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    “Soluzioni africane a problemi africani”: l’Ue segue la linea dell’Ecowas sul Niger e prepara sanzioni per la giunta militare

    Bruxelles – L’Ue è pronta ad “ascoltare qualsiasi richiesta” che provenga dalla Comunità economica degli Stati dell’Africa Occidentale (Ecowas), l’attore che si sta prendendo carico degli sforzi per riportare stabilità nella polveriera africana del Sahel. È questa la linea concordata dai 27 ministri degli Esteri dell’Unione, riuniti a Toledo per il vertice informale di fine agosto, assieme al Presidente dell’Ecowas, Omar Alieu Touray e al ministro degli Esteri del governo rovesciato solo un mese fa in Niger, Hassoumi Massaoudou.
    L’Alto rappresentante Ue, Josep Borrell, in conferenza stampa a margine del meeting informale dei Ministri degli Esteri Ue a Toledo, in Spagna
    Per ora, per ristabilire l’ordine costituzionale a Niamey l’Ecowas ha intrapreso la strada del dialogo politico e delle sanzioni economiche. E l’Alto rappresentante Ue per gli Affari Esteri, Josep Borrell, ha confermato “il pieno sostegno agli sforzi dell’Ecowas per mettere il massimo di pressione sulla giunta militare” che dallo scorso 26 luglio tiene imprigionato il presidente democraticamente eletto, Mohamed Bazoum, e governa il Paese. La prima mossa di Bruxelles è la sospensione di tutti i programmi di supporto finanziario e di cooperazione in materia di difesa e sicurezza con il Niger. Fatto salvo per gli aiuti umanitari alla popolazione nigerina.
    La seconda e più incisiva mossa sarà un regime di sanzioni individuali contro il Consiglio nazionale per la Salvaguardia del Paese, il gruppo di militari protagonisti del putsch. “Abbiamo deciso di iniziare il processo per costruire un quadro di sanzioni seguendo strettamente quelle emanate dall’Ecowas”, ha annunciato Borrell. L’istituzione dei Paesi dell’Africa Occidentale avrebbe poi illustrato ai ministri Ue la situazione sul campo e le proprie riflessioni sulla possibilità di un intervento militare. Che, almeno parzialmente, potrebbe essere sostenuto attraverso l’European Peace Facility, lo strumento finanziario Ue per la risoluzione di conflitti.
    Cittadini nigerini manifestano contro l’ex potenza coloniale francese (Photo by AFP)
    “È evidente che privilegiamo soluzioni diplomatiche, nessuno desidera azioni militari. È questo che sta facendo l’Ecowas”, ha chiarito il capo della diplomazia europea, sottolineando però che “non sappiamo cosa succederà dopo, perché è l’Ecowas a decidere”. Sull’ipotesi di sostegno ad un intervento armato le posizioni tra i 27 sono distanti: se la Francia, l’ex potenza coloniale contro cui si si è scatenata la rabbia dei nigerini che appoggiano la giunta militare – è arrivata nel pomeriggio la notizia dell’espulsione dell’ambasciatore di Parigi da parte dei golpisti-, si è mostrata più possibilista, per il ministro degli Esteri italiano Antonio Tajani “la soluzione militare in Niger sarebbe un disastro”.
    La crisi del Sahel è endemica, ma sul golpe in Gabon l’Ue rimane prudente
    L’ondata di colpi di stato militari che ha investito il Sahel negli ultimi due anni, dal Mali alla Guinea al Burkina Faso e ora il Niger, rischia di propagarsi anche più a sud, verso il Golfo di Guinea. “Abbiamo studiato la situazione nel Golfo di Guinea, che diventa sempre più cruciale e dove la minaccia del terrorismo jihadista sta crescendo”, ha dichiarato l’Alto rappresentante.
    Cittadini del Gabon festeggiano il colpo di Stato contro il governo del presidente Ali Bongo (Photo by AFP)
    Ieri l‘esercito del Gabon ha deposto il presidente Ali Bongo Ondimba, al potere dal 2009 e fresco della terza rielezione in un appuntamento elettorale che agli occhi della comunità internazionale è parso quanto meno dubbioso. Per ora Borrell ha voluto tracciare una linea tra Niamey e Libreville, sottolineando “la differenza tra la situazione in Niger e in Gabon“. Da un lato Bazoum, “l’unica autorità democraticamente eletta in tutta la regione”, dall’altro Bongo e un processo elettorale su cui l’Ue “condivide serie preoccupazioni”. Nonostante il contesto profondamente differente, l’Ue “respinge qualsiasi presa di potere con la forza in Gabon e invita tutti gli attori alla moderazione”, ha dichiarato Borrell.
    Nel Paese centrafricano si trovano attualmente circa 10 mila cittadini europei, ma “non è prevista alcuna evacuazione“: il capo della diplomazia europea ha assicurato che “la situazione è tranquilla e non c’è alcuna situazione che possa indicare rischio di violenza e pericolo”.

    I ministri degli Esteri dei 27 alle prese con la polveriera del Sahel. L’Alto rappresentante Borrell ammette: “Dobbiamo rivedere le nostre politiche nella regione”, ma sottolinea le differenze tra i colpi di stato in Niger e in Gabon, dove il golpe è frutto di “elezioni che hanno lasciato molto a desiderare”

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    20 miliardi di sostegno militare fino al 2027. Borrell svela il piano per la difesa a lungo termine dell’Ucraina

    Bruxelles – Cinque miliardi di euro all’anno per i prossimi quattro anni per garantire un sostegno continuo alla difesa dell’Ucraina. Dopo averne accennato l’idea a fine luglio, l’alto rappresentante Ue per la politica estera e di sicurezza, Josep Borrell, ha proposto oggi (30 agosto) ai 27 ministri europei della difesa riuniti al Consiglio informale a Toledo, in Spagna, di dare vita a un fondo di assistenza militare all’Ucraina per il periodo 2024-2027.
    Non sarà propriamente un fondo nuovo, ma una sezione incorporata al Fondo europeo per la pace, (European Peace Facility), lo strumento finanziario fuori dal bilancio comunitario isitituito nel 2021 per migliorare la capacità dell’Ue di prevenire i conflitti e di finanziare azioni operative che hanno implicazioni militari o di difesa nell’ambito della politica estera e di sicurezza comune. E per Borrell “dovrebbe essere un elemento centrale del nostro contributo a lungo termine alla sicurezza dell’Ucraina, come hanno concordato i leader europei a giugno”, ha dichiarato nel corso della conferenza stampa conclusiva della riunione dei ministri della Difesa europei a Toledo. Le discussioni, se pure informalmente, proseguiranno domani (31 agosto) sul tavolo dei ventisette ministri riuniti al Consiglio Esteri informale Gymnich, che si riuniranno nella cornice della Fabbrica di Armi di Toledo.
    Il capo della diplomazia europea ha spiegato che i 5 miliardi rappresentano un tetto massimo di spesa. “I ministri hanno discusso di questo argomento, e lo faremo anche domani con i ministri degli Esteri, e spero che si possa raggiungere un accordo il prima possibile, anche entro la fine dell’anno”, ha concluso. Borrell ha parlato di venti miliardi di risorse extra da mobilitare fino al 2027, una cifra frutto di una valutazione dei bisogni e delle necessità per garantire il sostegno dell’Ucraina fatta dalla Commissione europea. La proposta di Borrell fa parte di un più ampio sforzo per porre il sostegno europeo a Kiev su una base a più lungo termine, dopo più di un anno di tentativi per rispondere ai bisogni immediati dell’Ucraina a seguito dell’invasione della Russia.
    L’Unione europea ha da poco raggiunto un accordo politico sull’Asap, il piano Ue per aumentare la consegna di munizioni e missili all’Ucraina e imprimere un cambio di passo sulla capacità di produzione bellica nei 27 Stati membri. Acronimo di ‘Act in support of ammunition production’, il piano prevede di mobilitare in via d’urgenza cinquecento milioni di euro dal bilancio comunitario fino a giugno 2025 per aumentare la capacità dell’industria europea di produrre munizioni, con l’obiettivo di produrre almeno un milione di pezzi all’anno, tra munizioni terra-terra, artiglieria e missili. Ultimo di tre pilastri di un più ampio e complesso ‘Piano per la difesa’ proposto ai Ventisette dal commissario al Mercato interno, Thierry Breton, e dall’alto rappresentante Ue per la politica estera e di sicurezza, Josep Borrell, per rispondere all’emergenza della fornitura di munizioni all’Ucraina, ma anche per costruire una visione di lungo termine per la difesa europea. Oltre all’Asap, il Piano per la difesa comprende un miliardo di euro mobilitato attraverso lo strumento europeo per la pace (strumento fuori bilancio comunitario) per la consegna immediata di munizioni a Kiev attraverso le scorte degli Stati membri e un altro miliardo di euro per gli acquisti congiunti di armi.
    In quanto informale, dalla riunione di domani non si aspettano decisioni sulla proposta di Borrell ma un primo scambio di idee da parte dei ventisette ministri. Non solo la guerra di Russia in Ucraina, ma i ministri degli Esteri si occuperanno della situazione nel Sahel e, in particolare, del Niger, dopo il colpo di stato.

    A Toledo la riunione informale dei ministri della difesa e degli Esteri dei 27, che discuteranno anche della proposta dell’alto rappresentante Josep Borrell di mobilitare risorse extra per cinque miliardi di euro l’anno per i prossimi quattro anni per il sostegno a lungo termine a Kiev

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    Il possibile accordo tra Bruxelles e San Marino-Monaco-Andorra allarma le autorità di regolamentazione Ue

    Bruxelles – La Commissione Europea ha fissato l’obiettivo alla fine del 2023, ma un possibile accordo tra l’Unione e tre microstati europei – Repubblica di San Marino, Principato di Andorra e Principato di Monaco – potrebbe comportare “rischi significativi” su molti livelli. Il fulmine a ciel sereno è arrivato sotto forma di lettera, inviata al gabinetto von der Leyen dai presidenti di tre autorità di regolamentazione Ue, che cercano di frenare la spinta dell’esecutivo comunitario nel cercare di stringere i legami con i tre microstati che si trovano inclusi all’interno dei confini dei Paesi membri.
    Come appreso da Politico, i vertici dell’Autorità bancaria europea (Eba), dell’Autorità europea degli strumenti finanziari e dei mercati (Esma) e dell’Autorità europea delle assicurazioni e delle pensioni aziendali e professionali (Eiopa), hanno avvertito la Commissione che finalizzare Accordi di Associazione con i tre microstati europei potrebbe aprire le porte del Mercato Unico a una destabilizzazione dei servizi finanziari, anche considerato il fatto che “hanno mantenuto storicamente regolamenti meno rigorosi” e per questa ragione si troverebbero in una posizione “più incline al riciclaggio di denaro e ad altre attività illecite”. In altre parole, le aziende potrebbero essere tentate di stabilirsi nei tre microstati europei nel tentativo “deliberato” di beneficiare di standard finanziari più leggeri, con “rischi significativi per i consumatori” derivanti dal libero mercato dell’Union
    Era stato il vicepresidente della Commissione Ue responsabile per le Relazioni interistituzionali, Maroš Šefčovič, a presentare il 30 giugno 2022 una roadmap per arrivare alla firma entro il 2024 degli Accordi di Associazione con la Repubblica di San Marino, il Principato di Andorra e il Principato di Monaco. Per il gabinetto von der Leyen è “una priorità, ambiziosa ma realizzabile“, dal momento in cui la mancata intesa prima della fine della legislatura potrebbe frenare il percorso di avvicinamento dei tre microstati europei all’integrazione con i Ventisette. I negoziati per l’Accordo di Associazione sono iniziati nel marzo del 2015, ma con le conseguenze della guerra russa in Ucraina è stata riconosciuta la necessità di accelerare i tempi. Calendario e considerazioni specifiche sono state definite per ciascuno dei tre microstati, con il rafforzamento dell’integrazione in ciascuna delle libertà del Mercato Unico: libera circolazione di persone, merci, capitali e servizi.
    Lo stato attuale dei microstati europei
    I tre microstati europei in questione hanno degli status diversi. Né San Marino né Andorra sono parte dello spazio Schengen (che prevede la libera circolazione delle persone tra Stati membri Ue e l’abolizione delle frontiere comuni), tuttavia esiste un’unione doganale con l’Unione dal 1991: solo San Marino lo è anche per i prodotti agricoli (dal 2002). Andorra mantiene parte dei suoi controlli al confine, solamente in alcuni valichi di frontiera con la Spagna. Il Principato di Monaco attualmente è in una situazione ibrida, e applica alcune politiche dell’Ue attraverso la relazione speciale che ha con la Francia: è membro di fatto di Schengen, mentre è a pieno titolo parte del territorio doganale dell’Unione.
    Da sinistra: l’alta commissaria per gli Affari europei del Principato di Monaco, Isabelle Costa, il ministro per gli Affari esteri di San Marino, Luca Beccari, il vicepresidente della Commissione Europea per le Relazioni interistituzionali, Maroš Šefčovič, e il segretario di Stato per gli Affari europei di Andorra, Landry Riba Mandicó (4 luglio 2023)
    Per quanto riguarda gli altri microstati europei, il Liechtenstein è l’unico a far parte dello Spazio economico europeo e del Mercato Unico (dal primo maggio del 1995), mentre dal 19 dicembre del 2011 ha firmato gli accordi Schengen. La Città del Vaticano è il più piccolo Stato riconosciuto al mondo e ha solamente il confine aperto con l’Italia. Tutti i microstati europei (fatta eccezione per il Liechtenstein, che usa il franco svizzero) usano come moneta ufficiale l’euro e hanno il diritto di coniarne un numero limitato, perché viene riconosciuto loro l’aver utilizzato o essere stati legati a valute non più in circolazione di alcuni Paesi membri (lira per San Marino e Città del Vaticano, franco francese per Monaco, peseta spagnola e franco francese per Andorra). Da parte di Bruxelles non c’è l’interesse di integrare nessuno dei microstati europei come Paese membro, dal momento in cui sarebbe eccessivamente complesso gestire questioni interne all’Unione (come le presidenze di turno del Consiglio dell’Ue, o il diritto di veto degli Stati membri) per entità territoriali troppo limitate a livello di superficie e popolazione.

    I presidenti dell’Autorità bancaria europea, degli strumenti finanziari e dei mercati, e delle assicurazioni e pensioni, in una lettera alla Commissione hanno avvertito che gli standard meno severi nei tre microstati potrebbero portare “rischi significativi” per consumatori e lotta al riciclaggio

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    La politica pro-russi della Serbia preoccupa l’Ue

    Bruxelles – Slavi, ortodossi, un’affinità culturale che ha prodotto amicizia e legami di lungo corso. Serbia-Russia, la relazione speciale si ripropone in una chiave tutta nuova che inquieta l’Unione europea. Belgrado, attraverso le sue politiche, starebbe attirando cittadini e imprese russi in un modo di cui si chiede conto. Al Paese balcanico, ovviamente, ma alla Commissione, affinché questa faccia pressioni sull’alleato. Ma alleato di chi? Nell’europarlamento i Verdi si pongono questa e altre domande.
    Si ritiene che dall’inizio della guerra in Ucraina siano arrivati in Serbia 219.153 cittadini russi. Di questi, sostengono i greens, “ufficialmente circa 30mila hanno attualmente il permesso approvato per il soggiorno temporaneo in Serbia”. A questo dato si aggiunge l’annuncio del governo serbo per modifiche alla legge sulla cittadinanza, che può essere concessa dopo solo un anno di residenza ininterrotta nel Paese. C’è poi la questione economica. “Il numero di aziende e imprenditori russi in Serbia nei primi quattro mesi del 2023 è cresciuto del 37 per cento rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso”. Risultato: allo stato attuale “in Serbia i russi possiedono o hanno fondato complessivamente 6.976 imprese”.
    Tutto questo pone la questione dell’aggiramento delle sanzioni, ma soprattutto il rispetto di degli obblighi che la Serbia avrebbe nei confronti dell’Ue in quanto Paese candidato all’adesione dal 2012. A Bruxelles l’auspicio è che Belgrado ‘righi dritto’, tenendo fede agli impegni derivanti dalle scelte compiute in materia di avvicinamento all’Ue. Tuttavia, riconosce il commissario per l’Allargamento, Oliver Varhely, “la Commissione ha espresso preoccupazione per il fatto che le modifiche previste alla legge sulla cittadinanza serba potrebbero comportare rischi per la migrazione o la sicurezza per l’Ue, dato che i cittadini serbi godono dell’accesso senza visto all’Unione europea”.
    A livello comunitario si esercitano pressioni sulla Serbia, o almeno ci si prova nei limiti del possibile. Se da una parta la Commissione “ha chiesto alla Serbia di prendere in considerazione le sue preoccupazioni, in particolare garantendo che nelle modifiche alla legge sull’acquisizione della cittadinanza siano introdotte forti garanzie e controlli di sicurezza”, dall’altra parte, continua Varhely, la Commissione e le autorità serbe “restano in stretto contatto su questo argomento”. L’esecutivo comunitario in sostanza monitora, e prova a correre ai ripari.

    La concessione più veloce della cittadinanza richiama cittadini nel Paese. Aumenta anche il numero di imprese russe sul territorio. Il timore per sicurezza e aggiramento delle sanzioni contro Mosca

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    Una data per l’allargamento Ue ai Balcani Occidentali. Michel: “Entrambe le parti devono essere pronte entro il 2030”

    Bruxelles – Ora la data è fissata, anche se la questione davvero complessa sarà convincere gli attuali 27 Paesi membri Ue a navigare tutti nella stessa direzione. “Se vogliamo essere credibili mentre prepariamo la nostra agenda strategica, dobbiamo parlare di tempistiche: credo che dobbiamo essere pronti, da entrambe le parti, ad allargarci entro il 2030“. Parola del presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel. Al Bled Strategic Forum (in Slovenia), la conferenza internazionale annuale che ospita i leader dell’Europa centrale e sudorientale, il numero uno dell’istituzione comunitaria ha messo sul tavolo ciò che fino a due anni fa – prima dello stravolgimento della guerra russa in Ucraina e delle conseguenze geopolitiche che ha scatenato – non si poteva nemmeno nominare, ovvero una data-limite entro cui aver compiuto tutti i passi necessari per l’allargamento Ue ai Balcani Occidentali.
    Al vertice Ue-Balcani Occidentali del 2021 – svoltosi allora per pura coincidenza proprio in Slovenia – non era passata la richiesta di Lubiana di inserire nel testo della dichiarazione il 2030 come “data ultima su cui basare il calendario dei negoziati”, mentre oggi (28 agosto) a Bled proprio il presidente del Consiglio Ue ha fornito un’indicazione temporale precisa che coincide con la fine del decennio. “L’Europa deve mantenere le sue promesse“, iniziate ufficialmente al vertice di Salonicco del 2003. Come ricordato la scorsa settimana alla cena informale di Atene, “la lentezza di questo cammino ha deluso molti, sia nella regione sia nell’Ue” e per Michel “è tempo di sbarazzarsi delle ambiguità e affrontare le sfide con chiarezza e onestà”. Perché i Balcani Occidentali – Albania, Bosnia ed Erzegovina, Kosovo, Macedonia del Nord, Montenegro e Serbia – sono una regione “nel cuore dell’Europa, circondata dall’Ue” e per i Ventisette è arrivato il momento di un cambio di paradigma: “Ci accontentiamo di un’Unione che si limita a gestire le crisi o vogliamo essere un attore globale che plasma il futuro? Vogliamo essere più influenti per dare forma a un mondo migliore”. E questo riguarda anche la sfida dell’allargamento Ue: “Lo dobbiamo fare sia per noi sia per i futuri Stati membri, sì, è così che dovremmo chiamare così i Paesi che hanno confermato la prospettiva europea“.
    Mantenere le promesse significa spingere un processo di allargamento Ue che “non è più un sogno”, considerato quanto accaduto al Consiglio Europeo di giugno 2022: “Abbiamo conferito lo status di candidati all’Ucraina e alla Moldova, lo stesso attende la Georgia quando avrà completato i passi necessari”. Anche se “c’è ancora molto lavoro da fare” per i Sei balcanici la strada è più tracciata, con obiettivi che possono essere fissati a rialzo: “Il prossimo budget pluriennale Ue dovrà includere obiettivi comuni, servirà per spingere le riforme e generare interesse negli investimenti”. Sarà un tema di confronto tra i Ventisette ai prossimi Consigli di ottobre e dicembre, ma anche in occasione del nuovo vertice Ue-Balcani Occidentali che “si terrà a dicembre a Bruxelles e servirà per affiancare il Consiglio Europeo”. A questo punto però si attendono soprattutto proposte concrete su quello che più di un anno fa lo stesso Michel aveva presentato come “un processo più rapido, graduale e reversibile” all’allargamento Ue e che oggi è stato riproposto: “Un’integrazione dei Paesi candidati all’adesione in campi specifici, con vantaggi tangibili una volta che sono rispettate le condizioni di base“. Per esempio, “partecipare allo specifico Consiglio una volta che sono conclusi i negoziati in quel capitolo negoziale”.
    Il presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, al Bled Strategic Forum (28 agosto 2023)
    A fare i “compiti a casa” per raggiungere l’obiettivo 2030 sull’allargamento Ue dovranno essere sia i Paesi dei Balcani Occidentali sia l’Unione Europea. Per i primi sarà necessario continuare sulla strada delle riforme e dello Stato di diritto, ma anche ricordando che “non c’è cooperazione senza riconciliazione, non c’è spazio per i conflitti del passato all’interno dell’Ue“. Un avvertimento colto soprattutto da Serbia e Kosovo, anche considerato come Michel ha continuato il suo discorso: “L’ideale sarebbe un ingresso contemporaneo, ma i futuri Stati membri si trovano in fasi diverse” e per evitare stalli da parte dei primi privati “una soluzione potrebbe essere aggiungere la cosiddetta clausola di fiducia nei Trattati di adesione, per garantire che i Paesi che hanno appena aderito non possano bloccare quelli futuri”. Parallelamente anche i Ventisette devono prepararsi all’allargamento Ue e “non riformarci prima sarebbe uno sbaglio enorme”. Perché non sarà indifferente l’impatto su “politiche, programmi e fondi, il budget dovrà aiutare tutti”, ma anche il processo decisionale “ha mostrato alcune falle”. Ed è qui che rientra superamento del voto all’unanimità, su cui Michel si è tolto qualche sassolino dalla scarpa: “Abolirla completamente significherebbe gettare il bambino con l’acqua sporca, perché l’unità è al centro della forza dell’Ue”. E perciò bisognerà piuttosto ragionare su “come e quando utilizzare” sia la maggioranza qualificata sia “l’astensione costruttiva”.
    Il panel dei leader dei Balcani Occidentali al Bled Strategic Forum (28 agosto 2023)
    Fiduciosi ma cauti i sei leader dei Paesi balcanici, intervenuti in un panel dedicato al Bled Strategic Forum. “Non credo che saremo dentro l’Ue nel 2030, ma se ci saranno passi in avanti sarà ottimo“, è l’augurio del primo ministro dell’Albania, Edi Rama. Per l’omologo montenegrino, Dritan Abazović, “il 2030 è troppo distante, noi sappiamo bene cosa vogliamo”. Il premier macedone, Dimitar Kovačevski, ha invece fatto notare che “c’è frustrazione per i blocchi che arrivano uno dopo l’altro per questioni domestiche” degli Stati membri. La presidente del Consiglio dei ministri della Bosnia ed Erzegovina, Borjana Krišto, ha voluto mettere in chiaro che “nonostante siamo uno Stato complesso a livello di eticità ed entità, speriamo di iniziare quanto prima i negoziati” per l’adesione. Duro scambio di battute tra i premier di Kosovo, Albin Kurti, e Serbia, Ana Brnabić, sulla normalizzazione dei rapporti tra Pristina e Belgrado, anche se il focus singolarmente rimane sull’accesso all’Unione. “Ci sono piccoli passi concreti perché si uniscano alla maggioranza dei Paesi membri”, è il commento del primo sul non-riconoscimento dell’indipendenza di Pristina da parte di Cipro, Grecia, Romania, Spagna e Slovacchia. “C’è molto euroscetticismo in Serbia, perché ormai sono passati 10 anni dall’avvio dei negoziati”, ha commentato la premier Brnabić, sottolineando un elemento spesso poco considerato quando si parla dei Balcani Occidentali: “Noi siamo Paesi europei e siamo al centro del continente, questo non è un allargamento ma un’inclusione“.
    A che punto è l’allargamento Ue
    Sui sei Paesi dei Balcani Occidentali che hanno iniziato il lungo percorso per l’adesione Ue, quattro hanno già iniziato i negoziati di adesione – Albania, Macedonia del Nord, Montenegro e Serbia – uno ha ricevuto lo status di Paese candidato – la Bosnia ed Erzegovina – e l’ultimo ha presentato formalmente richiesta ed è in attesa del responso dei Ventisette – il Kosovo. Per Tirana e Skopje i negoziati sono iniziati nel luglio dello scorso anno, dopo un’attesa rispettivamente di otto e 17 anni, mentre Podgorica e Belgrado si trovano a questo stadio rispettivamente da 11 e nove anni. Dopo sei anni dalla domanda di adesione Ue, il 15 dicembre dello scorso anno anche Sarajevo è diventato un candidato a fare ingresso nell’Unione, mentre Pristina è nella posizione più complicata, dopo la richiesta formale inviata alla fine dello scorso anno: dalla dichiarazione unilaterale di indipendenza da Belgrado nel 2008 cinque Stati membri Ue non lo riconoscono come Stato sovrano e parallelamente sono si sono inaspriti i rapporti con Bruxelles dopo le tensioni diplomatiche con la Serbia di fine maggio.
    I negoziati per l’adesione della Turchia all’Unione Europea sono stati invece avviati nel 2005, ma sono congelati ormai dal 2018 a causa dei dei passi indietro su democrazia, Stato di diritto, diritti fondamentali e indipendenza della magistratura. Nel capitolo sulla Turchia dell’ultimo Pacchetto annuale sull’allargamento presentato nell’ottobre 2022 è stato messo nero su bianco che “non inverte la rotta e continua ad allontanarsi dalle posizioni Ue sullo Stato di diritto, aumentando le tensioni sul rispetto dei confini nel Mediterraneo Orientale”. Al vertice Nato di Vilnius a fine giugno il presidente turco, Recep Tayyip Erdoğan, ha cercato di forzare la mano, minacciando di voler vincolare l’adesione della Svezia all’Alleanza Atlantica solo quando Bruxelles aprirà di nuovo il percorso della Turchia nell’Unione Europea. Il ricatto non è andato a segno, ma il dossier su Ankara è tornato sul tavolo dei 27 ministri degli Esteri Ue del 20 luglio.
    Lo stravolgimento nell’allargamento Ue è iniziato quattro giorni dopo l’aggressione armata russa quando, nel pieno della guerra, l’Ucraina ha fatto richiesta di adesione “immediata” all’Unione, con la domanda firmata il 28 febbraio 2022 dal presidente Zelensky. A dimostrare l’irreversibilità di un processo di avvicinamento a Bruxelles come netta reazione al rischio di vedere cancellata la propria indipendenza da Mosca, tre giorni dopo (3 marzo) anche Georgia e Moldova hanno deciso di intraprendere la stessa strada, su iniziativa rispettivamente del primo ministro georgiano, Irakli Garibashvili, e della presidente moldava Sandu. Il Consiglio Europeo del 23 giugno 2022 ha approvato la linea tracciata dalla Commissione nella sua raccomandazione: Kiev e Chișinău sono diventati il sesto e settimo candidato all’adesione all’Unione, mentre a Tbilisi è stata riconosciuta la prospettiva europea nel processo di allargamento Ue. Dall’inizio dell’anno sono già arrivate le richieste dall’Ucraina e dalla Georgia rispettivamente di iniziare i negoziati di adesione e di diventare Paese candidato “entro la fine del 2023”.

    Al Bled Economic Forum il presidente del Consiglio Europeo ha anticipato i temi di confronto sull’assorbimento dei “futuri Paesi membri” al prossimo vertice con i Sei balcanici in programma a Bruxelles a dicembre: date-limite, ‘clausola di fiducia’ e riforme dell’Unione (unanimità inclusa)

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    L’Ue contro le sanzioni penali per diffamazione in Republika Srpska: “Non in linea con lo status di candidato della Bosnia”

    Bruxelles – Gli avvertimenti delle istituzioni comunitarie non hanno sortito alcun effetto e ora nella Republika Srpska gli emendamenti al Codice Penale che reintroducono sanzioni penali per diffamazione sono entrati in vigore. Ma questo non significa che Bruxelles molli la presa per riportare Banja Luka su un percorso più coerente con lo Stato di diritto: “La legge va contro le aspettative che hanno accompagnato la concessione dello status di candidato all’Ue e contro gli interessi di tutti i cittadini della Bosnia ed Erzegovina, compresi quelli residenti nella Republika Srpska”, è la condanna del portavoce del Servizio europeo per l’azione esterna (Seae), Peter Stano, all’ultima sfida portata dal presidente dell’entità a maggioranza serba del Paese balcanico, Milorad Dodik.
    Il presidente della Republika Srpska, Milorad Dodik (credits: Elvis Barukcic / Afp)
    Secondo l’Ue “queste modifiche legislative impongono restrizioni inutili e sproporzionate ai media indipendenti e alla società civile” e la nuova legge ha “un forte impatto sull’ambiente della società civile”, dal momento in cui “limita la libertà di espressione e dei media nella Repubblica Srpska”. In altre parole, “si tratta di un deplorevole e innegabile passo indietro nella tutela dei diritti fondamentali“, mette in chiaro Stano. Gli emendamenti al Codice Penale in questione erano stati adottati a fine marzo – con 48 voti a favore e 21 contrari all’Assemblea nazionale della Repubblica Srpska – e dopo un periodo di consultazione pubblica di 60 giorni è stato avviato l’iter per l’adozione definitiva. Ora nell’entità a maggioranza serba della Bosnia ed Erzegovina sono previste multe da 5 mila a 20 mila marchi bosniaci (2.550-10.200 euro) se la diffamazione avviene “attraverso la stampa, la radio, la televisione o altri mezzi di informazione pubblica, durante un incontro pubblico o in altro modo”.
    Ignorata la richiesta di Bruxelles di ritirare gli emendamenti, a questo punto “l’Ue si aspetta che tutte le autorità lavorino in modo costruttivo” per affrontare le priorità-chiave delineate dalla Commissione Europea perché venga raccomandata al Consiglio l’apertura dei negoziati di adesione con la Bosnia ed Erzegovina. In particolare la priorità numero 12, secondo cui il Paese candidato all’adesione Ue dal 15 dicembre 2022 deve “garantire la libertà di espressione e dei media e la protezione dei giornalisti“. Il tempo scorre e, con la misura adottata dal più controverso partner dell’Ue, sembra essere sempre più difficile che nel Pacchetto Allargamento 2023 (atteso per ottobre) il gabinetto von der Leyen sblocchi la via per i negoziati di adesione di Sarajevo in vista del Consiglio Europeo di dicembre, quando il dossier sarà analizzato dai 27 leader Ue. Ecco perché l’esortazione da Bruxelles non cambia: “Siamo impegnati a sostenere i media e la società civile in Bosnia ed Erzegovina, in particolare nell’entità della Republika Srpska”, ha ribadito il portavoce del Seae.
    La Republika Srpska tra secessionismo, Russia e sanzioni
    È dall’ottobre del 2021 che Dodik è diventato una spina nel fianco dell’Ue, facendosi promotore di un progetto secessionista in Republika Srpska. L’obiettivo è quello di sottrarsi dal controllo dello Stato centrale in settori fondamentali come l’esercito, il sistema fiscale e il sistema giudiziario, a più di 20 anni dalla fine della guerra etnica in Bosnia ed Erzegovina. Il Parlamento Europeo ha evocato sanzioni economiche (le stesse che le fonti precisano essere in stallo) e dopo la dura condanna dei tentativi secessionisti dell’entità a maggioranza serba in Bosnia (con un progetto di legge per l’istituzione di un Consiglio superiore della magistratura autonomo), a metà giugno del 2022 i leader bosniaci si sono radunati a Bruxelles per siglare una carta per la stabilità e la pace, incentrata soprattutto sulle riforme necessarie sul piano elettorale e costituzionale nel Paese balcanico.
    Alle provocazioni secessioniste si è affiancato dal 24 febbraio dello scorso anno il non-allineamento alla politica estera dell’Unione e alle sanzioni internazionali contro il Cremlino: insieme alla Serbia la Bosnia ed Erzegovina è l’unico Paese europeo a non aver adottato le misure restrittive Ue a causa dell’opposizione della componente serba della presidenza tripartita. Già il 20 settembre dello scorso anno Dodik aveva viaggiato a Mosca per un incontro bilaterale con Putin, dopo le provocazioni ai partner occidentali sull’annessione illegale da parte del Cremlino delle regioni ucraine Donetsk, Luhansk, Kherson e Zaporizhzhia. Provocazioni che sono continuate a inizio gennaio di quest’anno con il conferimento all’autocrate russo dell’Ordine della Republika Srpska (la più alta onorificenza dell’entità a maggioranza serba del Paese balcanico) – come riconoscimento della “preoccupazione patriottica e l’amore” nei confronti delle istanze di Banja Luka – in occasione della Giornata nazionale della Republika Srpska, festività incostituzionale secondo l’ordinamento bosniaco.
    Da sinistra: il presidente della Republika Srpska, Milorad Dodik, e l’autocrate russo, Vladimir Putin, al Cremlino il 20 settembre 2022 (credits: Alexey Nikolsky)
    Parallelamente sono continuati i tentativi di imporre un sistema di controllo sui media e la libertà di stampa che ricorda molto da vicino quello russo. A fine marzo l’Assemblea nazionale della Repubblica Srpska ha votato a favore di emendamenti al Codice Penale che reintroducono sanzioni penali per la diffamazione, entrati in vigore cinque mesi più tardi. Allo stesso tempo il governo dell’entità serba della Bosnia ed Erzegovina ha presentato un progetto di legge per istituire un registro di associazioni e fondazioni finanziate dall’estero: il modello è simile a quello adottato a Mosca dal primo dicembre dello scorso anno, che ha ampliato l’utilizzo politico dell’etichetta ‘agente straniero’ già utilizzata dal 2012 per colpire media indipendenti e Ong.

    Da Bruxelles nuove dure critiche dopo l’entrata in vigore degli emendamenti al Codice Penale dell’entità a maggioranza serba: “Restrizioni inutili e sproporzionate ai media indipendenti e alla società civile, è un deplorevole e innegabile passo indietro nella tutela dei diritti fondamentali”

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    La Norvegia si aggiunge a Danimarca e Paesi Bassi e fornirà gli F-16 a Kiev. Ministri Ue alla prova di più risorse per la difesa dell’Ucraina

    Bruxelles – Anche la Norvegia si unisce a Danimarca e Paesi Bassi nella coalizione dell’aviazione e donerà caccia da combattimento F-16 di fabbricazione statunitense all’Ucraina. La conferma del primo ministro norvegese Jonas Gahr Store in visita a Kiev è arrivata ieri (24 agosto) nel giorno in cui l’Ucraina festeggiava i 32 anni di indipendenza dall’Urss. “La Norvegia fornirà F-16 all’Ucraina. La migliore notizia per il nostro Giorno dell’Indipendenza”, ha commentato il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, facendo sapere che intende organizzare a Oslo uno dei prossimi round dei colloqui sulla Formula di Pace.

    Norway will provide F-16s to Ukraine. The best news for our Independence Day.
    During our talks, I thanked Prime Minister @JonasGahrStore and all Norwegians for this and other crucial support.
    We will also be glad to hold one of the next rounds of Peace Formula talks in Oslo. pic.twitter.com/8sqav6mQOl
    — Володимир Зеленський (@ZelenskyyUa) August 24, 2023

    La Norvegia si unisce dunque allo sforzo guidato da Paesi Bassi e Danimarca per rifornire Kiev di aerei da combattimento per rafforzare le difese aeree e ad aiutare la sua controffensiva contro l’invasione russa, iniziata a febbraio 2022. Gli aerei caccia sono dotati di un cannone da 20 mm e possono trasportare bombe, razzi e missili. “Stiamo progettando di donare aerei da combattimento F-16 norvegesi all’Ucraina e forniremo ulteriori dettagli sulla donazione, i numeri e i tempi per la consegna, a tempo debito”, ha chiarito il ministro norvegese Store.
    Se gli F-16 di fabbricazione statunitense saranno donati a Kiev da Paesi Bassi, Danimarca e Norvegia, la Grecia e gli Stati Uniti si sono offerti di addestrare i piloti ucraini a guidarli. La Danimarca consegnerà 19 aerei caccia da combattimento in totale, con i primi sei che dovrebbero essere spediti in Ucraina intorno a fine anno e che saranno seguiti da otto nel 2024 e cinque nel 2025. Dai Paesi Bassi ne dovrebbero arrivare una quarantina, mentre i numeri della Norvegia ancora non sono noti.
    Mentre prosegue il tour di Zelensky tra le capitali per cercare alleati nella sua coalizione dell’aviazione, la prossima settimana i ministri della Difesa e degli Esteri dei Ventisette torneranno a riunirsi a Toledo (dal 29 al 31 agosto) dopo una lunga pausa estiva. E discuteranno della proposta avanzata dall’alto rappresentante Ue per la politica estera e di sicurezza, Josep Borrell, di mobilitare risorse extra per 20 miliardi fino al 2027 per garantire un sostegno continuo alla difesa dell’Ucraina. Non si tratterà di un nuovo fondo da parte dell’Ue, ma di una specifica sezione dell’attuale strumento europeo per la pace (European Peace Facility), lo strumento finanziario fuori dal bilancio comunitario istituito nel 2021 per migliorare la capacità dell’Ue di prevenire i conflitti e di finanziare azioni operative che hanno implicazioni militari o di difesa nell’ambito della politica estera e di sicurezza comune.
    Il capo della diplomazia europea ha fatto il primo accenno alla proposta di nuovi finanziamenti a Kiev lo scorso 20 luglio, all’ultima riunione dei ministri degli Esteri prima dell’estate, rimandando a settembre la discussione approfondita. La riunione nel formato Gymnich come sempre sarà informale e dunque non si aspettano decisioni formali da parte dei Ventisette, quanto un primo scambio di idee sulla proposta.

    Oslo entra nella “coalizione dell’aviazione”. La proposta dell’alto rappresentante Josep Borrell di risorse aggiuntive per 20 miliardi fino al 2027 per garantire un sostegno continuo alla difesa dell’Ucraina sul tavolo della riunione Gymnich dei ministri degli Esteri la prossima settimana

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    Un colpo al cerchio ucraino e uno alla botte russa. La Serbia di Vučić tenta uno spericolato equilibro tra Mosca e Kiev

    Bruxelles – Il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić, si muove sui cristalli, ma nessuno dei cocci che rompe fanno piacere a Bruxelles. Perché il leader del Paese candidato all’adesione Ue dal 2012 sembra avere una propensione naturale al cerchiobottismo, sfidando sempre un po’ di più i limiti che l’Unione può tollerare. Ma il rischio che si sta assumendo dopo lo scoppio della guerra russa in Ucraina sta diventando sempre più grosso e l’equilibrio sempre più delicato, volendo barcamenarsi in una presunta “equidistanza” non solo tra Bruxelles e Mosca, ma ora anche tra Kiev e il Cremlino, e tirando in ballo un’altra questione molto delicata per l’Ue: convincere altri Paesi a non riconoscerei il Kosovo.
    Il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić, e la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, ad Atene (21 agosto 2023)
    A mettere in luce la nuova spericolata avventura di Vučić è stata la cena informale di lunedì (21 agosto) ad Atene tra i leader delle istituzioni comunitarie, dei Balcani Occidentali, dell’Ucraina e della Moldova, in cui sono andati in scena anche una serie di incontri bilaterali su allargamento Ue e invasione della Russia. Proprio uno dei punti, quest’ultimo, su cui Vučić ha dovuto più destreggiarsi. Il leader serbo non è nuovo alle critiche dell’Unione per il mancato allineamento alla Politica estera e di sicurezza comune, soprattutto sulle sanzioni contro Mosca per l’invasione dell’Ucraina (unico in Europa a non averlo fatto nemmeno a livello di principio), ma fino a oggi non ha mai ceduto ad allontanarsi eccessivamente dal legame con il Cremlino. Al contrario, nonostante riceverà un pacchetto di sostegno energetico da Bruxelles pari a 165 milioni di euro, nel maggio dello scorso anno ha siglato un’intesa con Vladimir Putin per altri tre anni di gas russo a condizioni favorevoli.
    La vera novità dalla cena di Atene è – come lo stesso Vučić ha dichiarato oggi (23 agosto) nel corso di una conferenza stampa – l’opposizione esplicita a inserire riferimenti alle sanzioni e ai crimini di guerra di Putin nella Dichiarazione di Atene, il tutto allo stesso tavolo di Zelensky: “Per noi sono condizioni molto difficili”, anche se ha concesso molto vagamente che “non può esserci impunità per la guerra e altri crimini, come gli attacchi contro i civili e la distruzione delle infrastrutture”. Il ministro degli Esteri serbo, Ivica Dačić, nel celebrare pomposamente la “vittoria diplomatica da soli contro 13 Paesi” in un’intervista a Kurir Tv, ha rivelato un dettaglio di non poco conto: il presidente serbo avrebbe usato “la sua influenza politica” per modificare il testo della dichiarazione ufficiale, “in modo da eliminare il paragrafo che menzionava le sanzioni contro la Russia“, perché “contrario ai nostri interessi nazionali”. Da Bruxelles nessun commento sulla questione, ma in ogni caso non si tratta di segnali incoraggianti sullo spirito che anima l’establishment politico di Belgrado a un anno e mezzo dall’inizio dell’invasione dell’Ucraina.
    L’Ucraina tra Serbia e Kosovo
    Da sinistra: il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić, e il presidente dell’Ucraina, Volodymyr Zelensky, ad Atene (21 agosto 2023)
    Per cercare di non tagliare i ponti con l’Ucraina, il leader serbo ha cercato di spostare la discussione su un altro livello: quello dell’integrità territoriale, che interessa tanto Kiev quanto Belgrado. “Un incontro aperto, onesto e proficuo”, lo ha definito il presidente Zelensky, riportando i temi di discussione all’incontro bilaterale di Atene: “Rispetto della Carta delle Nazioni Unite e inviolabilità dei confini, futuro comune delle nostre nazioni nella casa europea e relazioni reciproche nel mutuo interesse”. Perché se per l’Ucraina integrità territoriale significa Donbas e Crimea all’interno dei confini nazionali, per la Serbia significa non accettare l’indipendenza del Kosovo proclamata nel 2008. “Sto cercando di ottenere il meglio per la Serbia”, ha dichiarato alla stampa il presidente serbo, parlando delle conversazioni che ha avuto con quattro leader presenti ad Atene i cui Paesi non riconoscono la sovranità di Pristina: due membri Ue (Grecia e Romania) e due non-Ue, Bosnia ed Erzegovina e Ucraina, appunto. Facendo riferimento alle “pressioni” esercitate da Bruxelles su questi Stati, la missione di Vučić ad Atene è stata quella di spingere il leader ucraino a non cedere, facendo leva con tutta probabilità sull’invio di armi per la difesa dall’invasione russa.
    Eppure questo atteggiamento di Vučić si potrebbe scontrare presto non solo con l’irritazione di Mosca per il supporto all’esercito ucraino, ma soprattutto con la posizione dell’Unione Europea per la violazione di accordi precedentemente presi. Secondo l’accordo di Bruxelles sulla normalizzazione delle relazioni tra Serbia e Kosovo firmato sotto l’egida Ue lo scorso 27 febbraio “nessuna delle due Parti bloccherà, né incoraggerà altri a bloccare i progressi dell’altra Parte nel rispettivo cammino verso l’Ue sulla base dei propri meriti”, recita l’articolo 5, riferendosi implicitamente alla sovranità di Pristina (un Paese non indipendente non può fare ingresso nell’Ue). A questo si aggiunge il punto 4 dello stesso accordo, già violato da Belgrado in occasione della votazione sulla richiesta di Pristina di aderire al Consiglio d’Europa: “La Serbia non si opporrà all’adesione del Kosovo a nessuna organizzazione internazionale“. Secondo quanto confermato dallo stesso presidente serbo, Belgrado chiederà che si tenga “quanto prima” una sessione straordinaria del Consiglio di sicurezza delle Nazioni sulla situazione nel nord del Kosovo. Perché la strada di Vučić ormai è tracciata, per quanto spericolato sia l’equilibrio cercato tra Mosca e Kiev e a prescindere dagli avvertimenti di Bruxelles.

    Il presidente serbo sostiene di essere riuscito a modificare la bozza della Dichiarazione di Atene, rendendo meno duri i punti sui crimini di guerra e sanzioni. Ma intanto stringe i rapporti con Zelensky sull’integrità territoriale per impedire che Kiev riconosca la sovranità del Kosovo