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    L’UE introdurrà meccanismo di sanzioni contro propaganda di regime e disinformazione (a partire dalla Russia)

    Bruxelles – Come bombe, mortai e mitragliatrici, “anche la propaganda di Vladimir Putin è uno strumento di guerra che bombarda le menti di russi, ucraini e cerca di colpire anche le nostre”. L’avvertimento è arrivato dall’alto rappresentante UE per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, intervenuto questa mattina (martedì 8 marzo) al dibattito in sessione plenaria del Parlamento UE sulle interferenze straniere nell’Unione Europea. La risposta di Bruxelles è già arrivata la settimana scorsa, con la sospensione della distribuzione dei media statali Russia Today e Sputnik, ma in cantiere è in costruzione una visione più ampia: “Proporrò presto un meccanismo UE per imporre sanzioni alle fonti maligne di informazioni e di propaganda, stiamo mettendo insieme gli strumenti necessari”, ha anticipato Borrell.
    Di fronte a una plenaria quasi all’unanimità compatta dietro alla relazione presentata dall’eurodeputata lettone Sandra Kalniete (PPE), l’alto rappresentante UE ha fornito qualche dettaglio sulla futura proposta di un meccanismo per le sanzioni contro la propaganda di regimi oppressivi: “Lo struttureremo attorno al rafforzamento della resilienza dell’Unione e dei nostri partner, in particolare della società civile, e attorno all’individuazione nel dettaglio di attività di ingerenza”, partendo dal “concetto di contrasto alla disinformazione portato avanti in due anni di pandemia”.
    La guerra in atto in Ucraina “ci mostra come la manipolazione delle informazioni sia uno strumento che si affianca all’assalto militare” e che colpisce indiscriminatamente all’esterno come all’interno del Paese. “Si è arrivati a un completo isolamento della popolazione russa, con una bolla che impedisce di sapere cosa sta accadendo”, ha messo in chiaro l’alto rappresentante UE.
    Borrell ha ricordato che la disinformazione colpisce la popolazione russa sia sulle ragioni dell’invasione, sia sulla situazione attuale in Ucraina: “Nelle settimane prima dell’assalto ha preparato il terreno all’invasione, invertendo causa ed effetto, dipingendo la Russia come vittima di un genocidio e l’Ucraina di Volodymyr Zelensky come un governo nazista da abbattere“. Si tratta non solo di “una distorsione della Storia”, ma anche “un racconto usuale per i russi”, che non possono avere accesso a un’informazione libera. Al contrario “il giro di vite contro i media in Russia ha portato alla criminalizzazione di quella che il Cremlino definisce falsa informazione”. In breve, “parlare di guerra anziché di operazione militare speciale può costare 15 anni detenzione“, ha ricordato l’alto rappresentante Borrell.
    Parlando di quanto l’UE vorrebbe fare per contrastare la propaganda russa (e non solo) con un regime di sanzioni pari a quelle contro oligarchi ed entità vicine al potere autocratico, Borrell ha precisato che “io non sono il ministro della verità, l’essenza delle nostre azioni è colpire gli attori esterni che cercano di influenzare in modo strutturale l’ambiente mediatico per danneggiarci”. Due esempi su tutti, Russia Today e Sputnik: “Sono asset nelle mani del Cremlino con la capacità di condurre guerre di informazione”, che “andavano bloccate perché sul combustibile dell’informazione si basano le azioni politiche dei cittadini e lo stato della democrazia“. Un pericolo che si avverte anche sul territorio dei Ventisette, Italia inclusa: “Bisogna individuare i casi più pericolosi, anche consultando la task force East StratCom” del Servizio europeo di azione esterna (SEAE).
    Prendendo parola dopo l’alto rappresentante, la vicepresidente della Commissione UE per i Valori e la trasparenza, Věra Jourová, si è detta “soddisfatta” che piattaforme come Netflix si siano ritirate dalla Russia, così come del fatto che diversi amministratori delegati di Big Tech “vogliano stare dalla parte giusta della Storia”. Jourová ha attaccato con forza il regime di Putin (“il copione non è cambiato dai tempi dell’Unione Sovietica“) e ha avvertito che “la verità è il nemico peggiore dei regimi oppressivi”. Di qui la necessità per Bruxelles di fare tutto il possibile per bloccare la disinformazione orchestrata dall’esterno, Russia di Putin in prima linea.

    La Commissione Europea si prepara a lavorare su misure restrittive che colpiscano i megafoni dei governi repressivi, come dimostrato dalla disinformazione e dalle ingerenze della Russia “come strumento di guerra”

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    Cittadini, oppositori e giornalisti: la scia di sangue che segna i vent’anni dell’era Putin. Dentro e fuori la Russia

    Bruxelles – Dalla Cecenia all’Ucraina, passando per l’eliminazione fisica delle voci critiche in Russia. In quasi 23 anni di potere ininterrotto, l’autocrate Vladimir Putin ha inanellato una lista di accuse per crimini e morti che si perde nella frammentarietà delle notizie, della negazione di coinvolgimento e delle giustificazioni di protezione del Paese dal terrorismo e dalle provocazioni esterne. Il filo rosso del sangue scorre e si dipana dall’agosto del 1999, quando l’allora neo-primo ministro Putin scatenò l’offensiva contro la Cecenia separatista, fino al marzo 2022, con l’invasione russa dell’Ucraina e gli attacchi indiscriminati alla popolazione di un Paese sovrano e indipendente.
    I crimini ordinati da Putin in Cecenia
    Era il 9 agosto del 1999 quando un allora semi-sconosciuto tenente colonnello ed ex-direttore del Servizio federale per la sicurezza della Federazione russa (erede del KGB sovietico), Vladimir Putin, venne nominato primo ministro della Federazione Russa. Il primo atto del neo-premier (dopo nemmeno tre settimane dall’insediamento) fu un’offensiva militare per riottenere il controllo dei territori conquistati dai separatisti ceceni dopo la fine della prima guerra nella regione (1994-1996). A un mese dall’inizio dei bombardamenti, nel settembre del 1999 Putin dichiarò alla stampa russa che “noi perseguiteremo dappertutto i terroristi e quando li troveremo li butteremo dritti nella tazza del cesso”. Non furono perseguitati solo i terroristi jihadisti, ma anche la popolazione civile.
    Il 21 ottobre 1999 un missile colpì il mercato nel centro della città di Groznyj, provocando la morte di 140 persone, tra cui donne e bambini. Solo una settimana più tardi un aereo russo attaccò un convoglio di profughi ceceni diretti verso la Repubblica d’Inguscezia: furono uccisi in 25, tra civili, volontari della Croce Rossa e giornalisti. Dopo la conquista di Groznyj, nel gennaio del 2000 le rappresaglie russe contro i combattenti ceceni sfociarono nel massacro di Katyr-Yurt, quando 170 civili furono uccisi durante l’attacco a un convoglio protetto da bandiera bianca. Allora Putin aveva accentrato nelle sue mani sia la carica di primo ministro sia di presidente della Federazione Russa. Si stimano tra le 25 e le 50 mila morti di innocenti nei dieci anni complessivi di guerra scatenata da Putin, ma anche crimini di guerra, stupri e saccheggi da parte dell’esercito e dei mercenari assoldati da Mosca. I gruppi russi per i diritti umani e Amnesty International hanno documentato più di 5 mila sparizioni forzate dal 1999 nella Cecenia occupata, all’interno di un quadro che è stato definito “un genocidio”.
    Una situazione che è andata peggiorando con il sorgere del terrorismo ceceno di matrice islamista. Il caso più emblematico dei crimini ordinati da Putin è datato 23-26 ottobre 2002. A seguito dell’attacco da parte di 40 militanti armati del teatro Dubrovka di Mosca – dove tennero per più di due giorni in ostaggio 850 persone – il presidente russo ordinò l’irruzione delle forze speciali Spetsnaz. Non prima di aver dato il via libera alla diffusione nel teatro di un gas derivato del fentanyl (narcotico oppioide) per far perdere i sensi agli assalitori. A causa del panico generato dal gas e dell’intervento armato delle forze speciali, 33 militanti ceceni e 129 ostaggi morirono al teatro Dubrovka, molti dei quali per soffocamento: quasi tutti (almeno 700) rimasero intossicati e alcuni vivono oggi con disabilità dovute agli effetti del composto. Nel 2011 la Corte Europea per i Diritti dell’Uomo di Strasburgo condannò la Russia a pagare oltre un milione di euro di risarcimenti per violazione della Convenzione sui Diritti Umani. La giornalista russa Anna Politkovskaja, prima di essere uccisa, attaccò l’autocrate del Cremlino in questo modo: “Con Putin la Russia sta recuperando i peggiori valori sovietici, come il brutale fondamentalismo stalinista”.
    L’eliminazione fisica di oppositori e giornalisti
    È proprio l’omicidio della giornalista Anna Politkovskaja che apre il capitolo degli assassinii attribuiti al mandato dell’autocrate russo (ma per evidenti ragioni a lui mai imputati). La professionista dell’informazione a cui è oggi intitolata la sala stampa del Parlamento Europeo a Bruxelles fu freddata il 7 ottobre del 2006 nei pressi del suo appartamento a Mosca da cinque uomini. Politkovskaja aveva denunciato dalle colonne di Novaja Gazeta le brutalità commesse dal Cremlino in Cecenia e accusava Putin di aver fatto della Russia uno stato di polizia. Quasi a discolparsi, il padre-padrone della Federazione dichiarò che l’omicidio della giornalista “ha fatto più danni alla Russia e alla Cecenia della sua attività professionale”.
    Come documentato dal Comitato per la protezione dei giornalisti (CPJ), organizzazione indipendente a tutela della libertà di stampa nel mondo, Politkovskaja è una dei 31 giornalisti uccisi in Russia tra il 27 ottobre 1999 e il 29 maggio 2017, cioè da quando Vladimir Putin ha preso le redini del Paese come primo ministro (1999-2000, 2008-2012) o come presidente (1999-2008, 2012-in corso). Tra i crimini più efferati, si ricorda quello di Pavel Klebnikov, creatore e caporedattore della versione in lingua russa della rivista Forbes: il 9 luglio del 2004, dopo la pubblicazione della lista delle persone più ricche di Russia, il giornalista fu assassinato all’uscita della redazione di Mosca e morì nell’ascensore dell’ospedale in cui fu trasportato. Il caso è tuttora irrisolto.
    Tra i crimini mai risolti – ma tutti con il minimo comune denominatore delle vittime in contrasto con Putin – è lunga la lista degli oppositori politici. Fare una stima del numero totale è quasi impossibile a causa delle circostanze misteriose dei decessi e dell’insabbiamento delle indagini, ma basta citare i casi più eclatanti per constatare che tutto il ventennio di dominio quasi assoluto dell’autocrate russo è costellato di assassinii ai danni di chi ha alzato la voce contro Putin. Il 15 aprile 2003 fu ucciso il deputato liberale Sergei Yushenkov, dopo un’inchiesta sugli attentati che quattro anni prima avevano fornito il pretesto per l’invasione della Cecenia. Il 23 novembre del 2006 l’ex-agente del KGB Alexander Litvinenko morì avvelenato con il polonio a Londra (la Corte europea dei diritti umani ha riconosciuto lo Stato russo colpevole nel settembre dello scorso anno).
    Nel 2009 furono uccisi a distanza di pochi mesi gli attivisti Stanislav Markelov e Natalia Estemirova per le investigazioni sugli abusi del Cremlino, in particolare nel Caucaso. Il 16 novembre dello stesso anno morì in carcere l’avvocato Sergei Magnitsky, arrestato per frode fiscale dopo aver studiato casi di corruzione di alcune imprese russe. Le autorità gli avevano negato le cure mediche. Il 23 marzo 2013 l’oligarca Boris Berezovsky fu trovato impiccato nella sua casa di Sunninghill (Regno Unito), ma i giudici inglesi non hanno potuto stabilire che si sia trattato realmente di suicidio. Il 27 febbraio del 2015 Boris Nemcov, ex-vicepremier e una delle principali figure di opposizione al regime di Putin fu assassinato a pochi passi dal Cremlino. L’ultimo di questa lista – se non fosse stato salvato dai medici del Charité Hospital di Berlino – è Alexei Navalny, l’oppositore di Putin avvelenato nell’agosto del 2020 e attualmente detenuto in Russia dopo essere rientrato nel Paese dalla Germania.
    I crimini dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina
    I corpi dei civili uccisi a Irpin, dopo l’attacco dell’esercito russo del 6 marzo 2022 (fonte: New York Times)
    Si inserisce nella cornice dell’invasione russa dell’Ucraina l’ultima lista di crimini ordinati da Putin. Senza dimenticare che il Cremlino sta portando guerra da 11 giorni a uno Stato sovrano, l’esercito russo non sta attaccando solo obiettivi militari, ma anche e soprattutto la popolazione ucraina. Secondo quanto riportato dall’alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani (OHCR), tra il 24 febbraio e il 6 marzo sono morti più di 360 civili, che si vanno a sommare agli oltre 4 mila dei sette anni di guerra nel Donbass. Il procuratore generale della Corte penale internazionale dell’Aja, Karim Khan, ha accolto la richiesta di 39 Paesi di aprire un’indagine per crimini di guerra contro l’establishment russo per l’occupazione dell’Ucraina: il focus sarà sulle violenze contro i civili negli otto anni tra l’occupazione della Crimea e l’invasione del territorio ucraino.
    Bombardamenti aerei contro le città – da Kiev a Kharkiv, da Mariupol a Odessa – oltre alle continue violazioni dei cessate il fuoco degli ultimi giorni per evacuare i civili intrappolati nelle zone di combattimento di Mariupol e fuori dalla capitale ucraina. Sabato (5 marzo) in un’imboscata delle forze russe fuori Kiev era caduta anche la troupe di Sky News, che ne era poi uscita incolume. Il fuoco incrociato dell’esercito di Mosca non ha però risparmiati ieri (domenica 6 marzo) una famiglia durante l’evacuazione della città di Irpin: madre, padre e due bambini sono stati colpiti dai colpi di mortaio appena dopo aver attraversato il fiume omonimo per dirigersi verso Kiev. Sono le ultime quattro morti della lista di crimini ordinati direttamente o indirettamente dall’autocrate Vladimir Putin.

    Active investigations formally commence in Ukraine situation upon receipt of referrals by 39 states parties: https://t.co/DDkDs7qHlc
    — Karim A. A. Khan QC (@KarimKhanQC) March 2, 2022

    Dai civili attaccati indiscriminatamente in Cecenia e in Ucraina, alle figure che si opponevano al regime in patria: è lunga la lista delle violenze volute o attribuite all’autocrate ininterrottamente al potere dal 1999

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    Inizia il cammino: gli ambasciatori UE incaricano la Commissione di formulare un parere sulla domanda di adesione di Ucraina, Georgia e Moldova

    Bruxelles – Si è messo in moto nelle istituzioni europee il processo di adesione all’UE di Ucraina, Georgia e Repubblica di Moldova. Gli ambasciatori dei 27 Stati membri riuniti nel Comitato dei rappresentanti permanenti del Consiglio (Coreper) hanno concordato di invitare la Commissione Europea a presentare un parere su ciascuna delle domande di adesione presentate da Ucraina, Georgia e Moldova, che sarà poi trasmesso al Consiglio dell’UE.
    L’avvio della procedura scritta servirà per “convalidare i progetti di lettere che chiedono il parere della Commissione Europea“, spiega la presidenza di turno francese del Consiglio dell’UE. Le tre richieste per ottenere lo status di Paese candidato all’adesione sono arrivate tutte nel corso della scorsa settimana, tra lunedì (28 febbraio) e giovedì (3 marzo): la prima era stata l’Ucraina – che ha ricevuto l’endorsement del Parlamento UE riunito in sessione plenaria – seguita a ruota tre giorni più tardi da Georgia e Moldova. Oltre a Kiev, in cerca di un sostegno anche politico da parte dell’Unione contro l’invasione russa, le domande formali di Tbilisi e Chișinău si possono leggere come una tutela dalle minacce alla propria indipendenza portate dal disegno del “nuovo mondo” di Putin e come una volontà dei Paesi vicini alla Russia di disegnare il futuro assetto geopolitico sempre più legato a Bruxelles.
    La scorsa settimana il portavoce della Commissione Europea, Eric Mamer, aveva già precisato che “la richiesta di adesione dell’Ucraina, della Georgia e della Moldova mostrano che c’è un desiderio genuino e un successo dell’UE come progetto di pace e prosperità“, mentre la portavoce responsabile per la Politica di vicinato e l’allargamento, Ana Pisonero, aveva ricordato a tutti che “le richieste di unirsi sono sempre ben accette, ma prevedono comunque un lungo processo”. Tutti e tre i Paesi condividono la base di partenza di un Accordo di associazione entrato pienamente in vigore tra il 2016 (Georgia e Moldova) e il 2018 (Ucraina) che sta permettendo di allinearsi alle norme e standard europei in ambito politico, economico e sociale, anche se l’intesa non ha mai avuto come obiettivo o come clausola l’adesione UE dei tre Paesi.
    Ricevuta la proposta formale di candidatura all’adesione e richiesto il parere della Commissione dal Coreper, per diventare un Paese membro dell’UE (Ucraina, Georgia e Moldova, in questo caso), è necessario superare l’esame dei criteri di Copenaghen, ovvero le basilari condizioni democratiche, economiche e politiche (istituzioni stabili, Stato di diritto, rispetto dei diritti umani, economia di mercato, capacità di mantenere l’impegno). Dopodiché si arriva alla firma dell’Accordo di stabilizzazione e associazione, un accordo bilaterale tra UE e Paese richiedente, e a questo punto si può presentare la vera e propria domanda di adesione all’Unione: se accettata, viene conferito lo status di Paese candidato. Segue la raccomandazione della Commissione al Consiglio UE di avviare i negoziati: solo quando viene dato il via libera all’unanimità dai Paesi membri si possono aprire i capitoli di negoziazione (in numero variabile). Alla fine di questo processo si arriva alla firma del Trattato di adesione.
    Oltre alle candidature di Moldova, Georgia e Ucraina, il processo di allargamento UE coinvolge già i sei Paesi dei Balcani Occidentali – Albania, Bosnia ed Erzegovina, Kosovo, Macedonia del Nord, Montenegro e Serbia – e la Turchia, i cui negoziati sono però cristallizzati dalla politica del presidente Erdoğan. Serbia e Montenegro stanno portando avanti i negoziati di adesione rispettivamente dal 2014 e dal 2012, mentre il pacchetto Albania-Macedonia del Nord è bloccato dal 2018 prima per il veto di Francia-Paesi Bassi-Danimarca ai danni di Tirana e poi per quello attuale della Bulgaria contro Skopje (dalla fine del 2020). La Bosnia ed Erzegovina ha fatto domanda di adesione nel 2016, mentre il Kosovo ha solo firmato l’Accordo di stabilizzazione e associazione.

    L’avvio della procedura da parte dell’esecutivo comunitario servirà per convalidare i progetti di lettere che ne richiedono il parere. Sarà poi il Consiglio dell’UE a doversi esprimere sulle richieste di Kiev, Tbilisi e Chișinău

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    L’Unione Europea chiede alla Cina di premere sulla Russia per mettere fine all’aggressione dell’Ucraina

    Bruxelles – Il sonno del gigante cinese inizia a essere sempre più disturbato. Negli 11 giorni di invasione russa dell’Ucraina, Pechino è il vero jolly che ancora nessuno è riuscito a giocarsi per indirizzare in un verso o nell’altro la guerra voluta da Vladimir Putin. Né Mosca, per avere quel supporto necessario per affrontare le sanzioni e il boicottaggio delle aziende di quasi tutto il mondo, né le potenze occidentali per isolare definitivamente il Cremlino e metterlo in ginocchio. Oggi però l’UE ha fatto un passo in avanti e ha chiesto apertamente alla Cina di fare pressione sulla Russia per mettere fine all’aggressione in Ucraina.
    “L’alto rappresentante Josep Borrell è in contatto con la controparte cinese perché prema per fermare questo attacco senza precedenti contro l’integrità territoriale di uno Stato”, ha spiegato il portavoce del Servizio europeo per l’azione esterna (SEAE), Peter Stano, nel corso del punto quotidiano con la stampa. “L’UE sta chiedendo alla Cina di usare la propria influenza per raggiungere un cessate il fuoco e porre fine ai bombardamenti brutali della Russia”, ha aggiunto Stano, sottolineando che la potenza orientale “ha il potenziale per raggiungere Mosca grazie alle sue relazioni bilaterali“. Il portavoce del SEAE ha fatto notare che “la Cina non era tra i cinque Paesi che si sono opposti alla risoluzione votata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite” e “questa è una ragione per aumentare il nostro impegno per fare in modo che diventi partner della comunità internazionale che spinge per la fine della guerra in Ucraina”.
    Per l’appunto, la Cina è stata tra i 35 Paesi che si sono astenuti al voto di mercoledì scorso (2 marzo) sulla risoluzione di condanna all’aggressione dell’Ucraina, insieme a India ed Emirati Arabi Uniti. Una dimostrazione che – a differenza di quanto previsto dal Cremlino – gli alleati di Putin iniziano a scarseggiare e non hanno interessi a sostenerlo esplicitamente. Solo un mese fa Xi Jinping e Vladimir Putin avevano condannato l’espansionismo verso Est della NATO e si erano promessi “amicizia senza limiti”. Ma la guerra di Putin – che non sembra più essere ‘lampo’ come prospettato dall’autocrate russo e che ha evocato anche lo spettro dell’arma nucleare – sta diventando un ostacolo per il presidente cinese. Da un turbamento dell’economia globale e da un nuovo periodo di recessione, Pechino non ha molto da guadagnarci. È per questo motivo che la Cina potrebbe lasciarsi convincere dall’UE a esporsi maggiormente e prendere un’iniziativa diplomatica per risolvere la crisi scatenata dalla Russia.
    Questo significherebbe però mettere parzialmente in discussione l’alleanza con la Russia e, soprattutto, non trarre tutti i benefici che potrebbero derivare da un indebolimento dell’Occidente impegnato in Ucraina. Se l’esercito di Putin si dovesse impantanare in Ucraina e le potenze occidentali impegnarsi ancora più a lungo a sostegno di Kiev, senza alcuno sforzo la Cina di Xi Jinping potrebbe godere di un parziale cambio di rotta in politica estera da parte degli Stati Uniti (sempre più distratti dal Pacifico) e di un’Europa che non può ripartire con slancio dopo due anni di crisi scatenata dalla pandemia COVID-19. Ma anche di una Russia impoverita e isolata a livello internazionale, che diventerebbe facilmente un satellite di Pechino, unico interlocutore in materia di politica estera, economica ed energetica. Il tempo delle scelte sta però svegliando la potenza cinese, che rischia di trovarsi ora davanti a un bivio da cui difficilmente si può tornare indietro.

    Pechino “ha il potenziale per raggiungere Mosca grazie alle sue relazioni bilaterali”, ha spiegato il portavoce del Servizio europeo per l’azione esterna (SEAE), Peter Stano. Bruxelles vuole che Xi Jinping “usi tutta la sua influenza”

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    L’UE e la minaccia nucleare di Putin, Bruxelles lavora a un piano di emergenza dopo la presa della centrale di Zaporizhzhia

    Bruxelles – L’Unione Europea corre ai ripari sul fronte della sicurezza nucleare e nel fine settimana ha chiesto un rapido intervento dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (AIEA) di fronte alla crescente preoccupazione per la sicurezza delle centrali nucleari ucraine. “Ho scritto al direttore generale Rafael Mariano Grossi per sostenere le sue azioni nel garantire la sicurezza nucleare dei siti in Ucraina. L’attacco armato contro impianti nucleari è contro il diritto internazionale”, afferma in un tweet la commissaria europea per l’Energia, Kadri Simson, informando di un incontro nel pomeriggio di ieri tra i regolatori nucleari europei per “sostenere i colleghi di Kiev”.

    Nel pomeriggio di domenica, l’Ucraina ha informato l’AIEA che la gestione della centrale nucleare di Zaporizhzhya, il più grande impianto nucleare attivo in Europa, è finita ora in mano al comandante delle forze armate russe, dopo che le truppe di Putin ne hanno preso il controllo alla fine della scorsa settimana. Fino a venerdì scorso era il personale ucraino a far funzionare la centrale, da ieri qualsiasi azione di gestione dell’impianto, compreso il funzionamento tecnico dei sei reattori presenti nell’impianto, richiede l’approvazione preventiva del comandante russo. E questo è fonte di preoccupazione per tutti.
    Il direttore generale dell’Agenzia internazionale per l’Energia si è detto “profondamente preoccupato” per questo sviluppo. Grossi ha denunciato in una nota anche grandi problemi di comunicazione con il personale della centrale nucleare di Chornobyl, con cui al momento è possibile comunicare solo con le e-mail. Le forze russe hanno preso lo scorso 24 febbraio (l’inizio dell’aggressione ai danni di Kiev) il controllo del luogo in cui, nel 1986, si è verificato il più grande incidente nucleare al mondo. Grossi ha riaffermato la sua disponibilità a recarsi alla centrale nucleare di Chornobyl per assicurarsi “l’impegno per la sicurezza e la protezione di tutte le centrali nucleari ucraine dalle parti in conflitto nel Paese”.
    Già in un confronto con l’Eurocamera la scorsa settimana la commissaria Simson aveva fatto sapere che anche l’UE sta seguendo da vicino la situazione della sicurezza nucleare insieme all’ENSREG, il gruppo europeo dei regolatori della sicurezza nucleare (European Nuclear Safety Regulators Group) che si è incontrato nel fine settimana e che sta preparando “un piano di emergenza nel caso in cui la Russia dovesse attaccare” gli impianti nucleari presenti sul territorio ucraino, da quando le truppe di Mosca hanno usato l’impianto (inattivo e luogo di raccolta di combustibile esausto e rifiuti radioattivi) di Chernobyl come scudo e rifugio all’inizio dell’invasione dell’Ucraina.
    Il presidente russo Putin ha minacciato gravi ritorsioni e il ricorso alle armi atomiche, in caso di interventismo occidentale in una guerra che il capo del Cremlino considera legittima, facendo riferimento più o meno diretto alla bomba atomica. Occupando strategicamente impianti nucleari presenti sul territorio ucraino ha ricreato il clima di deterrenza nucleare tipico della Guerra fredda, in risposta alla raffica di sanzioni europee varate nell’ultima settimana ai danni dell’economia di Mosca. Prima ha messo in stato d’allerta le forze di deterrenza del Paese, forze strategiche di attacco e di difesa dell’esercito russo che includono anche una componente nucleare e poi ha posizionato strategicamente le sue truppe negli impianti nucleari, dicendo indirettamente che potrebbe usarli come arma di ritorsione. E’ improbabile un impiego di armi nucleari nella guerra in corso, ma chiaramente è impossibile escluderlo del tutto. È vero inoltre che la più grande preoccupazione al momento è che gli impianti siano accidentalmente coinvolti nei bombardamenti, con possibili effetti devastanti sui territori circostanti.

    L’allarme dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica sull’impossibilità di comunicare con il personale di Chornobyl e la proposta del direttore generale Grossi di recarsi in loco per assicurarsi “l’impegno per la sicurezza e la protezione di tutte le centrali nucleari ucraine dalle parti in conflitto nel Paese”

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    La Russia tagliata dal programma di ricerca UE nello stesso giorno dell’attacco alla centrale nucleare di Zaporizhzhia

    Bruxelles – L’isolamento internazionale della Russia si intensifica e taglia fuori Mosca ormai su tutti i fronti, dallo sport all’industria, dall’economia alla finanza, fino alla ricerca e l’innovazione. Nello stesso giorno dell’attacco russo alla centrale nucleare di Zaporizhzhia (nel sud-est dell’Ucraina) che ha scatenato un incendio negli edifici secondari della struttura, l’UE ha deciso di sospendere la cooperazione con entità della Russia nell’ambito della ricerca e dell’innovazione sia del programma Horizon Europe sia del precedente Horizon 2020.
    “Ho chiesto ai miei servizi di sospendere qualsiasi pagamento agli enti russi nell’ambito dei contratti esistenti“, ha annunciato la commissaria europea per l’Innovazione e la ricerca, Mariya Gabriel. Inoltre, è stata decisa la “sospensione della preparazione dell’accordo di sovvenzione per quattro progetti del programma Horizon Europe che coinvolgono cinque organizzazioni di ricerca russe”, ha aggiunto la commissaria, specificando che “la firma di qualsiasi nuovo contratto sarà sospesa fino a nuovo avviso“. Durissimo il commento della vicepresidente della Commissione UE per il Digitale, Margrethe Vestager: “La cooperazione nella ricerca dell’UE si basa sul rispetto delle libertà e dei diritti che sono alla base dell’eccellenza e dell’innovazione” e “l’atroce aggressione militare della Russia contro l’Ucraina è un attacco contro questi stessi valori”.
    In quest’ottica è stato però rafforzato il sostegno a scienziati e ricercatori ucraini “che hanno dimostrato eccellenza e leadership nell’innovazione in molti campi”. La commissaria Gabriel ha spiegato che “siamo fortemente impegnati a garantire una continua e proficua partecipazione dell’Ucraina e delle entità ucraine”, da quando Kiev ha firmato l’accordo associazione per il programma UE sulla ricerca e l’innovazione Horizon Europe e per la Comunità europea dell’energia atomica (Euratom) nell’ottobre 2021. L’accordo di associazione entrerà in vigore quando l’Ucraina notificherà alla Commissione Europea il completamento del processo di ratifica. “Nel frattempo abbiamo adottato misure amministrative per garantire che i beneficiari ucraini possano ricevere finanziamenti dai programmi dell’UE”, ha ricordato la commissaria Gabriel: “Questa cooperazione nella scienza, nella ricerca e nell’innovazione rafforza l’alleanza tra l’UE e l’Ucraina per realizzare le priorità comuni”.
    Nel frattempo, il presidente dell’Ucraina, Volodymyr Zelensky, ha tenuto una conversazione telefonica con la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, sull’attacco alla centrale di Zaporizhzhia: “L’ho informata sul terrorismo nucleare dell’aggressore russo”, si legge in un tweet del presidente ucraino. “Prevenire è il nostro compito comune”, ha sottolineato Zelensky, aggiungendo che “all’ordine del giorno c’è stata anche la questione dell’adesione dell’Ucraina all’UE“.

    Talked to President of the European Commission @vonderleyen. Informed about the aggressor’s nuclear terrorism. Preventing it is our common task. Discussed strengthening sanctions against Russia. The issue of 🇺🇦’s membership in the #EU was also on the agenda. #StopRussia
    — Володимир Зеленський (@ZelenskyyUa) March 4, 2022

    Bruxelles ha sospeso qualsiasi pagamento a enti di ricerca russi nell’ambito dei contratti esistenti e la firma di nuovi contratti “fino a nuovo avviso”. Parallelamente è stato rafforzato il sostegno a scienziati e ricercatori ucraini

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    Anche la Repubblica di Moldova ha richiesto di ottenere lo status di Paese candidato all’adesione UE

    Bruxelles – Era nell’aria da tempo e l’occupazione militare russa dell’Ucraina ha reso il processo irreversibile. Anche la Repubblica di Moldova ha presentato formalmente richiesta per ottenere lo status di Paese candidato all’adesione UE, dopo le due domande nella stessa settimana di Ucraina (lunedì 28 febbraio) e Georgia (giovedì 3 marzo). “Il momento è arrivato: i cittadini moldavi sono pronti a lavorare sodo per un futuro stabile e prospero nell’Unione Europea e nella famiglia degli Stati europei”, ha rivendicato la presidente della Repubblica di Moldova, Maia Sandu, firmando la lettera di adesione all’UE ieri sera.
    “Vogliamo vivere in pace, prosperità, essere parte del mondo libero”, ha sottolineato la presidente Sandu, spiegando le tempistiche della richiesta: “Mentre alcune decisioni richiedono tempo, altre devono essere prese rapidamente e con decisione, approfittando delle opportunità che arrivano in un mondo che cambia”. È chiaro il riferimento all’aggressione russa dell’Ucraina e al disegno dei nuovi equilibri geopolitici che il presidente russo, Vladimir Putin, vorrebbe mettere in atto, con il rischio che possa cancellare anche l’indipendenza di Chișinău. Come nel caso di Ucraina e Georgia, si tratta di una netta reazione che vede i tre Paesi sempre più distanti da Mosca e sempre più legati a Bruxelles.

    The time is now: #Moldova officially signs the application for membership to join the #European Union. 🇲🇩 citizens are prepared to work hard towards a stable and prosperous future in the 🇪🇺 & the family of European states. pic.twitter.com/35a2q9WCaW
    — Maia Sandu (@sandumaiamd) March 3, 2022

    Si attende nelle prossime ore l’invio della lettera a Bruxelles. “La Repubblica di Moldova ha il diritto di scegliere il suo corso di politica estera“, ha dichiarato l’alto rappresentante UE per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, nel corso della sua visita di ieri a Chișinău. “Crediamo fortemente che appartenga alla famiglia europea e continueremo a cooperare intensamente sulla base del nostro Accordo di associazione”, ha aggiunto Borrell, facendo riferimento all’accordo politico ed economico UE-Moldova firmato nel 2014 ed entrato pienamente in vigore nel 2016.
    Oltre alle candidature di Moldova, Georgia e Ucraina per l’adesione all’UE, bisogna ricordare che il processo di allargamento coinvolge già i sei Paesi dei Balcani Occidentali, Albania, Bosnia ed Erzegovina, Kosovo, Macedonia del Nord, Montenegro e Serbia, più la Turchia, i cui negoziati sono però cristallizzati dalla politica del presidente Erdoğan. Serbia e Montenegro stanno portando avanti i negoziati di adesione rispettivamente da otto e dieci anni, mentre il pacchetto Albania-Macedonia del Nord è bloccato dal 2018 prima per il veto di Francia-Paesi Bassi-Danimarca ai danni di Tirana e poi per quello attuale della Bulgaria contro Skopje. La Bosnia ed Erzegovina ha fatto domanda di adesione nel 2016, mentre il Kosovo ha solo firmato l’Accordo di stabilizzazione e associazione.
    Per diventare un Paese membro dell’UE, il primo passo è la proposta formale di candidatura all’adesione (Georgia e Ucraina, in questo caso). Dopo il superamento dell’esame dei criteri di Copenaghen – le basilari condizioni democratiche, economiche e politiche – si arriva alla firma dell’Accordo di stabilizzazione e associazione, un accordo bilaterale tra UE e Paese richiedente. A questo punto si può presentare la vera e propria domanda di adesione all’Unione e, una volta accettata, viene conferito lo status di Paese candidato. Segue la raccomandazione della Commissione al Consiglio UE di avviare i negoziati: solo quando viene dato il via libera all’unanimità dai Paesi membri si possono aprire i capitoli di negoziazione (in numero variabile). Alla fine di questo processo si arriva alla firma del Trattato di adesione.

    Dopo le richieste di Ucraina e Georgia, anche da Chișinău è arrivata la domanda di diventare membro dell’Unione Europea. La presidente, Maia Sandu, ha firmato la lettera e nelle prossime ore sarà inviata a Bruxelles

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    La tragedia dell’Ucraina e le responsabilità dell’Occidente e dell’Europa

    Conosco abbastanza bene l’Ucraina per aver avuto per anni rapporti di lavoro e di collaborazione con gruppi siderurgici locali, e per essere stato nominato dal Governo Berlusconi, nel 2005, presidente del Comitato di collaborazione economica Italia-Ucraina.
    Conosco bene il Donbass, la parte più orientale del Paese, dove si concentra la maggior parte dell’industria dell’acciaio. Mi sono recato più volte in quella zona, in fabbriche del gruppo industriale con il quale intrattenevamo i rapporti più stretti, tanto da stabilire con esso una vera e propria joint venture, l’Industrial Union of Donbass. Tale gruppo industriale, ormai da tempo passato totalmente in mani russe, aveva e ha stabilimenti a Alchevsk e Dniprovskyi.
    Sono stato più volte a Mariupol e a Odessa, i porti più importanti, da dove caricavamo navi di prodotti di acciaio destinati all’esportazione.
    Ho molto amato Kiev, città dove avevamo uffici e in cui mi sono recato più volte per incontri e riunioni, e che mi è sempre apparsa una bellissima e storica capitale.
    Ho smesso di frequentare l’Ucraina dal 2014 e cioè da quando le milizie filorusse, appoggiate dagli “uomini verdi senza mostrine”, mercenari al soldo di Mosca, hanno iniziato una guerra separatista durata fino ad oggi, distruggendo quasi completamente Donetsk, la capitale del Donbass, e provocando decine di migliaia di morti.
    Quei viaggi e quelle frequentazioni mi avevano fatto capire la complessità e per certi versi la tragicità del contesto ucraino, diviso tra una parte del Paese, quella più grande centrale e occidentale, decisamente a favore di legami sempre più stretti con l’Unione Europea, e la parte orientale russofona tradizionalmente legata alla Russia e alla sua influenza.
    La tragicità stava e sta nel fatto che la maggior parte della popolazione e la maggior parte dei governi che si sono succeduti a Kiev dopo la caduta dell’Unione Sovietica hanno rimproverato gli europei di scarsa empatia e di disinteresse nei confronti della giovane nazione ucraina, alle prese con le pressioni e l’influenza russa e desiderosa di affrancarsi da queste grazie al legame sempre più forte con l’Occidente. Ma contemporaneamente vi è una minoranza della popolazione (che nell’est del paese è una maggioranza) che parla russo, che non ne vuol sapere dell’Occidente, che ha ottenuto di farsi stampare sul passaporto ucraino la dizione ‘Russian Citizen’.
    L’Europa ha balbettato dinanzi a questa situazione. Preoccupata di non disturbare più di tanto l’orso russo, fornitore principale di gas di molte nazioni europee come Austria, Germania, Olanda e Italia, e forse impegnata da promesse fatte ai russi dopo la caduta del muro di Berlino, ma mai ufficializzate, di non espansione della Nato a Est, non ha mai affrontato con chiarezza la questione ucraina, riempiendo di buone parole e forse anche qui di qualche promessa non ufficiale la giovane nazione, ma alla fine lasciandola sempre nel limbo tra Occidente e Oriente.
    L’ambiguità ha riguardato anche il rapporto con la Russia, grande partner economico, ma anche ingombrante attore sulla scena internazionale, specie negli ultimi anni in cui Mosca ha provato a rilanciare un suo ruolo e un suo espansionismo.
    Tale ambiguità europea ha favorito la convinzione a Mosca che si potessero fare dei colpi di mano senza colpo ferire e senza gravi conseguenze, come la conquista della Crimea e l’appoggio ai separatisti del Donbass.
    Il delirio solitario di Putin, avvolto nella narrazione di una grande madre Russia ossessionata da problemi di sicurezza e bisognosa di confermare protezioni all’intorno mediante stati cuscinetto atti ad allontanare il più possibile i missili nucleari della Nato da Mosca, ha generato mostri; in particolare ha generato l’aggressione premeditata all’Ucraina, alla sua integrità territoriale, alla sua capacità/libertà di avere delle forze armate e di autodeterminarsi, e la minaccia, rivolta all’Occidente, di usare l’arma nucleare per ritorsione alle sanzioni economiche.
    La tragedia è sotto gli occhi di tutti: una guerra che nelle intenzioni dell’aggressore doveva durare due giorni e che invece si protrae da più di una settimana, vittime civili che ormai hanno raggiunto numeri importanti anche per l’inizio dei bombardamenti sulle città, Kiev circondata dalle truppe russe, che però incontrano una feroce resistenza da parte delle forze armate ucraine, che sembrano discretamente armate e ben preparate a contenere un’invasione, e di una popolazione civile che non vuole arrendersi.
    Una guerra nel cuore dell’Europa con il rischio di un’escalation drammatica dagli esiti imprevedibili.
    L’Europa sembra finalmente aver ritrovato una sua unità di intenti: sanzioni mai così dure nei confronti della Russia, aiuti militari probabilmente tardivi, un crescendo di prese di posizione al fianco dell’Ucraina che probabilmente non serviranno a salvare il Paese.
    Una giovane nazione diventata tale a pieno titolo proprio in questa guerra, dove giovani e anziani non arretrano e vogliono combattere per la libertà della Patria fino alla fine; dove un presidente su cui si è sempre ironizzato per il suo mestiere precedente, il comico, all’offerta americana di una sua evacuazione protetta e finalizzata a creare un governo in esilio, magari in Polonia, ha risposto ‘no grazie il mio posto è qui, è qui che si fa la storia dell’Ucraina libera, fino in fondo fino alla fine’.
    Truppe speciali russe lo stanno cercando e braccando per farlo fuori ma lui, in maglietta militare e tuta mimetica, riesce ancora a parlare con il mondo chiedendo aiuto e incitando il popolo ucraino alla resistenza.
    Putin nel suo delirio ha affermato pubblicamente, come spesso fanno molti russi in colloqui privati, che l’Ucraina è un paese che non esiste e che non ha diritto di esistere. La risposta è venuta dal popolo ucraino e dalla sua resistenza sul terreno. Il solco di odio verso i russi da parte della popolazione ucraina generato da questa follia resterà indelebile per secoli, a prescindere da come vada a finire la guerra.
    Una tragedia immane, un cambio epocale della storia del mondo i cui effetti ancora non comprendiamo completamente, la necessità di una riflessione radicale sul nostro futuro di europei.
    Comodo vivere come abbiamo fatto per decenni sotto la protezione dell’ombrello Usa; comodo non avere giovani e figli impegnati in azioni e interventi militari dove si rischia la vita; comodo, e anche un po’ stupido, pensare che la libertà e la democrazia di cui godiamo siano per sempre.
    La tragedia ucraina ci dice che quel mondo è finito e che non basta fare manifestazioni con le bandiere della pace per scongiurare la guerra.
    I dittatori alla Putin valutano continuamente i rapporti di forza e spingono la baionetta fino a dove questa può affondare in un terreno morbido e senza contrasti.
    In questi ultimi trent’anni non siamo riusciti come occidentali a declinare il vecchio motto: o l’avversario lo abbracci e lo porti dalla tua parte o lo contrasti duramente con tutte le tue forze. Ambiguità, debolezze, mezze misure non servono a niente e le conseguenze purtroppo sono sotto gli occhi di tutti.