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    L’Ue condanna la legge bielorussa che permette di privare gli oppositori all’estero della cittadinanza (rendendoli apolidi)

    Bruxelles – Una nuova stretta del regime di Alexander Lukashenko contro l’opposizione dentro e fuori la Bielorussia, per privare dei diritti umani di base chi tenta di denunciare l’oppressione che si aggrava giorno dopo giorno nel Paese alleato della Russia di Vladimir Putin. L’Assemblea nazionale della Bielorussia ha dato il via libera agli emendamenti alla legislazione sulla cittadinanza del 2002, introducendo la possibilità di privare della cittadinanza i bielorussi all’estero condannati per reati di “partecipazione a un’organizzazione estremista” o “grave danno agli interessi della Bielorussia”, anche in assenza dell’imputato a processo. Si attende ora la ratifica dell’autocrate Lukashenko, mentre l’Ue denuncia “l’ulteriore passo in avanti nella brutale persecuzione del regime bielorusso nei confronti di tutte le voci indipendenti”.
    L’autoproclamato presidente bielorusso, Alexander Lukashenko
    Il disegno di legge approvato dall’Assemblea nazionale della Bielorussia elenca 55 articoli del Codice penale che potrebbero essere considerati per i due reati, già utilizzati da due anni nei processi a sfondo politico. Secondo i dati pubblicati dall’organizzazione bielorussa per i diritti umani Viasna, più di 200 prigionieri politici sono stati accusati di “incitamento all’odio” (articolo 130), 148 di “partecipazione a disordini di massa” (articolo 293) e 140 di “violenza o minaccia di violenza contro un ufficiale delle forze dell’ordine” (articolo 364). A questo si associa anche l’emendamento del Codice penale dello scorso luglio, che autorizza le cosiddette “procedure speciali” per processi penali senza la presenza dell’imputato (per reati come “tentati atti di terrorismo” è stata reintrodotta la pena di morte), in aperta violazione del diritto a un processo equo.
    “I rappresentanti delle forze democratiche, dei media e della società civile, che hanno abbandonato il Paese per sfuggire alle persecuzioni, potrebbero così rischiare di diventare apolidi“, è quanto denuncia la portavoce del Servizio europeo per l’azione esterna (Seae), Nabila Massrali. Si tratterebbe, in altre parole, di una “violazione del diritto internazionale“, dal momento in cui l’articolo 15 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo “tutela il diritto alla cittadinanza e ne vieta la privazione arbitraria”. Ma allo stesso tempo la legge violerebbe anche la stessa Costituzione bielorussa, che all’articolo 10 stabilisce che “nessuno può essere privato della cittadinanza bielorussa”. Ad agosto le disposizioni erano state introdotte per revocare la cittadinanza a chi è stato naturalizzato e successivamente condannato per reati contro lo Stato, ma ora la portata della legge si estende a tutti gli oppositori, anche a chi è nato nel Paese e non possiede altra cittadinanza se non quella bielorussa.
    La presidente ad interim riconosciuta dall’Ue e leader delle forze democratiche bielorusse, Sviatlana Tsikhanouskaya, alla sessione plenaria del Parlamento Europeo (16 dicembre 2020)
    La denuncia di Bruxelles sulla “crescente illegalità in Bielorussia” – rappresentata dai nuovi emendamenti alla legislazione sulla cittadinanza del 2002 – si lega alla detenzione di “più di 1440 prigionieri politici, spesso in condizioni disumane” (erano mille a inizio anno), oltre al fatto che “i processi si svolgono a porte chiuse e le sentenze vengono emesse in contumacia”, ha ricordato la portavoce del Seae. Dopo le proteste di massa dell’agosto 2020 contro il risultato truccato delle elezioni presidenziali e le repressioni che ne sono seguite, migliaia di cittadini sono fuggiti dalla Bielorussia (compresa la presidente ad interim riconosciuta dall’Ue e leader delle forze democratiche, Sviatlana Tsikhanouskaya), mentre altri – come la compagna di campagna elettorale Maria Kolesnikova – sono rimasti nel Paese a guidare l’opposizione a Lukashenko. Tra il 2020 e il 2021 si è registrato un aumento di rifugiati e richiedenti asilo bielorussi a livello globale presso l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) da 7.837 a 11.431. La maggior parte è fuggita in Polonia, Lituania, Lettonia, Germania, Repubblica Ceca, Estonia, Ucraina (prima dell’inizio dell’invasione russa) e Georgia.

    Lo prevedono gli emendamenti alla legislazione del 2002, approvati dall’Assemblea nazionale, nei casi di condanna per reati di “partecipazione a un’organizzazione estremista”, anche senza la presenza dell’imputato. Per Bruxelles si tratta di “violazione del diritto internazionale”

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    Il G7 promette altri 32 miliardi di dollari di sostegno all’Ucraina per il 2023

    Bruxelles – Supporto all’Ucraina incrollabile finché sarà necessario. Lo è stato nel 2022, altrettanto lo sarà nel 2023. Nell’ultimo incontro virtuale sotto presidenza tedesca, i ministeri delle finanze del G7 (che comprendono Canada, Francia, Germania, Giappone, Italia, Regno Unito e Stati Uniti, oltre all’Unione europea) hanno ribadito in una dichiarazione congiunta la ferma condanna dell’aggressione russa ai danni dell’Ucraina, della “tragica perdita di vite umane che ne deriva” e dei “continui attacchi disumani” di Mosca contro le infrastrutture critiche ed energetiche delle città ucraina, che stanno lasciando milioni di persone senza elettricità, gas per riscaldarsi o senza acqua.

    The @G7 mobilised a total of $32.7 billion in budgetary assistance for #Ukraine in 2022. The plan is to provide a further $32 billion in 2023. In this way, the #G7 is reaffirming its unshakable support for Ukraine. #FinanceTrack statement: ➡️ https://t.co/3RswzXeHGz. #G7GER
    — Bundesministerium der Finanzen (@BMF_Bund) December 22, 2022

    La nota diffusa ricorda che le sette più grandi economie al mondo hanno messo a disposizione negli ultimi 12 mesi 32,7 miliardi di dollari (circa 30 miliardi di euro) per l’Ucraina e il piano è quello di mobilitare altri 32 miliardi di dollari nel 2023. “Per il 2022, – si legge – abbiamo mobilitato 32,7 miliardi di dollari di sostegno al bilancio per aiutare l’Ucraina a colmare il suo deficit di finanziamento per quest’anno. L’intero importo è stato erogato all’Ucraina o è in corso di erogazione”. Quanto ai prossimi dodici mesi, il G7 conferma l’approccio congiunto per un sostegno economico e di bilancio coordinato per il prossimo anno, “in linea con le esigenze del governo ucraino: per il 2023 abbiamo già mobilitato fino a 32 miliardi di dollari di bilancio e di sostegno economico“, si legge ancora.
    La dichiarazione comune spiega che l’importo finanziario comprende i 18 miliardi di euro mobilitati da parte dell’Unione Europea, integrati da una quota di sovvenzioni che arriveranno dagli Stati membri per coprire i costi degli interessi, e un altro pacchetto di aiuti molto significativo da parte degli Stati Uniti, come proposto dall’amministrazione di Joe Biden in attesa di essere approvata dal Congresso degli Stati Uniti. Altri 500 milioni di dollari di ulteriori prestiti arriveranno dalla Banca Mondiale garantiti dal Regno Unito e 115 milioni di dollari canadesi di entrate tariffarie dalle importazioni da Russia e Bielorussia. Il Giappone sta inoltre preparando un ulteriore sostegno al bilancio di Kiev per il 2023. Tutti gli impegni finanziari citati nella nota “danno certezza all’Ucraina e permettono al governo di continuare a fornire servizi di base, di effettuare le riparazioni più critiche e di stabilizzare l’economia”.
    Lo scorso ottobre alla Conferenza per la ricostruzione dell’Ucraina il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, aveva messo in chiaro la necessità di uno stanziamento da 38 miliardi di dollari per il 2023, al quale la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, aveva promesso un sostegno solo dai Ventisette pari a 1,5 miliardi di euro al mese per tutto il prossimo anno (complessivamente 18 miliardi).

    I ministri delle finanze di Canada, Francia, Germania, Giappone, Italia, Regno Unito e Stati Uniti promettono “supporto all’Ucraina incrollabile finché sarà necessario”

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    L’onda lunga della Brexit. Il Regno Unito paralizzato dagli scioperi a causa della stagnazione economica

    Bruxelles – Il Regno Unito non riesce ad assestarsi politicamente ed economicamente, a quasi due anni dall’uscita ufficiale di Londra dall’Unione Europea. Ferrovieri, personale della polizia di frontiera e delle poste, autisti del trasporto pubblico e infermieri sono pronti a incrociare le braccia anche durante le festività natalizie, per protestare contro la persistente stagnazione economica che sta impattando pesantemente sui salari dei dipendenti pubblici. Il governo conservatore guidato da Rishi Sunak deve affrontare ora un’impennata di scioperi che non ha eguali negli ultimi 30 anni, con all’orizzonte anche il rischio di tracollo della politica restrittiva nei confronti dei cittadini Ue stabilitisi nel Regno Unito attraverso il programma di insediamento del 2018.
    A causare la nuova ondata di scioperi – che cresce di mese in mese da giugno – è l’impennata del costo della vita e dell’inflazione, sotto i colpi delle conseguenze delle crisi che hanno travolto il Paese negli ultimi anni: dalla Brexit alla pandemia Covid-19, fino ad arrivare alla guerra russa in Ucraina con l’impatto sui prezzi dell’energia e sulle catene di approvvigionamento globali. Come emerge dai dati pubblicati dall’Office for National Statistics (Ons), tra agosto e ottobre 2022 si è registrato uno dei maggiori cali nei salari britannici dall’inizio delle registrazioni nel 2001: nonostante il segno positivo sulla crescita complessiva delle retribuzioni, al netto dell’inflazione il crollo si attesta al 2,7 per cento rispetto al 2021 (già lo scorso anno si era registrato un -3 per cento rispetto al 2020). A questo si somma il fatto che per il settore privato la crescita media dei salari (senza considerare quindi l’impatto dell’inflazione) ha più che doppiato quella del settore pubblico (+6,9 contro +2,7 per cento): come dichiarato dalla stessa agenzia governativa britannica per le informazioni statistiche, si tratta di “una delle più grandi differenze tra i tassi di crescita del settore privato e pubblico mai viste“.
    Gli scioperi dei dipendenti pubblici nel Regno Unito tra il 19 e il 31 dicembre 2022 (fonte: CNN su dati dell’Office for National Statistics)
    Nella memoria pubblica del Regno Unito l’ondata di scioperi in atto riporta alla mente quelle degli inverni 1978-1979, quando si registrarono dure dispute salariali tra governo e sindacati del settore pubblico e privato (chiuse poi dalle politiche economiche della prima ministra Margaret Thatcher). In realtà l’ultimo picco nel numero di scioperi paragonabile a quello registrato nell’ottobre 2022 (124) è quello del febbraio del 1988 (128). Secondo l’Ons durante l’ultimo mese per cui sono disponibili i dati 2022 sono stati persi in totale 417 mila giorni lavorativi nel corso degli scioperi dei dipendenti dei diversi comparti economici britannici.
    Le nuove proteste iniziate lunedì (19 dicembre) mettono sempre più sotto pressione il governo tory in carica da nemmeno due mesi, accusato di non tenere conto delle richieste dei lavoratori e di non avere ancora una linea politica chiara su come mettere fine a un’instabilità economica e politica che dopo la Brexit è andata peggiorando (tutto al contrario di quanto promesso dai suoi fautori). Downing Street 10 ha visto succedersi quattro primi ministri dalle dimissioni di David Cameron nel luglio 2016, a poche settimane dall’esito del referendum sulla Brexit (in ordine, Theresa May, Boris Johnson, Liz Truss e Rishi Sunak), e ancora il Paese non sembra essersi ripreso del tutto dalla grave crisi finanziaria scatenata dalla proposta di riforma fiscale del governo Truss, il più breve della storia del Paese. Per il gabinetto Sunak non ci sarebbe spazio di manovra per soddisfare le rischieste salariali, ma l’opinione pubblica britannica è tendenzialmente solidale con i lavoratori in sciopero e il rischio nel 2023 è di vedere un nuovo cambio di inquilino a Downing Street 10.
    Il numero di scioperi mensili registrati nel Regno Unito dal 1970 al 2022 (fonte: CNN su dati dell’Office for National Statistics)
    Tra cittadini Ue nel Regno Unito e contese con Bruxelles
    Ma il governo britannico si deve guardare anche da un altro colpo che arriva dall’interno del Paese e che rischia di screditare la politica portata avanti negli ultimi quattro anni dai governi tory nei conforti dei cittadini comunitari che vivono e lavorano nel Paese. Con una sentenza deliberata ieri (21 dicembre) l’Alta Corte di Giustizia ha dichiarato illegittimo il programma di insediamento del governo britannico per i cittadini Ue che vivono nel Paese. L’Eu Settlement Scheme è stato concepito nel 2018 per consentire ai cittadini comunitari di continuare a soggiornare e lavorare nel Regno Unito dopo la Brexit, con la concessione dello status di residente per avere accesso ai servizi di welfare. Tuttavia a oltre il 40 per cento dei richiedenti (2,5 milioni) è stato concesso solo lo status di pre-insediamento, che conferisce il diritto di residenza per cinque anni ma – in caso di ritardo nella presentazione della domanda di rinnovo – porterebbe automaticamente alla perdita del diritto al lavoro, all’alloggio, all’istruzione e alla richiesta di sussidi, con il rischio di essere espulsi.
    (credits: Daniel Leal / AFP)
    In vista della prima scadenza per il rinnovo dello status di pre-settled per agosto 2023 – cinque anni dopo l’introduzione della legge – il tribunale di primo grado della Royal Courts of Justice di Londra ha sancito che è illegale che i cittadini Ue perdano i loro diritti se non ripresentano domanda per lo status di pre-insediamento prima della scadenza: una volta che risiedono per il periodo richiesto di cinque anni, a tutti i cittadini comunitari dovrebbe essere concesso il diritto di risiedere permanentemente nel Regno Unito. La sentenza sarà impugnata dal governo britannico, che sostiene che la Commissione Europea sarebbe stata a conoscenza del fatto che i cittadini Ue con status di pre-settled sarebbero tenuti a presentare una seconda domanda di residenza permanente. Ma, se confermata la sentenza, l’esecutivo guidato da Sunak dovrà modificare la legge voluta dal governo May.
    A proposito del rapporto tra Londra e Bruxelles, la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, ha avuto uno scambio con il premier britannico “sul nostro continuo e stretto coordinamento sul sostegno all’Ucraina e sulle sanzioni contro la Russia”. La numero uno dell’esecutivo comunitario ha però ricordato che è necessario “lavorare insieme per trovare soluzioni per quanto riguarda il protocollo sull’Irlanda del Nord“. La contesa va avanti dal marzo 2021, in particolare sulla questione del periodo di grazia per il commercio nel Mare d’Irlanda, ovvero la durata della concessione temporanea ai controlli Ue sui certificati sanitari – e non – per il commercio dalla Gran Bretagna all’Irlanda del Nord. Il tentativo di prorogare unilateralmente il periodo di grazia da parte dell’allora governo Johnson aveva scatenato lo scontro diplomatico tra le due sponde della Manica, apparentemente risolto tra luglio e ottobre dello scorso anno: l’esecutivo comunitario aveva prima sospeso la procedura d’infrazione contro Londra, per cercare poi delle soluzioni di compromesso su tutti i settori più delicati, ma senza mai mettere in discussione l’integrità della parte dell’accordo di recesso tra Ue e Regno Unito siglato per garantire l’unità sull’isola d’Irlanda. A metà giugno di quest’anno la Commissione ha scongelato la procedura d’infrazione e ne ha attivate altre due per la decisione di Londra di tentare la strada della modifica unilaterale del protocollo.

    Happy to exchange with @RishiSunak on our continued close coordination on support to Ukraine and sanctions against Russia.
    We will also push for ambitious #G7 and #G20 agendas.
    On IE/NI Protocol, we concur on the importance of working together to agree on solutions. pic.twitter.com/CndTSjQgaD
    — Ursula von der Leyen (@vonderleyen) December 22, 2022

    Durante le festività natalizie incroceranno le braccia ferrovieri, personale della polizia di frontiera e delle poste, autisti del trasporto pubblico e infermieri. Intanto dall’Alta Corte di Giustizia arriva un duro colpo alla politica restrittiva del governo sulle domande di insediamento di cittadini Ue

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    I talebani chiudono le porte delle università alle donne afghane, per l’Ue è “crimine contro l’umanità”

    Bruxelles – Prima il divieto di frequentare parchi e palestre, poi l’obbligo di indossare il niqab, il velo integrale che lascia scoperti solo gli occhi, ora la mazzata più devastante: in Afghanistan, il regime dei talebani ha chiuso le porte delle università alle donne “fino a nuovo ordine”. In 16 mesi, altrettanti decreti che hanno a poco a poco estromesso le donne dalla vita pubblica del Paese.
    La fazione integralista islamica, che ha preso il potere a Kabul nell’agosto del 2021, sta inasprendo sempre più la sua interpretazione della Sharia (la legge islamica): dopo aver già escluso le ragazze dalla maggior parte delle scuole secondarie, ieri (21 dicembre) il ministro dell’Istruzione superiore, l’ex comandante militare Neda Mohammad Nadim, ha inoltrato una lettera a tutte le università del Paese in cui ordina di “sospendere le donne dall’istruzione universitaria”. Definito da Nadim “non islamico e contrario ai valori afghani”, il percorso scolastico femminile viene di fatto bloccato dopo che, neanche tre mesi fa, a migliaia di donne era stato permesso di sostenere gli esami di ammissione agli atenei del Paese, anche se con pesanti restrizioni sulla scelta dei corsi di studio.
    Ragazze afghane all’esame di ammissione all’Università di Kabul, 13/10/2022 (Photo by Wakil KOHSAR / AFP)
    Donne che sono scese in piazza, a Kabul e a Jalalabad, per protestare contro il regime, seguite dai colleghi maschi e da alcuni professori che hanno deciso di abbandonare le aule in segno di solidarietà. È arrivata immediatamente anche la ferma condanna della comunità internazionale: i governi di Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Germania, Italia, Spagna, Olanda, Norvegia, Svizzera, Canada e Australia hanno rilasciato un comunicato congiunto in cui definiscono le oppressive misure del regime “implacabili e sistemiche”, che smascherano “il disprezzo dei talebani per i diritti umani e le libertà fondamentali del popolo afghano”. I ministri degli esteri degli 11 Paesi promettono che “le politiche talebane progettate per eradicare le donne dalla vita pubblica avranno conseguenze” sulle relazioni con il regime.
    Alla condanna si è unito l’Alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la Politica di sicurezza, Josep Borrell, che ha citato lo Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale, secondo cui “le privazioni intenzionali dei diritti fondamentali a causa dell’identità del gruppo o della collettività, commesse nell’ambito di un attacco diffuso o sistematico, sono definite crimini contro l’umanità“. L’Unione europea, ancora presente a Kabul con una sede allo scopo di monitorare la situazione umanitaria e facilitare la consegna degli aiuti, “rimane impegnata nei confronti del popolo afghano” e continuerà a fornire “l’assistenza necessaria alla popolazione nel miglior modo possibile”.

    The EU strongly condemns the Taliban’s decision to suspend higher education for Afghan women.
    A unique move in the world that violates rights and aspirations of Afghans and deprives #Afghanistan of women’s contributions to society.
    Gender persecution is a crime against humanity
    — Josep Borrell Fontelles (@JosepBorrellF) December 21, 2022

    La decisione di sospendere le ragazze dall’istruzione universitaria è solo l’ultima di una serie di misure che hanno estromesso le donne dalla vita pubblica. Ferma condanna della comunità internazionale e del capo della diplomazia europea, Josep Borrell: “Ci saranno conseguenze sulle relazioni con il regime”

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    Il 3 febbraio vertice Ue-Ucraina, Zelensky invitato nella capitale d’Europa

    Bruxelles – Il 12 ottobre di un anno fa calava il sipario a Kiev il 23° vertice tra l’Unione europea e l’Ucraina con il fermo sostegno di Bruxelles all’indipendenza e territoriale del Paese e l’estensione le sanzioni economiche contro la Russia per l’annessione illegale della Crimea del 2014. Oggi (22 dicembre) fonti europee confermano che il prossimo vertice tra Bruxelles e Kiev si terrà nella capitale belga il 3 febbraio e il formato sarà lo stesso: Ursula von der Leyen, a nome della Commissione europea, Charles Michel in rappresentanza del Consiglio europeo, e Volodymyr Zelenskyy a nome dell’Ucraina.
    A essere diverso sarà lo scenario, perché da quel 12 ottobre tutto è cambiato per l’Ucraina e per i rapporti tra Unione europea e Kiev. Sullo sfondo del futuro Summit la guerra di Russia in Ucraina, iniziata con l’invasione del territorio di Kiev il 24 febbraio scorso. Visto il contesto in cui prenderà le mosse il Summit, per il momento nessuna conferma su dove avrà luogo il Summit. A quanto si apprende, Michel avrebbe invitato il presidente Zelensky a visitare la capitale belga anche se la visita non sarebbe collegata al Vertice. Il summit non sarà con tutti i leader dei 27 Stati membri, ma manterrà il formato tradizionale con i presidenti del Consiglio e della Commissione europea.
    Non è difficile immaginare che le conseguenze della guerra, sul piano economico, energetico e della ricostruzione, saranno al centro del Summit di Bruxelles. Ma lo scenario sarà diverso anche perché dallo scorso giugno, Kiev è ufficialmente un Paese candidato all’adesione all’UE, in quello che è stato un decisionale mai così veloce da parte della Commissione, accelerato senza dubbio dalla guerra.

    Il vertice non sarà con tutti i leader dei 27 Stati membri, ma manterrà il formato tradizionale con i presidenti del Consiglio europeo, Charles Michel, e della Commissione europea, Ursula von der Leyen. La presenza a Bruxelles del presidente ucraino ancora non confermata

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    Qatargate, le inquietudini della Commissione Ue

    Bruxelles – La Commissione europea si smarca dallo scandalo di presunta corruzione dal Qatar e dal Marocco che sta colpendo l’europarlamento e che lambisce indirettamente alcune personalità legate all’esecutivo comunitario. Dopo i dubbi sollevati sulla posizione del vicepresidente Margaritis Schinas, a causa dei suoi ripetuti endorsement al governo di Doha (dubbi pubblicamente respinti con decisione dal commissario greco) sotto la lente d’ingrandimento dei media è finito l’ex commissario per le Migrazioni, gli affari interni e la cittadinanza, il greco Dimitris Avramopoulos, che ha ammesso recentemente di aver ricevuto un compenso annuale di 60 mila euro dall’ong di Antonio Panzeri, Fight Impunity.
    La Commissione, che aveva concesso un’autorizzazione “con restrizioni” ad Avramopoulos per il suo incarico nell’organizzazione di Panzeri, vuole vederci chiaro: il portavoce capo del gabinetto von der Leyen, Eric Mamer, ha annunciato oggi (21 dicembre) che sono state “portate avanti verifiche interne” all’istituzione. “Abbiamo notato che l’ex commissario Avramopoulos ha incontrato diversi Commissari, nelle date dal 15 al 17 novembre 2021”, ha proseguito Mamer: incontri che Avramopoulos avrebbe definito “brevi visite di cortesia” a ex colleghi, ai suoi successori, come nel caso dell’attuale commissaria per le Migrazioni e gli affari interni, Ylva Johansson, e a vecchi amici, come la greca Stella Kyriakides, commissaria per la salute e la politica dei consumatori.
    L’ex commissario Ue Dimitris Avramopoulos
    Il nocciolo della questione è che Avramopoulos accettò l’incarico nell’ong di Panzeri prima del periodo di “cooling off” di due anni previsto per i Commissari dal codice di condotta interno all’esecutivo Ue, e per questo la Commissione gli aveva specificato chiaramente che non avrebbe potuto avere contatti con i membri del gabinetto von der Leyen per conto di Fight Impunity. Nonostante i controlli interni abbiano per ora confermato che “in nessuno di questi meeting sono stati discussi temi relativi all’organizzazione”, la Commissione avrebbe chiesto ad Avamopoulos “ulteriori informazioni sul rispetto delle condizioni poste nell’autorizzazione”.
    Sul Qatargate si è espresso nella giornata di ieri (20 dicembre) il Commissario Ue per gli affari economici e monetari, Paolo Gentiloni, che in un’intervista alla CNN ha definito la vicenda “una vergogna”, evitabile soltanto “rafforzando le nostre regole di trasparenza”. Perché, ha ricordato Gentiloni, “Bruxelles è il secondo centro mondiale di lobby dopo Washington”: gruppi di pressione che intrattengono relazioni con le istituzioni, che talvolta ricevono finanziamenti da queste e che cercano di influenzarne l’agenda politica. Come nel caso della seconda Ong coinvolta nel presunto giro di mazzette da Qatar e Marocco, No peace without justice, il cui presidente, Niccolò Figà-Talamanca, è in stato di arresto a Bruxelles con la modalità del braccialetto elettronico. La Commissione ha confermato di “aver lavorato per diversi anni, anche prima di questo mandato” con l’organizzazione di Figà-Talamanca, che ha ricevuto “un certo numero di finanziamenti e che avrebbe potuto riceverne altri in futuro”. Avrebbe, perché No peace without justice è stata sospesa dal Registro per la trasparenza Ue lo scorso 13 dicembre, così come tutti i pagamenti ancora non effettuati a suo favore.
    La risolutezza con cui a Palazzo Berlaymont sono state avviate indagini interne per scongiurare qualsiasi coinvolgimento nella vicenda va di pari passo con la prudenza con cui la Commissione ha deciso di proseguire i rapporti – a differenza del Parlamento Ue- con il Qatar: sempre nella giornata di ieri l’Alto rappresentante per gli Affari esteri e la politica di sicurezza Ue, Josep Borrell, ha incontrato il ministro degli esteri di Doha a margine della seconda conferenza di Baghdad per la cooperazione e il partenariato. Nel bilaterale Borrell avrebbe discusso “argomenti bilaterali e sfide regionali, nonché altre questioni, comprese le accuse contro alcuni membri e il personale del Parlamento europeo”, concordando con il ministro Al Thani “sulla necessità che le indagini in corso forniscano piena chiarezza“. Sullo sfondo c’è il rischio di compromettere una delle priorità del gabinetto von der Leyen, la sicurezza energetica del continente: il Qatar, primo fornitore di gas per l’Ue, ha già minacciato ripercussioni sugli accordi commerciali qualora fosse ritenuto colpevole dello scandalo.

    Met Qatari FM @MBA_AlThani_ in Jordan.
    We discussed bilateral topics and regional challenges, as well as other issues, including allegations against some members and staff of the European Parliament.
    We agreed on the need that ongoing investigations provide full clarity. pic.twitter.com/pkl68EOO7z
    — Josep Borrell Fontelles (@JosepBorrellF) December 20, 2022

    Prima i dubbi sul vicepresidente Schinas, ora il caso dell’ex commissario Avramopoulos e i finanziamenti all’ong No Peace Without Justice: l’esecutivo Ue si difende e procede a indagini interne. Intanto Borrell incontra il ministro degli Esteri di Doha e chiede di aspettare “che le indagini forniscano piena chiarezza”

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    I ministri degli Esteri di Slovenia e Austria sono in Montenegro su mandato Ue per affrontare la crisi istituzionale

    Bruxelles – In missione per conto dei Ventisette. I ministri degli Esteri di Slovenia, Tanja Fajon, e Austria, Alexander Schallenberg, sono oggi (mercoledì 21 dicembre) in Montenegro per una missione voluta dall’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, per affrontare una situazione sempre più instabile nel Paese balcanico che finora si è potuto fregiare del titolo di ‘più avanzato sulla strada di adesione all’Ue’ tra i 10 che sono coinvolti nel processo di allargamento dell’Unione.
    Il primo ministro ad interim del Montenegro, Dritan Abazović, e il il commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi
    “Il Montenegro è uno dei partner più stretti dell’Unione Europea, a buon punto nei negoziati di adesione e con il più lungo record di pieno allineamento con la politica estera e di sicurezza comune dell’Ue”, è quanto specifica il Servizio europeo per l’azione esterna (Seae), senza nascondere che “la visita giunge in un momento in cui i recenti sviluppi politici hanno provocato una grave crisi istituzionale, minando le istituzioni democratiche e rallentando i progressi del Paese nel suo percorso di adesione”. La questione più urgente per Bruxelles riguarda “il sostegno da parte di tutti gli attori politici alla piena funzionalità delle istituzioni, in particolare della Corte Costituzionale“, che rappresenta una delle condizioni prioritarie per “avanzare verso l’adesione all’Ue, auspicata dalla stragrande maggioranza dei cittadini montenegrini”. Lo dimostrerebbero le bandiere dell’Unione Europea sventolate dai manifestanti che stanno protestando a Podgorica contro la nuova legge sui poteri presidenziali.
    Il messaggio (e la missione stessa) dei due ministri al presidente montenegrino, Milo Đukanović, alla leader dell’Assemblea nazionale, Danijela Đurović, e al primo ministro ad interim, Dritan Abazović, dimostra quanto per i Ventisette e per le istituzioni comunitarie sia diventata preoccupante la situazione nel Paese balcanico. Mentre lunedì scorso (12 dicembre) una maggioranza risicata di forze filo-serbe all’Assemblea nazionale ha approvato una contestata legge sugli obblighi del presidente nella nomina dell’esecutivo, a Podgorica non sono ancora stati nominati tutti i membri della Corte Costituzionale (unico organismo che può valutare la legge stessa). Ecco perché Bruxelles non considera il voto dell’Assemblea nazionale in linea con la raccomandazione della Commissione di Venezia, l’organo consultivo del Consiglio d’Europa che ha un ruolo-chiave nell’adozione di Costituzioni conformi agli standard europei. “La nomina dei membri della Corte Costituzionale è necessaria per salvaguardare i diritti fondamentali dei cittadini”, ha già messo in chiaro il commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi.

    📢At their joint press conference today Foreign Affairs Ministers of 🇦🇹Austria @a_schallenberg & 🇸🇮Slovenia @tfajon sent important messages for 🇲🇪 Montenegro’s 🇪🇺 European future. Watch here 👇 https://t.co/5o3F02STaY
    — Oana Cristina Popa 🇪🇺 (@EUAmbME) December 21, 2022

    La crisi istituzionale in Montenegro
    Con le elezioni del 30 agosto 2020 in Montenegro erano cambiati gli equilibri politici dopo 30 anni di governo ininterrotto del Partito Democratico dei Socialisti (Dps) del presidente Đukanović. Al potere era andata per poco più di un anno una colazione formata dai filo-serbi di ‘Per il futuro del Montenegro’ (dell’allora premier, Zdravko Krivokapić), dai moderati di ‘La pace è la nostra nazione’ (dell’ex-presidente del Parlamento, Aleksa Bečić) e dalla piattaforma civica ‘Nero su bianco’, dominata dal Movimento Civico Azione Riformista Unita (Ura) di Abazović. Lo scorso 4 febbraio era stata proprio la piattaforma civica ‘Nero su bianco’ a togliere l’appoggio al governo Krivokapić, appoggiando una mozione di sfiducia dell’opposizione e aprendo la strada a un governo di minoranza guidato da Abazović. L’obiettivo dichiarato dell’esecutivo inaugurato a fine aprile era quello di preparare le elezioni per la primavera del 2023.
    La presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, e il presidente del Montenegro, Milo Đukanović
    Lo stesso governo Abazović è però crollato il 19 agosto (il più breve della storia del Paese) con la mozione di sfiducia dei nuovi alleati del Dps di Đukanović, a causa del cosiddetto ‘accordo fondamentale’ con la Chiesa ortodossa serba. L’intesa per regolare i rapporti reciproci – con il riconoscimento della presenza e della continuità della Chiesa ortodossa serba in Montenegro dal 1219 – è stato appoggiato dai partiti filo-serbi, mentre tutti gli altri l’hanno rigettato, perché considerato un’ingerenza di Belgrado nel Paese e un ostacolo per la strada verso l’adesione all’Unione Europea. Da allora Abazović è premier ad interim, mentre si è aggravata l’instabilità politica e istituzionale, con tentativi di ricreare la maggioranza Krivokapić e appelli al ritorno alle urne.
    Dopo il primo via libera di inizio novembre alla legge contestata da parte dell’Assemblea nazionale, la tensione è aumentata esponenzialmente fino al voto decisivo del 12 dicembre con un solo deputato in più rispetto alla soglia-limite della maggioranza. La legge permetterà ai parlamentari di firmare una petizione per la designazione di un primo ministro (con il supporto della maggioranza assoluta, cioè 41), nel caso in cui il presidente si rifiutasse di proporre un candidato: in caso di assenza della maggioranza, lo stesso presidente avrà l’obbligo di organizzare un secondo giro di consultazioni con i partiti e proporre un candidato. Al contrario, secondo la Costituzione del Montenegro il presidente ha solo il dovere di organizzare le consultazioni e proporre un premier designato con il sostegno firmato di almeno 41 parlamentari entro un massimo di 30 giorni. Lo scorso 20 settembre il numero uno del Paese Đukanović ha proposto di tornare alle urne – a due anni dalle ultime elezioni parlamentari – dopo essersi rifiutato di confermare come nuovo primo ministro il leader dell’Alleanza Democratica (Demos), Miodrag Lekić, a causa del ritardo nella presentazione delle 41 firme a suo sostegno.
    Rimane evidente che né la maggioranza né l’opposizione sembrano in grado di formare un governo stabile e il voto sembrerebbe la soluzione più efficace, per permettere agli elettori di esprimersi su quale indirizzo dovrà prendere il Paese. In questo contesto in Montenegro sta emergendo un nuovo movimento europeista non rappresentato in Parlamento, Europe Now, che si è fatto conoscere con il secondo posto (21,7 per cento dei voti e 13 seggi su 58 in Assemblea cittadina) alle amministrative di ottobre nella capitale montenegrina.

    Tanja Fajon e Alexander Schallenberg sono stati incaricati dall’alto rappresentante Ue, Josep Borrell, di ribadire a Podgorica che l’adesione all’Unione passa dalla piena funzionalità della Corte Costituzionale. Proseguono le proteste contro l’adozione della legge sui poteri presidenziali

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    Iran, bilaterale tra Borrell e il ministro degli esteri di Teheran a causa del “deterioramento dei rapporti” con l’Ue

    Bruxelles – Un incontro vis à vis, dopo i ripetuti colloqui telefonici delle ultime settimane. L’Alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, e il Ministro degli Esteri iraniano, Hossein Amirabdollahian, hanno sfruttato la seconda conferenza di Baghdad per la cooperazione e il partenariato per discutere in un bilaterale le forti divergenze che allontanano sempre di più Bruxelles e Teheran. La brutale repressione delle proteste interne messa in atto dal regime dell’ayatollah Khamenei, la vendita di droni militari alla Russia, la trattativa decennale sul nucleare iraniano: questi i temi sollevati da Borrell a margine del summit regionale, che si è tenuto oggi (20 dicembre) nella capitale del regno di Giordania, Amman.

    Necessary meeting w Iranian FM @Amirabdolahian in Jordan amidst deteriorating Iran-EU relations Stressed need to immediately stop military support to Russia and internal repression in IranAgreed we must keep communication open and restore #JCPOA on basis of Vienna negotiations
    — Josep Borrell Fontelles (@JosepBorrellF) December 20, 2022

    Un faccia a faccia “reso necessario a causa del deterioramento delle relazioni Ue-Iran“, ha dichiarato in un tweet il capo della diplomazia europea: negli ultimi mesi la Repubblica islamica e le istituzioni europee si sono sfidate a colpi di sanzioni, in un’escalation che ha toccato il punto più alto con la decisione, presa lo scorso 23 novembre dalla presidente del Parlamento Ue, Roberta Metsola, di interrompere qualsiasi contatto tra gli europarlamentari e i loro omologhi di Teheran.
    Come ha ribadito il portavoce della Commissione europea responsabile per gli Affari esteri, Peter Stano, l’Iran “è entrato nell’agenda degli ultimi tre vertici dei 27 ministri degli Esteri Ue”, dato significativo per capire i venti che soffiano a Bruxelles sul dossier iraniano. Nell’ultimo Consiglio Affari esteri Ue, il 12 dicembre, i 27 Paesi membri hanno deciso di aggiungere alle misure restrittive anche gli alti gradi dei Pasdaran, le guardie della Rivoluzione islamica, e l’emittente televisiva statale del regime, l’Irib: ora nella lista nera di Bruxelles figurano ben 155 individui e 12 entità, soggetti al congelamento dei beni e al divieto di viaggio in territorio Ue.
    Peter Stano ha assicurato che “in ogni meeting con i partner l’Ue si prende tutto il tempo necessario per veicolare i propri messaggi”: sempre su twitter, Borrell ha reso noto di aver insistito affinché Teheran metta fine immediatamente al supporto militare al Cremlino e alla brutale repressione interna, che, secondo l’ultimo bollettino dell’ong Iran Human Rights, ha già provocato 469 vittime, tra cui 63 minori e 32 donne.
    Le trattative sul nucleare iraniano
    L’Alto rappresentante Ue avrebbe cercato di lavorare i fianchi di Amirabdollahian anche su un terzo punto: la ripresa dei dialoghi sul JCPOA (Joint Comprehensive Plan of Action), l’accordo sul nucleare iraniano firmato nel 2015 a Vienna dall’Unione europea, dall’Iran e dal gruppo dei 5+1 (Stati Uniti, Cina, Francia, Gran Bretagna, Russia e Germania), messo in stand-by nel 2018, quando gli Stati Uniti dell’allora presidente Donald Trump hanno deciso unilateralmente di ritirarsi. “Ci siamo trovati d’accordo nel mantenere aperta la comunicazione e ripristinare il JCPOA sulla base dei negoziati di Vienna”, ha dichiarato ancora Borrell.
    Le trattative sull’intesa, che pone significative restrizioni al programma nucleare iraniano in cambio della cessazione delle sanzioni economiche imposte dalle Nazioni Unite a Teheran, sono lentamente riprese a novembre 2021 grazie al cambio di amministrazione a Washington, ma lo sforzo diplomatico per avvicinare le parti è soprattutto a carico di Bruxelles: come ha sottolineato il portavoce Peter Stano, “Borrell è il coordinatore del JCPOA, quindi è logico che incontri tutte le parti dell’accordo, specialmente nel momento in cui si cerca di riportare l’intesa a un pieno funzionamento”.

    Il capo della diplomazia europea ha incontrato Hossein Amirabdollahian a margine della seconda conferenza di Baghdad per la cooperazione e il partenariato: sul tavolo la violenta repressione delle proteste nel Paese, il sostegno militare di Teheran al Cremlino e la ripresa dei dialoghi sul programma nucleare iraniano