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    Bufera per le parole dell’ambasciatore cinese in Francia sui Paesi ex-Urss. Relazioni con Pechino al Consiglio Ue di giugno

    Bruxelles – Scoppia la bufera diplomatica nell’Unione Europea sulle parole dell’ambasciatore cinese in Francia, che potrebbe avere ripercussioni pesanti sui rapporti Ue-Cina. “Sono inaccettabili le dichiarazioni” dell’ambasciatore Lu Shaye “che mettono in dubbio la sovranità dei Paesi divenuti indipendenti con la fine dell’Unione Sovietica nel 1991”, ha attaccato l’alto rappresentante per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell: “L’Ue può solo supporre che queste dichiarazioni non rappresentino la politica ufficiale della Cina”. Facendo ingresso questa mattina (24 aprile) al Consiglio Affari Esteri a Lussemburgo, lo stesso Borrell ha spiegato alla stampa che “oggi ne parleremo nel quadro della questione cinese, inizieremo a preparare le discussioni sui rapporti Ue-Cina del Consiglio Europeo di giugno“.
    Il presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, e il presidente della Cina, Xi Jinping
    Le polemiche sono state scatenate da un’intervista del diplomatico cinese al canale francese Lci, che ha messo in questione il fatto che “nel diritto internazionale i Paesi dell’ex-Unione Sovietica non hanno lo status effettivo, perché non esiste un accordo internazionale per materializzare il loro status di Paesi sovrani”. Dai Baltici all’Ucraina, dagli ‘stan’ al Caucaso, per l’ambasciatore Lu sarebbe in questione la sovranità e l’indipendenza di tutti gli Stati che si sono staccati dall’Unione Sovietica all’inizio degli anni Novanta. “La Cina deve rispettare l’Ue e tutti i suoi Stati membri, è cruciale per i nostri buoni rapporti”, è stato il secco commento del ministro degli Esteri italiano, Antonio Tajani, prima del vertice ministeriale a Lussemburgo: “È un Paese-chiave anche per spingere la Russia a lasciare l’Ucraina, ma sono in totale disaccordo con quanto detto dall’ambasciatore cinese”.
    Durissime le reazioni proprio di quei Paesi che per 50 anni hanno subito il giogo dell’Unione Sovietica e che oggi sono parte dell’Unione Europea (Lituania, Lettonia ed Estonia). “Quanto affermato è completamente inaccettabile, i tre Paesi baltici convocheranno gli ambasciatori cinesi per chiedere spiegazioni se la posizione sull’indipendenza è cambiata e per ricordare loro che eravamo Paesi illegalmente occupati dall’Unione Sovietica”, ha attaccato il ministro degli Esteri lituano, Gabrielius Landsbergis. Parole simili a quelle dell’omologo estone, Margus Tsahkna, che ha evidenziato come “ci servono spiegazioni sul perché la Cina ha questa posizione sui Paesi baltici, che sono indipendenti, sovrani e membri di Ue e Nato”. Anche Jan Lipavský, ministro degli Esteri della Repubblica Ceca (Paese del Patto di Varsavia fino al 1991) ha denunciato una dichiarazione che “ci sorprende, perché un rappresentante ufficiale dello Stato cinese dovrebbe sapere come si costruiscono le relazioni internazionali”. Fonti Ue fanno notare che non è comune che diplomatici cinesi si discostino dalla politica ufficiale di Pechino e sarà importante osservare “cosa succede all’ambasciatore” (se sarà richiamato o meno).
    L’alto rappresentante Ue Borrell ha promesso una “forte posizione per chiarire qual è la posizione ufficiale del governo cinese sulla sovranità e l’indipendenza di alcuni Stati membri Ue“, aprendo alle discussioni tra i Ventisette in vista del vertice dei leader del 29-30 giugno, in cui i rapporti Ue-Cina “saranno all’ordine del giorno”, ha precisato il presidente del Consiglio Ue, Charles Michel: “Dovrà rivalutare e ricalibrare la nostra strategia verso Pechino, è una delle questioni più importanti”, è l’esortazione di Borrell.

    I rapporti Ue-Cina tra viaggi, polemiche e strategie
    Le discussioni tra i 27 leader Ue si baseranno su quanto accaduto nell’ultimo mese a Bruxelles e Pechino, ma anche in Francia. È dello scorso 30 marzo il discorso della presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, in cui sono state definite le direttrici strategiche per il riorientamento dei rapporti Ue-Cina, considerato lo squilibrio commerciale con il partner/competitor. Una strategia che si baserà sul de-risking nelle aree in cui non è possibile trovare un’intesa di cooperazione, ma che in ogni caso non implica uno sganciamento di Bruxelles da Pechino. A stretto giro la leader dell’esecutivo comunitario e il presidente francese, Emmanuel Macron, si sono recati in visita a Pechino per discutere di persona delle relazioni Ue-Cina con il leader cinese, Xi Jinping: dalle relazioni economiche alla guerra russa in Ucraina, fino alle tensioni sullo Stretto di Taiwan.
    Proprio il tema del rapporto dei Ventisette con Taiwan – nel caso dell’escalation della tensione con Pechino – ha avvelenato il dibattito interno all’Unione sui rapporti Ue-Cina. A scatenare il vespaio sono state le parole del presidente francese Macron di ritorno dal viaggio a Pechino. “La cosa peggiore sarebbe pensare che noi europei dovremmo essere dei seguaci su questo tema e adattarci al ritmo americano e a una reazione eccessiva della Cina“, è stato il commento dell’inquilino dell’Eliseo, tratteggiando la necessità di una vera autonomia strategica europea (ma non un’equidistanza tra Washington e Pechino). Dopo la divisione tra le opinioni pubbliche nazionali nei 27 Paesi membri Ue sulle dichiarazioni di Macron e su come si dovrebbe raggiungere la chimera dell’autonomia strategica, le discussioni si sono spostate al Parlamento Europeo la scorsa settimana.
    Nel pieno della bagarre tra i gruppi politici alla sessione plenaria a Strasburgo, la presidente von der Leyen e l’alto rappresentante Borrell hanno messo in chiaro che serve unità contro la “politica di divisione e conquista” cinese e che le istituzioni europee si oppongono “fermamente” a qualsiasi cambiamento unilaterale dello status quo, “in particolare attraverso l’uso della forza”. A confermare questa posizione, in un’intervista a Le Journal du Dimanche lo stesso alto rappresentante Ue ha esortato le marine europee a “pattugliare lo Stretto di Taiwan, per dimostrare l’impegno dell’Europa a favore della libertà di navigazione in quest’area assolutamente cruciale” per il commercio globale.

    Il diplomatico ha messo in questione la sovranità di Stati come Baltici e Ucraina secondo il diritto internazionale. “Dichiarazioni inaccettabili, auspichiamo non sia la posizione ufficiale della Cina”, ha attaccato l’alto rappresentante Ue, Josep Borrell, che preparerà le discussioni tra i Ventisette

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    Borrell sceglie Di Maio come inviato speciale dell’Ue per il Golfo Persico

    Bruxelles – Sarà l’ex ministro degli Esteri Luigi Di Maio il primo rappresentante speciale dell’Ue per il Golfo Persico. Dopo tante polemiche, la nomina da parte di Josep Borrell è arrivata e attende ora solo la ratifica formale da parte del Cops, il Comitato politico e di sicurezza che si riunisce domani (25 aprile) a Bruxelles. L’alto rappresentante Ue per la politica estera e di sicurezza lo ha indicato come “il candidato più adatto” all’incarico in una lettera del 21 aprile scorso, vista dal Corriere della sera, e indirizzata agli ambasciatori del Comitato politico e di sicurezza degli Stati membri. Borrell propone per il nuovo incarico un mandato di 21 mesi, a partire dal primo giugno 2023 e fino al 28 febbraio 2025.
    Il nuovo incarico di inviato speciale è stato pensato soprattutto nell’ottica di rafforzare e approfondire i rapporti energetici con la regione del Golfo, una scelta motiva dalla difficoltà che l’Europa ha incontrato dall’inizio della guerra in Ucraina a diversificare l’approvvigionamento di gas dalla Russia e a cercare nuovi fornitori di idrocarburi. La Commissione aveva affidato la selezione a un panel di tecnici indipendenti che hanno presentato a Borrell una rosa finale di quattro nomi: oltre al nome dell’ex ministro degli Esteri nel governo Conte 2 e poi nell’esecutivo Draghi, in lizza c’erano l’ex inviato dell’Onu in Libia, lo slovacco Jan Kubis, l’ex ministro degli Esteri della Grecia e ex commissario Ue, Dimitris Avramopoulos, e il cipriota Markos Kyprianou. Nella nota consegnata a Borrell, i tecnici avrebbero suggerito il nome di Di Maio per la nomina “sulla base delle prestazioni fornite dai candidati”.
    La scelta di Borrell è infine ricaduta sull’ex vicepremier, tra le polemiche in Italia. “E’ una scelta legittima e libera dell’Alto rappresentante Josep Borrell, non è una scelta del governo italiano e non è un’indicazione del governo italiano”, ha chiarito oggi il ministro degli esteri Antonio Tajani al suo arrivo al Consiglio Affari Esteri in corso oggi a Lussemburgo. Di Maio “ha presentato la sua candidatura quando era ministro degli Esteri, non ha nulla a che vedere con questo governo, sono scelte che non ci riguardano”, ha detto Tajani, ribadendo che “è una candidatura individuale, non del governo”. La notizia ancora non è ufficiale, ma la Lega a Bruxelles già è partita all’attacco. “Quindi la scelta è squisitamente di carattere politico e non in base alle reali competenze in materia di energia e gas dell’ex grillino, fuori dal governo italiano perché bocciato dai cittadini alle ultime elezioni politiche e, da allora, disoccupato. Questa decisione denigra l’Italia perché nel nostro Paese ci sono senza alcun dubbio altri profili con CV adeguati”, Così l’europarlamentare Paolo Borchia, coordinatore Id in commissione per l’industria, la ricerca e l’energia (Itre) e responsabile federale Lega nel Mondo, che lo scorso novembre presentò a riguardo un’interrogazione a Josep Borrell.

    La nomina dell’alto rappresentante Ue per la politica estera e di sicurezza in una lettera al Comitato politico e di sicurezza Ue, che ora dovrà procedere al via libera. Tajani: “E’ una scelta legittima di Borrell, non è una scelta del governo italiano”

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    La delegazione Ue in Sudan evacuata da Khartum. Anche l’ambasciatore ha lasciato il Paese in guerra

    Bruxelles – Un fine settimana di lavoro intenso a livello diplomatico e sul terreno per evacuare la delegazione Ue in Sudan e gli altri cittadini comunitari dal Paese scivolato ormai in una guerra civile. “È stata un’operazione complessa, ma di successo, 21 persone sono già in Europa e molti altri sono fuori dal Sudan“, ha sottolineato alla stampa l’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, facendo ingresso questa mattina (24 aprile) al Consiglio Affari Esteri a Lussemburgo. Si parla di “più di un migliaio di persone” in totale, evacuate grazie agli “sforzi combinati di diversi Paesi, in particolare della Francia”, dopo essere rimaste bloccate nella capitale Khartum e in altre città sudanesi per tutta la prima settimana di scontri armati tra l’esercito regolare e il gruppo paramilitare Rapid Support Forces (Rsf).
    Esplosione all’aeroporto di Khartum (credits: Afp)
    La notizia dell’evacuazione della delegazione Ue in Sudan e di tutti i cittadini comunitari che volessero abbandonare il Paese in guerra è arrivata nella serata di ieri (23 aprile) dallo stesso alto rappresentante Borrell. In un tweet ha ringraziato l’Eliseo “per aver reso possibile tutto questo, con l’aiuto di Gibuti”, specificando che anche l’ambasciatore Ue Aidan O’Hara – aggredito la scorsa settimana nella sua residenza – è stato evacuato dal Paese in guerra. In Suda è rimasto solo “il capo della sicurezza, ma non a Khartum”, ha precisato lo stesso Borrell, rettificando quanto precedentemente affermato sul fatto che l’ambasciatore Ue avrebbe continuato il lavoro nel Paese in guerra. Le operazioni militari sono state coordinate dall’esercito francese in collaborazione con diversi Paesi europei e non – tra cui anche l’Italia – e sono state complicate dal fatto che l’aeroporto internazionale della capitale è stato reso inagibile dai nove giorni di bombardamenti e scontri armati. Tutti i cittadini sono stati scortati da convogli militari fuori da Khartum e gli 11 voli militari sono partiti dall’aeroporto di Wadi Sednia, a una ventina di chilometri dalla capitale sudanese, con altri 20 previsti per la giornata di oggi.
    “Non possiamo permettere che il Sudan imploda, perché avrebbe un’onda d’urto in tutta l’Africa“, ha avvertito l’alto rappresentante Borrell, rendendo noto di aver parlato sia con il generale Abdel Fattah al-Burhan (capo dell’esercito regolare del Sudan e dal 2021 anche presidente del Paese), sia con il generale Mohamed Hamdan Dagalo (leader delle forze paramilitari e vicepresidente del Sudan), “sollecitando un cessate il fuoco immediato” e insistendo sulla “necessità di proteggere i civili”. Anche il presidente del Consiglio Ue, Charles Michel, ha ringraziato Francia e Gibuti per il coordinamento delle operazioni, oltre all’alto rappresentante Ue e ai diplomatici europei “per il loro impegno costante e la loro capacità di recupero”.
    Cosa sta succedendo in Sudan
    L’esplosione delle violenze nella capitale Khartum e nel resto del Paese è iniziata lo scorso 15 aprile. A fronteggiarsi sono l’esercito regolare del Sudan e le forze paramilitari composte 6da 100 mila membri. L’esercito ha il controllo dell’aviazione e sta bombardando le basi Rsf, che a loro volta sta facendo largo uso di artiglieria nei centri abitati. I paramilitari hanno chiesto ripetutamente un cessate il fuoco temporaneo in occasione dell’Eid al-Fitr (la festività della religione islamica che segna la fine del Ramadan), ma il presidente al-Burhan al momento ha rifiutato qualsiasi contatto per sedersi al tavolo dei negoziati.
    Da sinistra: il generale Abdel Fattah al-Burhan, presidente del Sudan, e il generale Mohamed Hamdan Dagalo, vicepresidente del Sudan (credits: Afp)
    Due anni fa, nell’ottobre del 2021, i generali al-Burhan e Dagalo avevano unito le forze per rovesciare il breve governo democraticamente eletto di Abdalla Hamdok e instaurare una dittatura militare. Lo stesso al-Burhan è stato in precedenza a capo del Consiglio sovrano del Sudan, l’organo che nel 2019 aveva preso il posto del Consiglio militare di transizione dopo la deposizione del dittatore Omar al-Bashir (in carica dal 1993). I due generali avevano promesso di continuare la transizione democratica fino alle elezioni previste per il 2023, governando attraverso il Consiglio Sovrano. L’alleanza è durata fino a dicembre del 2022, quando le pressioni internazionali hanno spinto la giunta militare a restituire il potere a un’amministrazione civile e sciogliere le Rsf per integrarle all’interno dell’esercito regolare. Dagalo si è opposto e gli scontri prima politici si sono trasformati da qualche giorno in violenti combattimenti armati.
    Le Rsf sono la derivazione diretta dei Janjawid, i miliziani di etnia araba che nel corso della guerra del Darfur (iniziata nel 2003) hanno preso parte al genocidio nell’area occidentale del Paese: in quel momento Dagalo era a capo dei Janjawid ed è stato accusato di crimini contro l’umanità. Anche i vertici dell’esercito regolare, di cui al-Burhan è principale esponente, sono stati accusati di genocidio nel Darfur. Dopo la guerra le Rsf si sono trasformate autonomamente in un esercito di frontiera, senza perdere potere militare e senza mai farsi assorbire nelle strutture statali. La Cnn ha anche riportato di un supporto militare da parte del gruppo mercenario russo Wagner e di finanziamenti reiterati da parte del generale libico Khalifa Haftar nei mesi precedenti allo scoppio della guerra.

    Ad annunciare la riuscita dell’operazione guidata dalla Francia con il supporto di Gibuti è stato l’alto rappresentante Ue, Josep Borrell, che ha parlato direttamente con i leader dell’esercito regolare e del gruppo paramilitare Rapid Support Forces per un “immediato cessate il fuoco”

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    A Bruxelles è iniziato il lavoro sull’undicesimo pacchetto di sanzioni contro la Russia

    Bruxelles – A Bruxelles è iniziato il lavoro sull’undicesimo pacchetto di sanzioni contro la Russia, che – dopo aver preso di mira carbone e petrolio importati dal Cremlino – potrebbe includere l’industria nucleare di Mosca. Gli Stati membri Ue hanno iniziato questa settimana a discutere con la Commissione europea del prossimo pacchetto di misure restrittive contro la Russia, l’undicesimo in tutto da quando è iniziata la guerra di aggressione ai danni dell’Ucraina il 24 febbraio dell’anno scorso.
    A quanto si apprende da fonti diplomatiche, oggi inizieranno i colloqui tra l’esecutivo europeo e gli ambasciatori dell’Ue sul contenuto del pacchetto (attraverso i cosiddetti ‘confessionali’ tra la Commissione e gruppi di ambasciatori), con l’idea di raccogliere umori e considerazioni da parte dei governi nell’ottica di arrivare a presentare una proposta concreta nelle prossime settimane. Una proposta, spiegano ancora le fonti, che non si aspetta in tempi rapidi, sicuramente non entro la fine del mese. Il tema aveva trovato i governi europei divisi a febbraio scorso mentre erano alle prese con la preparazione del decimo pacchetto di sanzioni contro la Russia, quando a insistere sulla necessità di colpire l’industria nucleare di Mosca nelle sanzioni era stato in primis il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, che il 9 febbraio era a Bruxelles per prendere parte al Vertice Ue insieme ai leader dei 27. A quel punto i governi erano ancora reticenti all’idea e l’industria dell’atomo non è finita nel pacchetto.
    Kiev ha ribadito che è necessario prendere di mira con più sanzioni non solo l’industria dell’atomo, ma anche nel settore dei diamanti e in quello finanziario, su cui le discussioni vanno avanti da tempo, ma senza fare progressi. Questa volta a insistere sull’inserimento dell’industria nucleare civile è anche la Germania, che sta facendo pressioni insieme alla Polonia, Estonia, Lettonia, Lituania e Irlanda che spingono sullo stesso fronte di Berlino. Altri come l’Ungheria frenano. Il nuovo pacchetto di sanzioni dovrebbe concentrarsi in particolare su come rafforzare misure anti-elusione delle misure restrittive esistenti. Kiev chiede di prendere di mira in particolare Rosatom, il colosso di stato russo, fondato nel 2007, che controlla l’energia nucleare civile e l’arsenale di armi dell’atomo del Paese, oltre che l’attuale gestore della centrale nucleare occupata di Zaporizhzhia, nell’Ucraina orientale. L’Unione europea dipende dalla Russia anche per le importazioni di uranio, una componente essenziale per la produzione di energia nucleare. Secondo le ultime stime disponibili dell’agenzia di approvvigionamento di Euratom (la Comunità europea dell’energia atomica), nel 2020 il 20 per cento dell’uranio naturale importato in Ue arrivava proprio da Mosca, seconda solo al Niger.
    L’agenzia Euratom stima inoltre che il 26 per cento dell’uranio arricchito, usato nel processo di produzione dell’energia nucleare, arrivi dalla Russia, con un calo deciso rispetto all’anno precedente (circa il 25 per cento) ma che ancora testimonia una forte dipendenza tra la Russia e l’Ue nel settore della tecnologia nucleare. Bruxelles importa da Mosca anche reattori nucleari e parti di reattori. Ad oggi, ci sono 18 reattori nucleari nella Ue che fanno affidamento sulle barre di combustibile esagonali in arrivo dalla Russia: due in Bulgaria, sei nella Repubblica Ceca, due in Finlandia, quattro in Ungheria e quattro in Slovacchia. Secondo i dati del think tank Bruegel, Mosca nel 2019 ha esportato beni nucleari per un valore di circa 3 miliardi di dollari (circa 2,7 miliardi di euro), con il 60 per cento delle sue esportazioni di materiale nucleare e tecnologia rappresentato da uranio arricchito e plutonio (utilizzabile anche come combustibile nei reattori) in Germania, Francia, Paesi Bassi e Svezia e gli Stati Uniti. Complessivamente, il think tank di Bruxelles stima che la Russia rappresenta il 33 per cento delle esportazioni mondiali di uranio arricchito usato per i reattori nucleari.

    Sul tavolo anche il nucleare russo. Al via i colloqui tra l’esecutivo europeo e gli ambasciatori dell’Ue sul contenuto del pacchetto (attraverso i cosiddetti ‘confessionali’ tra la Commissione e gruppi di ambasciatori), con l’idea di raccogliere umori e considerazioni da parte dei governi nell’ottica di arrivare a presentare una proposta concreta nelle prossime settimane

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    I curdi del Rojava, gli alleati dimenticati dall’Occidente. Per l’Ue devono essere parte del processo di pacificazione in Siria

    Bruxelles – Guerra in Ucraina, tensioni tra Cina e Taiwan, lo scoppio delle ostilità in Sudan. Nella dichiarazione congiunta diffusa dai ministri degli Esteri dei Paesi del G7 a margine del meeting a Karuizawa, in Giappone, gli attuali sconvolgimenti geopolitici l’hanno fatta da padroni. Ma i capi delle diplomazie dei principali Paesi industrializzati e dell’Unione europea hanno anche voluto ribadire il sostegno al processo di pacificazione in Siria, portato avanti con difficoltà dalle Nazioni Unite e dall’Inviato Speciale, il norvegese Geir Otto Pedersen. Un processo che, “in un modo o nell’altro”, secondo Bruxelles dovrà tenere conto anche dei curdi che abitano nella regione autonoma nel Nord-est del Paese.
    I circa 5 milioni di curdi che dal 2016 hanno auto proclamato l’Amministrazione autonoma del Rojava rischiano infatti di rimanere fuori dai giochi: schiacciati su due fronti, tra il brutale regime di Assad che non ha mai riconosciuto la loro autonomia e la Turchia di Erdogan che negli ultimi mesi ha intensificato i bombardamenti sulla regione, gli eroi della guerra contro l’Isis non hanno ancora conosciuto la pace. I combattenti dell’Unità di Protezione Popolare (Ypg) e le combattenti dell’Unità di Protezione delle Donne (Ypj) lottano ancora per la sopravvivenza di quel sistema confederale rivoluzionario e femminista che rappresenta un unicum in tutto il Medio Oriente.
    Le combattenti delle Ypj, l’Unità di Protezione delle Donne curde (Photo by Delil SOULEIMAN / AFP)
    E anche l’Unione Europea, baluardo di principi democratici e di autodeterminazione dei popoli, sembra essersi dimenticata di loro: per superare il veto posto dalla Turchia all’ingresso di Svezia e e Finlandia nella Nato, la scorsa estate l’Occidente cedeva al ricatto di Erdogan e, in nome di una presunta lotta al terrorismo, sceglieva di voltarsi dall’altra parte mentre Ankara ridava vigore al suo tentativo di eliminare la Confederazione democratica che i curdi hanno costruito al di là del confine.
    La situazione nella regione è drammatica: oltre alle continue tensioni con le forze governative siriane e ai bombardamenti turchi, per la popolazione del Rojava la guerra contro lo Stato Islamico non è mai finita. La maggior parte dei centri di detenzione per i terroristi si trova nel Nord est della Siria, dove sono ancora attive diverse cellule di estremisti islamici. E gli aiuti umanitari che la comunità internazionale ha cercato di mandare nei villaggi curdi a seguito del terribile terremoto del 6 febbraio vengono sistematicamente fermati dalle autorità turche, come denunciato da diverse ong internazionali.
    I Ministri degli Esteri del G7 al meeting a Karuizawa, Giappone (Photo by Yuichi YAMAZAKI / POOL / AFP)
    Al G7 in Giappone, i ministri degli Esteri non hanno parlato del Rojava, ma hanno richiamato ancora una volta quella risoluzione 2254 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, che risale al 2015, in cui si afferma l’impegno “per un processo politico inclusivo, guidato dalla Siria e facilitato dalle Nazione Unite“. Un processo che, ha ricordato il portavoce del Servizio Europeo di Azione Esterna, Peter Stano, possa raggiungere “una soluzione duratura in pieno rispetto dell’unità, dell’integrità territoriale e della sovranità della Siria”. Può convivere l’esperimento democratico curdo con il principio dell’integrità statale? La logica, e il silenzio dell’Occidente che da mesi accompagna le azioni militari siriane contro le città curde, suggerisce di no. Ma per l’Ue “in un modo o nell’altro” i curdi dovranno essere parte del processo di pacificazione nel Paese, perché “sono una componente importante della popolazione siriana e del paesaggio politico”.

    Al meeting del G7 in Giappone, i ministri degli Esteri dei Paesi più industrializzati hanno ribadito la necessità che la comunità internazionale continui a sostenere l’inviato speciale delle Nazioni Unite a Damasco. Per Peter Stano (Seae), la soluzione dovrà rispettare “l’unità, l’integrità territoriale e la sovranità” della Siria

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    L’Ue e i partner internazionali stanno spingendo gli sforzi di mediazione per una tregua agli scontri armati in Sudan

    Bruxelles – Non si fermano gli scontri armati in Sudan, nemmeno dopo l’annuncio di un possibile cessate il fuoco temporaneo in occasione dell’Eid al-Fitr, la festività della religione islamica che segna la fine del Ramadan. Nella capitale Khartum e negli altri centri urbani del Paese anche oggi (21 aprile) si stanno verificando combattimenti tra l’esercito regolare e il gruppo paramilitare Rapid Support Forces (Rsf), inclusi raid aerei sulle abitazioni civili. Dopo quasi una settimana di scontri si contano oltre 350 morti e più di tremila feriti, oltre a quasi ventimila profughi in fuga verso il Ciad.
    Khartum (credits: Afp)
    È per questo motivo che l’Unione Europea, in concerto con i partner internazionali, sta cercando di spingere sugli sforzi di mediazione per raggiungere una tregua in Sudan: “I combattimenti devono terminare per lasciare spazio al dialogo e alla mediazione”, è l’esortazione dell’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, che ha ricordato il ruolo dell’Unione nel sostenere una “una cessazione immediata delle ostilità, che dovrebbe servire come primo passo verso un accordo di cessate il fuoco permanente da negoziare con urgenza”. In questo contesto sono viste positivamente le iniziative collettive regionali e internazionali, “compresi quelli delle Nazioni Unite, dell’Unione Africana, dell’Autorità intergovernativa per lo sviluppo (Igad) e della Lega degli Stati Arabi”, considerate “essenziali” per riportare il Sudan “sulla via della pace e della stabilità” e per rispettare le “aspirazioni della popolazione sudanese a un futuro pacifico, stabile e democratico”.
    Una proposta di tregua era arrivata ieri sera (20 aprile) dal capo delle forze paramilitari, il generale Mohamed Hamdan Dagalo, ma l’esercito regolare guidato dal generale Abdel Fattah al-Burhan non ha risposto, rifiutando ogni dialogo con quelli che vengono considerati i responsabili per l’inizio degli scontri armati. “L’Unione Europea e i suoi Stati membri condannano fermamente i combattimenti in corso”, ha ricordato l’alto rappresentante Borrell, scagliandosi contro atti che mettono a rischio sia “gli sforzi per ripristinare la transizione verso un governo democratico a guida civile”, sia la “stabilità regionale”. Oltre alle vittime civili, Bruxelles condanna le violazioni del diritto internazionale: il riferimento è all’attacco all’ambasciatore Ue in Sudan, Aidan O’Hara, presso la sua residenza e al clima di insicurezza generale per volontari e operatori di organizzazioni non governati e di agenzie Onu nel Paese. “C’è bisogno di un’azione forte dell’Europa perché si fermi la violenza“, ha esortato dall’emiciclo del Parlamento Europeo il capo-delegazione del Pd, Brando Benifei.
    Cosa sta succedendo in Sudan
    L’esplosione delle violenze nella capitale Khartum e nel resto del Paese è iniziato lo scorso 15 aprile. A fronteggiarsi sono l’esercito regolare del Sudan, comandato dal generale al-Burhan (dal 2021 anche presidente del Paese), e le forze paramilitari da 100 mila membri guidate dal generale Dagalo (vicepresidente del Sudan). L’esercito regolare ha il controllo dell’aviazione e sta bombardando le basi Rsf, che a loro volta sta facendo largo uso di artiglieria nei centri abitati.
    Da sinistra: il generale Abdel Fattah al-Burhan, presidente del Sudan, e il generale Mohamed Hamdan Dagalo, vicepresidente del Sudan (credits: Afp)
    Due anni fa, nell’ottobre del 2021, i generali al-Burhan e Dagalo avevano unito le forze per rovesciare il breve governo democraticamente eletto di Abdalla Hamdok e instaurare una dittatura militare. Lo stesso al-Burhan è stato in precedenza a capo del Consiglio sovrano del Sudan, l’organo che nel 2019 aveva preso il posto del Consiglio militare di transizione dopo la deposizione del dittatore Omar al-Bashir (in carica dal 1993). I due generali avevano promesso di continuare la transizione democratica fino alle elezioni previste per il 2023, governando attraverso il Consiglio Sovrano. L’alleanza è durata fino a dicembre del 2022, quando le pressioni internazionali hanno spinto la giunta militare a restituire il potere a un’amministrazione civile e sciogliere le Rsf per integrarle all’interno dell’esercito regolare. Dagalo si è opposto e gli scontri prima politici si sono trasformati da qualche giorno in violenti combattimenti armati.
    Le Rsf sono la derivazione diretta dei Janjawid, i miliziani di etnia araba che nel corso della guerra del Darfur (iniziata nel 2003) furono accusati di genocidio: in quel momento Dagalo era a capo dei Janjawid ed è stato accusato di crimini contro l’umanità. Anche i vertici dell’esercito regolare, di cui al-Burhan è principale esponente, furono accusati di genocidio nel Darfur. Dopo la guerra le Rsf si trasformarono autonomamente in un esercito di frontiera, senza perdere potere militare e allacciando i rapporti con il gruppo mercenario russo Wagner.

    L’alto rappresentante Ue, Josep Borrell, spinge per la “cessazione immediata delle ostilità” tra l’esercito regolare e il gruppo paramilitare Rapid Support Forces, che costituirebbe “il primo passo verso un accordo di cessate il fuoco permanente da negoziare con urgenza”

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    L’Ucraina nuovo membro del Meccanismo di protezione civile dell’Ue. Altri 55 milioni di euro in fondi umanitari

    Bruxelles – Dopo oltre un anno di assistenza convogliata attraverso il Meccanismo di protezione civile dell’Ue, l’Ucraina è diventata oggi (20 aprile) ufficialmente uno Stato partecipante del quadro di solidarietà europeo che aiuta i Paesi colpiti da una catastrofe. A sancire l’ingresso di Kiev come 36esimo membro del Meccanismo è stato il commissario per la Gestione delle crisi, Janez Lenarčič, in visita nella capitale ucraina proprio per firmare l’accordo che concede all’Ucraina la piena adesione. “Lavoriamo per un obiettivo comune, aiutare le persone in difficoltà ovunque si trovino, perché insieme siamo più forti”, è stato il messaggio indirizzato dal membro del gabinetto von der Leyen al governo ucraino al momento della firma.
    Dall’inizio dell’invasione russa del Paese il 24 febbraio dello scorso anno, l’Unione ha convogliato attraverso il Meccanismo di protezione civile dell’Ue oltre 88 mila tonnellate di attrezzature salvavita, cibo e medicinali, mentre sono saliti a oltre mille i generatori di energia mobilitati dalle riserve energetiche strategiche di RescEu. In qualità di membro a pieno titolo, da oggi anche l’Ucraina potrà inviare aiuti nel momento in cui un altro Paese si trova in crisi. Parallelamente alla firma per l’adesione al Meccanismo di protezione civile dell’Ue, l’Ucraina ha ricevuto da Bruxelles altri 55 milioni di euro in fondi umanitari – facendo salire il totale a 200 milioni dall’inizio del 2023 – con l’obiettivo di iniziare la preparazione del prossimo inverno, con o senza guerra in corso nel Paese.

    Cos’è il Meccanismo di Protezione Civile dell’Ue
    Istituito nel 2001 dalla Commissione, il Meccanismo di protezione civile dell’Ue è il mezzo attraverso cui i 27 Paesi membri e altri 9 Stati partecipanti (Albania, Bosnia ed Erzegovina, Islanda, Macedonia del Nord, Montenegro, Norvegia, Serbia, Turchia e Ucraina) possono rafforzare la cooperazione per la prevenzione, la preparazione e la risposta ai disastri, in particolare quelli naturali. Una o più autorità nazionali possono richiedere l’attivazione del Meccanismo quando un’emergenza supera le capacità di risposta dei singoli Paesi colpiti: la Commissione coordina la risposta di solidarietà degli altri partecipanti con un unico punto di contatto, contribuendo almeno a tre quarti dei costi operativi degli interventi di ricerca e soccorso e di lotta agli incendi. In questo modo vengono messe in comune le migliori competenze delle squadre di soccorritori e si evita la duplicazione degli sforzi. In 21 anni di attività, il Meccanismo di protezione civile dell’Ue ha risposto a oltre 600 richieste di assistenza all’interno e all’esterno del territorio dell’Unione.
    Il Meccanismo comprende un pool europeo di protezione civile, formato da risorse pre-impegnate dagli Stati aderenti, che possono essere dispiegate immediatamente all’occorrenza. Il centro di coordinamento della risposta alle emergenze è il cuore operativo ed è attivo tutti i giorni 24 ore su 24. A questo si aggiunge la riserva rescEu, una flotta di aerei ed elicotteri antincendio (oltre a ospedali da campo e stock di articoli medici per le emergenze sanitarie) per potenziare le componenti della gestione del rischio di catastrofi: nel corso di quest’estate la Commissione ha finanziato anche il mantenimento di una flotta antincendio rescEu aggiuntiva in stand-by, messa a disposizione da Italia, Croazia, Francia, Grecia, Spagna e Svezia. A Bruxelles si sta sviluppando anche una riserva per rispondere a incidenti chimici, biologici, radiologici e nucleari.

    Con la firma del documento a Kiev alla presenza del commissario per la Gestione delle crisi, Janez Lenarčič, il Paese invaso dalla Russia diventa il 36esimo Stato partecipante del sistema di gestione del rischio di catastrofi dei 27 membri dell’Unione (più altri 9 partner)

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    L’Ue in aiuto alla Tunisia, la Commissione lavora a un “sostanzioso pacchetto” di assistenza macro-finanziaria

    Bruxelles – L’Unione europea rompe gli indugi ed è pronta ad accorrere in sostegno alla Tunisia. Chiudendo un occhio sull’inasprimento della repressione del dissenso da parte del presidente Kais Saied, e mettendo temporaneamente da parte anche la condizione che finora era stata posta a qualsiasi operazione di assistenza finanziaria Ue: lo sblocco dell’accordo trovato a ottobre 2022 tra Tunisi e il Fondo Monetario Internazionale per un programma di aiuti da quasi 2 miliardi di euro.
    Da un lato un “sostanzioso pacchetto di assistenza macro-finanziaria in attesa di un accordo con il Fmi”, dall’altro “un ulteriore sostegno al bilancio per la Tunisia, a integrazione dei programmi esistenti”. È quanto sarebbe previsto, secondo fonti diplomatiche, in un documento informale che la Commissione europea ha fatto circolare tra i 27 Paesi Ue, redatto in vista del Consiglio Affari Esteri di lunedì 24 aprile. Il pacchetto delineato dall’esecutivo comunitario sarebbe “complementare all’accordo tra la Tunisia e il Fmi, per il quale l’Ue e gli altri donatori internazionali continuano a sollecitare la leadership tunisina per la sua rapida finalizzazione”.
    Il presidente della Repubblica tunisina, Kais Saied (Photo by FETHI BELAID / AFP)
    Accordo che sembra però sempre più lontano, quanto meno con Saied alla guida del Paese: solo pochi giorni fa il presidente ha definito “inaccettabili i dettami imposti dall’esterno”, e ha dichiarato che la Tunisia può fare a meno del maxi-prestito internazionale e “contare su se stessa”. D’altra parte però, diversi membri del suo stesso governo hanno affermato più volte che non c’è alternativa all’accordo, tant’è che una delegazione tunisina ha partecipato agli incontri del Fmi e della Banca mondiale a Washington dal 10 al 16 aprile per rilanciare le trattative sull’assistenza finanziaria.
    L’Italia e l’emergenza sbarchi dalla Tunisia
    Roma è più che uno spettatore interessato: è il governo italiano che ha portato con forza la questione tunisina a Bruxelles, e solo una settimana fa il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, dopo un incontro alla Farnesina con l’omologo tunisino, ha confermato che l’Italia è “favorevole a sostegni di tipo economico per favorire la crescita di questo Paese così importante” e che il governo “farà la sua parte anche nei confronti del Fmi“.
    Come ha ribadito il commissario Ue per il Bilancio, Johannes Hahn, nel corso del dibattito al Parlamento europeo di Strasburgo sulla necessità di salvare vite in mare nel Mediterraneo centrale, “per supportare l’Italia dobbiamo rafforzare le relazioni con la Tunisia”. Per far fronte all’impennata di arrivi a Lampedusa e sulle coste siciliane – oltre 30 mila dall’inizio dell’anno– non è sufficiente scongiurare il collasso politico-economico del Paese nordafricano, ma per l’Ue è necessario intensificare la cooperazione sul fronte migratorio.
    A fine mese la commissaria per gli Affari Interni, Ylva Johansson, si recherà in Tunisia per lanciare un “partenariato operativo contro il traffico di esseri umani”. Gli obiettivi, sottolineati da Hahn e elencati nel non-paper della Commissione, sono “prevenire le partenze e le perdite di vite umane e aumentare i rimpatri”. Ma anche “fornire alternative credibili ai viaggi mortali”, rafforzando l’offerta per percorsi di migrazione regolare attraverso una Partnership per i Talenti. A conferma del ruolo che vuole giocare il governo Meloni nella vicenda, la commissaria  dovrebbe essere accompagnata dai ministri degli Interni di Italia e Francia, Matteo Piantedosi e Gérald Darmanin. La missione congiunta italo-francese sarebbe in via di definizione: “Si sta discutendo su come costruirla”, confermano fonti diplomatiche.

    La misura, proposta in un non-paper circolato tra i 27 in vista del Consiglio Affari Esteri di lunedì 24 aprile, sarebbe “complementare e in attesa” dell’accordo tra il presidente Saied e il Fondo Monetario Internazionale. A fine mese Johansson in Tunisia per lanciare il partenariato operativo anti-trafficanti