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    Fondi Ue dedicati allo sviluppo utilizzati per il controllo delle frontiere in Africa. L’accusa di Oxfam all’Unione europea

    Bruxelles – Questa volta l’accusa alla politica Ue sul controllo dei movimenti migratori arriva dalla più grande confederazione internazionale di organizzazioni che si dedicano alla riduzione della povertà globale. In un rapporto pubblicato oggi (21 settembre), Oxfam afferma che “oltre un intervento su tre finanziato dall’Unione europea per il controllo dei flussi migratori in Libia, Tunisia e Niger rischia di violare le norme internazionali e comunitarie sulla destinazione degli aiuti pubblici allo sviluppo”. Perché in sostanza, Bruxelles starebbe riorientando fondi destinati alla lotta alla povertà nei Paesi partner verso azioni che “mettono a rischio il rispetto dei diritti umani dei migranti”.
    Nel mirino la gestione del budget dello strumento europeo di cooperazione e aiuto umanitario, Ndici-Global Europe: 79,5 miliardi di euro per il periodo 2021-2027, che fanno di Ndici il “principale strumento per contribuire all’eradicazione della povertà e promuovere lo sviluppo sostenibile, la prosperità, la pace e la stabilità”. Di questi, secondo l’indagine condotta da Oxfam “ben 667 milioni di euro” sono stati destinati a programmi che nulla hanno a che vedere con la cooperazione e lo sviluppo, in Stati in cui “violazioni e abusi di ogni sorta sono da anni all’ordine del giorno”.
    La fotografia scattata dal rapporto è allarmante, e certifica come la Commissione europea stia utilizzando in modo improprio le risorse destinate agli aiuti umanitari per esternalizzare il controllo delle frontiere comunitarie ai Paesi d’origine e di transito dei flussi di persone migranti. In particolare in Libia, Tunisia e Niger. Dei 16 interventi Ue analizzati nel rapporto nei tre Paesi, “gran parte dei fondi sono destinati a potenziare il controllo delle frontiere da parte delle autorità locali”. In Niger “un solo intervento ha come obiettivo il sostegno ad una migrazione sicura e regolare verso l’Europa”, in Libia “nessuna delle attività sostenute dall’Ue ha questo scopo”. L’azione dell’Ue in Tunisia, nell’occhio del ciclone dopo la firma estiva del Memorandum d’intesa con il presidente Kais Saied, dovrebbe essere in parte finanziata proprio attraverso il programma Ndici-Global Europe. Ma l’Unione europea avrebbe già “mobilitato 93,5 milioni per il blocco dei flussi migratori attraverso l’Eu Trust Fund, tra cui 25 milioni direttamente alla Guardia Nazionale Marittima tunisina”.
    Un’altra accusa mossa all’Ue è la “gravissima mancanza di trasparenza nella destinazione dei fondi”. Secondo il rapporto, spesso nella descrizione degli interventi finanziati ci si riferisce “genericamente alla gestione della migrazione”, senza chiarire nulla di più.
    Una strategia che – denuncia Oxfam- è contraria alle regole internazionale ed europee. È l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo economico (Ocse) a dettare le linee guida e a stabilire che gli aiuti allo sviluppo siano destinati “alla promozione della crescita economica e del benessere dei Paesi in via di sviluppo” e che “le attività che trascurano i diritti di sfollati e migranti non si qualificano come tali”. Ma anche la Commissione europea, respingendo le gravi accuse mosse da Oxfam, ha chiamato in causa l’Ocse: “Le linee guida sono date dall’Ocse e sono sempre seguite dall’Ue“, ha dichiarato la portavoce dell’esecutivo comunitario, Ana Pisonero. “La maggior parte delle nostre azioni aiutano ad affrontare le cause profonde delle migrazioni, promuovendo e rafforzando lo sviluppo sostenibile nei Paesi partner, questa è l’essenza del lavoro che facciamo”, ha rivendicato con orgoglio Pisonero. Per la Commissione europea “parlano i fatti e i dati”, che raccontano che “l’Ue è il più grande fornitore di aiuti allo sviluppo e di fondi per il clima, attore globale nella lotta alla povertà”.

    Secondo un nuovo rapporto 667 milioni di euro dal budget Ndici-Global Europe sono stati orientati ad attività che “mettono a rischio il rispetto dei diritti umani dei migranti”. Dito puntato contro i programmi Ue in Tunisia, Libia e Niger. La Commissione Ue respinge le accuse: “Siamo il maggiore fornitore al mondo di aiuti allo sviluppo, i dati e i fatti parlano da soli”

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    Perché l’attuazione degli obiettivi di sviluppo sostenibile è fondamentale per la prossima Commissione Europea

    Bruxelles – Per l’avanzamento nella realizzazione degli obiettivi di sviluppo sostenibile (Sdg), questi sono giorni cruciali, dato che il vertice che si tiene a New York è volto a segnare l’inizio di una nuova fase di accelerazione con orientamenti politici di alto livello.
    (credits: Timothy A. Clary / Afp)
    Nel settembre 2015, i leader mondiali, riuniti alle Nazioni Unite per adottare l’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, articolata in 17 obiettivi, hanno cercato di affrontare sfide globali urgenti tenendo conto della dimensione economica al pari di quella sociale e di quella ambientale. Oggi, a metà del cammino verso il 2030, è essenziale fare il punto sui progressi compiuti, sulle sfide affrontate e sul percorso che rimane da compiere per raggiungere questi ambiziosi obiettivi. La realtà è che siamo in ritardo sulla tabella di marcia, e sembra che, anche se disponiamo di tutte le risorse e le tecnologie necessarie, ci manchi la determinazione politica di andare avanti a un ritmo adeguato.
    Durante il Forum politico di alto livello che si è svolto a New York in luglio è stato ricordato che dall’edizione speciale del rapporto delle Nazioni Unite sui progressi degli obiettivi di sviluppo sostenibile è emerso che solo il 12 per cento degli obiettivi è a buon punto a livello mondiale. L’Europa è in una situazione migliore rispetto ad altri continenti, dato che ha compiuto progressi per alcuni degli obiettivi di sviluppo sostenibile. Tuttavia, non tutti stanno avanzando su questa strada e non così velocemente come dovrebbero. Inoltre, tra uno Stato membro e l’altro e tra una regione e l’altra dell’Ue vi sono disparità, e abbiamo ancora molta strada da fare dal momento che crisi multiple e consecutive, come la pandemia e la guerra in Ucraina, stanno destabilizzando il mondo e i nostri sforzi.
    La strada dinanzi a noi
    La mancanza di un riferimento esplicito all’attuazione degli obiettivi di sviluppo sostenibile nel discorso sullo Stato dell’Unione tenuto dalla presidente della Commissione Ue, Ursula Von der Leyen, il 13 settembre dimostra che gli obiettivi di sviluppo sostenibile non costituiscono l’elemento propulsore nel cambiamento delle politiche dell’Ue. Quella a cui assistiamo nell’integrazione degli obiettivi di sviluppo sostenibile è in certa misura un’operazione di facciata. Invece di considerarli come un quadro generale che definisce le nostre azioni per il cambiamento sistemico, ci limitiamo a prendere decisioni disorganiche e a esprimere una valutazione dei relativi effetti sull’attuazione di obiettivi specifici.
    La presidente della Commissione Europea, Ursula Von der Leyen (13 settembre 2023)
    La prossima Commissione Europea dovrebbe prendere sul serio l’impegno politico a favore dell’attuazione degli obiettivi di sviluppo sostenibile. La realizzazione dell’Agenda 2030 richiede cambiamenti strutturali, soluzioni innovative e la collaborazione tra governi, società civile, imprese e organizzazioni internazionali. Abbiamo bisogno di un piano di trasformazione a lungo termine che vada oltre il 2030. Il Cese e altre organizzazioni della società civile hanno chiesto fin dall’inizio una strategia globale per l’attuazione degli obiettivi di sviluppo sostenibile. E questo richiede coraggio politico e impegno non solo per incanalare adeguatamente le risorse finanziarie e umane disponibili, ma anche per ristrutturare il modo di funzionare dell’amministrazione e per superare le compartimentazioni.
    Stiamo assistendo a inondazioni, siccità e incendi senza precedenti, all’aumento delle disuguaglianze sociali e, con esse, a disordini sociali e a un sentimento di disprezzo verso i nostri attuali rappresentanti politici e i nostri decisori. Vediamo come i grandi attori economici stiano migliorando la loro posizione sul mercato e come stia diventando invece sempre più difficile per i piccoli sopravvivere. L’attuazione degli obiettivi di sviluppo sostenibile è l’unica soluzione valida per tutti. La loro realizzazione richiede un’azione collettiva, soluzioni innovative e una rinnovata volontà a costruire un mondo migliore per le generazioni attuali e future. Non possiamo permettere che il nostro futuro sia dominato dall’incertezza.

    Maria Nikolopoulou, membro del Cese, rappresentante della Confederazione sindacale spagnola delle commissioni operaie, membro delle sezioni Agricoltura, Sviluppo rurale e ambiente (Nat) e Trasporti, energia, infrastrutture e società dell’informazione (Ten)

    Maria Nikolopoulou, membro del Comitato economico e sociale europeo (Cese), mette in luce la necessità dell’Ue di spingere sull’Agenda 2030: “Richiede coraggio politico e impegno per ristrutturare il modo di funzionare dell’amministrazione e per superare le compartimentazioni”

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    Why is the implementation of the Sustainable Development Goals key for the next European Commission?

    Brussels – These days are critical for the advancement of the Sustainable Development Goals (SDGs), as the 2023 SDG Summit taking place in New York aims to mark the beginning of a new phase in accelerating the implementation of the SDGs with high-level political guidance.
    (credits: Timothy A. Clary / Afp)
    In September 2015, world leaders, gathered at the United Nations to adopt the 2030 Agenda for Sustainable Development, which included 17 Sustainable Development Goals (SDGs), sought to address pressing global challenges by taking into account, on an equal footing, the economic, social and environmental dimensions. Now, half way to 2030, it is essential to take stock of the progress made, the challenges faced, and the path forward towards achieving these ambitious goals. The reality is that we are currently falling behind schedule, and it appears that even if we have all the required resources and technology, we are lacking the political determination to move forward at an adequate pace.
    During the High-Level Political Forum in July in New York, it was mentioned that the UN special edition of the SDGs Progress Report made clear that only 12 percent of the Sustainable Development Goals are on track globally. Europe is in better shape than other continents as there has been progress in some of the SDGs. Nevertheless, not all of them are progressing and not as fast as they should. In addition to this, there are disparities among EU Member States and regions and we still have a long way to go as multiple and consecutive crisis such as the pandemic and the war in Ukraine are destabilising the world and our efforts.
    The Road Ahead
    The lack of explicit mention of the implementation of the Sustainable Development Goals in President Ursula Von der Leyen‘s State of the Union speech on 13 September, shows that the SDGs are not the driving force of change of the EU policies. There is a certain “SDG washing”. Instead of considering them as an umbrella that defines our actions for systemic change, we just take fragmented decisions and state how it affects the implementation of specific goals.
    The president of the European Commission, Ursula Von der Leyen (13 September 2023)
    The incoming EU Commission should take the political commitment to implementing the Sustainable Development Goals seriously. Achieving the 2030 Agenda requires structural changes, innovative solutions, and collaboration among governments, civil society, businesses, and international organisations. We need a long-term transformative plan that will go beyond 2030. The European Economic and Social Committee (Eesc) and other civil society organisations have been calling for an overarching strategy to implement the SDGs since the beginning. And this requires political courage and commitment not only to adequately channel the available financial and human resources but also to restructure the way the administration works and to break silos.
    We are experiencing unprecedented floods, drought and wildfires. We are witnessing how social inequalities are rising and with them social unrest and disdain for our current politicians and policy-makers. We are seeing how the big economic players are improving their market position and how it’s getting harder and harder for the small ones to survive.  The implementation of the SDGs is the only reliable solution for all. Achieving the Sustainable Development Goals demands collective action, innovative solutions, and a renewed dedication to building a better world for current and future generations. We can’t allow the uncertainty to govern our future.

    Maria Nikolopoulou, is a member of the European Economic and Social Committee (Eesc) and a member of the Spanish Trade Union Confederation Comisiones Obreras

    Maria Nikolopoulou, member of the European Economic and Social Committee (Eesc), points out the need for the EU to achieve the 2030 Agenda: “This requires political courage and commitment to restructure the way the administration works and to break silos”

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    Il Belgio alla fine cede sui diamanti nelle sanzioni contro la Russia. Per il premier De Croo sono “un simbolo della guerra”

    Bruxelles – L’apertura ora è ufficiale e può iniziare il lavoro con il principale hub del commercio internazionale di diamanti. Il primo ministro del Belgio, Alexander De Croo, ha esortato esplicitamente il settore della gioielleria a “innalzare gli standard di trasparenza” e allinearsi alla prossima iniziativa del G7 per limitare i ricavi del Cremlino dal commercio di diamanti. “In qualità di hub leader nel commercio dei diamanti, il Belgio ha la responsabilità di contribuire al suo successo“, ha messo in chiaro il premier durante un incontro ieri sera (20 settembre) con i responsabili dell’industria della gioielleria presso il Console Generale del Belgio a New York, dove si è recato per partecipare all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.
    Il primo ministro del Belgio, Alexander De Croo (terzo da sinistra) con i responsabili dell’industria della gioielleria (20 settembre 2023)
    Per la prima volta De Croo ha sgomberato il campo dalle ambiguità che il suo Paese ha mantenuto nell’ultimo anno a causa della posizione di assoluta centralità della città di Anversa nel commercio globale di pietre preziose. “I diamanti russi sono diventati il simbolo della guerra e delle violazioni dei diritti umani” ed è per questo che l’intero settore in Europa e in Belgio deve fare “l’ultimo miglio” per garantire il successo dell’iniziativa del Gruppo dei Sette ormai pronta. Si tratta nello specifico di un sistema di tracciabilità su cui si sta lavorando da maggio per una collaborazione tra partner internazionali “al fine di garantire l’effettiva attuazione di future misure restrittive coordinate”, aveva anticipato la dichiarazione del G7 di Hiroshima. Secondo quanto riferito dal premier belga, il sistema di tracciamento per impedire che i diamanti russi entrino nei mercati che hanno imposto il divieto è quasi pronto, ma “renderlo completamente trasparente richiede molto lavoro, che dobbiamo fare insieme”, è l’esortazione ai responsabili del settore “per implementare il sistema dal primo gennaio 2024“. La base del meccanismo di verifica dovrebbe essere il Certificato di Kimberley istituito nel 2003 per frenare il flusso dei ‘diamanti insanguinati’ nel mercato globale, attraverso l’utilizzo della tecnologia blockchain: in caso di successo il sistema dovrebbe eliminare i diamanti russi e ridurne il valore sul mercato a favore di quelli provenienti dal continente africano.
    Il sistema di tracciabilità costituisce per Bruxelles – e per Anversa – un’alternativa credibile all’embargo sull’importazione di diamanti, escluso anche dall’ultima tornata di sanzioni Ue contro la Russia. A margine del vertice G7 di Hiroshima, il presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, aveva precisato che la volontà dell’Unione è quella di limitare il commercio: “Faremo in modo che ci sia coerenza con quello che stiamo facendo a livello europeo“. Diverse fonti diplomatiche avevano fatto sapere a Eunews che, nonostante non si stia più discutendo di embargo tra le misure restrittive Ue perché “difficile da attuare”, il Belgio e la Commissione Europea stavano mettendo a punto un sistema di tracciabilità in linea con quanto in via di definizione in sede G7. Attualmente a Bruxelles è in fase di preparazione il dodicesimo pacchetto di sanzioni contro la Russia e l’attesa presentazione del sistema di tracciabilità del G7 sarebbe “l’innesco per il lancio” della prossima tornata di misure restrittive Ue, fanno sapere le stesse fonti, anche se non ci sono ancora tempistiche certe.
    Un anno di resistenze sui diamanti
    (credits: Punit Paranjpe / Afp)
    La questione dei diamanti era entrata per la prima volta nelle discussioni tra gli ambasciatori al Coreper (Comitato dei rappresentanti permanenti) in occasione del settimo pacchetto di sanzioni definito di maintenance and alignement (aggiornamento e allineamento). Con la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale dell’Ue del 21 luglio era stato deciso di includere anche i gioielli nel divieto di acquistare, importare o trasferire l’oro russo (anche se esportato in un Paese terzo), ma era rimasto fuori il commercio di diamanti, dal momento in cui nella richiesta di allineamento dei leader del G7 in Germania questa azione non era prevista.
    Di fronte alla pressione crescente nei mesi successivi a causa dell’escalation della guerra in Ucraina, nelle trattative per l’ottavo pacchetto di sanzioni la proposta della Commissione Ue di un embargo totale ai diamanti grezzi dalla Russia è arrivata a un passo dal via libera da tutti i Paesi membri Ue, prima di essere bloccata da un colpo di coda in extremis. A spingere per l’esclusione del gigante russo dell’estrazione Alrosa dalla lista delle entità colpite era stata l’associazione di categoria Antwerp World Diamond Centre, che aveva denunciato il rischio di disoccupazione per oltre 10 mila lavoratori nella città fiamminga, centro dell’industria mondiale della lavorazione di diamanti: la città controlla l’86 per cento del commercio globale di quelli grezzi e la metà di quelli lavorati. Si è trattata di una vera e propria concessione alle lobby della lavorazione dei diamanti belghe, che nella città portuale di Anversa hanno sede e da dove hanno influenzato la posizione del governo belga per prendere a picconate la proposta del gabinetto von der Leyen.
    Nel corso delle trattative tra gli ambasciatori anche per l’approvazione dei due pacchetti successivi di misure restrittive è passata la linea morbida del Belgio per non sganciarsi dal gigante russo dell’estrazione di diamanti, facendo leva sul timore che una misura restrittiva contro Alrosa possa colpire più l’economia e l’occupazione europea rispetto a quelle di Mosca. La marcia indietro dell’ottobre 2022 aveva segnato una sconfitta per Baltici e Polonia, che hanno sempre appoggiato un embargo totale sui diamanti (non-industriali). Ma, come avevano riferito al tempo fonti diplomatiche a Eunews, gli altri Paesi membri non avevano levato voci contrarie alla posizione del Belgio. Il commercio globale di diamanti grezzi della Russia è stimato dal Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti come una delle prime dieci esportazioni non energetiche di Mosca (pari al 30 per cento in tutto il mondo), mentre ogni giorno ad Anversa vengono commerciati diamanti per un valore di 220 milioni di dollari, pari a circa 47 miliardi di dollari all’anno.

    A New York per l’Assemblea Generale dell’Onu, il premier belga ha messo in chiaro che il suo Paese “ha la responsabilità di contribuire al successo” dell’iniziativa del G7 per ridurre i ricavi del Cremlino dal commercio delle pietre preziose. Si discute se inserirlo nel dodicesimo pacchetto

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    L’attivismo di Borrell per una pace tra Israele e Palestina. A New York lancia il ‘Peace Day Effort’ e incontra il primo ministro di Ramallah

    Bruxelles – La causa è di quelle sacrosante, l’orizzonte appare più lontano che mai. Il capo della diplomazia europea, Josep Borrell, non demorde e rilancia un processo di pace tra Israele e Palestina fondato sulla soluzione di vecchia data dei due Stati. Non è solo, con lui ci sono anche la Lega degli Stati Arabi, l’Arabia Saudita, l’Egitto e la Giordania. Ma le più distanti sembrano proprio essere Tel Aviv e Ramallah.
    Nel corso del 2023, già segnato da un’escalation di scontri che – secondo i dati di Ocha-opt, l’Ufficio delle Nazioni Unite nei territori Palestinesi occupati – hanno causato 219 vittime palestinesi e 29 israeliane, l’Alto rappresentante Ue per gli Affari Esteri ha lanciato numerosi appelli a entrambe le parti per mettere fine alle violenze. Per ora sono rimasti inascoltati, e gli unici motivi che possono far pensare ad un esito diverso di questo ennesimo sforzo sono il palcoscenico scelto per inaugurarlo e gli obiettivi pratici che si è dato.
    Il lancio del Peace Day Effort a New York, 18/09/23
    A New York per la 78esima sessione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, lunedì 18 settembre l’Unione europea, il Regno dell’Arabia Saudita, la Lega degli Stati Arabi, in collaborazione con la Repubblica Araba d’Egitto e il Regno di Giordania – e alla presenza di quasi cinquanta ministri degli Esteri di tutto il mondo-, hanno inaugurato il ‘Peace Day Effort‘. Uno sforzo che “mira a produrre un pacchetto di sostegno alla pace”, con programmi e contributi dettagliati, condizionati al raggiungimento di un accordo tra le parti sullo status finale della regione dilaniata da un conflitto secolare.
    Durante l’incontro, sono stati avviati gruppi di lavoro incaricati di elaborare le componenti di questo pacchetto: un team dedicato al lavoro politico e di sicurezza, incentrato sullo “sviluppo di uno schema di potenziali meccanismi di cooperazione regionale, politica e di sicurezza post-pace”, un gruppo di lavoro economico e ambientale, che si è concentrato sullo sviluppo di “proposte di cooperazione economica, anche nei settori del commercio, dell’innovazione, delle infrastrutture di trasporto, delle risorse naturali, dell’ambiente”, ed un ultima equipe di lavoro sulla dimensione umana, dedicata allo sviluppo di “proposte di cooperazione in questioni umanitarie, interculturali e di sicurezza umana”. I progressi dei tre gruppi verranno valutati ogni tre mesi, a partire dal prossimo dicembre, con l’obiettivo di unire i loro contributi e presentare il Pacchetto di sostegno alla pace entro il settembre del 2024.
    Borrell incontra il primo ministro Shtayyeh: “Necessario garantire uno stato palestinese sovrano”
    Il primo ministro palestinese Mohammad Shtayyeh e l’Alto rappresentane Josep Borrell, 23/01/23
    Questo vasto piano di supporto entrerebbe in vigore il giorno in cui venisse siglata la storica pace. Ma non una qualunque: come assicurato da Borrell al primo ministro palestinese, Mohammed Shtayyeh, con cui ha avuto un bilaterale nella giornata di ieri (19 settembre), il rinnovato impegno non potrà prescindere dalla “necessità di preservare la soluzione dei due Stati garantendo uno stato palestinese sovrano, indipendente e contiguo“, basato sulle linee antecedenti alla guerra dei 6 giorni del giugno 1967. In attesa del vertice politico ad alto livello tra i ministri degli Esteri dei 27 e l’Autorità palestinese, previsto per novembre, Borrell ha insistito con Shtayyeh sulla necessità che “entrambe le parti collaborino per porre fine al terrorismo e all’incitamento alla violenza e per fermare le misure unilaterali che minano ulteriormente le prospettive di una soluzione a due Stati”. E ha sollecitato il primo ministro di Ramallah a convocare elezioni nazionali “attese da tempo”.
    Come si legge in una nota pubblicata dal Servizio Europeo di Azione Esterna (Seae), Shtayyeh “è stato informato dell’incontro presieduto dall’Alto rappresentante con l’Arabia Saudita, la Lega degli Stati arabi, l’Egitto e la Giordania, incentrato sulle possibili modalità di rilancio del processo di pace in Medio Oriente” e sullo sviluppo di “una visione positiva con un ampio sostegno da parte della comunità internazionale per contribuire a promuovere la pace, la stabilità e la sicurezza nella regione”. Un incontro a cui però, oltre all’Autorità palestinese, non era presente neanche Israele. Che sulla condanna di “tutte le misure volte ad alterare la composizione demografica, il carattere e lo status del territorio palestinese occupato dal 1967”, ribadita durante il vertice, avrebbe qualcosa da ridire.

    A margine dell’Assemblea generale dell’Onu, l’Ue, la Lega Araba, l’Arabia Saudita, l’Egitto e la Giordania si sono impegnate per ridare vigore al processo di pace in Medio Oriente. Borrell ha esortato il premier palestinese Shtayyeh a tenere “elezioni nazionali attese da tempo”

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    Tutto ciò che c’è da sapere sulla proposta franco-tedesca per adeguare l’Unione Europea a un suo futuro allargamento

    Bruxelles – Un lavoro iniziato otto mesi fa sotto gli auspici del presidente francese, Emmanuel Macron, e del cancelliere tedesco, Olaf Scholz, per coniugare due dei temi più caldi per il futuro dell’Unione Europea: l’allargamento Ue e la riforma dei Trattati fondanti della stessa Unione. “Per ragioni geopolitiche, l’allargamento Ue è in cima all’agenda politica, ma l’Unione non è ancora pronta ad accogliere nuovi membri, né dal punto di vista istituzionale né da quello politico“, è quanto mette nero su bianco il Gruppo dei Dodici nel suo rapporto su cui si fonda la proposta franco-tedesca per il rinnovamento dell’Unione Europea e che oggi (19 settembre) è stato presentato a Bruxelles ai ministri degli Affari europei.
    Un report di 58 pagine particolarmente denso, in cui vengono trattate nel dettaglio le priorità imprescindibili dell’Unione – a partire dallo Stato di diritto – le aree di riforma con le rispettive esigenze di modifica dei Trattati – dal processo decisionale in Consiglio al numero di seggi al Parlamento Ue e di membri del Collegio dei commissari – le implicazioni per il bilancio comunitario, la possibile creazione di un’integrazione europea basata su quattro livelli e i principi-guida per il processo di allargamento Ue. “Riconoscendo la complessità di allineare le diverse visioni degli Stati membri sull’Unione Europea, il rapporto raccomanda un processo di riforma e di allargamento Ue flessibile”, si legge nel testo redatto da 12 esperti indipendenti, che mettono in guardia sul fatto che “le istituzioni e i meccanismi decisionali non sono stati concepiti per un gruppo di 37 Paesi“. Ovvero gli attuali 27 membri più i 10 partner che si sono avviati sulla strada dell’adesione: Albania, Bosnia ed Erzegovina, Georgia, Kosovo, Macedonia del Nord, Moldova, Montenegro, Serbia, Turchia e Ucraina.
    La riforma delle istituzioni
    Il punto di partenza è la protezione dello Stato di diritto. In primis rendendo il meccanismo di condizionalità uno strumento contro le violazioni da poter estendere anche a fondi futuri. E come seconda soluzione perfezionare la procedura secondo l’articolo 7 del Trattato sull’Unione Europea (quella che sospende il diritto di voto in Consiglio), introducendo una maggioranza di quattro quinti del Consiglio per farla scattare (al posto di unanimità meno uno) e includendo limiti di tempo per costringere i capi di Stato e di governo a prendere una decisione.
    Tutte le istituzioni comunitarie sono interessate dalla riforma dell’Unione. Il Parlamento manterrebbe il limite di 751 “o meno” eurodeputati (quindi meno rappresentanti per Stato membro), con l’adozione di un nuovo sistema di assegnazione dei seggi, basato su una formula che bilancia il diritto di ogni membro a essere rappresentato e la necessità di ridurre le distorsioni demografiche. Anche per la Commissione si considerano le dimensioni del Collegio, con due opzioni: o una riduzione del numero di commissari (non più uno per Stato membro) o una differenziazione tra “commissari guida” e “commissari”, in cui solo i primi hanno il diritto di voto. Il Consiglio dell’Ue dovrebbe invece essere riorganizzato da un formato a tre a un quintetto di presidenza che copra metà di un ciclo istituzionale (sei mesi per membro). Il Consiglio è l’istituzione più delicata da riformare, con l’idea fondante di “generalizzare il voto a maggioranza qualificata” a tutte le decisioni “politiche”, con salvaguardie come una “rete di sicurezza per la sovranità”, il calcolo delle quote di voto riequilibrato da 65/55 a 60/60 e opt-out per i settori politici interessati.
    Democrazia, poteri e bilancio
    Per salvaguardare la democrazia europea dovranno essere armonizzate le leggi elettorali, “almeno entro il 2029” (per il rinnovo dell’Eurocamera), ma serve una decisione “prima delle prossime elezioni” del 2024 anche sulla nomina del presidente della Commissione: o come accordo inter-istituzionale o come accordo politico. I cittadini dovranno essere coinvolti più da vicino con strumenti partecipativi legati al processo decisionale e a quello di allargamento Ue, mentre un nuovo Ufficio indipendente per la trasparenza e la probità dovrebbe monitorare le attività di tutti gli attori che lavorano nelle – o per le – istituzioni comunitarie. Va a braccetto la questione della definizione delle competenze, con la necessità di “rafforzare le disposizioni su come affrontare gli sviluppi imprevisti”, includendo meglio il Parlamento e creando una Camera congiunta delle più alte giurisdizioni dell’Ue come dialogo non vincolante tra le giurisdizioni europee e quelle degli Stati membri.
    Ma in questo capitolo l’attenzione è tutta rivolta al bilancio comunitario, di fronte a un potenziale aumento dei membri e delle politiche da finanziare collettivamente. Nel prossimo periodo di bilancio (2028-2034) dovrà essere aumentato il budget “sia in termini nominali sia in relazione al Pil”. Serviranno nuove risorse proprie per limitare l’ottimizzazione fiscale, l’elusione e la concorrenza, mentre le decisioni di bilancio dovranno essere prese per maggioranza qualificata (o in alternativa con una cooperazione più intensa tra gruppi più piccoli di Stati membri per finanziare insieme le politiche). Dovrà poi essere condotta una revisione per ridurre o aumentare le dimensioni di determinate aree di spesa e viene sancito il principio secondo cui l’Ue dovrebbe poter emettere debito comune in futuro. Dal 2034 – quando le due scadenze si allineeranno – il ciclo istituzionale avrà il compito di stabilire un nuovo quadro finanziario pluriennale della durata di 5 anni (e non più 7).
    Integrazione differenziata e processo di allargamento Ue
    L’ultima parte del rapporto del Gruppo dei Dodici è legato all’allargamento Ue vero e proprio, ma anche alle forme di integrazione che l’Unione dovrebbe assumere su diversi livelli. Prima di tutto viene considerato come modificare i Trattati, con sei opzioni sul tavolo: attivazione dell’articolo 48 del Tue (procedura di revisione ordinaria), una procedura di revisione semplificata, l’attivazione dell’articolo 49 del Tue (trattati di adesione di nuovi membri che modificano quelli istitutivi), “trattato quadro di allargamento e riforma” redatto dagli Stati membri, coinvolgimento di una Convenzione e – “in caso di stallo” – trattato di riforma supplementare tra gli Stati membri disposti a farlo.
    Alla riforma dei Trattati si accompagna la definizione dei 5 principi di integrazione differenziata all’interno dell’Ue: rispetto dell’acquis comunitario e dell’integrità delle politiche e delle azioni Ue, uso delle istituzioni comunitarie, apertura a tutti i membri, condivisione dei poteri decisionali, dei costi e dei benefici, e avanzamento da parte dei “volenterosi” che vogliano spingere oltre l’integrazione. Mentre agli Stati non cooperativi o non disposti a collaborare vengono offerti opt-out (opzioni di non partecipazione) nel nuovo Trattato – fatto salvo l’acquis comunitario e i valori fondanti – il futuro dell’integrazione europea viene immaginato su quattro livelli distinti: una cerchia interna di membri Schengen, dell’Eurozona e di altre “coalizioni di volenterosi”, l’Unione Europea con membri vecchi e nuovi, i membri associati al Mercato unico (come Norvegia e Svizzera) e – fuori dal perimetro dello Stato di diritto – la Comunità Politica Europea 2.0 che abbia al centro la convergenza geopolitica e strutturata su accordi bilaterali con l’Ue.
    In tutto questo deve rimanere chiaro l’obiettivo di essere pronti per l’allargamento Ue entro il 2030, così come anticipato dal presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel – mentre parallelamente i Paesi candidati dovranno lavorare per soddisfare tutti i criteri di adesione entro la stessa data (e già si sono detti disponibili a farlo). Nel rapporto viene stimolata la nuova leadership politica dopo le elezioni del 2024 a impegnarsi per questo obiettivo e concordare sulla preparazione per l’allargamento Ue entro la fine del decennio. Il discorso riguarda però da vicino anche lo stesso processo di allargamento Ue, a partire dalla suddivisione dei cicli di adesione in gruppi più piccoli di Paesi (ciascuno di questi definito ‘regata’). Nove principi dovrebbero guidare poi le future strategie di allargamento Ue: ‘prima le basi’, geopolitico, risoluzione dei conflitti, supporto tecnico e finanziario aggiuntivo, legittimità democratica, eguaglianza, ‘sistematizzazione’, reversibilità e voto a maggioranza qualificata.

    Riforma delle istituzioni, risorse comuni, integrazione differenziata e nuovo processo di adesione dei candidati. I governi hanno iniziato a discutere sulle proposte del Gruppo dei Dodici per mettere l’Unione nelle condizioni di non farsi trovare impreparata all’appuntamento del 2030

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    Gas, diritto internazionale e alleanze regionali: ecco perché l’Ue può e farà poco in Nagorno-Karabakh

    Bruxelles – L’Unione europea condanna e si inquieta ma di fronte alla nuova offensiva azera nel territorio contestato del Nagorno-Karabakh fa quel che può, poco, molto poco. Per ragioni giuridiche, geo-politiche, e per una politica estera alle volte inesistente e ancora tutta da costruire e le contraddizioni di un progetto solo in parte federale ma ancora troppo confederato. La questione armeno-azera, frutto dei rimasugli dell’era sovietica che non si è saputo risolvere ripropone solo una volta di più una questione di lungo corso: un’Europa che si muove in modo confuso e sparso, e che a tratti appare estremamente debole.
    Il diritto internazionale stabilisce e riconosce la regione del Caucaso come parte dell’Azerbaijan, che l’Armenia occupa illegalmente dal 1991. L’Assemblea generale dell’Onu, con tanto di risoluzione, già il 14 marzo 2008 ha stabilito l’integrità territoriale dell’Azerbaijan chiedendo il ritiro di tutte le forze armene. Una risoluzione approvata con 39 voti a favore, 100 astensioni e appena 7 contrari (con 46 Stati assenti al momento del voto). Gli Stati dell’Ue non hanno di fatto mai preso una posizione chiara. La Francia ha votato contro, schierandosi dunque con Yerevan. Gli altri Stati dell’Ue alle Nazioni Unite si sono astenuti.
    Di fronte a questo schieramento per l’Ue diventa difficile fare più di quanto fatto finora, vale a dire tentare di mediare ed invitare al dialogo. Ma in un periodo in cui, sopratutto a Bruxelles, è continuo insistere su “valori”, “diritti” e loro rispetto, trovarsi nella scomoda situazione di dover dire qualcosa senza poter essere davvero incisivi mette a nudo tutta l’affidabilità di un’Unione con cui comunque si interagisce.
    L’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza, Josep Borrell, in questi momenti concitati, ha capito perfettamente quello che sta per succedere. “Questa escalation militare non deve essere usata come pretesto per forzare l’esodo della popolazione locale”, e dunque un cacciata degli armeni da parte degli azeri. Non ha capito come può evitarlo, e probabilmente non potrà. Interventi, del resto non sono possibili. Ci sono troppi attori, e tutti scomodi, in gioco. La Russia, tradizionalmente amica dell’Armenia, anche se dell’Armenia internazionalmente riconosciuta, e che potrebbe ‘far pagare’ l’accresciuta cooperazione militare con Stati Uniti e Nato nonostante l’Armenia sia attualmente membro dell’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (CSTO), guidata dalla Russia.
    La Turchia, dichiaratamente dalla parte di Baku, con tanto di accordo bilaterale turco-azero di mutuo sostegno in caso di aggressione militare. Ecco il dilemma. Se le forze armene dovessero aprire il fuoco contro quelle azere, in un territorio considerato azero, potrebbe innescarsi un nuovo conflitto alle porte dell’Europa. E poi gli Stati Uniti, tra i sette contrari alla risoluzione Onu del 2008. Ancora l’Iran, che condivide le proprie frontiere con entrambi i contendenti.
    L’Ue non si immolerà per la causa armena in Nagorno-Karabakh. Anche per ragioni squisitamente economiche. Alla vigilia dell’ultimo incontro del Consiglio di cooperazione Ue-Azerbaigian del 19 luglio 2022, in pieno conflitto russo-ucraino e crisi energetica, le due parti hanno firmato un memorandum d’intesa (MoU) su un partenariato energetico strategico, volto ad aumentare le forniture di gas azerbaigiano all’Ue attraverso il Corridoio Sud del Gas ad almeno 20 miliardi di metri cubi all’anno entro il 2027 (da 8,1 miliardi nel 2021).

    Una mancata azione in politica estera e ragioni squisitamente economiche legate alle forniture di gas dall’Azerbaigian

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    Nemmeno un giorno di tregua. L’Unione Europea condanna i bombardamenti dell’Azerbaigian sul Nagorno-Karabakh

    Bruxelles – La speranza per una distensione è durata poco meno di 24 ore, o più probabilmente è stata solo un’illusione dopo settimane di escalation. Dal Nagorno-Karabakh arrivano oggi (19 settembre) “notizie devastati”, come le ha definite il presidente del Consiglio Europeo e primo sponsor del dialogo tra Azerbaigian e Armenia, Charles Michel. L’esercito azero ha iniziato un’offensiva militare contro l’enclave separatista, che il ministero della Difesa di Baku considera “un’attività antiterroristica locale”  per “reprimere le provocazioni su larga scala”. Diversi filmati mostrano i bombardamenti sul territorio mentre a Stepanakert, capitale de facto dell’autoproclamata Repubblica dell’Artsakh, risuonano da questa mattina le sirene dell’antiaerea.
    “Le azioni militari dell’Azerbaigian devono essere immediatamente interrotte per consentire un dialogo autentico tra Baku e gli armeni del Nagorno-Karabakh”, è la secca esortazione di Michel, a cui fanno eco le parole dell’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell: “L’Unione Europea condanna l’escalation militare lungo la linea di contatto e in altre località del Nagorno-Karabakh, chiediamo l’immediata cessazione delle ostilità e che l’Azerbaigian interrompa le attività militari in corso”. L’offensiva militare arriva con un messaggio che fa temere il peggio di una guerra totale e la pulizia etnica: nella “zona pericolosa” sarà messa in atto una “evacuazione” della popolazione civile a maggioranza armena. Il governo azero sostiene che l’offensiva è legata esclusivamente a mettere fuori gioco “mezzi di combattimento e strutture militari armene” dopo la morte di quattro soldati e due civili a causa dello scoppio di mine anti-uomo, ribadendo di essere impegnato nella “protezione della popolazione locale”. Ma non è passato inosservato nel corso delle ultime settimane l’ammassamento di convogli azeri – tutti contrassegnati con una A rovesciata (che in modo inquietante ricorda la Z dell’esercito russo in Ucraina) – sul confine con l’Armenia e lungo la linea di contatto nel Nagorno-Karabakh. In un’intervista a Politico il premier armeno, Nikol Pashinyan, aveva avvertito che “non è possibile escludere uno scenario di escalation“.
    “È urgente tornare al dialogo tra Baku e gli armeni del Nagorno-Karabakh, questa escalation militare non deve essere usata come pretesto per forzare l’esodo della popolazione locale“, è l’appello dell’alto rappresentante Borrell, che continua a chiedere “un ambiente favorevole ai colloqui di pace e di normalizzazione” attraverso un “impegno genuino di tutte le parti per lavorare verso risultati negoziali facilitati dall’Ue”. L’escalation arriva dopo mesi di negoziati infruttuosi condotti da Bruxelles e dalla contrapposizione sempre più netta tra il premier armeno e il presidente dell’Azerbaigian, Ilham Aliyev. Il primo cerca ancora l’appoggio militare della Russia – lamentando però che Mosca non è più in grado di agire come garante della sicurezza di Yerevan dopo l’invasione dell’Ucraina – mentre Baku riceve il sostegno della Turchia per un possibile intervento che metta fine a un conflitto congelato da decenni.
    I bombardamenti azeri sul Nagorno-Karabakh sono al contempo una doccia fredda diplomatica e un possibile stop alla politica energetica dell’Unione. In primis perché è da un anno e mezzo che il presidente Michel tenta di spingere per una risoluzione delle tensioni tra i due leader caucasici attraverso il dialogo. Il passaggio del primo convoglio con aiuti internazionali martedì scorso (12 settembre) attraverso la rotta Ağdam-Askeran e poi lo sblocco del corridoio di Lachin proprio ieri (18 settembre) dopo quasi nove mesi di crisi umanitaria sembravano aver indirizzato la situazione nella regione verso uno sviluppo positivo, ma non erano stati considerati i risvolti militari in atto da parte delle forze di Baku. Allo stesso tempo non va dimenticato che nel luglio dello scorso anno la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, si era recata in visita ufficiale in Azerbaigian per siglare un accordo sulla fornitura di gas naturale e – nonostante le perplessità degli analisti sul rischio di sostituire Putin con un altro autocrate – aveva definito Aliyev “un partner affidabile e degno di fiducia“.
    Il corridoio meridionale del gas
    La guerra congelata in Nagorno-Karabakh
    Tra Armenia e Azerbaigian è dal 1992 che va avanti una guerra congelata, con scoppi di violenze armate ricorrenti incentrate nella regione separatista del Nagorno-Karabakh. Il più grave degli ultimi anni è stato quello dell’ottobre del 2020: in sei settimane di conflitto erano morti quasi 7 mila civili, prima del cessate il fuoco che ha imposto all’Armenia la cessione di ampie porzioni di territorio nel Nagorno-Karabakh. Dopo un anno e mezzo la situazione è tornata a scaldarsi a causa di alcune sparatorie alla frontiera a fine maggio 2022, quando è diventato sempre più evidente che la tensione sarebbe tornata a salire. La priorità dei colloqui di alto livello stimolati dal presidente del Consiglio Europeo è stata posta sulla delimitazione degli oltre mille chilometri di confine. Tuttavia, mentre a Bruxelles si sta provando da allora a trovare una difficilissima soluzione a livello diplomatico, da settembre sono riprese le ostilità tra Armenia e Azerbaigian, con reciproche accuse di bombardamenti alle infrastrutture militari e sconfinamenti di truppe di terra.
    Da sinistra: il presidente dell’Azerbaigian, Ilham Aliyev, il presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, e il primo ministro dell’Armenia, Nikol Pashinyan
    La mancanza di un monitoraggio diretto della situazione sul campo da parte della Russia – che fino allo scoppio della guerra in Ucraina era il principale mediatore internazionale – ha portato alla decisione di implementare una missione Ue. Dopo il compromesso iniziale con Yerevan e Baku raggiunto il 6 ottobre a Praga in occasione della prima riunione della Comunità Politica Europea, 40 esperti Ue sono stati dispiegati lungo il lato armeno del confine fino al 19 dicembre dello scorso anno. Una settimana prima della fine della missione l’Azerbaigian ha però bloccato in modo informale – attraverso la presenza di pseudo-attivisti ambientalisti armati – il corridoio di Lachin e da allora sono in atto forti limitazioni del transito di beni essenziali come cibo e farmaci, gas e acqua potabile. Gli unici a poterla percorrere sono i soldati del contingente russo di mantenimento della pace e il Comitato internazionale della Croce Rossa.
    A seguito dell’aggravarsi della situazione nel corridoio di Lachin, il 23 gennaio è arrivata la decisione del Consiglio dell’Ue di istituire la missione civile dell’Unione Europea in Armenia (Euma) nell’ambito della politica di sicurezza e di difesa comune, con l’obiettivo di contribuire alla stabilità nelle zone di confine e garantire un “ambiente favorevole” agli sforzi di normalizzazione dei due Paesi caucasici. Ma la tensione è tornata a crescere lo scorso 23 aprile, con la decisione di Baku di formalizzare la chiusura del collegamento strategico attraverso un posto di blocco, con la giustificazione di voler impedire la rotazione dei soldati armeni nel Nagorno-Karabakh “che continuano a stazionare illegalmente nel territorio dell’Azerbaigian”. Da Bruxelles è arrivata la condanna dell’alto rappresentate Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, prima della ripresa delle discussioni a maggio e un nuovo round di negoziati di alto livello tra Michel, Aliyev e Pashinyan il 15 luglio.
    Soldati dell’Azerbaigian al posto di blocco sul corridoio di Lachin (credits: Tofik Babayev / Afp)
    L’alternarsi di sforzi diplomatici e tensioni crescenti sul campo ha portato a uno degli episodi più allarmanti almeno fino a oggi, che ha messo in pericolo gli osservatori Ue presenti dallo scorso 20 febbraio in Armenia per contribuire alla stabilità nelle zone di confine. Il 15 agosto una pattuglia della missione Euma è rimasta coinvolta in una sparatoria dai contorni non meglio definiti (entrambe le parti, armena e azera, si sono accusate a vicenda), senza nessun ferito. L’evento aveva provocato qualche imbarazzo a Bruxelles, dopo che Yerevan aveva dato la notizia secondo cui l’esercito azero aveva “scaricato il fuoco contro gli osservatori dell’Ue”. Sulla stessa pagina X della missione civile Ue in Armenia era apparso un post (poi cancellato) con un perentorio “falso”, ma poche ore più tardi è stato pubblicato l’aggiornamento di rettifica che ha dato ragione ai portavoce armeni, almeno nella parte in cui è stata confermata la presenza della pattuglia europea durante gli spari, senza nessun riferimento alla responsabilità azera.

    Dopo lo sblocco del rifornimenti umanitari attraverso il corridoio di Lachin, il governo di Baku ha lanciato un’offensiva nell’enclave separatista giustificandola come “attività antiterroristica locale”. Le istituzioni Ue chiedono “l’immediata cessazione delle ostilità” e il “ritorno al dialogo”