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    Strasburgo striglia gli Stati Uniti sull’aborto: “Sentenza della Corte Suprema è passo indietro sui diritti delle donne”

    Strasburgo – La pratica dell’aborto non scomparirà togliendo alle donne il diritto ad abortire. Scomparirà solo il loro diritto a interrompere una  gravidanza, qualsiasi sia la ragione che le spinge a volerlo fare, in modo sicuro e senza mettersi in pericolo. E’ il messaggio che l’Aula del Parlamento europeo di Strasburgo manda a gran voce agli Stati Uniti, dove una sentenza della Corte Suprema dello scorso 24 giugno ha ribaltato la decisione (incardinata nella storica sentenza “Roe v. Wade) di garantire dal 1973 a tutte le donne l’interruzione volontaria di gravidanza sul territorio statunitense. Ribaltando i termini della decisione, la Corte Suprema ha eliminato di fatto il diritto all’aborto delle donne stabilito a livello federale, e questo significa che ogni Stato può decidere come muoversi adottando una legislazione su base individuale.
    Le preoccupazioni su quello che l’UE descrive come un passo indietro in materia di diritti, spingono l’Eurocamera a calendarizzare all’ultimo un dibattito nella sessione plenaria che prende il via questo pomeriggio (4 luglio) nella capitale alsaziana. L’ultima prima della pausa estiva delle istituzioni europee e la prima che vede la Repubblica ceca alla guida semestrale del Consiglio dell’UE a partire dal primo luglio e per i prossimi sei mesi. La sentenza della Corte statunitense è “un passo indietro notevole degli standard sulla salute riproduttiva negli Stati Uniti, cosa che impatta le donne, in particolare le più vulnerabili”, ha messo in guardia la commissaria europea per l’Eguaglianza, Helena Dalli, aprendo il dibattito in plenaria. “La sentenza ci ricorda che ci sono diritti che non possono essere dati per scontati da nessuna parte”, ha aggiunto, sottolineando l’impegno dell’UE a garantire che “le donne siano libere di scegliere per il proprio corpo”. Dalli cita alcune stime secondo cui ci sarebbero almeno una ventina di Stati (sui 50 complessivi) che “potrebbero chiedere di abolire il diritto all’aborto” anche nei casi più gravi e questo rappresenta un “passo indietro notevole degli standard riproduttivi”.
    All’intervento della commissaria fanno seguito, uno dopo l’altro, gli interventi di molti eurodeputati (in larghissima maggioranza sono donne) convinte che sia necessario ribadire che abolire il diritto all’aborto non significa eradicare l’aborto dalla società. “Significa solo togliere alle donne la possibilità di farlo in maniera sicura”, ribadisce Iratxe Garcia Perez, capogruppo dei Socialisti e Democratici (S&D). Ricorda che negli USA “non è contestato il diritto di portare armi” ma il “diritto di una donna di decidere sul proprio corpo non esiste. Vietare l’aborto non fermerà gli aborti. Li renderà solo più rischiosi. Dobbiamo combattere affinché le nostre figlie non abbiano meno diritti di quelli che avevamo noi”, ha aggiunto.  Per l’eurodeputata del Partito popolare europeo (PPE) Elissavet Vozemberg-Vrionidi, si tratta di una decisione molto pericolosa “perché non tiene conto di cosa sta succedendo in tutto il mondo, non tutte le donne hanno la possibilità” di spostarsi in un altro Stato per poter interrompere una gravidanza indesiderata in maniera legale. Per questo si ricorre alle vie illegali che spesso sono un rischio per la donna.
    Tra i pochi eurodeputati uomini a intervenire in un dibattito per lo più interlocutorio è Stéphane Sejourne, presidente del gruppo dei liberali di Renew Europe, che ha rilanciato l’idea del presidente francese Emmanuel Macron avanzata non più di qualche mese fa in quello stesso Parlamento europeo, di modificare la Carta dei diritti fondamentali dell’UE in particolare per inscrivervi il diritto all’aborto. Sarebbe un “test sincero per i nostri gruppi politici”, ha spiegato l’eurodeputato liberale. Dal momento che la stessa Unione europea si trova a combattere internamente con Stati, come la Polonia, che sulla questione dell’aborto sono tutt’altro che progressisti. La tutela della salute umana, inclusa quella donna, non rientra però tra le competenze esclusive della Commissione europea, ma è tra quelle esclusive in capo agli Stati membri.

    L’Aula di Strasburgo denuncia “passi indietro” degli USA sui diritti fondamentali. Secondo la commissaria Dalli almeno 20 Stati statunitensi pronti ad abolire il diritto all’aborto “anche nei casi più gravi” dopo la sentenza della Corte suprema che ha abolito il diritto a interrompere volontariamente una gravidanza sul territorio statunitense.

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    Una nuova manifestazione di massa in Georgia ha chiesto le dimissioni del governo per aver fallito sulla candidatura UE

    Bruxelles – Una nuova manifestazione di decine di migliaia di persone è andata in scena ieri sera (domenica 3 luglio) nella capitale della Georgia, Tbilisi, per chiedere le dimissioni del governo guidato dal partito Sogno Georgiano, dopo il mancato ottenimento dello status di Paese candidato all’adesione all’Unione Europea. A convocare le proteste pro-UE sono stati gli stessi organizzatori della ‘marcia per l’Europa’ del 20 giugno scorso, quando oltre 100 mila persone avevano cercato di spingere i leader dell’Unione a concedere al Paese caucasico la candidatura formale nel corso del Consiglio Europeo del 23-24 giugno.
    Proprio il vertice dei leader UE ha riconosciuto a Tbilisi la possibilità di concedere lo status di Paese candidato “una volta affrontate le priorità” rilevate dal parere della Commissione Europea, riconoscendo per il momento solo la prospettiva europea dell’ex-Repubblica sovietica del Caucaso (indipendente dal 9 aprile 1991). A fronte di questo insuccesso agli occhi dei gruppi pro-democrazia e dei partiti di opposizione, migliaia di cittadini si sono radunati davanti alla sede del Parlamento della Georgia per partecipare alla manifestazione: sono state esposte due enormi bandiere – una bianca e rossa delle cinque croci (nazionale) e una con le dodici stelle su campo blu (dell’UE) – su molti cartelli è comparsa la scritta We are Europe, e oltre all’inno georgiano si è sentito a più riprese l’Inno alla Gioia, quello ufficiale dell’Unione Europea.
    Gli organizzatori della manifestazione hanno chiesto al premier Irakli Garibashvili di “cedere il potere esecutivo e trasferirlo, in modo costituzionale, a un governo di accordo nazionale” in Georgia. Al centro delle polemiche c’è il ruolo e l’influenza politica dell’oligarca Bidzina Ivanishvili, leader del partito al governo Sogno Georgiano, che non a caso compare nella risoluzione non vincolante approvata il 7 giugno dal Parlamento Europeo, con la richiesta di imporre nei suoi confronti sanzioni personali. Nel parere della Commissione UE sulla candidatura della Georgia è stata rilevata non solo la necessità di risolvere la polarizzazione politica e di implementare le riforme giudiziarie, ma anche una serie di preoccupazioni sulla lotta contro la corruzione e la criminalità organizzata, l’indipendenza e la sicurezza dei giornalisti e sul potere degli oligarchi. Secondo i manifestanti il nuovo esecutivo “realizzerà le riforme richieste dall’UE, che ci porteranno automaticamente allo status di candidato” all’adesione all’Unione. I leader di Sogno Georgiano hanno accusato l’opposizione di aver messo in moto un “piano per rovesciare le autorità organizzando manifestazioni antigovernative”.

    People unfolding the second big EU flag outside the parliament in Tbilisi. pic.twitter.com/gQGcBvxchD
    — Mariam Nikuradze (@mari_nikuradze) July 3, 2022

    La Georgia confina a nord con la Russia e ha chiesto di aderire all’Unione Europea a pochi giorni dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina. La candidatura della Georgia all’adesione UE e NATO – sancita dalla Costituzione nazionale – da tempo è causa di tensioni con il Cremlino, che nell’agosto del 2008 aveva portato all’invasione (per cinque giorni) della Georgia da parte dell’esercito russo. Da allora Mosca riconosce i territori separatisi dell’Ossezia del Sud e dell’Abkhazia come Stati indipendenti e ha dislocato migliaia di soldati nell’area, per aumentare la propria sfera d’influenza nella regione della Ciscaucasia.
    In un percorso di avvicinamento verso l’Unione Europea, nel 2016 è entrato pienamente in vigore (dopo due anni di provvisorietà) l’Accordo di associazione politica ed economica tra Bruxelles e Tbilisi. La Georgia è anche inclusa dal 2009 nel Partenariato orientale, il programma di integrazione tra l’Unione i Paesi di quest’area geopolitica, insieme a Ucraina, Repubblica di Moldova, Armenia, Azerbaijan e Bielorussia (anche se nel giugno del 2021 quest’ultima ha sospeso l’adesione). Tuttavia, nessuna delle due intese ha come obiettivo o come clausola l’adesione della Georgia all’UE e solo il via libera del Consiglio Europeo può aprire la strada verso la candidatura all’adesione.

    Per gli organizzatori e i partiti di opposizione, il partito Sogno Georgiano dell’oligarca Bidzina Ivanishvili deve “cedere il potere esecutivo e trasferirlo, in modo costituzionale, a un governo di accordo nazionale”, che “realizzerà le riforme richieste” da Bruxelles

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    Entro la fine del 2023 la Commissione Europea vuole un Accordo di Associazione con San Marino, Monaco e Andorra

    Bruxelles – Un’accelerazione sulla strada che porta ad una (quasi) integrazione sempre più armonica di tre micro-Stati con l’Unione Europea. Il vicepresidente della Commissione UE per le Relazioni interistituzionali, Maroš Šefčovič, ha annunciato oggi (giovedì 30 giugno) la presentazione di una roadmap per arrivare alla firma entro la fine del 2023 degli Accordi di Associazione con la Repubblica di San Marino, il Principato di Andorra e il Principato di Monaco: “Potrebbe essere uno dei più ampi offerti dall’Unione a partner esterni”, ha sottolineato con forza Šefčovič, nel corso della conferenza stampa congiunta con il ministro degli Esteri sammarinese, Luca Beccari, il segretario di Stato di Andorra per gli Affari europei, Landry Riba Mandicó, e il consigliere speciale monegasco per i negoziati con l’UE, Gilles Tonelli.
    I negoziati per l’Accordo di Associazione sono iniziati nel marzo del 2015, ma con le conseguenze dell’invasione russa dell’Ucraina è stata riconosciuta la necessità di accelerare i tempi, per stringere i rapporti a ogni livello sul continente europeo: “Nell’attuale contesto geopolitico, in cui l’ordine basato sulle regole è sotto pressione, il rafforzamento dell’unità occidentale è il nostro imperativo morale“, ha esortato il vicepresidente della Commissione, ricordando che con i tre micro-Stati “condividiamo sia valori, sia sfide”. Se “restare uniti, promuovere i nostri legami e far progredire l’integrazione è la strada giusta da percorrere”, l’esecutivo comunitario vuole una tabella di marcia che rifletta “l’ambizione politica di concludere i negoziati” in 18 mesi.
    Con questo obiettivo – per cui “è servito un lavoro di sette anni”, hanno ricordato tutti gli ospiti a Bruxelles – saranno incluse considerazioni specifiche e un calendario per ciascuno dei tre Paesi, che dovranno portare al rafforzamento delle relazioni con l’Unione, “anche attraverso l’integrazione nel Mercato Unico con le sue quattro libertà [libera circolazione di persone, merci, capitali e servizi, ndr]”, ha ricordato Šefčovič. “Si tratterà senza dubbio di un cambiamento significativo”, che potrà contare sullo “slancio” per l’approfondimento delle relazioni con i partner più stretti: “Il partenariato dell’UE con Andorra, Monaco e San Marino sarà il più profondo e speciale possibile“, ha promesso il vicepresidente della Commissione.
    Lo stato attuale
    Né San Marino né Andorra sono parte dell’accordo di Schengen (che prevede la libera circolazione delle persone tra Stati membri UE e l’abolizione delle frontiere comuni), tuttavia hanno un’unione doganale con l’Unione dal 1991: solo San Marino lo è anche per i prodotti agricoli (dal 2002). Andorra mantiene parte dei suoi controlli al confine, solamente in alcuni valichi di frontiera con la Spagna. Il Principato di Monaco attualmente ha una situazione ibrida, e applica alcune politiche dell’UE attraverso la relazione speciale che ha con la Francia: è membro di fatto di Schengen, mentre è a pieno titolo parte del territorio doganale dell’Unione.
    Per quanto riguarda gli altri micro-Stati europei, il Liechtenstein è l’unico che è parte dello Spazio economico europeo e del Mercato Unico (dal primo maggio del 1995), mentre dal 19 dicembre del 2011 ha firmato gli accordi di Schengen. La Città del Vaticano è il più piccolo Stato riconosciuto al mondo e ha solamente il confine aperto con l’Italia. Tutti i micro-Stati (fatta eccezione per il Liechtenstein, che usa il franco svizzero) usano come moneta ufficiale l’euro e hanno il diritto di coniarne un numero limitato, perché viene riconosciuto loro l’aver utilizzato o essere stati legati a valute non più in circolazione di alcuni Paesi membri (lira per San Marino e Città del Vaticano, franco francese per Monaco, peseta spagnola e franco francese per Andorra). Da parte di Bruxelles non c’è l’interesse di integrare nessuno dei micro-Stati europei come Paese membro, dal momento in cui sarebbe eccessivamente complesso gestire questioni interne all’Unione (come le presidenze di turno del Consiglio dell’UE, o il diritto di veto degli Stati membri) per entità territoriali troppo limitate a livello di superficie e popolazione.

    Il vicepresidente della Commissione UE, Maroš Šefčovič, ha annunciato una tabella di marcia per arrivare entro fine 2023 alla firma di “uno dei più ampi accordi mai offerti a partner esterni”. L’obiettivo è di rafforzare l’integrazione dei quattro micro-Stati nel Mercato Unico dell’Unione

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    L’Unione Europea e la Nuova Zelanda hanno trovato un accordo per il libero scambio commerciale

    Bruxelles – Si stringono i rapporti tra i due estremi del globo. Sulla base di un commercio bilaterale da 7,8 miliardi di euro all’anno per le merci e da 3,7 miliardi per i servizi – con esportazioni per 5,5 miliardi e importazioni da 2,3 miliardi per Bruxelles – UE e Nuova Zelanda hanno trovato oggi (giovedì 30 giugno) un’intesa commerciale di libero scambio che copre settori come l’agricoltura, il tessile, il digitale, l’energia e, per la prima volta, l’ambiente. Un accordo “solido e moderno” che “rappresenterà un’occasione per i nostri consumatori e agricoltori”, ha voluto sottolineare la presidente della Commissione UE, Ursula von der Leyen, nel corso della conferenza stampa congiunta con la premier della Nuova Zelanda, Jacinda Ardern. O, come ha ricordato il vicepresidente esecutivo dell’esecutivo comunitario, Valdis Dombrovskis, “il primo del suo genere a prevedere sanzioni in caso di violazione sostanziale dell’Accordo sul clima di Parigi”.
    La firma dell’accordo di libero scambio tra UE e Nuova Zelanda (30 giugno 2022)
    Secondo i negoziati portati avanti negli ultimi quattro anni, dal giorno dell’entrata in vigore dell’accordo (che dovrà essere prima siglato dal Consiglio e approvato dal Parlamento UE, con la contemporanea ratifica a Wellington), saranno eliminati i dazi su tutte le esportazioni di merci e prodotti industriali e alimentari dai Paesi membri UE verso la Nuova Zelanda, mentre l’Unione eliminerà “o ridurrà sostanzialmente” i dazi sulla maggior parte delle merci neozelandesi, si legge nel testo dell’intesa. Per esempio, il governo di Wellington rinuncerà a tariffe fino al 10 per cento applicate attualmente al settore automobilistico e tessile, o del 5 per cento a quelli chimico, farmaceutico e alimentare.
    Proprio per quanto riguarda quest’ultimo punto, le due parti “collaboreranno per rafforzare le politiche e definire programmi che contribuiscano allo sviluppo di sistemi alimentari sostenibili, inclusivi, sani e resilienti“, anche grazie al fatto che a beneficiare maggiormente dell’accordo saranno “gli agricoltori da entrambe le parti, anche oltre il taglio ai dazi commerciali” su cibo e fertilizzanti, ha specificato la presidente von der Leyen. In questo senso va letta la “crescita dell’80 per cento degli investimenti”, ma anche la tutela delle oltre 200 indicazioni geografiche protette dell’UE. Saranno inclusi “l’intero elenco dei vini e degli alcolici” (tra cui il Prosecco) e “le più rinomate indicazioni geografiche alimentari” (come il formaggio Asiago). Nel capitolo sul regime di protezione che sarà applicato dalla controparte neozelandese si legge che “sarà illegale la vendita di imitazioni” – come il divieto dell’uso di un termine IG “per prodotti non genuini”, o espressioni come ‘genere’, ‘tipo’, ‘stile’, ‘imitazione’ – e l’uso “ingannevole” di simboli, bandiere o immagini che suggeriscono una falsa origine geografica.
    La presidente della Commissione UE, Ursula von der Leyen, e la premier della Nuova Zelanda, Jacinda Ardern (30 giugno 2022)
    Ma nell’intesa tra UE e Nuova Zelanda risalta in particolare il capitolo dedicato a Commercio e sviluppo sostenibile, che include questioni ambientali e climatiche. Le due parti si impegnano a collaborare su questioni come la determinazione del prezzo del carbonio e la transizione verso un’economia a basse emissioni, includendo “impegni sanzionabili in linea con l’Accordo di Parigi” del 2015. Nella logica di favorire tutto ciò che contribuisce al raggiungimento degli obiettivi ambientali e climatici “prevenendo, limitando, minimizzando o rimediando ai danni ambientali all’acqua, all’aria e al suolo”, sarà facilitato il commercio e gli investimenti in beni, servizi e tecnologie a basse emissioni di carbonio, a partire dall’azzeramento delle tariffe su energie rinnovabili e prodotti ad alta efficienza energetica.
    A questo si riconnette il capitolo sull’energia e le materie prime, che specifica l’eliminazione delle restrizioni all’esportazione di beni energetici, rinnovabili incluse. L’intesa “vieta i monopoli”, ma anche l’intervento “ingiustificato” nella determinazione dei prezzi e la doppia tariffazione (in cui i prezzi all’esportazione vengono fissati al di sopra dei prezzi interni). Saranno invece promossi il commercio e gli investimenti per le energie rinnovabili e i prodotti ad alta efficienza energetica, “affrontando le principali barriere non tariffarie specifiche per ogni tecnologia”: accesso non discriminatorio alla rete, utilizzo da parte di un’autorità di regolamentazione indipendente, bilanciamento dei mercati e promozione della cooperazione su standard comuni.
    Di rilievo è anche la parte dell’accordo riservata alla sfera digitale e alla proprietà intellettuale. Saranno facilitati i flussi di dati transfrontalieri, vietando i requisiti “ingiustificati” di localizzazione dei dati e mantenendo il livello di protezione dei dati personali secondo il Regolamento generale sulla protezione dei dati (GDPR) dell’UE, “che contribuisce in modo significativo alla fiducia nell’ambiente digitale”. In questo modo le imprese potranno contare sulla “prevedibilità e certezza del diritto” e i cittadini comunitari e neozelandesi su “un ambiente online sicuro” nel momento in cui effettuano transazioni commerciali digitali a livello transfrontaliero. Per quanto riguarda le disposizioni in materia di proprietà intellettuale, saranno protetti il diritto d’autore, i marchi, i disegni e i modelli industriali, con un aumento degli standard accettati da Wellington: 20 anni per i diritti di autori, esecutori e produttori di registrazioni sonore e 15 anni per disegni e modelli registrati.

    La Commissione Europea e il governo guidato da Jacinda Ardern hanno siglato un’intesa sull’eliminazione dei dazi sulle rispettive esportazioni industriali e alimentari. Ma è anche la prima a prevedere sanzioni in caso di “violazione sostanziale” dell’Accordo sul clima di Parigi

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    La più significativa svolta strategica della NATO dalla fine della Guerra Fredda

    Bruxelles – Un terremoto geopolitico come quello del 2022 non si vedeva probabilmente dal 1991, con la fine della Guerra Fredda che aveva caratterizzato i quattro decenni dopo la Seconda Guerra Mondiale. A 30 anni di distanza stiamo assistendo probabilmente a una nuova era delle relazioni internazionali e della sicurezza sul continente europeo, con gli alleati dell’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord (NATO) che tornano a confrontarsi con Mosca. Non più con l’Unione Sovietica, ma questa volta con la Federazione Russa autoritaria guidata da Vladimir Putin.
    L’intervento del presidente dell’Ucraina, Volodymyr Zelensky, al Summit NATO di Madrid (29 giugno 2022)
    Dopo anni di tentativi di instaurare un dialogo costruttivo con Mosca – che nel concetto strategico del 2010 l’aveva classificata come “partner” – l’invasione russa dell’Ucraina ha chiuso i canali diplomatici e ora i 30 alleati (più  i due in arrivo, Helsinki e Stoccolma) si sono allineati al nuovo concetto strategico NATO 2022, quella che viene considerata a tutti gli effetti la più significativa svolta nella strategia di sicurezza e difesa dell’Alleanza Atlantica dalla fine della contrapposizione tra blocchi. Il via libera al documento che riassume la posizione della NATO è arrivato nel corso della prima giornata del Summit di Madrid, che ha portato con sé un’altra decisione storica per l’Alleanza: dopo la revoca del veto turco, tutti i leader hanno acconsentito all’avvio del processo di adesione di Svezia e Finlandia, i due Paesi scandinavi che hanno portato avanti per decenni, se non per secoli, una politica di non-allineamento militare, almeno fino al terremoto geopolitico sul continente europeo.
    “La guerra Putin ha scatenato la più grande questione sicurezza dalla seconda guerra mondiale”, ha attaccato il segretario generale della NATO, Jens Stoltenberg, nel corso della conferenza stampa, spiegando il punto cardine del nuovo ambiente di sicurezza: “L’area euro-atlantica non è in pace” e dopo più di 30 anni “non possiamo escludere la possibilità di un attacco contro la sovranità e l’integrità territoriale degli alleati”. La Federazione Russa costituisce “la minaccia più significativa e diretta alla sicurezza degli alleati”, dal momento in cui “cerca di stabilire sfere di influenza e di controllo diretto attraverso la coercizione, la sovversione, l’aggressione e l’annessione”. La sfida per la NATO è rappresentata dal “potenziamento militare di Mosca, anche nelle regioni del Baltico, del Mar Nero e del Mediterraneo, insieme all’integrazione militare con la Bielorussia”, nell’ottica della sovversione dell’ordine interazione attraverso “la posizione militare coercitiva, la retorica e la comprovata volontà di usare la forza per perseguire i suoi obiettivi politici”. L’Alleanza Atlantica ribadisce di “non cercare il confronto e non rappresentare una minaccia” per Mosca, ma allo stesso tempo di “non poterla considerare un partner” a causa delle “politiche e azioni ostili”.
    Il segretario generale della NATO, Jens Stoltenberg (29 giugno 2022)
    Ma la Russia non è l’unico “attore autoritario che sfida i nostri interessi, i nostri valori e il nostro stile di vita democratico”, si legge nel documento. Lo fanno anche “le ambizioni dichiarate e le politiche coercitive della Repubblica Popolare Cinese“, che “impiega un’ampia gamma di strumenti politici, economici e militari per aumentare la sua impronta globale e proiettare potere, pur rimanendo poco trasparente riguardo alla sua strategia, alle sue intenzioni e al suo sviluppo militare”. È la prima volta che Pechino viene citata esplicitamente come una potenziale minaccia a livello globale per la sicurezza della NATO, anche considerato “l’approfondimento del partenariato strategico tra Cina e Russia” nei settori spaziale, cibernetico e marittimo e l’utilizzo della “leva economica per creare dipendenze strategiche e rafforzare la sua influenza”. Così come con Mosca, gli alleati si dicono “aperti a un impegno costruttivo” con Pechino, per “costruire una trasparenza reciproca” e “salvaguardare gli interessi di sicurezza dell’Alleanza”.
    Lo strumento per affrontare questo nuovo e più instabile ambiente di sicurezza è investire nella difesa e questo coinvolge tutti i membri con un impegno diretto. “Condivideremo equamente le responsabilità e i rischi per la nostra difesa e sicurezza“, ribadisce il documento sul nuovo concetto strategico della NATO: “Metteremo a disposizione tutte le risorse, le infrastrutture, le capacità e le forze necessarie per svolgere appieno i nostri compiti fondamentali e attuare le nostre decisioni”. In termini pratici significa un aumento delle spese nazionali per la difesa “commisurato alle sfide di un ordine di sicurezza più contestato”. Come ha messo in chiaro il segretario generale Stoltenberg in conferenza stampa, “rafforzeremo i battaglioni sul fianco orientale e dovremo aumentare le nostre capacità congiunte, anche a livello di addestramento”, ma “fare di più, costa di più”. In altre parole, “dobbiamo riallinearci completamente all’obiettivo di spesa di almeno il 2 per cento del prodotto interno lordo in materia di difesa e sicurezza“. Dopo le riduzioni di spesa generalizzate all’interno dell’Alleanza fino al 2014 – anno dell’annessione illegale della Crimea da parte della Russia e dell’inizio della guerra nel Donbass – anche questo significa “nuovo concetto strategico” secondo la NATO.

    Via libera al Summit di Madrid al nuovo concetto strategico dell’Alleanza Atlantica ed è stato avviato il processo di adesione di Svezia e Finlandia. La Russia viene considerata “la più significativa e diretta minaccia per la sicurezza”, la Cina “sfida interessi e valori” degli alleati

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    Cosa prevede il memorandum d’intesa tra Turchia, Svezia e Finlandia sull’adesione NATO, tra estradizioni e armi

    Bruxelles – La Turchia ha revocato il veto sull’adesione NATO della Svezia e della Finlandia e ora i due Paesi scandinavi potranno essere invitati a diventare trentunesimo e trentaduesimo membro dell’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord. Il via libera del presidente turco, Recep Tayyip Erdoğan, non arriva senza costi per i due Paesi scandinavi (e di riflesso per l’Unione Europea), che si sono dovuti in un certo modo piegare ai ricatti di Ankara su diversi dossier, ma in una forma che lascia ancora molto aperta la possibilità di libera interpretazione delle concessioni fatte nel memorandum d’intesa, soprattutto sulla questione delle estradizioni.
    Secondo quanto si legge nel memorandum trilaterale, il punto centrale dei negoziati condotti sotto gli auspici della NATO riguarda la “cooperazione nella lotta contro il terrorismo”, che per la Turchia significa la persecuzione del movimento politico-militare curdo del PKK (Partito dei lavoratori del Kurdistan). L’organizzazione è considerata terroristica non solo da Ankara, ma anche dall’Unione Europea – di cui Finlandia e Svezia fanno parte – nonostante l’attribuzione sia controversa proprio per le persecuzioni messe in atto dal regime di Erdoğan: ecco perché soprattutto Stoccolma ha considerato diversi membri del PKK rifugiati politici e si rifiuta di estradarli. Le concessioni su questo punto non sono sostanziali – appunto, anche Svezia e Finlandia considerano già il PKK un’organizzazione terroristica – ed è stato ribadito l’impegno generico a prevenirne le attività e a intensificare la cooperazione tra i tre Paesi.
    La firma del memorandum d’intesa NATO tra Turchia, Svezia e Finlandia a Madrid (28 giugno 2022)
    Non va sovrastimato il riferimento alle nuove leggi nazionali antiterrorismo dei due Paesi scandinavi, perché tutto dipende dal livello di implementazione per i casi specifici dei presunti esponenti del PKK considerati rifugiati politici (e che, in linea teorica, già ora sarebbero dovuti essere estradati). Allo stesso modo, se può preoccupare il riferimento esplicito all’affrontare “in modo rapido e approfondito” le richieste di espulsione o estradizione di “sospetti terroristi” presentate dalla Turchia – le informazioni, le prove e l’intelligence di Ankara dovranno integrarsi con i principi della Convenzione europea di estradizione e con quadri giuridici bilaterali in cui rimane ancora centrale la questione del diritto alla protezione per i rifugiati politici. In ogni caso, va rilevato anche un fattore pratico: una volta che Finlandia e Svezia saranno membri NATO, a prescindere dal “Meccanismo Congiunto Permanente” stabilito per l’attuazione delle misure, la Turchia non avrà più la possibilità di ricattare i due Paesi scandinavi in caso di rimostranze sulla gestione delle procedure di estradizione di esponenti del PKK (o sospetti tali).
    Controverso è anche il riferimento all’intesa sull’astensione dal fornire sostegno alle Unità di Protezione Popolare (YPG) e al Partito dell’Unione Democratica (PYD) curdi. “In quanto potenziali alleati della NATO, Finlandia e Svezia estendono il loro pieno sostegno alla Turchia contro le minacce alla sua sicurezza nazionale”, si legge nel memorandum d’intesa trilaterale, con la precisazione che “condannano senza ambiguità tutte le organizzazioni terroristiche che perpetrano attacchi contro la Turchia”. Le forze curde sono state coinvolte nella lotta contro lo Stato Islamico dal 2014, rendendosi indispensabili per l’offensiva della coalizione internazionale contro Daesh in Siria, ma sono state abbandonate da tutti gli ex-alleati occidentali durante le operazioni militari turche nella regione del Kurdistan siriano. Ecco perché stupisce fino a un certo punto che Helsinki e Stoccolma abbiano firmato un’intesa che coinvolge anche questa concessione discutibile, dal momento in cui non aggiunge né toglie nulla al supporto inesistente sul piano internazionale al confederalismo democratico curdo.
    Ma la questione più cruciale riguarda le sanzioni del 2019 per l’intervento militare turco in Siria, che hanno portato al divieto di vendita di armi ad Ankara. “La Turchia, la Finlandia e la Svezia confermano che ora non esistono più embarghi nazionali sulle armi“, si legge nel testo dell’accordo firmato alla vigilia del Summit NATO di Madrid. “La Svezia sta modificando il quadro normativo nazionale per le esportazioni di armi in relazione agli alleati” e “in futuro, le esportazioni di armi da Finlandia e Svezia saranno condotte in linea con la solidarietà dell’Alleanza”, specifica il memorandum. Questa potrebbe essere la vera chiave di volta dello sblocco del veto turco all’adesione di Helsinki e Stoccolma all’Alleanza Atlantica, con fondati sospetti che la partita sia più ampia e coinvolga anche Washington, per la fornitura dagli Stati Uniti dei 40 nuovi caccia F-16 alla Turchia bloccata da tempo al Congresso a causa i rapporti controversi degli ultimi anni tra Erdoğan e l’omologo russo Putin.

    È stato firmato dai ministri degli Esteri dei tre Paesi e ha sbloccato la strada per l’adesione all’Alleanza Atlantica di Helsinki Stoccolma. Sono evidenti le concessioni sulle richieste di Ankara (in particolare su embargo e PKK), ma tutto dipenderà dall’implementazione degli accordi

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    La Turchia toglie il veto sull’adesione NATO di Svezia e Finlandia: sosterrà l’invito al vertice di Madrid

    Bruxelles – Il più importante vertice dell’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord dalla fine della Guerra Fredda si apre con una decisione che è a tutti gli effetti storica. La Turchia ha annunciato che toglierà il veto alla richiesta di adesione NATO di Svezia e Finlandia, sostenendo l’invito durante il vertice di Madrid (29-30 giugno) a diventare nuovi membri dell’Alleanza.
    La firma del memorandum d’intesa NATO tra Turchia, Svezia e Finlandia a Madrid (28 giugno 2022)
    “Sono lieto di annunciare che abbiamo raggiunto un accordo che apre la strada all’adesione di Svezia e Finlandia alla NATO”, ha annunciato ieri sera (martedì 28 giugno) il segretario generale, Jens Stoltenberg, dopo il vertice a quattro con il presidente della Finlandia, Sauli Niinistö, la prima ministra svedese, Magdalena Andersson, e il presidente della Turchia, Recep Tayyip Erdoğan: “La politica delle porte aperte della NATO è un successo, abbiamo mostrato di saper risolvere i problemi attraverso le negoziazioni”. Con il memorandum d’intesa firmato dai ministri degli Esteri di Helsinki, Stoccolma e Ankara, si apre la strada per l’invito ai due Paesi scandinavi a diventare nuovi membri della NATO. La decisione formale sarà presa oggi dai 30 alleati – Turchia compresa – nel corso della prima giornata di Summit a Madrid.
    La decisione assume una particolare rilevanza nel contesto del nuovo concetto strategico dell’Alleanza Atlantica, che considera la Russia “la più significativa e diretta minaccia” per la sicurezza degli alleati. La svolta nei due Paesi scandinavi tradizionalmente non-allineati militarmente è arrivata dopo l’aggressione militare della Russia all’Ucraina, un attacco non giustificato a uno Stato indipendente e sovrano che ha fatto temere il peggio anche a Helsinki e Stoccolma. “Inviamo un messaggio molto chiaro a Vladimir Putin“, ha sottolineato con forza il segretario generale Stoltenberg. “La nostra porta è aperta, e ha ottenuto l’opposto di quello che chiedeva” prima di invadere il territorio ucraino: “Voleva meno NATO, ora si trova con più NATO ai suoi confini“. Anche da Bruxelles è stata accolta positivamente l’intesa tra Finlandia, Svezia e Turchia per aprire le porte dell’Alleanza Atlantica ai due Paesi scandinavi: “Una NATO unita manterrà i nostri cittadini al sicuro e faciliterà una maggiore cooperazione con l’UE“, ha commentato il presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel.
    La questione turca
    Dopo la firma del memorandum d’intesa tra Svezia, Finlandia e Turchia a livello NATO, si attende ora la definizione dei dettagli dell’accordo sulle “minacce alla sicurezza reciproca”, estradizioni verso Ankara comprese (che “rispetteranno gli standard europei”). Tutte questioni che, ancora prima che il segretario generale Stoltenberg ricevesse le richieste di adesione da Helsinki e Stoccolma, avevano spinto la Turchia di Erdoğan a mettersi di traverso, a causa delle tensioni diplomatiche con i due Paesi scandinavi.
    Il presidente della Turchia, Recep Tayyip Erdoğan, e il segretario generale della NATO, Jens Stoltenberg
    La prima questione che ha tenuto in stallo per più di un mese l’adesione NATO di Finlandia e Svezia è legata al presunto sostegno al movimento politico-militare curdo del PKK (Partito dei lavoratori del Kurdistan) da parte dei due Paesi europei. In realtà, l’organizzazione è bollata come terroristica non solo dalla Turchia, ma anche dall’Unione Europea (di cui Finlandia e Svezia fanno parte), anche se questa attribuzione è controversa: a causa delle persecuzioni a cui è sottoposta la popolazione curda in Turchia, in particolare Stoccolma si è rifiutata di estradare diversi membri del PKK, considerandoli rifugiati politici. La seconda ragione si spiega con le sanzioni imposte nel 2019 contro la Turchia per l’intervento militare in Siria, che hanno portato al divieto di vendita di armi ad Ankara.
    Il testo firmato ieri sera dai tre leader specifica che Finlandia e Svezia “estenderanno il loro pieno sostegno” alla Turchia in materia di sicurezza nazionale, facendo concessioni risolutorie: la promessa è di “non fornire sostegno” ai gruppi curdi siriani PYD/YPG, attivi nella lotta contro lo Stato Islamico (IS) in Siria e di aprire a possibili estradizioni di membri del PKK (al momento non c’è nulla di vincolante per i due Paesi scandinavi), mentre è stata ribadita l’assenza di embarghi nazionali sulle vendite di armi alla Turchia. Infine, Helsinki e Stoccolma hanno confermato il sostegno alla “più ampia inclusione possibile” di Ankara e di altri alleati extra-UE alle “iniziative attuali e future” dei quadri di difesa dell’Unione Europea.

    Il processo di adesione alla NATO
    Per diventare membro della NATO, un Paese deve inviare una richiesta formale, precedentemente approvata dal proprio Parlamento nazionale. A questo punto si aprono due fasi di discussioni con l’Alleanza, che non necessariamente aprono la strada all’adesione: la prima, l’Intensified Dialogue, approfondisce le motivazioni che hanno spinto il Paese a fare richiesta (come nel caso dell’Ucraina), la seconda, il Membership Action Plan, prepara il potenziale candidato a soddisfare i requisiti politici, economici, militari e legali necessari (sistema democratico, economia di mercato, rispetto dello Stato di diritto e dei diritti fondamentali, standard di intelligence e di contributo alle operazioni militari, attitudine alla risoluzione pacifica dei conflitti). Questa seconda fase di discussioni è stata introdotta nel 1999 dopo l’ingresso nella NATO di Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca, per affrontare il processo con aspiranti membri con sistemi politici diversi da quelli dei Paesi fondatori dell’Alleanza, come quelli ex-sovietici.
    La procedura di adesione alla NATO inizia formalmente con l’applicazione dell’articolo 10 del Trattato dell’Atlantico del Nord, che prevede che “le parti possono, con accordo unanime, invitare ad aderire ogni altro Stato europeo in grado di favorire lo sviluppo dei principi del presente Trattato e di contribuire alla sicurezza della regione dell’Atlantico settentrionale”. La risoluzione deve essere votata all’unanimità da tutti i Paesi membri NATO, che attualmente sono 30 (oggi dovrebbe succedere questo al vertice di Madrid, con l’allineamento della Turchia). A questo punto si aprono nel quartier generale dell’Alleanza a Bruxelles gli accession talks, per confermare la volontà e la capacità del candidato di rispettare gli obblighi previsti dall’adesione: questioni politiche e militari prima, di sicurezza ed economiche poi. Dopo gli accession talks, che sono a tutti gli effetti una fase di negoziati, il ministro degli Esteri del Paese candidato invia una lettera d’intenti al segretario generale della NATO.
    Il processo di adesione si conclude con il Protocollo di adesione, che viene preparato dalla NATO con un emendamento del Trattato di Washington, il testo fondante dell’Alleanza. Questo Protocollo deve essere ratificato da tutti i membri, con procedure che variano a seconda del Paese: in Italia è richiesto il voto del Parlamento riunito in seduta comune, per autorizzare il presidente della Repubblica a ratificare il trattato internazionale. Una volta emendato il Protocollo di adesione, il segretario generale della NATO invita formalmente il Paese candidato a entrare nell’Alleanza e l’accordo viene depositato alla sede del dipartimento di Stato americano a Washington. Al termine di questo processo, il candidato è ufficialmente membro dell’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord.

    Dopo la firma del memorandum d’intesa con Helsinki e Stoccolma, al Summit di Madrid Ankara si allineerà agli altri 29 membri dell’Alleanza Atlantica. Decisive le concessioni dei due Paesi scandinavi su estradizioni ed embargo di armi, ma si attendono i dettagli dell’accordo

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    19 ottobre 2023, la Scozia fissa la data per un nuovo referendum sull’indipendenza

    Bruxelles – La Scozia ci riprova. La prima ministra di Edimburgo definisce il calendario per l’indipendenza, fissando al 19 ottobre 2023 il giorno per un nuovo referendum. Non molla Nicola Sturgeon. Fa sul serio, e lo fa nel solco delle sempre più complicate relazioni con Londra. Nel 2014 il voto sullo status scozzese vide affermarsi lo status quo. Il 55,3 per cento dei votanti optò per restare Nazione costitutiva del Regno Unito, ma all’epoca il Regno Unito era ancora parte dell’Unione europea. E’ stata la Brexit a produrre un vero e proprio terremoto nel nord dell’isola. Inglesi e scozzesi hanno espresso idee completamente diverse sull’appartenenza al club a dodici stelle, con i primi – a favore dell’uscita – che hanno costretto i secondi – a favore della permanenza – a rinunciarvi.
    Da allora la premier scozzese ha iniziato un lavorio senza sosta per dare di nuovo ai suoi elettori un posto nell’UE. Sa che deve farlo secondo le regole, perché la separazione sia riconosciuta dalla comunità internazionale e potersi riconoscere il processo di adesione. C’è bisogno del via libera del governo di Londra per indire il referendum. Con il governo di Johnson ci sono già stati confronti sul tema, in passato. L’attuale inquilino del numero 10 di Dowing Street si è fin qui opposto a permettere un nuovo voto sull’indipendenza della Scozia, sostenendo che un’iniziativa simile deve avvenire “una volta in una generazione”. Sturgeon sta al gioco, senza desistere, e aspetta che passi il momento della ‘generazione’. 18 settembre 2014-19 ottobre 2023, ecco il passo generazionale. “La democrazia scozzese non sarà prigioniera di Boris Johnson”, scandisce Sturgeon nel suo Parlamento di Edimburgo. Ribadisce che la Brexit ha cambiato tutto, i presupposti alla base del quesito referendario del 2014, e annuncia che il 19 ottobre 2023 i cittadini-elettori saranno sottoposti un’altra volta allo stesso quesito: “Dovrebbe la Scozia essere uno Stato indipendente?”.
    Una sfida aperta, quella di Sturgeon. Con il presidente del partito di cui fa parte, il Partito nazionalista scozzese (SNP), Michael Russell, che fa notare come il 19 ottobre non sia un giorno scelto a caso. “Il 19 ottobre 1781 il generale Cornwallis si arrese a Yorktown mettendo effettivamente fine alla rivoluzione americana e assicurando l’indipendenza dell’America”.
    A Londra si glissa. “La nostra posizione rimane invariata”, il commento del portavoce del governo, che ribadisce come “sia la nostra priorità che quella del governo scozzese dovrebbe essere lavorare insieme con un’attenzione incessante sulle questioni che contano davvero per le persone”. Ma di fronte alle mosse di Sturgeon e dei nazionalisti scozzesi, “studieremo attentamente i dettagli della proposta e la Corte suprema valuterà”.

    L’annuncio della prima ministra Nicola Sturgeon. “”La democrazia scozzese non sarà prigioniera di Boris Johnson”. Londra minimizza. “Non è una priorità, valuterà la Corte suprema”