Uno degli scenari più accreditati in questo momento è quello per cui Trump riesce ad assicurarsi l’Arizona, la Georgia, il Nevada ed il North Carolina, arrivando a 268 delegati, mentre Harris si attesterebbe a 251 conquistando Michigan e Wisconsin. A quel punto, i 19 voti della Pennsylvania sarebbero determinanti per aprire ad entrambi le porte della Casa Bianca.Cosa dicono i sondaggiE qui si aprono i problemi delle previsioni. In nessuno dei sondaggi disponibili si registra un vantaggio netto di un candidato nei sette swing states: nella maggior parte dei casi, il distacco è inferiore ai due punti percentuali, cioè troppo vicino al margine di errore per poter accettare le rilevazioni come affidabili. In Pennsylvania sembrerebbe in leggero vantaggio Trump, ma il testa a testa è così serrato che si parla di una distanza dello 0,3 per cento.C’è anche il caso di un recente sondaggio che darebbe Harris in vantaggio su Trump di quattro punti in Iowa, uno Stato che nelle ultime due elezioni è andato ai repubblicani e che si pensava sarebbe rimasto rosso anche stavolta. Potrebbe trattarsi di un abbaglio (ricordiamo che i sondaggi non sono una scienza esatta, per quanto i modelli che adottano migliorino col tempo), oppure di una dinamica capace di rimettere in discussione anche altri Stati che i due partiti considerano blindati.A livello nazionale, i sondaggi danno Harris in lieve vantaggio, ma si tratta di una distanza dell’1 per cento. Il tycoon newyorkese era davanti all’attuale presidente, Joe Biden, finché quest’ultimo non si è ritirato lo scorso luglio lasciando il posto alla sua vice. Da allora, Harris è rimasta quasi sempre in testa, ma negli ultimi giorni il distacco tra i due candidati si è ridotto.I risultati definitiviAd ogni modo, per sapere chi ha vinto le elezioni dovremo probabilmente aspettare un po’. Gli ultimi seggi chiudono in Alaska e alle Hawaii alla mezzanotte locale, cioè le 6 di mercoledì mattina in Italia. Le prime elaborazioni parziali dei risultati dovrebbero arrivare già intorno alle 2 di notte, ma difficilmente si potrà avere un quadro sufficientemente completo della situazione prima delle 7-8 di mattina. Questo, naturalmente, nel caso in cui l’esito del voto sia chiaro: altrimenti, il conteggio potrebbe prendere ancora più tempo. Nel 2020, ad esempio, ci sono voluti quattro giorni perché Biden fosse proclamato presidente eletto, mentre nel 2000 Bush ha dovuto aspettare un mese prima che il suo sfidante concedesse la sconfitta.Data la crescente polarizzazione dell’elettorato statunitense e la pervasività di fake news e teorie del complotto, c’è da aspettarsi che, se i risultati di quest’elezione non consegneranno una vittoria netta a nessuno dei due candidati, la parte sconfitta rifiuti di riconoscere la vittoria dell’altra e si mobiliti per contestarla: tramite l’avvio di infinte cause legali nel migliore dei casi o, nel peggiore, con una riedizione dell’assalto al Congresso del 6 gennaio 2021.

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    Ue e Corea del Sud siglano un accordo sulla difesa. E Borrell chiede a Seoul di intensificare il supporto all’Ucraina

    Bruxelles – Dopo l’uscita allo scoperto della Corea del Nord sul supporto a Mosca, Bruxelles chiede a Seoul un salto di qualità nel supporto all’Ucraina. L’Alto rappresentante Ue per gli Affari esteri, Josep Borrell, si è recato nella penisola e ha inaugurato il primo dialogo strategico Ue-Corea del Sud. Facendo leva sulle tensioni storiche – e in crescita – tra Pyongyang e Seoul, Borrell ha incoraggiato il partner sud-est asiatico a “intensificare” il proprio sostegno alla resistenza di Kiev.Insieme al ministro degli Esteri della Corea del Sud, Cho Tae-yul, Borrell ha annunciato il Partenariato per la sicurezza e la difesa tra l’Ue e la Repubblica di Corea, una sorta di quadro politico che individua le coordinate per una cooperazione rafforzata tra Bruxelles e Seoul in settori chiave quali la sicurezza marittima e la difesa spaziale, le questioni informatiche, il contrasto alle minacce ibride, alla manipolazione dell’informazione e all’interferenza straniera, la lotta al terrorismo, la formazione e l’istruzione, la non proliferazione nucleare e il disarmo.Josep Borrell Fontelles e Cho Tae-Yul a Seoul, 4/11/24Le tempistiche scelte per siglare il partenariato non sono una mera coincidenza: in una dichiarazione congiunta, Borrell e l’omologo coreano hanno condannato “con la massima fermezza i continui trasferimenti illegali di armi” dalla Corea del Nord alla Russia e “il dispiegamento di forze speciali in Russia, a sostegno della guerra di aggressione illegale in Ucraina”. La cooperazione tra Kim Jong-un e Vladimir Putin “non solo è una flagrante violazione di molteplici risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite”, ma “minaccia la sicurezza del mondo, compresa quella della Repubblica di Corea e dell’Europa”, sottolineano Borrell e Cho Tae-yul.Proprio oggi (4 novembre) il Consiglio nazionale di sicurezza e difesa dell’Ucraina ha riferito dei primi scontri a fuoco tra le forze di Kiev e le truppe nordcoreane nella regione russa di Kursk. Dal punto di vista di Seoul, i dieci mila soldati di Pyongyang al fronte a fianco dei russi significano soprattutto qualcosa in cambio da parte di Mosca: “Stiamo monitorando attentamente ciò che la Russia fornisce alla Rpdc in cambio della fornitura di armi e personale militare, compresa la possibile fornitura di materiali e tecnologie a sostegno degli obiettivi militari di Pyongyang“, prosegue la dichiarazione congiunta. “Profonda preoccupazione” in particolare per  “l’eventualità di un trasferimento di tecnologia nucleare o legata ai missili balistici”. Il do ut des tra i due autocrati non fa altro che alimentare l’aggressività del regime di Kim Jong-un, come dimostrato dal test missilistico balistico della scorsa settimana, il più potente mai condotto dal Paese. Nelle parole del leader coreano, “un’azione militare appropriata che soddisfa pienamente lo scopo di informare i rivali della nostra capacità di contrattaccare”. Un notiziario sudcoreano dà la notizia del lancio di un missile balistico da parte di Pyongyang (Photo by JUNG YEON-JE / AFP)In un bilaterale con il ministro della Difesa della Corea del Sud, Kim Yong Hyun, Borrell ha paragonato la “minaccia esistenziale” russa contro l’Ucraina al rapporto tra le due Coree: “La Repubblica di Corea è nella posizione migliore per capirlo”, ha dichiarato il capo della diplomazia Ue. Già la scorsa settimana, durante la visita del presidente polacco Andrzej Duda a Seoul, il presidente sudcoreano Yoon Suk Yeol si era impegnato a rispondere al coinvolgimento della Corea del Nord in Ucraina, anche fornendo potenzialmente armi a Kiev.“Se la Corea del Nord invia forze speciali nella guerra in Ucraina come parte della cooperazione tra Russia e Corea del Nord, noi sosterremo l’Ucraina per gradi e rivedremo e implementeremo le misure necessarie per la sicurezza nella penisola coreana”, aveva dichiarato. Finora, la Corea del Sud ha fornito a Kiev aiuti umanitari, e contribuito solo indirettamente all’assistenza militare, attraverso la fornitura di armi a diversi Paesi membri dell’Ue e della Nato.

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    La pro europea Maia Sandu ha vinto al secondo turno le presidenziali in Moldova

    Bruxelles – L’esito finale delle presidenziali moldave regala un sospiro di sollievo alle cancellerie occidentali, con la conferma del capo dello Stato uscente, l’europeista Maia Sandu, per altri quattro anni. Dopo il primo turno dello scorso 20 ottobre, gli elettori hanno premiato nel ballottaggio la presidente della Repubblica in carica, che vuole blindare il percorso di Chisinau verso l’Ue. Secondo le autorità, il voto è stato inquinato per l’ennesima volta dalle interferenze di Mosca. Di sicuro, per l’ennesima volta, c’è che Sandu è stata “salvata” dalla diaspora, mentre in patria avrebbe vinto lo sfidante filorusso.I numeri della sfidaA scrutinio quasi completato (99,86 per cento dei seggi) il quadro che emerge dalle presidenziali moldave di ieri (3 novembre) è chiaro: la presidente uscente Maia Sandu ha vinto il secondo turno con il 55,41 per cento dei consensi, staccando di oltre dieci punti l’ex procuratore generale filorusso Alexandr Stoianoglo, fermo al 44,59 per cento. Il capo dello Stato ha commentato così il responso delle urne: “Moldova, oggi sei vincitrice. Insieme, abbiamo dimostrato la forza della nostra unità, democrazia e impegno per un futuro dignitoso”.Moldova, today you are victorious. Together, we’ve shown the strength of our unity, democracy, and commitment to a dignified future.Thank you, dear Moldovans, at home and abroad. Walk with pride—you are freedom, hope, and resilience. I am proud to serve you all. pic.twitter.com/yGGlrjAMEC— Maia Sandu (@sandumaiamd) November 3, 2024I dati aggregati non restituiscono pienamente la dinamica del voto. Per farsi un’idea più completa occorre considerare la provenienza geografica dei consensi espressi. Nei 1988 collegi in cui è divisa la Moldova, Stoianoglo ha sorpassato Sandu di oltre due punti (51,19 a 48,81 per cento), mentre la presidente in carica ha stravinto il voto dall’estero: con 228 su 231 collegi scrutinati, Sandu si è portata a casa l’82,77 per cento delle preferenze degli expat moldavi, mentre Stoianoglo è rimasto inchiodato al 17,23 per cento. Nella capitale Chisinau, il vantaggio di Sandu sullo sfidante è di una quindicina di punti: 57,38 contro 42,62 per cento.Gioco sporco?Fino alla chiusura delle urne, il ballottaggio si annunciava particolarmente combattuto e il suo esito difficile da prevedere. Sandu, un’ex economista della Banca mondiale candidatasi come indipendente di area del Partito di azione e solidarietà (Pas), la forza di governo liberale ed europeista, aveva ottenuto il 42,5 per cento al primo turno, mentre Stoianoglo si era attestato al 26,5 per cento. Ma quest’ultimo, appoggiato dal Partito dei socialisti (Psrm), filo-russo, aveva ricevuto l’endorsement di diversi altri candidati sconfitti il 20 ottobre.Un altro ostacolo alla riconferma di Sandu, almeno stando alle dichiarazioni delle autorità moldave e della stessa presidente, è stata poi l’ennesima campagna di interferenza orchestrata dalla Russia di Vladimir Putin, che avrebbe preso di mira il processo democratico del Paese balcanico tramite fake news, disinformazione, propaganda e varie forme di coercizione degli elettori, inclusa la minaccia di attacchi ai seggi all’estero. Il segretario di Stato per la sicurezza, Stanislav Secrieru, ha denunciato il trasporto coatto di centinaia di elettori moldavi da parte russa, mentre il premier Dorin Recean ha affermato che diversi cittadini hanno ricevuto “minacce di morte anonime tramite chiamate telefoniche”.Sandu ha parlato di “attacchi senza precedenti” mossi da “forze ostili fuori dal Paese”, e ha accusato lo sfidante (che lei stessa aveva destituito dall’incarico di procuratore generale l’anno scorso) di essere un “cavallo di Troia” putiniano. Stoianoglo ha contrattaccato dipingendosi come l’uomo del dialogo sia con l’Occidente che con la Russia e imputando al capo dello Stato una retorica “divisiva” in un Paese in cui, affianco alla maggioranza romena, abita una nutrita comunità russofona.La partita geopoliticaL’esito del voto è fondamentale per la collocazione internazionale della Moldova e potrebbe anticipare le dinamiche che caratterizzeranno le prossime elezioni legislative, che si terranno entro la prima metà del 2025. Con la riconferma della presidente in carica per un altro mandato di quattro anni, il piccolo Paese balcanico parrebbe essersi ancorato più saldamente nel campo occidentale, ma non è ancora detto che il Pas (al potere dal 2021) riesca a mantenere il controllo del governo il prossimo anno.La stessa Sandu ha dichiarato che l’ingresso nel club europeo sarà l’imperativo strategico più importante della politica estera di Chisinau e che si augura di centrare l’obiettivo entro la fine del decennio. “Entrare nell’Unione europea è il piano Marshall della Moldova”, ha dichiarato, riferendosi al piano di investimenti monstre con cui gli Stati Uniti hanno sostenuto la ricostruzione dell’Europa occidentale nel secondo dopoguerra. Bruxelles ha recentemente adottato un pacchetto di finanziamenti da quasi 2 miliardi di euro per assistere Chisinau nel suo percorso verso l’Ue.L’alternativa, per la piccola repubblica balcanica, è il ritorno nell’orbita del Cremlino. La Moldova è uno degli Stati che costituiscono il cosiddetto spazio post-sovietico: una “cintura” di Paesi che secondo molti analisti Putin vorrebbe mantenere sottoposti alla Federazione Russa al fine di creare una zona cuscinetto in funzione anti-Nato, e che cerca di trattenere tramite interventi più o meno diretti, militari e ibridi. Oltre alle interferenze nei processi elettorali moldavi, Mosca mantiene da decenni delle truppe nella regione separatista della Transnistria, un lembo di terra moldava al confine con l’Ucraina.Bruxelles festeggia SanduEcco perché a Bruxelles la vittoria di Sandu è stata salutata con particolare sollievo. “Ci congratuliamo con le autorità moldave per il successo delle elezioni, nonostante le interferenze senza precedenti della Russia, anche con schemi di compravendita di voti e disinformazione”, si è complimentato l’Alto rappresentante per la politica estera comunitaria Josep Borrell, che ha denunciato i “tentativi ibridi” del Cremlino “di minare le istituzioni democratiche del Paese e il suo percorso nell’Ue”.Lo stesso giorno in cui si è tenuto il primo turno delle presidenziali, i moldavi avevano anche votato in un referendum che li interrogava sull’eventualità di introdurre in Costituzione l’obiettivo di aderire all’Ue. Sandu aveva convocato la consultazione popolare sperando in un plebiscito a favore del “sì”, ma alla fine il fronte europeista ha vinto sul filo del rasoio, sempre grazie al voto della diaspora e della capitale. Anche in quell’occasione erano state denunciate forti ingerenze di Mosca, facilitate da schemi di frodi elettorali ricondotti dagli inquirenti all’oligarca filorusso Ilan Shor.La domanda di adesione moldava risale al marzo 2022 e lo status di candidato è arrivato lo scorso dicembre. A giugno di quest’anno si è tenuta la prima conferenza intergovernativa Ue-Moldova, con cui sono stati formalmente avviati i negoziati per l’ingresso in Ue.

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    L’Ue al lavoro per rimpatriare i rifugiati siriani, ma le ong avvertono: “Rischiano persecuzioni, la Siria non è sicura”

    Bruxelles – Creare le condizioni per il “rimpatrio sicuro, volontario e dignitoso” dei rifugiati siriani. Una strada che i governi europei sono sempre più decisi a percorrere, ora più che mai, in vista di un’eventuale ondata di arrivi di profughi siriani che scappano dal sud del Libano dilaniato dalle bombe israeliane. Il problema però – come denunciano le organizzazioni che vigilano sui diritti umani – è che la situazione a Damasco non è cambiata e i siriani che rientrano rischiano violenze e persecuzioni da parte del regime di Bashar al-Assad. O dei gruppi armati che controllano parte del territorio.L’idea di rivedere la Strategia Ue sulla Siria, relativa al 2017, circola da tempo a Bruxelles. Secondo le stime dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), i Paesi europei ospitano oltre un milione di richiedenti asilo siriani, di cui il 59 per cento solo in Germania. E il tema del rimpatrio dei rifugiati siriani “è reso ancora più urgente dell’evoluzione delle ostilità nel Medio Oriente e nel Libano”, ammettono fonti diplomatiche. Perché sempre secondo l’Unhcr, il Paese dei Cedri ospiterebbe più di un milione e mezzo di profughi dalla Siria.Già al Consiglio europeo dello scorso aprile, i leader avevano messo nero su bianco la “necessità” di mettere in moto i rimpatri “in linea con le condizioni definite dall’Unhcr“, invitando la Commissione europea a “esaminare e rafforzare l’efficacia dell’assistenza dell’Ue ai rifugiati siriani e agli sfollati in Siria e nella regione”. A luglio poi, otto Paesi membri – Italia, Austria, Croazia, Cipro, Cechia, Grecia, Slovacchia e Slovenia – hanno presentato durante una riunione dei ministri degli Esteri Ue un non paper (un documento informale) per chiedere di riconsiderare la Strategia sula Siria “nel mutato contesto regionale”, senza “legittimare in alcun modo il regime” di Assad e “senza compromessi su democrazia e diritti umani”.Bashar al-Assad, presidente della Siria dal 2000La Commissione europea sembra determinata a dare seguito alla richiesta di impostare un “approccio più realistico” alle relazioni con Damasco, una strategia “più attiva, orientata ai risultati e operativa”, con l’obiettivo di garantire il rientro sicuro dei profughi della guerra cominciata nel 2011: a quanto si apprende, nella giornata di ieri (30 ottobre), durante una riunione con gli ambasciatori dei Paesi membri, l’esecutivo Ue ha presentato un nuovo documento informale per tastare le posizioni dei 27 sul tema. Il non paper di Bruxelles rifletterebbe “in larga misura” le proposte lanciate a luglio dai governi italiano e austriaco, in particolare l’ipotesi di un Inviato speciale Ue nel Paese, il sostegno al settore privato, la cooperazione con l’Unhcr sul campo per favorire i rimpatri volontari e per sostenere l’emergenza attraverso progetti di ‘early recovery‘.Dallo scambio di opinioni tra i corpi diplomatici Ue, sarebbe emerso “ampio sostegno per il piano d’azione delineato – confermano fonti Ue -, sottolineando il coordinamento con l’Unhcr, ma anche la cautela nell’evitare qualsiasi percezione di normalizzazione delle relazioni con il regime di Assad”.D’altra parte però, l’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati fa notare che “nonostante una serie di iniziative politiche nell’arco del 2023, le condizioni all’interno della Siria non sono ancora favorevoli per facilitare i rimpatri volontari su larga scala in sicurezza e dignità”. Secondo i dati dell’Unhcr, nel 2023 sono rientrati in Siria circa 38.300 rifugiati, in calo rispetto ai quasi 51 mila che avevano scelto di rientrare nel 2022. Per ora, l’Unhcr non ha modificato la sua posizione aggiornata al marzo 2021, secondo cui la Siria non è un Paese sicuro per i rimpatri.Una donna in un campo per gli sfollati interni siriani a Raqa (Photo by Delil SOULEIMAN / AFP)Una posizione condivisa e rilanciata da diverse organizzazioni internazionali, tra cui Human Rights Watch, che in un rapporto pubblicato ieri ha sottolineato che “i siriani che fuggono dalle violenze in Libano rischiano la repressione e la persecuzione da parte del governo siriano al loro ritorno”. Secondo la Mezzaluna Rossa Araba Siriana (Sarc), tra il 24 settembre e il 22 ottobre circa 440 mila persone – più dei due terzi siriani e i restanti libanesi – sono fuggiti dal Libano in Siria. Nonostante Damasco abbia finora mantenuto “aperte le frontiere e alleggerito le procedure di immigrazione”, Human Rights Watch sostiene che “il governo siriano e i gruppi armati che controllano alcune zone della Siria continuano a impedire alle organizzazioni umanitarie e per i diritti umani di accedere pienamente e senza ostacoli a tutte le aree, compresi i siti di detenzione, ostacolando gli sforzi di documentazione e oscurando la reale portata degli abusi”.Secondo l’organizzazione per i diritti umani chi rientra in Siria, “in particolare gli uomini, rischia detenzioni arbitrarie e abusi da parte delle autorità”. Human Rights Watch ha documentato numerosi casi di detenzioni arbitrarie, torture e uccisioni di rifugiati di ritorno dal 2017. Il rapporto punta il dito contro “alcuni leader europei” che sostengono “sempre più spesso che la Siria è sicura per i rimpatri, promuovendo politiche che potrebbero revocare le protezioni per i rifugiati, nonostante le continue preoccupazioni per la sicurezza e i diritti umani”.

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    Allargamento Ue 3/ Quando Mosca è troppo vicina: gli ostacoli all’adesione di Georgia, Serbia e Turchia

    Bruxelles – Tra i Paesi candidati ad entrare in Unione europea, tre sembrano al momento piuttosto lontani. Si tratta di Georgia, Serbia e Turchia. Ognuno di loro presenta varie criticità su diversi livelli, ma un elemento che accomuna Tbilisi, Belgrado e Ankara è lo scollamento da Bruxelles su un punto fondamentale: la politica estera e di sicurezza. Che, a partire dall’aggressione dell’Ucraina di due anni e mezzo fa, comprende l’imperativo di non allinearsi alla Russia di Vladimir Putin.La Serbia, tallone d’Achille dei BalcaniTra i sei Paesi candidati della regione balcanica, la Serbia (che ha avanzato la sua domanda di adesione nel 2012) è decisamente la più problematica dal punto di vista del disallineamento rispetto alle priorità strategiche della politica estera comunitaria. Nella sua relazione annuale sul progresso del processo di adesione (chiamata anche “pacchetto sull’allargamento“), presentata mercoledì (30 ottobre) dall’Alto rappresentante per la politica estera Josep Borrell e dal commissario all’Allargamento e al vicinato Olivér Várhelyi, si legge che “il ritmo dei negoziati” per l’ingresso di Belgrado nel club europeo “continuerà a dipendere dalle riforme sullo Stato di diritto e dalla normalizzazione delle relazioni della Serbia con il Kosovo”.Per quanto riguarda il primo punto, le riforme su cui il Paese balcanico deve concentrare i propri sforzi hanno a che fare soprattutto con la libertà della società civile e dei media e la lotta contro la disinformazione e le interferenze dall’estero. Tradotto: va ridotta l’esposizione alle campagne ibride del Cremlino, che fanno presa in questo Stato più che negli altri della regione.Ma è soprattutto sul difficile rapporto con il Kosovo che si stanno giocando le prospettive europee della Serbia. Belgrado non ha mai riconosciuto l’indipendenza di Pristina (proclamata unilateralmente nel 2008 e riconosciuta da oltre metà degli Stati membri dell’Onu), e il dialogo tra le due nazioni – facilitato dall’Ue – non sta compiendo progressi significativi. Il che è un eufemismo, considerati i momenti di crisi acuta negli ultimi tempi (ad esempio la disputa sulle targhe albanesi sfociata poi nell’episodio di sangue presso il monastero di Banjska nel settembre 2023). Del resto, il governo serbo guidato da Miloš Vučević ha ribadito che intende continuare sulla linea del non-riconoscimento di quella che considera una parte del territorio nazionale.A preoccupare Bruxelles è parallelamente anche la vicinanza di Belgrado a Mosca, un altro problema dell’esecutivo di Vučević (ma anche di quelli precedenti), di cui fanno parte due politici sanzionati dagli Stati Uniti per il loro legame alla Russia di Vladimir Putin: l’ex capo dell’intelligence Aleksandar Vulin e l’imprenditore Nenand Popović. L’esecutivo comunitario sottolinea che la Serbia “non è ancora allineata alle misure restrittive” adottate dall’Ue “contro la Federazione Russa” e altri Paesi come Bielorussia, Corea del Nord e Iran e “non si è allineata alla maggior parte delle dichiarazioni dell’Alto rappresentante” rivolte al Cremlino. Oltre a ciò, continua il rapporto, Belgrado “ha mantenuto relazioni di alto livello” con Mosca e “intensificato” quelle con Pechino, “sollevando dubbi circa la direzione strategica della Serbia”.La Georgia, un Paese in bilicoUn altro Stato candidato che sta pericolosamente pendendo verso Mosca è la Georgia. Nonostante la sua popolazione sia fortemente filo-occidentale, il governo – dal 2012 saldamente nelle mani di Sogno georgiano, il partito-macchina dell’oligarca Bidzina Ivanishvili – ha assunto nel corso dell’ultimo anno posizioni sempre più marcatamente filorusse, forzando peraltro l’approvazione parlamentare di due provvedimenti liberticidi (una legge sugli “agenti stranieri” e una sulla famiglia che discrimina i membri della comunità Lgbtq+) modellati sull’esempio di analoghe norme russe, che sono costati a Tbilisi il congelamento del percorso di avvicinamento all’Ue (avviato nel 2022) e la sospensione dell’erogazione dei fondi comunitari.La situazione non è affatto migliorata con l’ultima tornata elettorale dello scorso sabato (26 ottobre), durante la quale gli osservatori locali e internazionali hanno denunciato una lunga serie di irregolarità e violazioni e che le opposizioni si sono impegnate a non riconoscere, rifiutandosi di insediarsi nel nuovo Parlamento. Secondo la presidente della Repubblica, Salomé Zourabichvili, le elezioni sono state “rubate” ai georgiani da “un’operazione dei servizi segreti russi” e anche a Bruxelles si teme che l’esito del voto possa spingere il piccolo Stato caucasico verso l’orbita di Mosca in maniera irrimediabile.Secondo l’analisi della Commissione europea, “il tasso di allineamento con la politica estera e di sicurezza dell’Ue rimane considerevolmente basso”, anche se Tbilisi ha “cooperato con l’Ue per prevenire la circonvenzione delle sanzioni” comminate alla Federazione Russa. Una cooperazione che potrebbe venir meno nell’immediato futuro.Il limbo eterno della TurchiaRimangono decisamente esigue anche le speranze della Turchia di entrare in Ue: il Paese anatolico ha fatto domanda di adesione nel lontano 1999 ma, per una lunga serie di motivi, non ha mai avuto una prospettiva concreta di far parte del club a dodici stelle e ora la sua pratica è bloccata dal 2018. Tra i maggiori ostacoli ci sono la questione cipriota, le dispute con la Grecia per il controllo di alcuni tratti di mare (e dei sottostanti giacimenti di idrocarburi) nel Mediterraneo orientale, il rispetto dello Stato di diritto e dei diritti fondamentali (inclusi quelli delle minoranze e delle donne) e, pure in questo caso, il disallineamento in politica estera tra Ankara e Bruxelles.Sotto la presidenza di Recep Tayyip Erdoğan, la Turchia si è mossa con relativa disinvoltura (i critici direbbero con spregiudicatezza) sulla scena internazionale, instaurando un rapporto ambivalente con la Russia di Putin. Su alcuni fronti di crisi, come quello siriano, i due leader si sono trovati su posizioni opposte, ma i due Paesi sono in realtà strettamente legati da una crescente relazione che investe il piano politico (Ankara starebbe ambendo ad entrare nei Brics, che l’uomo forte di Mosca definisce l’alternativa globale all’Occidente), strategico (dall’Africa all’Ucraina passando per il Caucaso), economico (con uno scambio commerciale in continuo aumento) ed energetico (la Turchia sembra puntare a diventare l’hub per far entrare il gas russo in Europa nell’epoca in cui le sanzioni impediscono agli Stati Ue di rifornirsi direttamente dalla Federazione).L’esecutivo comunitario ribadisce che Ankara “si è rifiutata di allinearsi alle misure restrittive dell’Ue contro la Russia riguardo all’aggressione russa dell’Ucraina”, e suggerisce che la Turchia dovrebbe impegnarsi maggiormente per ridurre la circonvenzione delle sanzioni dei beni diretti verso la Federazione impedendo il “falso transito” di articoli particolarmente sensibili attraverso il proprio territorio. La repubblica anatolica dovrebbe inoltre “cooperare più attivamente con le autorità inquirenti dell’Ue sui casi di falsificazione dell’origine dei beni sanzionati provenienti dalla Russia che entrano illegalmente nel mercato unico” dei Ventisette. Nelle parole di Borrell, l’allineamento tra la politica estera comunitaria e quella turca è “particolarmente basso e in diminuzione”.

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    Allargamento Ue 2/ Il sogno dell’Ucraina di accedere all’Ue diventa sempre più concreto

    Bruxelles – Il sogno dell’Ucraina di accedere all’Unione Europea sembra sempre più vicino. Dopo la prima conferenza intergovernativa di giugno 2024, l’esame dei requisiti del Paese procede senza difficoltà. Se l’Ucraina riuscirà a soddisfare tutte le condizioni, sarà possibile partire quanto prima con l’apertura dei negoziati.L’Ucraina è uno dei nove paesi candidati all’adesione comunitaria. Dopo l’aggressione russa, il Paese ha chiesto di potere entrare in Ue e nell’estate 2022 la Commissione europea ha raccomandato lo status di candidato, a cui il Consiglio dell’Ue ha dato il proprio benestare all’unanimità. Poi, nel novembre 2023, l’apertura dei negoziati.Per valutare lo status dei candidati e il loro progressi, la Commissione prepara ogni anno il pacchetto di allargamento Ue. Concretamente, nella presentazione di oggi (30 ottobre), il Commissario per il vicinato e l’allargamento Oliver Varhelyi ha spiegato come questo fornisca “una valutazione concreta ed equa dei progressi dei nostri partner, insieme a una guida chiara, che consente loro di individuare i punti in cui l’accelerazione delle riforme può guidare i loro progressi verso l’adesione all’Ue”.L’Ue per prima si impegna per favorire l’adesione dei candidati. Il caso ucraino è sui generis, perché il supporto economico europeo è arrivato in funzione del conflitto contro la Russia, con un ammontare totale di 122 miliardi circa, “a supporto dell’Ucraina e dei suoi cittadini”. Impegno economico che si associa ad un fermo sostegno per “l’indipendenza, la sovranità e l’integrità territoriale dell’Ucraina, all’interno dei suoi confini riconosciuti a livello internazionale”. Uno dei pacchetti, per esempio, è lo Strumento per l’Ucraina, che copre fino a 50 miliardi di euro e ha lo scopo di supportare il paese su tre pilastri fondamentali, relativi al bilancio dello Stato, un quadro di investimenti funzionali a ripresa e ricostruzione del paese e assistenza tecnica per permettere di realizzare le riforme.Ogni paese che ambisce ad entrare nell’Ue deve raggiungere il cosiddetto acquis comunitario. Acquis che non è altro che l’insieme di diritti e obblighi che sono alla base del diritto dell’Ue e devono essere accettati ed integrati nelle legislazioni nazionali dai paesi entranti.Analizzando il report sulla situazione ucraina, fa ben sperare il generale allineamento con le raccomandazioni precedentemente ricevute dalla Commissione. Riguardo la democrazia, su cui il paese ha fatto dei progressi, si registra che “le principali strutture istituzionali per l’integrazione nell’Ue sono state create”, ponendo le basi per il futuro. Mancano delle riforme per avere piene garanzie dei diritti umani, come l’implementazione della Convenzione di Istanbul sul contrasto alla violenza sulle donne, per quanto si segnala che il paese ha fatto dei buoni progressi. Altrettanto sul contrasto alla corruzione, sull’indipendenza del giudiziario e sulla tutela della libertà di espressione, su cui la Commissione ha registrato che mancano ancora molti elementi.Sull’economia, la strada percorsa è buona, ma l’Ucraina sconta il prezzo di due anni di guerra sul proprio territorio. In generale, il funzionamento dell’economia interna progredisce, ma paga la competitività, su cui il Paese ha le risorse per fare pochi progressi. Allo stesso modo non ci sono dei grandi miglioramenti sul controllo finanziario. Nessuna fumata bianca per il mercato interno, su cui in generale l’Ucraina non ha recepito le precedenti raccomandazioni della Commissione. Delle quattro libertà di movimento fondamentali, che coinvolgono capitali, merci, servizi e lavoratori, le prime tre registrano qualche sviluppo, mentre quella dei lavoratori non vede alcun progresso fatto.Migliore performance è quella sulla sicurezza e sulla difesa, per cui si registra un “elevato livello di allineamento” con la politica estera e di sicurezza comune dell’Ue e un significativo rafforzamento della cooperazione militare con l’Ue. Ci si aspetta che il paese continui a condividere le posizioni europee nei confronti della Russia e il “piano per la vittoria” presentato dal presidente ucraino Volodymyr Zelensky potrebbe contribuire su questi punti.Il conflitto che ormai imperversa da due anni sul territorio del Paese ha impattato sul perfezionamento di altri macro-ambiti, come l’agricoltura, i trasporti o la transizione verde. Nonostante ciò, l’Ucraina ha un “buon livello di preparazione” nel campo dell’energia e sono stati presi impegni legislativi sulle energie rinnovabili. L’energia è stato un grande tasto dolente della guerra in Ucraina, anche se ora si vocifera di accordi con la Russia per limitare gli attacchi alle strutture energetiche, che sono state danneggiate tanto da minare la sicurezza degli approvvigionamenti.“Gli ucraini stanno combattendo due battaglie allo stesso tempo“, ha dichiarato l’Alto rappresentante Joseph Borrell, “una sul campo di battaglia, una vera e propria guerra, e la seconda per portare avanti le riforme necessarie a diventare uno Stato membro“. Il supporto europeo, come ricordato, è su tutti i fronti, visto che “l’adesione all’UE è la massima garanzia di sicurezza che possiamo offrire all’Ucraina“, come ricorda Borrell. Per cui, l’ingresso dell’Ucraina è auspicabile come segnale politico, come scelta strategica e come contributo alla difesa del paese dell’Unione europea nel suo insieme.

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    Allargamento Ue 1/ Nuovo slancio in sei dei Paesi candidati

    Bruxelles – Nel giorno dell’ultimo pacchetto annuale sull’Allargamento di questa Commissione europea – che ha avuto il merito di rimettere al centro delle priorità Ue i dieci Paesi sulla strada dell’adesione – le buone notizie arrivano per sei di loro. Montenegro, Albania, Bosnia-Erzegovina, Macedonia del Nord, Moldova e Ucraina. Se quest’ultima merita un discorso a parte, per le altre cinque vale il minimo denominatore comune sottolineato dall’Alto rappresentante Ue, Josep Borrell: “Si sono allineati pienamente alla nostra politica estera e di sicurezza comune”.Perché non è tollerato alcun “business as usual” nei confronti di Mosca, come rimproverato invece a Georgia, Serbia e Turchia. In un contesto geopolitico segnato indelebilmente dall’aggressione della Russia in Ucraina, non si può prescindere dal posizionamento strategico dei Paesi candidati all’Ue. Quasi una cartina tornasole per poi analizzare lo stato dell’arte di tutti gli altri parametri che Bruxelles richiede alle capitali che hanno scelto il percorso europeo.La guerra alle porte dell’Europa ha d’altra parte sicuramente restituito “nuovo slancio” al processo di allargamento del blocco Ue, perché l’adesione – come evidenziato da Borrell – “diventa una scelta strategica”. Anche da parte di Bruxelles. E in effetti due settimane fa si sono aperti ufficialmente i negoziati con l’Albania, quelli sul cosiddetto “cluster dei fondamentali”, mentre Ucraina e Moldova hanno tenuto la prima conferenza intergovernativa che dà il via ai negoziati a giugno 2024. Tappa raggiunta anche dalla Macedonia del Nord, e sempre più nitida all’orizzonte per la Bosnia-Erzegovina, con cui nel marzo 2024 il Consiglio europeo ha deciso di aprirà i negoziati. Ben più avanti infine il Montenegro che, “avendo soddisfatto i parametri intermedi per i capitoli sullo Stato di diritto, è in procinto di chiudere provvisoriamente ulteriori capitoli negoziali”.Le raccomandazioni ai Paesi candidatiPer quanto riguarda Podgorica, il documento Ue sottolinea che nel complesso il Montenegro “ha accelerato i preparativi per l’adesione all’Ue e ha lavorato in modo efficace”. Secondo la Commissione europea, l’impegno politico delle autorità montenegrine per l’obiettivo strategico dell’integrazione europea è stata “una priorità costante per il Paese”. I negoziati di adesione con il Montenegro sono vecchi di oltre un decennio, aperti nel giugno 2012. Ad oggi sono stati aperti 33 capitoli negoziali sui 35 totali, di cui 3 sono stati chiusi provvisoriamente.Tra i Balcanici che finalmente avanzano verso l’Ue c’è l’Albania, fresca dell’apertura dei negoziati sul cluster dei fondamentali, che riguardano “Magistratura e diritti fondamentali, Giustizia, libertà e sicurezza, Appalti pubblici, Statistiche, Controllo finanziario”. Secondo la valutazione della Commissione europea è fondamentale che Tirana “intensifichi ulteriormente il ritmo delle riforme orientate all’Ue, in particolare per quanto riguarda lo Stato di diritto”. L’obiettivo è consolidare i risultati ottenuti “nell’applicazione della legge, nella lotta efficace alla corruzione e alla criminalità organizzata e nella promozione dei diritti fondamentali, tra cui la libertà dei media, i diritti di proprietà e le minoranze”.Nel caso della Macedonia del Nord, il cui percorso di adesione è stato recentemente spacchettato da quello dell’Albania per permettere a Tirana di avanzare, l’Ue ribadisce l’importanza di “attuare in buona fede” gli accordi bilaterali esistente con i Paesi vicini, in primis con la Grecia e la Bulgaria, che stanno frenando il percorso di Skopje verso Bruxelles. Il piccolo Stato balcanico deve accelerare l’impegno sulla “lotta alla corruzione e la criminalità organizzata”, oltre che “rafforzare la fiducia nel sistema giudiziario”. Skopje si è in ogni caso dimostrata “ancora una volta un partner affidabile” per quanto riguarda il suo posizionamento nei confronti della guerra in Ucraina, “inviando un forte segnale della sua scelta strategica di adesione all’Ue”.Anche la Bosnia-Erzegovina ha dimostrato “risultati tangibili, tra cui la gestione della migrazione, il pieno allineamento con la politica di sicurezza comune ed estera dell’Ue e l’approvazione di leggi sull’integrità del sistema giudiziario, la lotta al riciclaggio di denaro e il conflitto di interessi”. A questo punto, la Commissione europea sta preparando il quadro negoziale in vista della sua adozione da parte del Consiglio, previa l’attuazione da parte di Sarajevo di una serie di raccomandazioni indicate dall’esecutivo Ue nell’ottobre del 2022. Con la Bosnia rimane però qualche attrito sull’allineamento anti-Mosca: nonostante “buoni progressi, l’attuazione delle misure restrittive rimane una sfida a causa di ostacoli politici”, rileva la Commissione.Rimane Moldova, che solo pochi giorni fa ha deciso con un referendum serratissimo di emendare la costituzione nazionale prevedendo l’accesso all’Unione europea come obiettivo. Per il commissario Ue all’Allargamento, Olivér Várhelyi, “negli ultimi anni Moldova ha fatto molta strada”. Nonostante “le continue interferenze russe e l’impatto della guerra di aggressione della Russia contro l’Ucraina”, si legge nel documento. Dopo la prima conferenza intergovernativa del giugno 2024, la valutazione di Bruxelles è la seguente: “l’esame analitico dell’acquis Ue procede senza intoppi”. Un esito che fa sì che la Commissione auspichi l’apertura dei negoziati con la repubblica confinante con l’Ucraina “il prima possibile nel 2025”.