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    La Russia lascia Ungheria, Slovacchia e Repubblica ceca senza petrolio

    Bruxelles – La Russia lascia Ungheria, Slovacchia e Repubblica ceca senza petrolio. Transneft, la compagnia responsabile per il trasporto del greggio, ha chiuso i rubinetti per presunte conseguenze delle sanzioni dell’Unione europea. Non sarebbe stato possibile effettuare un pagamento, effettuato il 22 luglio ma rifiutato sei giorni più tardi. Dal 4 agosto dunque niente più trasporto via Ucraina, e Ungheria, Slovacchia e Repubblica ceca a secco. A non funzionare più è l’oleodotto UkrTransNafta, ramo della pipeline Druzhba che passa per l’Ucraina. Le consegne a Polonia e Germania, attraverso un altro ramo dell’oleodotto Druzhba che attraversa la Bielorussia, invece al momento “proseguono normalmente”, fa sapere Transneft.
    Il trasporto di petrolio attraverso l’oleodotto Druzhba è stato sospeso per diversi giorni, ma la raffineria Slovnaft di Bratislava continua a funzionare e a rifornire il mercato, ha dichiarato in un comunicato il portavoce della società slovacca Anton Molnar. “Secondo le nostre informazioni, ci sono stati problemi tecnici a livello bancario relativi al pagamento delle tasse di transito da parte russa”, ha aggiunto.
    C’è il timore che in realtà Mosca stia usando sempre di più l’energia per fare pressione sul blocco dei Ventisette, usando petrolio, gas e risorse come arma di ricatto. Prima dello stop del petrolio, per cui comunque è previsto l’embargo europeo, c’è stata la riduzione delle forniture di gas, se non addirittura lo stop completo. E’ stato il caso di Polonia e Bulgaria, Stati membri verso cui è stato impedito al gas di arrivare a destinazione. Lo stesso è capitato a Danimarca, Paesi Bassi e Finlandia, sempre per questioni legate a pagamenti, non effettuati in rubli.

    Our emergency plan to reduce gas demand across the EU is now in force.
    Several Member States have already taken valuable, voluntary measures towards our target:
    Together, we aim to reduce gas usage by at least 15%.
    Saving energy is vital to Europe’s energy security.#REPowerEU pic.twitter.com/Iy6b0O0g3O
    — Ursula von der Leyen (@vonderleyen) August 9, 2022

    A Bruxelles si cerca di minimizzare. “Il nostro piano di emergenza per ridurre la domanda di Gas in tutta l’Ue è ora in vigore”, ha ricordato la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen. “Diversi Stati membri hanno già adottato misure preziose e volontarie per raggiungere il nostro obiettivo”, ovvero di “ridurre il consumo di Gas di almeno il 15 per cento”. La numero uno dell’esecutivo comunitario ribadisce che “il risparmio energetico è fondamentale per la sicurezza energetica dell’Europa” nel contesto della risposta alla guerra russa in Ucraina.

    Transneft ha smesso di trasportare il greggio. Il motivo sono problemi nei pagamenti

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    L’UE porta alla coppa del mondo in Qatar la questione LGBTQI

    Bruxelles – Diritti umani, e soprattutto diritti LGBTQI+, l’Unione europea è decisa a fare pressione sul Qatar in vista del campionato del mondo di calcio in programma quest’inverno. La questione “avrà un ruolo di primo piano nel prossimo quarto dialogo UE-Qatar sui diritti umani, che si terrà a settembre“, assicura l’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza dell’UE, Josep Borrell. Dunque nessuna scusa e nessuno sconto in vista della coppa del mondo, l’Unione europea continua a tenere alta l’attenzione su un tema che nel Paese ospitante trova invece tutt’altra gestione. 
    L’omosessualità in Qatar è illegale e punita in quanto fuorilegge. Human Rights Watch ha fortemente criticato la repressione della comunità LGBTQI+ nell’emirato, così come il modo in cui la FIFA, il massimo organismo sportivo internazionale, sta fin qui gestendo la cosa. Le autorità nazionali hanno già annunciato l’intenzione di confiscare le bandiere arcobaleno “per proteggere” tutti gli altri tifosi. Un messaggio che stride con il concetto di inclusione dello sport.
    L’Unione europea fin qui ha fatto molto per promuovere e riconoscere i diritti omosessuali e transgender. Ma questa posizione, nel caso specifico, riguarda uno Stato terzo. Servirà dunque una diversa linea d’azione. Può certamente svolgere un’opera di ‘moral suasion’, un’attività di convincimento attraverso un dialogo continuo e continuato. E’ proprio l’intenzione di Borrell. “L’UE continuerà a monitorare da vicino la situazione dei diritti umani in Qatar, compresi i diritti e le libertà delle persone della comunità LGBTQI+, in vista della Coppa del Mondo, durante l’evento e dopo la sua chiusura“. Si vuole insistere sui concetti di “tolleranza e inclusione”, che “hanno un ruolo di primo piano” nel vivere civile e che saranno al centro dei colloqui di settembre e oltre.
    E’ al momento il massimo che l’UE può fare per cercare di garantire a tutti, almeno durante lo svolgimento della manifestazione, il giusto trattamento. Il problema semmai è stata la scelta della FIFA, ma qui l’UE preferisce non entrare nel merito.

    L’impegno dell’Alto rappresentante Borrell. “Al centro del quarto dialogo UE-Qatar sui diritti umani, che si terrà a settembre. Ne parleremo anche durante e dopo”

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    L’Ue a difesa dei popoli indigeni contro minacce linguistiche, sfruttamento ambientale e omicidi di attivisti

    Bruxelles – Più di 4 mila lingue minacciate, 358 difensori dei diritti umani uccisi nel 2021, i più colpiti dagli impatti dei cambiamenti climatici e dal degrado ambientale causato da governi e aziende multinazionali. È questo il quadro in cui vivono le oltre 476 milioni di persone appartenenti ai popoli indigeni di tutto il mondo, dai San e i Khoekhoe del Sudafrica agli Aymara della Cordigliera delle Ande, dai Māori della Nuova Zelanda ai Saami del nord Europa, fino agli Inuit della Groenlandia.
    In occasione della Giornata internazionale dei popoli indigeni, l’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, ha voluto ribadire con forza la solidarietà e l’impegno dell’Unione ai leader e agli attivisti dei diritti umani di tutto il mondo su più fronti, in linea con Dichiarazione delle Nazioni Unite sui diritti dei popoli indigeni. In primis quello ambientale e climatico, dal momento in cui questi popoli abitano quasi un quarto della superficie terrestre del mondo e “sono custodi e difensori fondamentali di oltre l’80 per cento della nostra diversità biologica“, ha sottolineato l’alto rappresentante Borrell. Se possiedono “una profonda conoscenza della gestione sostenibile del territorio”, allo stesso tempo “sono tra i più colpiti dai gravi impatti del cambiamento climatico e del degrado ambientale“. Per questo motivo l’agenda internazionale dovrà occuparsi con urgenza di questo tema, rispettando gli impegni sottoscritti alla Cop26 di Glasgow dello scorso anno.
    L’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell
    Strettamente legato alla questione della difesa dell’ambiente naturale c’è anche il tema della protezione dei difensori dei diritti umani. L’Ue ha “ripetutamente” lanciato l’allarme sul numero di omicidi nel 2021: almeno 358, di cui “quasi il 60 per cento era costituito da coraggiosi difensori dei diritti della terra, dell’ambiente o delle popolazioni indigene, e più di un quarto erano essi stessi indigeni”. L’alto rappresentante Borrell ha messo in chiaro senza mezzi termini che “ognuno di loro è uno di troppo” e Bruxelles “continuerà a far leva sulle sue politiche, sui dialoghi e sugli strumenti di finanziamento” per sostenere queste popolazioni e “porre fine all’impunità”.
    Impunità che coinvolge anche le imprese multinazionali e i processi decisionali: “L’Ue si impegna a promuovere la partecipazione dei leader e dei difensori dei diritti umani indigeni ai processi di sviluppo e ai principali forum globali”, tenendo come perno l’applicazione del “principio della consultazione in buona fede” per ottenere in ogni situazione il loro consenso “libero, preventivo e informato” nelle decisioni che li riguardano. A questo proposito Bruxelles si sta attivando per ottenere “norme più efficaci sulla condotta responsabile delle imprese“, con l’obiettivo di promuovere un comportamento aziendale “sostenibile e responsabile, anche nelle terre indigene”.
    Ultimo punto, ma non per importanza, la protezione dell’identità dei popoli indigeni, “spesso strettamente legata alle loro terre e alle loro lingue”. Entrati nel Decennio internazionale delle lingue indigene (2022-2032) – “sistemi di comunicazione complessi sviluppati nel corso di millenni” – l’Ue pone l’accento sulla necessità di proteggere le oltre 4 mila lingue a rischio di estinzione, “perché molte di esse non vengono insegnate a scuola né utilizzate nella sfera pubblica”, ha avvertito l’alto rappresentante Borrell.

    In occasione della Giornata internazionale dei popoli indigeni, l’alto rappresentante Ue Borrell ha ribadito il sostegno dell’Unione a promuovere la partecipazione dei leader e dei difensori dei diritti umani ai processi di sviluppo e per norme più efficaci sulla condotta delle imprese

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    Medio Oriente, Borrell: “Prevenire un conflitto Israele-Palestina più ampio, bene cessate il fuoco”

    Bruxelles – Israele “ha il diritto di proteggere la sua popolazione civile”, e “l’UE non sta valutando la sospensione dell’accordo di associazione”. La Commissione europea chiarisce una volta di più la sua linea, quella di una soluzione a due Stati, fatta di volontà e dialogo politici, ma fa fatica a condannare apertamente i nuovi scontri in Medio Oriente, dove Israele da giorni conduce raid e attacchi nei territori palestinesi. Azione volta a eliminare i nuovi capi del terrorismo islamico, a cui i palestinesi rispondono con lancio di razzi. Una nuova situazione di conflitto a cui l’UE risponde facendo attenzione a non urtare il partner israeliano.
    “E’ necessario fare tutto il possibile per prevenire un conflitto più ampio”, la priorità dell’Unione europea, come espresso dall’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza dell’UE, Josep Borrell, che invoca “la massima moderazione da tutte le parti per evitare un’ulteriore escalation”. In Medio Oriente l‘Unione europea “segue con grande preoccupazione gli ultimi sviluppi a Gaza e dintorni”. Una situazione che richiama “la necessità di ripristinare un orizzonte politico e garantire una situazione sostenibile a Gaza“.
    In tal senso il cessate il fuoco raggiunto è una buona notizia. “Ora è fondamentale lavorare per consolidarlo”, commenta Borrell. Sottolinea come questa tregua riguarda “Israele e la jihad islamica palestinese“, a riprova delle posizioni assunte a Bruxelles. L’UE condanna il condannabile, ma resta fedele allo Stato ebraico. Hamas è stata inserita nella lista dell’Unione delle organizzazione terroristiche, e sarebbe difficile immaginare passi indietro in tal senso.
    L’Ue in sostanza invita a deporre le armi e sedersi attorno a un tavolo. Offre una posizione di mediatore, ma non intende scaricare Israele. Borrell critica l’operato delle forze di sicurezza israeliane per quanto accaduto alla giornalista palestinese-americana Shireen Abu Akleh, uccisa in circostanza da accertare e oggetto di scontri nel giorno dei suoi funerali. Nella stessa risposta all’interrogazione parlamentare, Borrell assicura che non si intende porre fine all’accordo di associazione, anche perché al decisione va presa dal Consiglio, ma su proposta della Commissione. Proposta che non al momento non si ha intenzione di produrre.

    Di fronte alle operazioni militari israeliane l’Alto rappresentate ricorda che lo Stato ebraico “ha il diritto di difendersi”, e invoca “un orizzonte politico e sostenibile a Gaza”

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    Suona l’allarme a Bruxelles per i bombardamenti vicini alla centrale nucleare di Zaporizhzia, occupata dall’esercito russo

    Bruxelles – Dopo cinque mesi ritorna la paura per incidenti nucleari in Europa. Era il 4 marzo quando l’esercito russo attaccava la centrale nucleare di Zaporizhzhia, scatenando un incendio negli edifici secondari della struttura, e con l’intensificarsi delle operazioni militari nel sud-est dell’Ucraina nelle ultime settimane, l’impianto è tornato pericolosamente al centro del conflitto.
    “Le notizie di bombardamenti sono allarmanti, la sua sicurezza è fonte di massima preoccupazione”, ha scritto in un tweet il presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, commentando la discussione sulla situazione nella centrale nucleare più grande d’Europa durante la telefonata di ieri (domenica 7 agosto) con il numero uno ucraino, Volodymyr Zelensky. Lo stesso presidente ucraino ha chiesto una risposta “più forte” da parte della comunità internazionale al “terrore nucleare russo”, ovvero “sanzioni sull’industria e sul combustibile nucleare” del Cremlino, in linea con quanto ventilato nel corso dell’ultima riunione dei ministri dell’Energia del G7. Tra gli altri temi al centro della conversazione tra Bruxelles e Kiev anche l’avvio dell’esportazione di grano via mare, il pacchetto di assistenza macrofinanziaria e “tutti gli aspetti del sostegno politico, militare, economico, finanziario e umanitario dell’Ue all’Ucraina”, ha reso noto il presidente Michel.

    In today’s call @ZelenskyyUa informed me on the the latest developments on the ground.
    Discussed also the situation at the Zaporizhzia nuclear power plant, Europe’s largest; reports of shelling are alarming; its safety is of the highest concern. (1/2)
    — Charles Michel (@CharlesMichel) August 7, 2022

    Ma è sempre la questione della centrale nucleare di Zaporizhzhia a destare le maggiori preoccupazioni sul fronte di guerra meridionale in Ucraina. Kiev e Mosca si rimbalzano le responsabilità della sempre più fragile sicurezza dell’impianto, con il governo ucraino che accusa l’esercito russo di averlo trasformato in una base militare da cui partono attacchi missilistici, mentre la Russia punta il dito contro le forze ucraine, denunciando attacchi con droni alla struttura. Secondo il direttore generale dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica, Rafael Grossi, la situazione sarebbe “completamente fuori controllo”, dal momento in cui “tutti i principi di sicurezza nucleare sono stati violati in un modo o nell’altro“.
    Alla luce di queste parole un team di esperti della stessa Agenzia internazionale per l’energia atomica ha condotto delle valutazioni preliminari sulla centrale nucleare ucraina, definendo “stabile” lo scenario dal punto di vista della sicurezza e confermando che “non c’è una minaccia immediata”. Tuttavia, secondo quanto si legge nei risultati preliminari della valutazione resi noti su Twitter, “diversi dei sette pilastri sono stati violati”. È per questo motivo che da più parti si alzano voci per garantire l’accesso all’impianto di Zaporizhzhia per gli ispettori internazionali. Dopo la richiesta arrivata dallo stesso direttore generale Grossi, è stato il segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, a esortare i due belligeranti a collaborare per garantire la sicurezza dell’impianto: “Qualsiasi attacco a una centrale nucleare è un suicidio“, ha dichiarato dopo aver partecipato alla cerimonia di commemorazione della pace di Hiroshima per il 77esimo anniversario del primo bombardamento atomico al mondo.
    Zaporizhzhia è la più grande delle quattro centrali nucleari attive in Ucraina e produce un quinto di tutta l’elettricità necessaria al Paese, con sei reattori – di cui due attualmente attivi – che a pieno regime possono erogare una potenza totale di 5.700 megawatt. L’impianto si trova sul fiume Dnepr (a circa 550 chilometri dalla capitale) e dall’inizio dell’occupazione da parte dell’esercito russo a marzo i lavoratori ucraini della centrale convivono con le truppe occupanti. Secondo il governo di Kiev l’obiettivo del Cremlino sarebbe quello di staccare la centrale dalla rete elettrica ucraina, in modo da fornire energia solo ai territori controllati dall’esercito russo nella parte orientale e meridionale del Paese. Sempre secondo le informazioni ucraine, in questi cinque mesi gli occupanti avrebbero minato la sponda del fiume Dnepr e trasformato alcune parti delle centrale in una base militare, portando al suo interno mezzi blindati, artiglieria e lanciarazzi: da lì sarebbero partiti anche attacchi al territorio dell’Ucraina. Nella controffensiva dell’esercito di Kiev nei territori occupati da Mosca la centrale di Zaporizhzhia potrebbe ora svolgere un ruolo cruciale per la difesa russa, anche a costo di mettere in conto rischi di incidenti o disastri nucleari.

    In una telefonata con il presidente dell’Ucraina, Volodymyr Zelensky, il numero uno del Consiglio Ue, Charles Michel, ha espresso “massima preoccupazione” per la sicurezza dell’impianto. Kiev chiede alla comunità internazionale sanzioni su industria e combustibile nucleare del Cremlino

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    Dopo le tensioni al confine tra Serbia e Kosovo, si terrà il 18 agosto a Bruxelles il nuovo round di dialogo ad alto livello

    Bruxelles – Dopo le tensioni di confine, il tentativo di rimettere insieme i cocci con il dialogo. Si terrà il prossimo 18 agosto il nuovo incontro a Bruxelles tra il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić, e il premier del Kosovo, Albin Kurti, nel quadro del dialogo facilitato dall’Unione Europea, a più di un anno dall’ultimo (il quinto) infruttuoso vertice di alto livello mediato dall’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, e dal rappresentante speciale per il dialogo Belgrado-Pristina, Miroslav Lajčák. “L’invito dell’alto rappresentante Borrell è stato accettato da entrambe le parti”, ha spiegato il portavoce Peter Stano durante il punto quotidiano con la stampa europea. “Speriamo in un buon incontro, è da tempo che c’è necessità di un incontro di questo livello“, ha aggiunto.
    Il nuovo round di alto livello tra i leader di Serbia e Kosovo arriva dopo le tensioni di confine dell’ultima settimana sulla questione delle targhe automobilistiche al passaggio della frontiera, un tema che già nel settembre del 2021 aveva esacerbato i rapporti tra i due Paesi. A seguito di quella che era stata definita “la battaglia delle targhe” (per l’imposizione da parte del governo di Pristina dell’applicazione di targhe di prova kosovare ai veicoli serbi in ingresso, misura identica a quella applicata da Belgrado), a Bruxelles era stato trovato un accordo per trovare – all’interno di un gruppo di lavoro congiunto – una soluzione definitiva al problema entro il 21 aprile 2022, sulla base di pratiche e standard comunitari (mentre temporaneamente sono stati coperti con degli adesivi i simboli nazionali sulle rispettive targhe). Dopo otto incontri in sei mesi tra gli esperti di Belgrado e Pristina, il compito di raggiungere l’intesa è passato ai capi-negoziatori delle due parti – con indiscrezioni della presenza di tre proposte sul tavolo – ma da mesi la situazione è in stallo.

    In cooperation with our international allies, we pledge to postpone implementation of decisions on car plates & entry-exit documents at border crossing points w/ Serbia for 30 days, on the condition that all barricades are removed & complete freedom of movement is restored. pic.twitter.com/oJNaQi0qPO
    — Albin Kurti (@albinkurti) July 31, 2022

    A gettare di nuovo benzina sul fuoco è stata la decisione del governo di Pristina di introdurre l’obbligo su tutto il territorio nazionale di utilizzare le targhe kosovare al posto di quelle serbe (molto diffuse tra la minoranza serba nel nord del Paese) a partire da lunedì primo agosto. La misura ha scatenato le proteste proprio di centinaia di cittadini di etnia serba, che hanno creato barricate ai valichi di confine di Jarinje e Bernjak. Dopo il crescere delle tensioni tra i manifestanti e la polizia – con alcuni spari da parte dei primi, che non hanno provocato nessun ferito – su consiglio di Bruxelles e di Washington il premier Kurti ha deciso di posticipare l’introduzione dell’obbligo di un mese, al primo di settembre.
    Come hanno fatto notare diversi analisti, la situazione non è mai sfuggita di mano anche nei momenti di maggiore tensione, sia per la retorica allarmistica e nazionalistica che rappresenta una costante nei rapporti tra i due Paesi, sia per la presenza del più grande contingente della Nato proprio in Kosovo (pronto a intervenire a ogni eventualità di scoppio delle ostilità). In ogni caso, ci si attende che all’incontro del 18 agosto tra Vučić e Kurti anche la questione delle targhe venga affrontata tra le priorità “da spingere nell’agenda del dialogo facilitato dall’Ue”, ha sottolineato il portavoce Stano, non volendo però rendere noti i temi su cui si concentreranno le discussioni di alto livello a Bruxelles.

    Welcome Kosovo decision to move measures to 1 September. Expect all roadblocks to be removed immediately.Open issues should be addressed through EU-facilitated Dialogue&focus on comprehensive normalisation of relations btwn Kosovo&Serbia, essential for their EU integration paths
    — Josep Borrell Fontelles (@JosepBorrellF) July 31, 2022

    Al vertice nel quadro del dialogo facilitato dall’Unione Europea parteciperanno il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić, e il premier del Kosovo, Albin Kurti. L’alto rappresentante Ue Borrell e il rappresentante speciale Lajčák proveranno a mediare anche sulla questione delle targhe

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    L’ex-presidente dell’Ucraina Janukovyč è finito nella lista delle sanzioni Ue per aver aiutato i separatisti filo-russi

    Bruxelles – Dentro anche l’ex-presidente ucraino Viktor Janukovyč e il figlio Oleksandr nella lista di sanzioni dell’Ue. Il Consiglio dell’Unione Europea ha deciso di inserire tra i soggetti colpiti dalle misure restrittive il numero uno a Kiev dal 2010 al 2014, a causa delle sue operazioni “tese a destabilizzare il Paese e a tutelare i propri interessi economici” dopo il trasferimento in Russia e nel contesto dell’invasione dell’Ucraina voluta dal Cremlino. Al figlio del presidente ucraino sono anche imputate transazioni con i gruppi separatisti nella regione ucraina del Donbass.
    A sole due settimane dall’ultima tornata di sanzioni (il pacchetto maintenance and alignement, aggiornamento e allineamento), si allunga così a 1.214 individui e 108 entità la lista di chi in Russia è colpito delle misure restrittive dell’Ue, con l’ingresso di un pezzo da novanta come l’ex-presidente ucraino Janukovyč. Come viene sottolineato nella descrizione riportata nella Gazzetta Ufficiale dell’Ue, “durante il suo mandato Janukovyč ha perseguito una politica filorussa”, al punto che un tribunale ucraino lo ha riconosciuto “colpevole di tradimento per aver cercato di reprimere le manifestazioni filo-occidentali del 2014“, ovvero la sollevazione popolare di piazza Maidan che lo ha destituito nel febbraio di otto anni fa. Da allora Janukovyč “ha favorito l’ingerenza militare russa in Ucraina invitando” il presidente Putin “a inviare truppe russe” nel Paese nel marzo dello stesso anno e “ha sostenuto politici filorussi che ricoprivano cariche pubbliche nella Crimea occupata” dall’esercito di Mosca (dove la sua famiglia possiede una catena di negozi e proprietà immobiliari nel paese di Otradnoye).
    Per quanto riguarda il figlio Oleksandr Janukovyč, è noto il suo ruolo di uomo d’affari finanziatore della creazione delle Repubbliche popolari separatiste nel Donbass. “Grazie agli stretti legami con i separatisti filorussi, ha acquisito attività economiche essenziali” in questi territori – ricorda il testo delle sanzioni – in particolare nei settori dell’energia, del carbone e immobiliare: “I suoi progetti di sviluppo immobiliare nella cosiddetta Repubblica popolare di Donetsk sono stati protetti dal battaglione separatista Oplot”, nell’elenco delle sanzioni Ue dal febbraio del 2015.
    Per tutte queste ragioni Janukovyč padre e figlio sono ritenuti “responsabili di aver attivamente sostenuto o attuato azioni e politiche che minacciano l’integrità territoriale, la sovranità e l’indipendenza dell’Ucraina“, traendo anche vantaggio dall’annessione russa della Crimea e della destabilizzazione delle regioni orientali che in queste settimane sotto il costante fuoco dell’esercito russo. Come per gli altri soggetti colpiti dalle sanzioni Ue, anche per l’ex-presidente ucraino è previsto il congelamento dei beni e il divieto di mettere fondi a sua disposizione da parte dei cittadini dell’Unione, oltre al divieto di viaggio che impedisce l’ingresso o il transito attraverso il territorio dei Paesi membri e dei partner allineati.

    Il Consiglio dell’Ue ha deciso di inserire Viktor e il figlio Oleksandr Janukovyč per il “ruolo svolto nel minare o minacciare l’integrità territoriale, sovranità e indipendenza” del Paese e per aver condotto “transazioni con i gruppi separatisti nella regione ucraina del Donbas”

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    Stop all’uranio russo, l’UE e il G7 aprono un nuovo fronte geopolitico

    Bruxelles – Parola d’ordine: “Ridurre ulteriormente la dipendenza dal nucleare civile e dai beni correlati provenienti dalla Russia”. Il G7 e gli Stati dell’UE che vi fanno parte sono decisi ad andare avanti con la strategia di isolamento e indebolimento economico della federazione russa, privandola degli introiti derivanti dall’uranio, dopo la cancellazione del business del carbone e del petrolio. Una decisione assunta in modo ufficiale, e dunque con chiare intenzione e volontà politica. Questa decisione, per quanto comprensibile e doverosa alla luce di un cambio di orientamenti derivati dalla guerra di aggressione in Ucraina, ha nella realtà un banco di prova non semplice e non scontato.
    C’è mezza Unione europea alimentata con reattori e centrali nucleari. Tredici dei 27 Stati membri si affidano ad elettricità prodotta da fusione dell’atomo. La Germania ha annunciato di abbandonare la produzione e uscire definitivamente dal nucleare, ma nel breve periodo non sembra semplice per l’Unione europea tenere federe a proclami, intenzioni e impegni solenni. Serve uranio per alimentare le centrali e produrre energia dai reattori, risorsa di cui il sottosuolo del Vecchio continente è povera. Bisogna affidarsi all’offerta straniera, e oltre i confini dell’UE uno dei grandi produttori e fornitori è proprio la Russia.
    La sola federazione russa risponde a un quinto del fabbisogno dei reattori a dodici stelle. Il 20 per cento delle forniture e degli approvvigionamenti della materia prima è garantito dal Paese oggi non più amico. Una quota di mercato che non appare difficile da rimpiazzare, considerando che nel mondo giacimenti non mancano e che i partner del G7 sono disposti a venire incontro alle esigenze dei partner occidentali. Ma nel grande gioco della alleanze, non va dimenticato come Russia, Kazakistan e Uzbekistan abbiano sempre marciato compatte e insieme. L’UE acquista uranio anche dalle altre due repubbliche dell’Asia centrale. Insieme, gli acquisti nei Paesi dell’ex Unione sovietica contano il 42 per cento di tutte le importazioni complessive.
    Se questi tre Paesi dovessero davvero confermarsi uniti e compatti le politiche in materia di affrancamento dall’uranio potrebbero essere riscritte, proprio a est. Nelle logiche tipiche delle amicizie e del reciproco spalleggiamento di fronte a potenze straniere ostili o avvertiti come tali, Kazakistan e Uzbekistan potrebbero decidere di non venire incontro alle rinnovate esigenze europee per non fare torto al partner russo.
    Va detto che né Kazakistan né Uzbekistan vedono di buon occhio l’aggressione dell’Ucraina, e non sembrano schierate con il presidente russo Putin in questa sua campagna militare. Quel che è certo è che l’annuncio del G7 mette in moto nuovi scenari geopolitici. I malumori in Asia centrale per le iniziative e le manovre del Cremlino potrebbero essere un’arma a favore degli europei, che devono fare attenzione a non indispettire ancora di più la Russia e i suoi centri di potere. Nella ridefinizione di confini, alleanze, sfere d’influenza, agli occhi di Putin l’UE e l’occidente si sono già spinti troppo oltre. Ma in questo rimescolamento di relazioni e fattori, la mossa dell’Occidente appare obbligata. Comprare uranio altrove appare una scelta obbligata, per un nuovo ordine mondiale.
    Da chi andare a rifornirsi diventa il vero interrogativo. Gli Stati Uniti non hanno interesse a ché la Cina, principale concorrente sullo scacchiere internazionale, si arricchisca. Chiedere uranio ai cinesi, dunque non è via percorribile. Gli europei dovranno andare a pescare in Africa, dove pure presenza e penetrazione economica di Cina e Sudafrica non sono irrilevanti, o America Latina, sponda brasiliana. Oppure comprare dai partner del G7, a prezzo da stabilire, e scordandosi ogni velleità di indipendenza strategica.

    E’ l’obiettivo dichiarato quello di “ridurre ulteriormente la dipendenza dal nucleare civile e dai beni correlati provenienti dalla Russia”. Ma l’UE, in questo nuovo corso, rischia rimetterci