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    Il Pd e il nodo dei rientri. D'Alema si chiama fuori

    Il ritorno di Articolo 1 nel Partito Democratico è ormai cosa fatta. La Direzione nazionale della forza politica guidata da Roberto Speranza approva la relazione in cui si guarda con favore alla fase 2 del Nazareno esprimendo “una valutazione positiva sui contenuti del Manifesto per il Nuovo Pd” presentato all’Assemblea di sabato. E si sottolinea come in questo modo si pongano “le basi per la costruzione di una seria alternativa alla destra” in Italia. Gli “iscritti e le iscritte di Art.1” sono pertanto invitati “a partecipare attivamente alla fase congressuale, già dal voto nei circoli, sottoscrivendo entro il 31 gennaio l’impegno ad aderire al Nuovo Pd nel 2023, come previsto dal Regolamento congressuale approvato”.
        Nonostante le relazioni e le note ufficiali, la ricomposizione tra il Partito Democratico e i ‘cugini’ di Art.1 non si presenta come un passaggio facile. Almeno a giudicare dai commenti di esponenti Dem, come Enrico Borghi, che non vuol sentir parlare di cambio di nome per “giustificare” il ritorno degli scissionisti. “La tesi secondo la quale il Pd dovrebbe sciogliersi o cambiare nome per consentire ad Art.1 di rientrare nel Pd è come se il Portorico ponesse come condizione per entrare negli Usa che questi cambiassero nome”, ironizza il parlamentare che rievoca precedenti storici come quello del Pdup “che rientrò nel Pci senza però pretendere abiure”.
        A parte il cambio o meno del nome, sul quale continuano a infuriare polemiche e lazzi sui social anche per l’acronimo che ne deriverebbe (Pdl come l’ex partito di centrodestra o Padel come il gioco che impazza tra giovani e meno giovani) sono i veti posti su alcuni personaggi di primo piano come Massimo D’Alema che avvelenano ancora di più il clima. Come dimostra la precisazione che i due partiti sono costretti a fare: “Nella costruzione del percorso costituente che ha portato all’ approvazione del Manifesto del Nuovo Pd mai tra Enrico Letta e Roberto Speranza si è fatto riferimento a singole personalità e tanto meno a Massimo D’Alema”. Il diretto interessato sorride e non cede alle provocazioni: “Sono in pensione da 7 anni, non partecipo al dibattito”, risponde a chi gli chiede di replicare.
        E’ difficile tentare di cancellare la storia senza che si lascino strascichi a complicare una riappacificazione amara, ma “politicamente necessaria”. Tanto “necessaria” che il candidato Stefano Bonaccini si è trovato obbligato a rimarcare: “Mi interessa poco che rientrino dirigenti ed ex dirigenti, a me interessa recuperare quei 7 milioni di elettori che abbiamo perso per strada”. Mentre l’altra candidata, Elly Schlein, non esista a parlare di “ricongiungimento familiare”. Guarda invece con favore al cambio del nome Andrea Orlando che, oltre a confermare “consonanza” con la Schlein, dice che “ricostruire il partito con nome, programma e simboli, è una scommessa che vale la pena fare”. Intanto, prosegue la corsa dei 4 per la segreteria. Bonaccini, Schlein, Gianni Cuperlo e Paola De Micheli, dopo il confronto in tv da Lucia Annunziata, saranno in giro per l’Italia e si vedranno con le donne del partito al Nazareno per raccontarsi e fare il punto sui programmi. 

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    Scandalo sulle tasse a Londra, trema il ministro Zahawi

    E’ sempre più in bilico Nadhim Zahawi, ministro senza portafoglio del governo britannico di Rishi Sunak e presidente del partito conservatore, finito al centro di un grave scandalo che può segnare la fine della sua carriera politica e avere ricadute sull’intera compagine Tory.
    L’esponente di spicco della maggioranza è infatti protagonista di una controversia fiscale multimilionaria, risoltasi con un concordato col fisco di sua maestà e il pagamento da parte di Zahawi di una sanzione proprio mentre ricopriva l’incarico di cancelliere dello Scacchiere sotto un dimissionario Boris Johnson. Le sue scuse – ha parlato di un “errore incauto ma non intenzionale” riferendosi alle tasse non pagate correttamente – non gli hanno risparmiato l’avvio di una inchiesta, ordinata proprio da Sunak, in un certo imbarazzo per un caso che può intaccare la promessa di trasparenza e professionalità fatta al suo insediamento a Downing Street dopo due esecutivi Tory segnati da scandali e polemiche.I
    Il primo ministro si è rivolto a Sir Laurie Magnus, consigliere indipendente incaricato di sorvegliare il rispetto dei codici etici da parte dei membri del governo, per far luce sullo scandalo. In base all’esito “decideremo i prossimi passi appropriati”, ha affermato il premier. E ha aggiunto: “L’integrità e la responsabilità sono molto importanti per me e chiaramente in questo caso ci sono domande a cui bisogna rispondere”. Parole che non fanno presagire nulla di buono per Zahawi, anche perchè della gestione di questo caso spinoso ne risentirà lo stesso esecutivo.
    Secondo la Bbc, la controversia sulle tasse è stata risolta tra luglio e settembre dello scorso anno, nel periodo in cui Zahawi era titolare del ministero delle Finanze, da cui dipende il fisco, e l’importo totale pagato alle casse dello Stato dal membro del governo sarebbe di circa 5 milioni di sterline.
    Il leader laburista Sir Keir Starmer rivolgendosi a Sunak ha chiesto di “mostrare un po’ di leadership” e di silurare Zahawi, oltre a fare chiarezza sull’intera vicenda. Dal canto suo, il premier assicura di averlo scelto come ministro lo scorso ottobre dopo che non erano emersi particolari impedimenti sul suo conto. Poco conta però rispetto all’impatto di uno scandalo del genere che avviene mentre i britannici sono alle prese con una grave crisi del caro vita e c’è nel Paese un diffuso malcontento sociale.
    Lo stesso Sunak, noto per l’ingente ricchezza di famiglia, era stato l’anno scorso al centro di una polemica in materia fiscale riguardante la moglie, l’ereditera e businesswoman Akshata Murty, figlia di uno dei maggiori industriali e miliardari d’India, che per un certo periodo aveva goduto (legalmente) di uno scudo contro il pagamento delle tasse nel Regno Unito sui redditi milionari accumulati all’estero.
    Intanto un’altra bufera cresce sul partito di maggioranza e in questo caso riguarda Johnson, che difficilmente esce dal radar dei media. Viene accusato di conflitto di interessi nella nomina avvenuta all’inizio del 2021, quando era premier, del presidente della Bbc, Richard Sharp. Poco prima di ricevere l’incarico, Sharp, ex banchiere e munifico donatore dei Tory, avrebbe aiutato l’allora primo ministro nell’ottenere una linea di credito da 800 mila sterline mettendolo in contatto con un “vecchio amico”, l’uomo d’affari canadese Sam Blyth, tra l’altro un lontano cugino di BoJo. Anche questa vicenda ha avuto ricadute sul governo, che ha avviato una inchiesta sulla nomina di Sharp, mentre lo stesso ‘chairman’ dell’emittente pubblica ha chiesto alla Bbc una revisione interna negando ogni accusa contro di lui.   

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    Tajani: Ora la riforma della giustizia Non è un attacco ai magistrati

    Riformare la giustizia non significa attaccare i magistrati, il centrodestra ad esempio è sempre stato a favore della separazione delle carriere perché accusa e difesa siano messe sullo stesso piano. Lo ha dichiarato il ministro degli Esteri Antonio Tajani a margine del consiglio Affari Esteri a Bruxelles. Tajani ha poi ribadito che le intercettazioni sono assolutamente utili, come dimostra l’arresto di Matteo Messina Denaro, ma che altra cosa è leggere sui giornali di “love story” o fatti privati che nulla hanno a che fare con fatti penali. 

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    Giovedì l'ok del Parlamento all'invio di armi in Ucraina

    Dovrebbe ricevere il via libera definitivo da Montecitorio entro giovedì il decreto legge che prolunga per tutto il 2023 l’autorizzazione al governo ad inviare armi all’Ucraina, un provvedimento già approvato dal Senato e la cui discussione ha avviato i lavori di questa settimana alla Camera. Si tratta di un passaggio che dovrebbe confermare quanto avvenuto a Palazzo Madama e in Commissione, vale a dire la compattezza della maggioranza sul sì al provvedimento, anche se la Lega solleva dubbi sull’efficacia delle sanzioni alla Russia. C’è una nuova differenziazione nelle opposizioni: Pd e Terzo Polo sono a sostegno dell’appoggio militare a Kiev, mentre M5s e Avs sono contrari all’invio di armi, tra le quali – ha confermato il ministro Antonio Tajani – dovrebbero esserci i nuovi missili terra-aria di costruzione franco-italiana.
    M5s e Nicola Fratoianni hanno presentato due emendamenti, bocciati nelle Commissioni, che chiedevano per ciascun invio di armi l’autorizzazione del Parlamento. Una dialettica accesa si registra nel centrodestra ma non si traduce in una divisione nel voto: la Lega contesta l’efficacia delle sanzioni contro la Russia attraverso le parole di Simone Billi a Montecitorio e di Massimiliano Romeo in Senato. Il problema è nel campo delle opposizioni. A fronte del convinto sì dei due candidati alla segreteria del Pd Stefano Bonaccini ed Elly Schlein al sostegno militare a Kiev, si contrappone un nuovo “no” di Giuseppe Conte che però, come al Senato non dovrebbe fare ostruzionismo.
    In un’intervista al Corriere della Sera il ministro Tajani ha spiegato che nel “sesto pacchetto” dovrebbero esserci i missili terra-aria Samp-T, di fabbricazione italo-francese, essenziali per la difesa aerea dell’Ucraina per abbattere i missili russi e i droni forniti dall’Iran ma anche “altre azioni a cui lavoriamo riservatamente”.
    L’Italia “sostiene ogni pista possibile per arrivare a una pace giusta, che significa l’indipendenza e l’integrità territoriale dell’Ucraina”, ha sottolineato osservando che se è vero che “il conflitto deve finire al più presto, allora per i Paesi alleati dell’Ucraina deve essere ben chiaro che dobbiamo fare tutto il possibile per aiutare questa nazione nella sua battaglia per l’indipendenza”.

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    È guerra diplomatica tra la Russia e i Baltici

    Il gruppo dei Paesi baltici, insieme con la Polonia, si conferma come il fronte in prima linea nello scontro con la Russia. Mosca ha espulso l’ambasciatore dell’Estonia, accusandola di portare avanti una politica di “totale russofobia”. E all’inevitabile risposta uguale e contraria di Tallinn si è aggiunta quella della Lettonia, che ha anch’essa ordinato all’ambasciatore russo di lasciare il Paese.
    La Lituania, invece, aveva espulso l’ambasciatore di Mosca già nell’aprile dell’anno scorso, dopo le accuse rivolte dall’Ucraina alle forze russe per il massacro di civili a Bucha.
    “Il regime estone ha avuto quello che meritava”, ha scritto sul suo canale Telegram la portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova, commentando la decisione di espellere l’ambasciatore di Tallinn, che ha provocato la reazione estone e lettone. Il capo missione dell’Estonia a Mosca, Margus Laidre, dovrà lasciare la Russia entro il 7 febbraio. Entro la stessa data il suo omologo russo a Tallinn dovrà andarsene dall’Estonia.
    Le relazioni diplomatiche tra i due Paesi saranno abbassate al livello di incaricati d’affari. La data limite scelta dalla Lettonia per la partenza dell’ambasciatore russo è invece il 24 febbraio, primo anniversario dell’inizio di quella che Mosca chiama l’operazione militare speciale in Ucraina. Ma che il governo di Riga ha definito “una brutale aggressione”, spiegando di avere ridotto le relazioni diplomatiche al livello di plenipotenziario in solidarietà con l’Estonia.
    Nell’annunciare l’espulsione dell’ambasciatore estone, il ministero degli Esteri russo ha accusato il governo di Tallinn di aver “elevato la russofobia al rango di politica statale”.
    L’ultimo episodio denunciato da Mosca è la decisione dell’Estonia di ridurre la presenza diplomatica russa nel Paese a 8 funzionari e 15 impiegati, motivata dalla necessità di pareggiare la presenza dei propri rappresentanti in Russia.
    Ma fin dall’inizio del conflitto in Ucraina i tre Paesi baltici, occupati militarmente dall’Unione Sovietica nel 1940 e fino al 1991 territori dell’Urss, sono stati tra i più decisi nel reclamare una linea dura dell’Occidente contro Mosca.
    Lituania, Estonia e Lettonia chiedono tra l’altro con insistenza alla Germania di permettere la fornitura dei suoi carri armati Leopard all’Ucraina. E Tallinn ha appena annunciato che cederà a Kiev tutti gli obici da 155 millimetri in dotazione alle sue forze armate.
    Nell’aprile dell’anno scorso i presidenti di Lituania, Estonia e Lettonia e quello della Polonia si erano recati insieme a Kiev per incontrare il loro omologo ucraino Volodymyr Zelensky. Quello stesso mese la Russia e i tre Paesi baltici avevano disposto le chiusure reciproche di alcuni consolati, mentre il presidente lituano Gitanas Nauseda lanciava l’allarme per un “possibile” attacco di Mosca al suo Paese.   

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    Elezioni: le amministrative nel Lazio e in Lombardia, i numeri e le regole

    Oltre dodici milioni di elettori alle urne, una miriade di candidati per conquistare 131 seggi nei Consigli ma soprattutto le poltrone di governatore di due delle Regioni più importanti d’Italia, il Lazio e la Lombardia. Le urne per rinnovare le due amministrazioni saranno aperte domenica 12 febbraio dalle 7 alle 23 e lunedì 13 dalle 7 alle 15.
    L’ultima tornata elettorale per Lazio e Lombardia risale al 4 marzo del 2018. In quella occasione – i dati provengono dal portale del Viminale – nel Lazio su 4.780.090 elettori andarono a votare 3.181.235 persone, con una affluenza finale pari al 66,55%; Nicola Zingaretti (centrosinistra) vinse con il 32,93% e 1.018.736 voti. In Lombardia invece su 7.882.633 elettori andarono al voto in 5.762.459, con un’affluenza del 73,10% e Attilio Fontana (centrodestra) prevalse con il 49,75% e 2.793.369 voti.
    Candidature e liste collegate sono state consegnate agli uffici elettorali nelle Corti d’Appello e nei Tribunali dalle 8 di venerdì 13 gennaio fino alle 12 di sabato 14, cioè nel trentesimo e ventinovesimo giorno antecedenti alla votazione, così come previsto dalla legge nazionale.
    Le due Regioni hanno poi le loro leggi elettorali regionali, ma in entrambi i casi viene eletto presidente della Regione “il candidato che ha conseguito il maggior numero di voti validi in ambito regionale”, senza ballottaggio.
    Per il Lazio, dove si sfideranno Alessio D’Amato (centrosinistra e Terzo Polo), Francesco Rocca (centrodestra), Donatella Bianchi (M5s e altre liste di sinistra), Rosa Rinaldi (Unione popolare), Sonia Pecorilli (Partito Comunista Italiano), Fabrizio Pignalberi (Quarto Polo-Insieme per il Lazio), la legge regionale è la 2 del 2005, modificata nel 2017. Il Consiglio regionale del Lazio è composto da 50 consiglieri più il presidente della Regione. Quattro quinti, cioè 40 consiglieri, vengono eletti col metodo proporzionale sulla base di liste concorrenti presentate a livello circoscrizionale (le cinque province: Roma, Frosinone, Latina, Rieti, Viterbo); il restante quinto (10 seggi) che vale non è più assegnato ‘automaticamente’ tramite il cosiddetto listino, abolito nel 2017. Il premio di maggioranza varia in funzione dei seggi che le liste collegate al presidente della Regione eletto hanno ottenuto con metodo proporzionale. Se il gruppo o i gruppi di liste collegati al candidato presidente eletto hanno conseguito, in sede di riparto proporzionale, una percentuale di seggi inferiore al 60% (30 seggi), il premio di maggioranza consiste nell’assegnare, tra i suddetti gruppi di liste, un numero di seggi necessario a raggiungere tale soglia. Tuttavia, il numero massimo di seggi attribuibile con il premio non può superare i dieci seggi, anche nel caso in cui non fosse sufficiente a garantire il raggiungimento del 60% dei seggi. Nel 2017 poi è stata introdotta tra l’altro la parità di genere, attraverso la doppia preferenza e l’obbligo di garantire il limite del 50% ai candidati dello stesso sesso nelle liste circoscrizionali e la garanzia di almeno un consigliere eletto per ogni provincia.

    Agenzia ANSA

    FdI cerca en plein e campo largo diviso alla prova. Lega a caccia di uno spazio, Calenda spariglia e cerca leadership nella coalizione (ANSA)

    In Lombardia la partita è tra l’uscente Attilio Fontana (centrodestra), Pierfrancesco Majorino (centrosinistra e M5s), Letizia Moratti (Terzo Polo), Mara Ghidorzi (Unione Popolare). La legge elettorale è la 17-2012. Il Consiglio regionale, è spiegato dal sito dell’ente, è composto da 80 consiglieri compreso il presidente della Regione. Gli altri 79 consiglieri sono eletti con criterio proporzionale sulla base di liste provinciali concorrenti. Le circoscrizioni provinciali sono quelle esistenti al 1 gennaio 2012 (Bergamo, Brescia, Como, Cremona, Lecco, Lodi, Mantova, Milano, Monza e Brianza, Pavia, Sondrio, Varese). Nel rispetto della parità uomo-donna, le liste provinciali devono essere composte seguendo l’ordine dell’alternanza di genere. Rispetto al premio di maggioranza, alle liste collegate al governatore eletto sono assegnati almeno 44 seggi (cioè il 55% dei seggi) se il presidente ha ottenuto meno del 40% dei voti validi; almeno 48 seggi (cioè il 60% dei seggi) se il presidente ha ottenuto il 40% o più dei voti validi. Alla coalizione vincente non possono però essere attribuiti più di 56 seggi (cioè il 70% dei seggi). 23 seggi sono quindi sempre garantiti alle liste ‘perdenti’, ed è garantito che ciascuna provincia abbia il proprio rappresentante.

    Agenzia ANSA

    Fontana cerca il bis contro Majorino e Moratti. Per Unione Popolare la candidata presidente è Mara Ghidorzi (ANSA)

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    Elezioni: Regionali Lombardia, quattro i candidati alla presidenza

    In totale sono quattro i candidati alla presidenza delle Regione Lombardia che si sfideranno in quest’ultimo mese di campagna elettorale. Attilio Fontana, il governatore in carica, va a caccia di un secondo mandato con il sostegno di tutto il centrodestra. Letizia Moratti, ex vicepresidente di Fontana, dopo aver presentato le sue dimissioni dalla giunta lo scorso novembre, corre con il supporto del Terzo polo e di una lista civica. Il candidato del centrosinistra e del M5s è invece l’europarlamentare del Pd Pierfrancesco Majorino. Completa lo scacchiere Mara Ghidorzi di Unione Popolare, il movimento guidato dall’ex sindaco di Napoli Luigi De Magistris.
    La coalizione di Fontana si compone complessivamente di sei simboli. Accanto a quelli dei principali partiti del centrodestra – Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia – e della sua lista civica, ci sarà anche lo scudo crociato della ex Dc (Unione di centro – Verde è popolare) e quello di ‘Noi Moderati’ che candida come capolista su Milano, Bergamo e Brescia il sottosegretario alla Cultura Vittorio Sgarbi. Scalpita Fdi, che alle regionali del 2018 non andò oltre il 3.6%. Oggi, però, il partito di Giorgia Meloni viaggia a vele spiegate e si è posto come obiettivo quello di raggiungere il 30% in Lombardia, facendo già intendere di voler ‘mettere le mani’ sugli assessorati più pesanti, su tutti quello alla Sanità. La Lega è chiamata invece a migliorare il risultato delle scorse politiche e ha ‘indebolito’ Fi candidando a Milano l’assessore regionale alla Casa Alan Rizzi, ormai ex azzurro. La lista del partito di Silvio Berlusconi è composta dalla deputata Cristina Rossello, dai consiglieri regionali uscenti e da alcune new entry come la sindaca di Assago Lara Carano.
    Anche se non avrà il sostegno del Comitato Nord di Umberto Bossi, nella lista di Moratti figurano comunque molte vecchie conoscenze del centrodestra, come l’ex leghista ed ex presidente del Consiglio regionale Davide Boni. Nella civica non sono presenti i consiglieri espulsi dalla Lega dopo aver formato un nuovo gruppo in Regione, che avevano offerto la propria disponibilità a Moratti una volta incassato il ‘no’ dal centrodestra al loro ingresso in coalizione. La capolista del Terzo polo è la renziana Lisa Noja. Con lei, candidati su Milano, anche l’ex leghista Gianmarco Senna e il consigliere comunale ex Pd Carmine Pacente.
    Nella coalizione di Majorino, oltre al Pd, c’è anche il M5s, l’alleanza VerdiSinistra e Reti Civiche e una lista civica guidata dal direttore dell’Irccs Galeazzi Fabrizio Pregliasco. Tra i dem cercano di rientrare al Pirellone anche i consiglieri regionali Pietro Bussolati, Paola Bocci, Carlo Borghetti e Carmela Rozza, mentre i pentastellati si affidano al capogruppo Nicola Di Marco, al consigliere Gregorio Mammì e a qualche new entry come l’ex candidata sindaca di Melzo Federica Casalino.
    Nelle liste di Ghidorzi, infine, ci sono anche candidati di Rifondazione Comunista, Dema e Potere al Popolo, oltre che di Unione Popolare. L’obiettivo è quello di raccogliere consenso nella Regione “più ricca d’Italia, dove però sono anche più ampie le diseguaglianze in termini di reddito, opportunità e qualità della vita”.

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    Elezioni: Regionali Lazio, la posta in gioco

    Si fa presto a dire che la sfida è sul termovalorizzatore di Roma, se non altro perché a rigore la competenza è del sindaco-commissario e qui, il 12 e 13 febbraio, in palio non c’è il Campidoglio ma la Regione Lazio. E la posta, per tutti i contendenti, è ben più alta di una scelta, pure strategica, su come trattare i rifiuti, o sulle liste d’attesa sanitarie, gli ospedali, il lavoro e il sostegno alle imprese. Sulla scacchiera di via Cristoforo Colombo può giocarsi la conferma o la fine di un ciclo amministrativo decennale in un territorio nevralgico.
    Oppure determinare la mappa delle future strategie del centrosinistra. O consumarsi una frizione tra le forze di maggioranza le cui scosse si sentono fino a Palazzo Chigi. D’altronde romana è Giorgia Meloni, a cui è spettato il compito di indicare da capo di FdI il candidato. Per Meloni vincere in casa – e vincere bene – è più che un dovere. Perdere, come fu con la sfortunata corsa di Enrico Michetti per il Campidoglio, o anche solo vincere col fiatone, sarebbe una macchia per il capo del governo già alle prese col caso accise, in cui molti vedono la fine della luna di miele.
    Nel centrodestra la scelta del nome non è stata agevole, con l’autocandidatura ingombrante di Fabio Rampelli, ex mentore di ‘Giorgia’, velatamente sponsorizzata anche da FI, e con la Lega più propensa invece verso un civico così da non lasciare troppo terreno all’alleata. L’ha spuntata Francesco Rocca, ex capo della Croce Rossa, cuore a destra, esperienza vasta di sanità laziale e consuetudine professionale coi suoi centri di potere. Ma anche più rassicurante, col suo profilo civico, rispetto a un ‘colonnello’ o magari a un ‘capitano’ di partito. E poiché la politica rifugge il vuoto, ecco che a occupare lo spazio a destra è accorsa la Lega di Matteo Salvini e Claudio Durigon. Nella Lega sanno che primo partito di coalizione non potranno essere, per cui puntano almeno a non arrivare terzi e a consolidarsi a Roma e dintorni.
    Ecco dunque che insieme a tanti veterani della politica laziale, spesso saliti sul Carroccio solo negli ultimi anni, spunta nelle liste anche Mauro Antonini, ex leader regionale di Casapound, in passato in effetti visto insieme a Mauro Borghezio. A sinistra il quadro è differente, le geometrie variabili. Non si può intendere il Lazio se non si guarda, a paragone, la Lombardia. Lì, dove governa la Lega, Pd e M5s vanno alle urne a braccetto; nel Lazio governano assieme la Regione, ma si presentano a rinnovarla separati.
    I dem in Regione sono di casa da un decennio, nel segno di Nicola Zingaretti, che per un certo periodo è stato persino, insieme, governatore e segretario nazionale. Oggi, addirittura, il partito è alle prese con le incertezze congressuali. Il candidato di continuità è Alessio D’Amato, l’assessore alla Sanità che sui galloni ha l’uscita dal commissariamento e una campagna anti-Covid di successo. Ma su D’Amato ha messo la fiches subito anche il Terzo Polo di Carlo Calenda, ben radicato a Roma, che ha posto il veto – o loro o me – sui pentastellati.
    E a nulla sono serviti infiniti tentativi di conciliazione, compromesso, offerte di ticket o varie suasion. Il ‘campo largo’ ha fatto crac, e il M5s ha finito per schierare la giornalista Rai Donatella Bianchi, volto di Linea Blu, portandosì con sé tra l’altro parecchi nomi storici della sinistra romana confluiti nel ‘Polo Progressista’. D’Amato ha lasciato intendere che, in caso di sua vittoria, non avrebbe nulla in contrario a portare i grillini in giunta. Ma la legge elettorale è senza ballottaggio, per cui prima bisogna vincere, e divisi è più in salita. E c’è pure il sospetto che la strategia di Conte, in realtà, sia quella di usare il Lazio come laboratorio per verificare quanto consenso il Movimento riesca a erodere al Pd. Ma anche quanti indecisi riesca a ripescare. Una platea che fa gola a entrambi: D’Amato l’ha detto chiaramente: “Vinceremo anche stavolta, e sono profondamente convinto che la differenza la farà la lista Civica con gli incerti, con chi ha disaffezione verso le forze politiche tradizionali”. “Dobbiamo guardare a chi non va a votare, a chi si astiene, ai delusi, agli arrabbiati” gli ha fatto eco Bianchi. Parlando del Lazio, certo. Ma non solo.