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    I crimini di guerra in Ucraina “riportano alla mente” gli orrori della guerra in Bosnia: l’UE ricorda il massacro di Srebrenica

    Bruxelles – Le lancette della storia indietro di 27 anni, in Bosnia ed Erzegovina, mentre emergono giorno dopo giorno sempre più immagini e testimonianze degli orrori dell’esercito russo in Ucraina. Mai come quest’anno il ricordo del massacro di Srebrenica è un monito per quanto si sta ripetendo sul territorio europeo, oltre i confini orientali dell’UE. “Le uccisioni di massa e i crimini di guerra a cui assistiamo in Ucraina riportano alla mente la guerra nei Balcani Occidentali degli anni Novanta”, hanno sottolineato l’alto rappresentante UE per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, e il commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi, nel ribadire che “è più che mai nostro dovere ricordare il genocidio di Srebrenica, come parte della nostra storia comune europea“.
    Nel luglio del 1995 furono 8.372 i civili bosniaci – tutti maschi, di etnia musulmana – massacrati dalle forze serbo-bosniache di Ratko Mladić nei pressi del comune di Srebrenica, nella Bosnia orientale. Sono passati 27 anni da quell’ennesima tragedia (la più grande per numero di vittime in pochi giorni) di un genocidio durato tre anni e mezzo, dall’aprile del 1992 agli accordi di Dayton del 14 dicembre 1995. Eppure “ancora oggi non possiamo dare la pace per scontata“, perché “l’aggressione ingiustificata e immotivata della Russia contro l’Ucraina ha riportato una guerra brutale nel nostro continente”. Mentre la stabilità dell’Europa e l’ordine internazionale sono “profondamente scossi”, l’UE non dimentica “la necessità di alzarci per difendere la pace, la dignità umana e i valori universali”, rimessi in discussione: “Non abbiamo dimenticato ciò che è accaduto a Srebrenica e la nostra responsabilità per non essere stati in grado di prevenire e fermare il genocidio”.

    Today, we remember the victims of the #Srebrenica genocideWe cannot take peace for granted. We must learn from the past and work daily for peace, human dignity, universal valuesWe take inspiration from the Mothers of Srebrenica in their pursuit of truth, justice, reconciliation pic.twitter.com/5DZoB9fzxq
    — Josep Borrell Fontelles (@JosepBorrellF) July 11, 2022

    Allora “l’Europa ha fallito e noi dobbiamo affrontare la nostra vergogna”, ma quegli errori non possono essere commessi di nuovo. Né in Ucraina né ancora nella regione balcanica: “In Europa non c’è posto per la negazione del genocidio, il revisionismo e la glorificazione dei criminali di guerra“, hanno avvertito l’alto rappresnetante Borrell e il commissario Várhelyi, richiamandosi alle tensioni che da diversi mesi si stanno vivendo nella Republika Srpska (l’entità a maggioranza serba del Paese): “Tutti i cittadini della Bosnia ed Erzegovina meritano una società in cui prevalgano il pluralismo, la giustizia e la dignità umana”. Lo aveva ricordato un mese fa durate la cerimonia del Premio Lux 2022 al Parlamento UE la regista di Quo Vadis, Aida? (proprio sul massacro di Srebrenica), Jasmila Žbanić: “Abbiamo bisogno del vostro supporto contro i nazionalismi appoggiati daPutin”. E quella dei membri del gabinetto guidato da Ursula von der Leyen sembra quasi una risposta al suo appello: “In questi tempi pericolosi” i leader bosnaici “devono passare dalle parole ai fatti”, scegliendo “verità, giustizia e cooperazione al posto di paura e odio per superare le tragiche eredità del passato e costruire un futuro più luminoso e prospero per le prossime generazioni”.
    Un impegno che coinvolge il cammino di adesione di Sarajevo all’UE (nonostante le difficoltà mostrate anche da parte di Bruxelles nel fornire una risposta credibile alle aspirazioni balcaniche). “L’Unione Europea è stata costruita come un progetto di pace comune e il futuro della Bosnia ed Erzegovina è all’interno dell’Unione“, hanno ribadito con forza Borrell e Várhelyi. Ma per realizzare questo obiettivo “è necessario che tutti i leader del Paese si impegnino a porre la pace, la riconciliazione, la comprensione reciproca e il dialogo in cima alla loro agenda e si impegnino nel programma di riforme” richiesto dalla comunità internazionale. Anche il presidente del Consiglio UE, Charles Michel, ha collegato il massacro di Srebrenica – “uno dei momenti più bui della storia europea moderna” con il momento storico che il continente sta affrontando: “Questo tragico anniversario ci ricorda che dobbiamo continuare a lavorare insieme per la pace in Europa” e per far sì che “la Bosnia ed Erzegovina diventi parte dell’Unione Europea”.

    27 years since #Srebrenica genocide, one of the darkest moments in modern European history.
    Our hearts & thoughts are with the victims & their families. This tragic anniversary is also a reminder: we must keep working together for peace in Europe & for 🇧🇦 to become part of 🇪🇺 pic.twitter.com/nZ6iJs81k4
    — Charles Michel (@CharlesMichel) July 11, 2022

    Nel ribadire che l’assassinio di oltre 8 mila civili nel 1995 “è parte della nostra storia comune europea” e un fallimento per cui “dobbiamo affrontare la nostra vergogna”, l’alto rappresentante UE, Josep Borrell, avverte che “neanche oggi non possiamo dare la pace per scontata”

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    Dal clima alla sicurezza energetica, von der Leyen a Long Island da Guterres per rafforzare il partenariato UE-ONU

    Bruxelles – Dalla crisi alimentare, a quella dell’energia; dalla guerra di Russia in Ucraina: alla prossima COP27 che si terrà in Egitto in autunno i temi sono tanti e caldi, e portano Ursula von der Leyen, insieme a tutto il collegio dei commissari in un ritiro di lavoro di due giorni (7-8 luglio) a Long Island, a New York, con il segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres e altri alti funzionari delle Nazioni Unite. Le priorità di questo incontro, che secondo l’UE porta il partenariato UE-ONU “a un livello superiore”, le ha indicate la stessa presidente della Commissione europea in una conferenza stampa fatta all’arrivo negli Stati Uniti.
    Il nodo principale è la guerra della Russia in Ucraina, che porta con sé tutta una serie di sfide su cui Ue e Onu devono lavorare insieme. A partire dalla sicurezza alimentare. Mosca “sta bloccando l’esportazione di grano dall’Ucraina, portando così la fame a milioni di persone. Il blocco del Mar Nero deve cessare”, ha ammonito von der Leyen al fianco di Guterres, ringraziandolo per il suo “instancabile lavoro nel tentativo di creare una soluzione per l’esportazione di grano ucraino attraverso il Mar Nero”. Bruxelles – ha aggiunto – cerca dal canto suo di offrire rotte alternative all’Ucraina per il passaggio del grano sia su strada, sia in treno, o ad esempio sul fiume Danubio. L’attenzione però non è solo su come sbloccare le esportazioni di beni alimentari da Kiev, ma anche come aiutare i Paesi più vulnerabili ad aumentare la capacità di produzione in loco. “Stiamo anche stanziando fondi, 5 miliardi di euro, nei prossimi anni nell’agricoltura di precisione, ad esempio nelle nanotecnologie o nella gestione dell’acqua nelle aree aride, in modo che questi paesi non siano più così dipendenti dal mercato alimentare globale, ma siano in grado di produrre il cibo di cui hanno bisogno localmente”.
    Sarà anche la crisi energetica a tenere banco. “I prezzi dei combustibili fossili stanno salendo alle stelle con un pesante impatto negativo sui mezzi di sussistenza”, ha avvertito la presidente, aggiungendo che “la migliore risposta è un massiccio investimento nelle energie rinnovabili”. Si parla di rinnovabili perché l’energia pulita avrà un ruolo di primo piano in occasione della prossima COP27, la Conferenza sul clima delle Nazioni Unite che si terrà in autunno in Egitto, a Sharm El-Sheik. Stando alle parole di von der Leyen si parlerà inoltre del prezzo del carbonio, dal momento che l’UE deve negoziare un accordo sulla nuova tassa sul carbonio alle fronte (CBAM) che avrà un impatto non indifferente sulle relazioni (soprattutto commerciali) di Bruxelles con altri Paesi.

    Il collegio a guida von der Leyen vola negli Stati Uniti per una riunione di lavoro con il Segretario Generale delle Nazioni Uniti, per discutere delle sfide connesse alla guerra di Russia in Ucraina

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    L’UE “scioccata” per l’attentato all’ex-primo ministro giapponese Shinzo Abe: è in condizioni critiche

    Bruxelles – Il mondo travolto dallo shock per le condizioni disperate di Shinzo Abe. L’ex-premier del Giappone (in carica dal 2012 al 2020) è stato gravemente ferito in un attentato nella città di Nara, dove stava tenendo un discorso per la campagna elettorale in vista delle imminenti elezioni locali. A sparare sarebbe stato un uomo di circa 40 anni residente a Nara, come riporta la televisione nazionale giapponese NHK.
    “Sono scioccato e rattristato dal vile attacco a Shinzo Abe, mentre svolgeva le sue mansioni professionali”, ha commentato attraverso un tweet il presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, definendo l’ex-premier giapponese “un vero amico, strenuo difensore dell’ordine multilaterale e dei valori democratici”. Dopo il viaggio di due mesi fa a Tokyo con la presidente della Commissione UE, Ursula von der Leyen, il leader del Consiglio ha voluto esprimere la vicinanza dell’Unione al popolo giapponese e all’attuale premier, Fumio Kishida, “in questi tempi difficili”. A stretto giro sono arrivate le “profonde condoglianze” da parte della presidente von der Leyen: “Caro Shinzo Abe, rimani forte“, ha scritto su Twitter, rivolgendo “i nostri pensieri e le nostre preghiere alla tua famiglia e al popolo giapponese”. Anche l’alto rappresentante UE per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, si è detto “profondamente scioccato” dall’attacco e ha ribadito la “piena solidarietà dell’Unione Europea con il Giappone in questi momenti dolorosi”.

    Dear @AbeShinzo, stay strong!
    Our thoughts and prayers are with your family and the people of Japan. pic.twitter.com/WRQTTv7jX2
    — Ursula von der Leyen (@vonderleyen) July 8, 2022

    Verso le ore 11.30 locali (le 4.30 italiane) l’ex-premier Shinzo Abe aveva iniziato da circa un minuto il suo intervento elettorale nella città vicina a Kyoto e Osaka, quando è stato colpito alla schiena a pochi metri di distanza da almeno due spari di arma da fuoco. Si è subito accasciato al suolo sanguinante, con i paramedici che lo hanno circondato per prestargli i primi soccorsi, mentre le forze dell’ordine hanno bloccato il tentativo di fuga dell’attentatore e hanno sequestrato l’arma che, come emerge dalle immagini diffuse sui social media, è una grossa pistola artigianale. All’emittente nazionale NHK l’Agenzia per la gestione degli incendi e dei disastri (FDMA) ha confermato che l’ex-premier ha una ferita da proiettile sulla parte destra del collo e un’emorragia sottocutanea sotto la parte sinistra del petto. L’ex-governatore di Tokyo, Yoichi Masuzoe, ha fatto sapere in un tweet che – dopo essere stato traportato in ospedale in stato “cosciente e reattivo” – Shinzo Abe si trova ora in uno “stato di arresto cardiopolmonare“, termine spesso utilizzato in Giappone prima di dare conferma ufficiale di morte.
    (in aggiornamento)

    Colpito da due spari di arma da fuoco mentre teneva un discorso nella città di Nara, Shinzo Abe è in uno stato di arresto cardiopolmonare. Il presidente del Consiglio UE, Charles Michel: “Vile attacco a un vero amico, strenuo difensore dell’ordine multilaterale e dei valori democratici”

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    L’UE dà l’addio al “regno” di Boris Johnson: “Il suo populismo non ci mancherà, finalmente si dovrà fare da parte”

    Bruxelles – “Il regno di Boris Johnson finisce in disgrazia, proprio come il suo amico Donald Trump“. È un commento caustico quello di Guy Verhofstadt, membro del Parlamento UE ed ex-premier belga, a proposito della notizia di giornata: il premier britannico Johnson è pronto a rassegnare le dimissioni da leader del Partito Conservatore dopo l’ondata di dimissioni dei suoi ministri a causa di una serie di scandali che hanno travolto il suo governo. Un preambolo per il passo indietro anche da primo ministro del Regno Unito, atteso al più tardi entro l’autunno.
    Il tweet dell’eurodeputato liberale è un po’ la sintesi degli umori a Bruxelles rispetto al destino del premier che ha guidato il Regno Unito durante la separazione di Londra dall’Unione. Facendo un parallelismo con la sconfitta elettorale di Trump negli Stati Uniti nell’autunno 2019, Verhofstadt si è augurato “la fine di un’era di populismo transatlantico“. Le responsabilità dell’ormai quasi ex-primo ministro britannico riguardano anche i rapporti tra Londra e Bruxelles, che “hanno sofferto enormemente con la scelta della Brexit di Johnson”, ha attaccato Verhofstadt: “Le cose possono solo migliorare”. Anche il capogruppo del Partito Democratico al Parlamento UE, Brando Benifei, ha commentato in modo laconico le attese dimissioni di Johnson: “Il suo populismo non ci mancherà“, ha sottolineato in un tweet l’eurodeputato S&D, precisando che “dopo il Partygate, i gravi scandali che hanno colpito i conservatori, il tentativo di sfiducia da parte dei suoi deputati e le sconfitte elettorali nelle suppletive, finalmente dovrà farsi da parte“.

    #BorisJohnson si dimetterà. Dopo il “party gate”, i gravi scandali che hanno colpito i Conservatori, il tentativo di sfiducia da parte dei suoi deputati e le sconfitte elettorali nelle suppletive, finalmente dovrà farsi da parte. Il suo populismo non ci mancherà.
    — Brando Benifei (@brandobenifei) July 7, 2022

    Buona parte dei membri del Parlamento UE guardano con speranza alle dimissioni del premier britannico Johnson proprio per una distensione dei rapporti tra l’Unione e il Regno Unito. “Solo il popolo britannico può chiedere conto a Johnson”, ha ricordato il presidente del gruppo del PPE all’Eurocamera, Manfred Weber, mettendo però in chiaro che “qualunque sia la prossima mossa, l’UE deve insistere sulla piena attuazione del Protocollo sull’Irlanda del Nord“. Dal momento in cui “non ci sono opportunità per la Brexit, ma solo costi”, il rispetto del Protocollo – messo in discussione proprio dal governo Johnson – “esiste per minimizzare i danni”, ha avvertito Weber.
    “Il mandato di Johnson ha portato le relazioni tra UE e Regno Unito ai minimi storici”, ha attaccato la presidente del gruppo degli S&D al Parlamento UE, Iratxe García Pérez, ribadendo che “le sue dimissioni, attese da tempo, devono segnare una svolta”. L’appello a chi verrà dopo di BoJo è di “smettere di bruciare i ponti con noi e iniziare a costruirli“. Sulla stessa linea è anche Nathalie Loiseau (Renew Europe), presidente della delegazione all’Assemblea parlamentare di partenariato UE-Regno Unito: “Oggi è un giorno di speranza per il miglioramento delle relazioni” tra Bruxelles e Londra, “costruite sulla fiducia e sulla piena attuazione, in buona fede e buona volontà, degli accordi negoziati, firmati e ratificati congiuntamente”. L’eurodeputata francese ha invitato la controparte a “unirci, invece di essere divisi” e di “ricordare il significato dell’amicizia”.

    Today is a day of hope for improved EU-UK relations built on trust and on the full implementation, in good faith and good will, of agreements negotiated, signed and ratified jointly. We are ready. Let’s unite instead of being divided. Let’s remember the meaning of friendship.🇪🇺🇬🇧
    — Nathalie Loiseau (@NathalieLoiseau) July 7, 2022

    Più cauta la Commissione Europea, che, per voce del suo portavoce Johannes Bahrke, non si è smossa dal “no comment sui processi democratici nei Paesi terzi“. Incalzato dalle domande della stampa europea durante il punto quotidiano, il portavoce dell’esecutivo comunitario per l’accordo UE-Regno Unito, Daniel Ferrie, ha spiegato che “gli sviluppi politici a Londra non cambiano la nostra posizione” in merito al “lavoro con le autorità britanniche per l’attuazione del Protocollo sull’Irlanda del Nord”. Un altro “no comment” è arrivato sulla possibilità che le dimissioni di Johnson possano cambiare l’atteggiamento della Commissione UE rispetto alla procedura d’infrazione riattivata contro Londra lo scorso 15 giugno: “Al momento non abbiamo novità, rimane in corso”, ha precisato il portavoce.

    Al centro della questione tra Londra e Bruxelles c’è la decisione del governo Johnson di non ritirare il progetto di legge che andrebbe a riscrivere – solo da parte britannica – le condizioni del commercio tra Gran Bretagna e Irlanda del Nord, violando il protocollo che è parte dell’accordo di recesso tra UE e Regno Unito. Dopo la decisione della Commissione di riattivare la procedura d’infrazione, dall’altra sponda della Manica è arrivata una risposta di totale chiusura: non solo la proposta non è stata ritirata, ma martedì scorso (28 giugno) la Camera dei Comuni l’ha approvata, dando il primo via libera al progetto di modifica del Protocollo sull’Irlanda del Nord.

    Si tratta in particolare della questione del periodo di grazia per il commercio nel Mare d’Irlanda, ovvero la durata della concessione temporanea ai controlli UE sui certificati sanitari per il commercio dalla Gran Bretagna all’Irlanda del Nord (che nel contesto post-Brexit sono necessari per mantenere integro il Mercato Unico sull’isola d’Irlanda). Il problema maggiore riguarda le carni refrigerate e per questa ragione si è spesso parlato di ‘guerra delle salsicce’ con Bruxelles. Il tentativo di prorogare unilateralmente il periodo di grazia da parte del governo Johnson aveva scatenato lo scontro diplomatico tra le due sponde della Manica, apparentemente risolto tra luglio e ottobre dello scorso anno: l’esecutivo comunitario aveva prima sospeso la procedura d’infrazione contro Londra, per cercare poi delle soluzioni di compromesso su tutti i settori più delicati, ma senza mai mettere in discussione l’integrità della parte dell’accordo di recesso tra UE e Regno Unito siglato per garantire l’unità sull’isola irlandese.

    I membri del Parlamento UE sperano in una distensione dei rapporti con Londra dopo le dimissioni di BoJo da leader dei conservatori (e presto da primo ministro britannico). Più cauta la Commissione: “No comment sui processi democratici nei Paesi terzi”

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    Boris Johnson al capolinea. Rassegnate le dimissioni da leader conservatore, massimo entro l’autunno da premier

    Bruxelles – The end. Uno dei governi più brevi della storia recente del Regno Unito – 2 anni e 349 giorni – si chiuderà informalmente oggi (giovedì 7 luglio), con le dimissioni del primo ministro britannico, Boris Johnson, da leader del Partito Conservatore. Succede nel modo più traumatico possibile, travolto un’ondata di dimissioni da parte dei membri del suo gabinetto, a ogni livello, che ha reso inutile anche l’ultima resistenza disperata di un premier che fino all’ultimo ha cercato di negare la realtà attorno a lui. Tutti – o quasi – lo hanno scaricato, dopo aver superato “il punto di non ritorno” per la credibilità politica dell’inquilino di Downing Street 10 (come ha scritto nella sua lettera di dimissioni Brandon Lewis, segretario di Stato per l’Irlanda del Nord, lo stesso responsabile per il progetto di legge condannato da Bruxelles).
    L’annuncio delle dimissioni da parte del premier britannico, Boris Johnson (7 luglio 2022)
    Alle 13.30 Johnson ha annunciato pubblicamente di fronte alla porta di Downing Street 10 le proprie dimissioni da numero uno dei Tories: “È ormai chiaro che la volontà del Partito Conservatore è quella di avere un nuovo leader e quindi un nuovo primo ministro”, ha spiegato BoJo dal podio, mettendo in chiaro che “la scelta del nuovo leader deve iniziare ora, il calendario sarà annunciato la prossima settimana“. Tuttavia, come già anticipato in mattinata da fonti della BBC, Johnson ha precisato che continuerà a ricoprire la carica di primo ministro fino all’autunno: “Rimarrò fino a quando non ci sarà nuovo leader”. La corsa alla leadership dei Tories è in programma per quest’estate e il vincitore o la vincitrice prenderà il testimone dalle mani di BoJo – o da un traghettatore – prima della conferenza del Partito Conservatore in programma a Birmingham tra il 2 e il 5 ottobre.
    Fonti di The Guardian mettono però in dubbio che l’attuale premier sia in grado di rimanere in carica ancora per mesi, indicando la necessità di un cambio al vertice già nelle prossime ore, con la successione provvisoria del vice, Dominic Raab. “In politica nessuno è strettamente indispensabile”, ha voluto sottolineare Johnson nel suo annuncio di dimissioni dal leader dei conservatori: “Il nostro sistema brillante e darwiniano produrrà un altro leader“, a cui quello che ormai a breve diventerà l’ex-premier darà “tutto il sostegno possibile”. Le resistenze delle ultime ore sono state giustificate da BoJo come un tentativo di “rispettare il mio dovere e i miei obblighi” verso l’elettorato britannico “su quanto promesso nel 2019”. Oltre alla gestione della pandemia COVID-19 e dell’opposizione alla Russia di Putin nell’aggressione all’Ucraina, Johnson si è detto anche “estremamente soddisfatto per aver realizzato la Brexit“.
    A innescare la crisi di governo sono stati alcuni scandali che hanno colpito il gabinetto Johnson. Il primo è stato il cosiddetto Partygate, che ha rivelato una serie di feste private organizzate nella residenza riservata al premier britannico durante il lockdown per la pandemia COVID-19. Negli ultimi giorni è seguita poi la scoperta che Johnson aveva nominato Chris Pincher a deputy chief whip (vice del responsabile per il controllo della disciplina del gruppo di maggioranza alla Camera dei Comuni) nonostante sapesse che era stato accusato di molestie sessuali. L’ondata di dimissioni dal gabinetto – siamo ora a oltre 50 – sono arrivate proprio dopo quest’ultimo scandalo: nella lettera di dimissioni del segretario di Stato per la Salute, Sajid Javid, si legge che “il popolo britannico si aspetta integrità dal suo governo”.
    (in aggiornamento)

    Inutile la resistenza delle ultime ore di fronte all’ondata di dimissioni dei membri del suo gabinetto per gli scandali che hanno travolto Downing Street 10. BoJo lascia la guida del Partito Conservatore, ma rimarrà primo ministro fino al passaggio di testimone con il nuovo leader Tory

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    L’UE striglia il gabinetto Johnson (in crisi) sull’Irlanda del Nord: “Non è tempo per violare il diritto internazionale”

    Bruxelles – È bersagliato su tutti i fronti il premier britannico, Boris Johnson. Quello interno è senza dubbio il più urgente – con il rischio di una crisi di governo imminente dopo le dimissioni in massa anche tra i suoi ministri più fedeli – ma anche per i rapporti con i partner internazionali dell’Europa continentale la situazione non è molto più rosea. Durante un confronto con gli eurodeputati alla sessione plenaria del Parlamento UE, il vicepresidente della Commissione per le Relazioni interisituzionali, Maroš Šefčovič, è tornato ad attaccare BoJo per il progetto di modifiche unilaterali del Protocollo sull’Irlanda del Nord: “Dobbiamo affrontare una grande sfida sulla frontiera orientale [la guerra russa in Ucraina, ndr], non è il momento per violare il diritto internazionale“.
    Il vicepresidente della Commissione UE per le Relazioni interisituzionali, Maroš Šefčovič
    Al centro della questione tra Londra e Bruxelles c’è la decisione del governo Johnson di non ritirare il progetto di legge che andrebbe a riscrivere – solo da parte britannica – le condizioni del commercio tra Gran Bretagna e Irlanda del Nord, violando il protocollo che è parte dell’accordo di recesso tra UE e Regno Unito. Lo scorso 15 giugno la Commissione Europea aveva deciso di riattivare una procedura d’infrazione e di attivarne altre due proprio per questo motivo, ma la risposta dall’altra sponda della Manica è stata di totale chiusura: non solo la proposta non è stata ritirata, ma martedì scorso (28 giugno) la Camera dei Comuni l’ha approvata, dando il primo via libera al progetto di modifica del Protocollo sull’Irlanda del Nord. “Qualsiasi azione unilaterale eroderà la base di fiducia tra i partner”, ha avvertito Šefčovič, che ha definito l’azione politica britannica “inaccettabile”, anche perché “intacca gravemente i nostri interessi” nel Mercato interno.

    Si tratta in particolare della questione del periodo di grazia per il commercio nel Mare d’Irlanda, ovvero la durata della concessione temporanea ai controlli UE sui certificati sanitari per il commercio dalla Gran Bretagna all’Irlanda del Nord (che nel contesto post-Brexit sono necessari per mantenere integro il Mercato Unico sull’isola d’Irlanda). Il problema maggiore riguarda le carni refrigerate e per questa ragione si è spesso parlato di ‘guerra delle salsicce’ con Bruxelles. Il tentativo di prorogare unilateralmente il periodo di grazia da parte del governo Johnson aveva scatenato lo scontro diplomatico tra le due sponde della Manica, apparentemente risolto tra luglio e ottobre dello scorso anno: l’esecutivo comunitario aveva prima sospeso la procedura d’infrazione contro Londra, per cercare poi delle soluzioni di compromesso su tutti i settori più delicati, ma senza mai mettere in discussione l’integrità della parte dell’accordo di recesso tra UE e Regno Unito siglato per garantire l’unità sull’isola irlandese.
    La nuova offensiva politica di Downing Street 10 ha rimescolato le carte e ora la tensione tra le due sponde della Manica ha toccato i livelli più alti da quando il Regno Unito ha abbandonato il progetto UE. “Serve una collaborazione minima dei partner, con controlli sulla base del rischio per il Mercato interno”, è l’esortazione del vicepresidente Šefčovič: “Può funzionare, è il contenuto del Protocollo sull’Irlanda del Nord, non vogliamo soluzioni di facciata ma un risultato sulla base di una legge che è già predisposta”. Il lavoro per “garantire l’accesso Mercato interno dell’UE e anche a quello del Regno Unito” si dovrà basare su “soluzioni operative”, che potranno contare anche sulla “unità nell’Unione e il sostegno del Parlamento Europeo”.

    Ouch pic.twitter.com/HMDGuVwyZ7
    — Tim Durrant (@timd_IFG) July 6, 2022

    La crisi di governo
    A Londra però non è tanto la questione delle modifiche del Protocollo sull’Irlanda del Nord a tenere con il fiato sospeso una nazione intera, quanto la situazione ben più che traballante del governo Johnson. Se ancora di governo si può parlare, considerato il fatto che ormai sono salite a 34 le dimissioni di membri del gabinetto (oltre 150 se si considerano anche i sottosegretari), compresi tre pezzi grossi: il cancelliere dello Scacchiere (l’equivalente del ministro dell’Economia), Rishi Sunak, il segretario di Stato per la Salute, Sajid Javid, e il segretario di Stato per il Livellamento delle disuguaglianze territoriali, Michael Gove. Secondo quanto riferiscono le fonti di tutti i maggiori organi d’informazione britannici, una delegazione di ministri che ancora non hanno rassegnato le dimissioni – guidata dal segretario di Stato per le imprese, l’energia e la strategia industriale, Kwasi Kwarteng – si recherà a breve a Downing Street per chiedere a Johnson di fare un passo indietro. Anche se BoJo ha risposto con un “certamente” alla domanda in audizione alla Camera dei Comuni se crede che domani sarà ancora il primo ministro britannico.
    A innescare un’ormai inevitabile crisi di governo – che si indirizza sempre più verso il binario delle dimissioni del primo ministro – sono alcuni scandali che hanno colpito il gabinetto guidato da Johnson. Il primo è stato il cosiddetto Partygate, che ha rivelato una serie di feste private organizzate a Downing Street 10 (la residenza riservata ai premier britannici) durante il lockdown per la pandemia COVID-19, seguito poi dalla scoperta che Johnson aveva nominato Chris Pincher a deputy chief whip (vice del responsabile per il controllo della disciplina del gruppo di maggioranza alla Camera dei Comuni) nonostante sapesse che era stato accusato di molestie sessuali. L’ondata di dimissioni dal gabinetto sono arrivate proprio dopo quest’ultimo scandalo: nella lettera di dimissioni di Javid si legge che “il popolo britannico si aspetta integrità dal suo governo”.

    I have spoken to the Prime Minister to tender my resignation as Secretary of State for Health & Social Care.
    It has been an enormous privilege to serve in this role, but I regret that I can no longer continue in good conscience. pic.twitter.com/d5RBFGPqXp
    — Sajid Javid (@sajidjavid) July 5, 2022

    Mentre Londra è sull’orlo della crisi di governo che si sta consumando in queste ore, il vicepresidente della Commissione, Maroš Šefčovič, ha incalzato sul rispetto del Protocollo che garantisce la pace e il funzionamento del Mercato interno sull’isola

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    I giorni caldi di Skopje. La Macedonia del Nord di fronte alla proposta aggiornata per lo sblocco dei negoziati adesione UE

    Bruxelles – Siamo entrati nella settimana più calda a Skopje, in cui potrebbero essere decise le sorti di una nazione. Dopo aver rispedito al mittente quella che anche a Eunews avevamo definito una proposta irricevibile, il governo e il Parlamento della Macedonia del Nord stanno vagliando la nuova versione della mediazione francese per sbloccare lo stallo sull’avvio dei negoziati di adesione all’UE (causato dal veto della Bulgaria per questioni bilaterali di natura puramente identitaria). Preso tra i due fuochi delle proteste dell’opposizione nazionalista – che vuole rifiutare anche l’ultimo tentativo di compromesso – e delle pressioni di Bruxelles e di Tirana – a causa del legame imposto all’Albania nel dossier di adesione – l’esecutivo guidato da Dimitar Kovačevski sta valutando attentamente gli sviluppi, sempre più propenso ad accettare l’offerta di Parigi.
    Per sgombrare il campo dagli ultimi dubbi, a Skopje è volato oggi (martedì 5 luglio) il presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, dopo il viaggio di sole tre settimane fa. “Avete l’occasione di decidere del vostro futuro, con questa proposta siamo al punto di svolta per il processo di adesione all’UE, con un compromesso che risponde alle vostre preoccupazioni”, ha voluto sottolineare nel corso della conferenza stampa congiunta con il premier della Macedonia del Nord. “Se dite di sì, la prima conferenza intergovernativa sarà convocata nei prossimi giorni e poi procederemo spediti”, ha aggiunto Michel. Secondo quanto hanno fatto sapere entrambi i politici, la proposta francese aggiornata tiene conto di “tutte le preoccupazioni” di Skopje, in particolare sul riconoscimento della lingua macedone al pari di tutte le altre in uso nel Paesi membri dell’Unione. Inoltre, le questioni storiche, culturali e di istruzione (quelle che fanno parte della contesta identitaria con la Bulgaria) non dovrebbero entrare nel quadro dei negoziati a livello UE e dovranno essere trattate a parte tra i due Paesi. “La proposta in discussone in questi giorni include le nostre osservazioni e le opinioni da noi chiaramente espresse“, ha confermato esplicitamente il primo ministro del Paese balcanico: “Stiamo proteggendo l’interesse pubblico e l’identità nazionale macedone, per raggiungere il nostro obiettivo strategico, che è la piena adesione all’UE”.
    “È una vostra decisione sovrana, ma anche un’opportunità storica, troppo importante da lasciarsi sfuggire”, ha incalzato Michel a Skopje, ribadendo con fermezza che “mi schiererò sempre per il rispetto dei diritti dei macedoni, attraverso un dialogo costruttivo“. Questo impegno dichiarato riguarda, appunto, “anche il riconoscimento della vostra lingua e delle vostre legittime preoccupazioni sull’identità nazionale, che devono rispettare le relazioni di buon vicinato”. Il richiamo alla Bulgaria è implicito, ma non per questo di secondaria importanza: “Se introdurrete gli emendamenti costituzionali per il rispetto di tutte le minoranze, dimostrerete alti standard di impegno e noi automaticamente inizieremmo i negoziati di adesione”, che “non potranno mai essere minati da questioni non legittime da un punto di vista dei valori europei“. In altre parole, “il processo di allargamento dell’Unione procederà senza trappole”, ha assicurato il numero uno del Consiglio.
    Il premier Kovačevski ha però avvertito che “spetta al Parlamento prendere una decisione definitiva” in merito alla proposta francese, che consenta l’avvio dei negoziati di adesione UE della Macedonia del Nord: “Solo a quel punto il governo potrà presentare ufficialmente la sua risposta all’Unione Europea”. Ammesso e non concesso che la maggioranza parlamentare darà il via libera alla proposta (anche se ormai sembra sempre più verosimile), come la teoria dell’eterno ritorno, non è da escludere che la nuova proposta aggiornata non susciterà obiezioni a Sofia, dove lo scorso 24 giugno il Parlamento aveva sì revocato il veto all’avvio dei negoziati di adesione UE della Macedonia del Nord, ma sulla base della prima versione della proposta di mediazione francese.

    You are deciding on your future. And on the pivotal next steps.
    North Macedonia belongs in the EU. Your future is with us.
    Together we are on the eve of a possible breakthrough in your country’s EU accession process.@DKovachevski @SPendarovski pic.twitter.com/XbbXUpWMWX
    — Charles Michel (@CharlesMichel) July 5, 2022

    Tra proteste e pressioni
    Quello che preoccupa però Skopje e Bruxelles è soprattutto l’ondata di proteste guidate dall’opposizione in Macedonia del Nord, che resta contraria a qualsiasi soluzione di compromesso che vada incontro anche a parte delle richieste identitarie della Bulgaria. L’ultima è andata in scena nella capitale macedone proprio durate i colloqui del presidente del Consiglio UE con la dirigenza politica del Paese: gli slogan dei gruppi nazionalisti hanno coinvolto non solo la disputa con Sofia, ma anche quella con la Grecia – “solo Macedonia, mai Macedonia del Nord” (in riferimento all’accordo di Prespa del 2018, sul cambio del nome del Paese per risolvere la questione identitaria decennale con Atene). Soprattutto per l’opposizione di VMRO-DPMNE (Partito Democratico per l’Unità Nazionale Macedone) di ispirazione nazionalista-conservatrice, da Parigi è arrivato un “ultimatum inaccettabile” ispirato dalla Bulgaria: secondo il leader Hristijan Mickoski sarebbe “contrario agli interessi nazionali” e in linea con una volontà di favorire “l’assimilazione e la bulgarizzazione” della popolazione.
    Per il premier Kovačevski si tratta invece dell’ultima possibilità concreta per arrivare finalmente all’avvio dei negoziati di adesione all’UE. A maggior ragione se si considerano le pressioni che arrivano dall’altro Paese balcanico che fa parte del dossier sull’avvio dei negoziati UE, l’Albania del premier Edi Rama. “Si tratta di scelte, e questo è il momento di farne una, il mio istinto mi dice che sarebbe un grosso errore non accettare” la proposta francese, ha dichiarato nel corso di un’intervista alla TV macedone Kanal 5 – riportata da Albanian Daily News: “Sarebbe un grosso errore perché il Paese potrebbe essere lasciato indietro e nessuno avrebbe più la volontà di tornare indietro”. In ogni caso, se Skopje deciderà di rifiutare, Tirana spingerà per la prima volta per continuare separatamente, sostenuta in modo esplicito anche dall’Italia: “Abbiamo superato il punto in cui ci è negato di farlo, ma [i politici macedoni, ndr] devono accettare la proposta, perché non ce ne sarà un’altra, e rischiano di rimanere davanti alla porta dell’UE per altri 17 anni”, ha esortato il premier albanese. E al governo Kovačevski è arrivata una sponda proprio dalla minoranza etnica albanese in Macedonia del Nord, che sarebbe pronta ad appoggiare la maggioranza in Parlamento (nonostante il partito Alleanza per gli Albanesi sia seduto nei banchi dell’opposizione) per dare il via libera alla proposta francese, a patto che la lingua albanese sia inserita nella Costituzione nazionale.

    Mentre il governo di Dimitar Kovačevski è sotto pressione per le proteste guidate dall’opposizione, il presidente del Consiglio UE, Charles Michel, è volato a Skopje per spingere il nuovo tentativo di mediazione sulla contesta con la Bulgaria (che ora considera le preoccupazioni macedoni)

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    Firmato il protocollo di adesione, Svezia e Finlandia più vicine alla NATO

    Bruxelles – Svezia e Finlandia nella NATO, il passo “storico” è compiuto. Firmato il protocollo di adesione che può permettere all’Alleanza di espandersi ancora e divenire a 32 Stati, Turchia permettendo. Perché per poter essere membro a pieno titolo occorre che tutti i Parlamenti nazionali ratifichino il protocollo di adesione, e questo concede ancora ad Ankara libertà di manovra e di pressione nella sua lotta al separatismo curdo. Estonia e Paesi Bassi i primi ad attivarsi. I partner UE, prima ancora che NATO, hanno convocato i rispettivi organismi legislativi per iniziare sin da subito il procedimento di discussione e voto, rispondendo all’invito del segretario generale della stessa Alleanza atlantica, Jens Stoltenberg, di “fare in fretta”.

    Allies signed the Accession Protocols for #Finland & #Sweden in the presence of 🇫🇮 FM @Haavisto & 🇸🇪 FM @AnnLinde.
    SG @jensstoltenberg said: “This is truly an historic moment. For Finland, for Sweden, for #NATO & for our shared security.”
    Read: https://t.co/J1C1vuapiJ pic.twitter.com/GVjQGQVpw4
    — Oana Lungescu (@NATOpress) July 5, 2022

    Il processo di allargamento della NATO è una delle conseguenze dell’aggressione russa in Ucraina, che ha indotto i due Paesi scandinavi a infrangere la politica della neutralità. La prossimità geografica e la condotta del Cremlino hanno spazzato via decenni di dibattiti e convinzioni, portando politica ed opinione pubblica verso tutt’altra collocazione. Ma il passo storico è stato possibile grazie alla decisione della Turchia di rimuovere il veto, dopo il protocollo d’intesa raggiunto con Ankara sulla lotta al terrorismo declinata in senso anti-curdo.
    Proprio qui rischiano di annidarsi le possibili, nuove, insidie al percorso di avvicinamento alla NATO per Svezia e Finlandia. Soprattutto dopo che la ministra degli Esteri  del regno scandinavo, Anna Linde, ha chiarito che non ci saranno concessioni né scappatoie. “Onoreremo il protocollo”, ma “non ci possono essere vie legali aggiuntive, rispetteremo la legge svedese e il diritto internazionale“. Il che vuol dire che “le autorità preposte all’estradizione ricevono le richieste e le processano secondo le procedure, poi è l’Alta corte a prendere la decisione“.
    La Turchia sta a guardare e certamente, a differenza di Estonia e Paesi Bassi, non accelererà le procedure parlamentari. Il ministro degli Esteri turco, Mevlut Cavusoglu, già ha anticipato che Anakra bloccherà l’adesione di Svezia e Finlandia se non dovessero rispettare il memorandum tripartito di Madrid. Firmato il protocollo di adesione, tutto può ancora succedere.

    Ora occorre la ratifica parlamentare di tutti i membri dell’Alleanza atlantica. Estonia e Paesi Bassi si attivano, la Turchia osserva ed è pronta a bloccare tutto