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    L’ennesimo anno perso dall’UE sulla strada dell’allargamento ai Balcani Occidentali: (quasi) tutto rimandato al 2022

    Bruxelles – No, i negoziati per l’adesione all’Unione Europea di Albania e Macedonia del Nord non sono ancora iniziati. La grande promessa della presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, è caduta nel vuoto. Questa parola data e non rispettata dall’UE ai Balcani Occidentali è uno dei molti segnali di difficoltà che stanno caratterizzando non solo il processo di allargamento dell’Unione nella regione, ma anche gli stessi rapporti tra Bruxelles e le capitali balcaniche.
    Sul 2021 c’erano grandi aspettative di rilancio del ruolo dell’UE nei Balcani Occidentali (Albania, Bosnia ed Erzegovina, Kosovo, Macedonia del Nord, Montenegro, Serbia), considerati i diversi dossier lasciati in sospeso alla fine dello scorso anno. La maggior parte sono rimasti pressoché inalterati – se non addirittura peggiorati – mentre solo pochi hanno trovato una nuova spinta. La realtà dei fatti è che al momento sono solo due i Paesi che hanno aperto i quadri negoziali con Bruxelles (Serbia e Montenegro).
    Il contorno è una crisi istituzionale in Bosnia ed Erzegovina, un dialogo Kosovo-Serbia che si sta incrinando sempre di più e un clima di disillusione a Skopje e Tirana che non fa presagire nulla di buono. Nel 2022 l’Unione Europea dovrà dimostrare di saper mantenere le promesse fatte ai partner balcanici, o rischierà di compromettere definitivamente il processo di allargamento.
    L’allargamento dell’UE nei Balcani
    Si tratta del tema più caldo sul tavolo europeo e anche il rimpianto più grande di questo 2021. Dopo il veto della Bulgaria all’apertura dei quadri negoziali con la Macedonia del Nord (che ha trascinato nello stallo anche l’Albania) del dicembre dello scorso anno, ci si aspettava che le pressioni diplomatiche sul governo di Sofia avrebbero portato allo sblocco della situazione e l’inizio del cammino di adesione UE per i due Paesi dei Balcani Occidentali vincolati dallo stesso dossier.
    Da sinistra: il premier sloveno e presidente di turno del Consiglio dell’UE, Janez Janša, il presidente del Consiglio UE, Charles Michel, e la presidente della Commissione UE, Ursula von der Leyen (Kranj, 6 ottobre 2021)
    Ad alzare le aspettative era stata la stessa presidente von der Leyen, che nel suo tour a settembre nelle capitali balcaniche aveva promesso a Skopje e Tirana che “le prime conferenze intergovernative si dovranno organizzare entro la fine dell’anno“. Già allora sembrava un azzardo (ma rimane pur sempre la posizione ufficiale della Commissione) e forse è stato anche per questo motivo che, come riportato da Eunews direttamente da Kranj (Slovenia), il mancato accordo al vertice UE-Balcani Occidentali di inizio ottobre non ha rappresentato una grossa sorpresa.
    Il ritorno in presenza (dopo tre anni) dell’appuntamento più importante tra i leader dell’Unione Europea e della regione balcanica è coinciso con un nulla di fatto, al contrario delle aspettative della presidenza slovena del Consiglio dell’UE, che aveva spinto per inserire – invano – la data del 2030 come termine ultimo per il processo di allargamento dell’UE nei Balcani.
    A proposito di adesione all’Unione Europea, va segnalato un parziale successo di Bruxelles nello spingere con decisione i due Paesi che hanno già aperto i negoziati, dando più credibilità e affidabilità a questo processo. Lo scorso 22 giugno sono state avviate le prime conferenze intergovernative con Serbia e Montenegro, attraverso una metodologia rivista basata sull’accorpamento di 33 capitoli negoziali in 6 gruppi tematici: secondo le intenzioni di Bruxelles, in questo modo si riuscirà a dare maggiore dinamismo e risultati tangibili sul fronte delle riforme strutturali a Belgrado e Podgorica.
    Il dialogo Pristina-Belgrado
    Qui invece ci troviamo di fronte al solito nodo irrisolto delle relazioni diplomatiche tra Kosovo e Serbia, con il tentativo di Bruxelles di trovare un punto di mediazione. Il dialogo, che quest’anno ha compiuto esattamente 10 anni, era ripreso nel luglio dello scorso anno dopo anni di silenzio. Ma proprio nel momento in cui si iniziava a sperare in un compromesso tra le parti, il 2021 ha riservato l’ennesima ondata di tensioni.
    Il primo scossone è stata l’elezione del nuovo primo ministro kosovaro, il leader nazionalista di sinistra Albin Kurti. Se da una parte è stato l’artefice di una maggiore stabilizzazione del Paese, allo stesso tempo Kurti ha fatto capire a Belgrado che non farà nessuno sconto nel corso dei negoziati. Ad aumentare questa posizione dura a Pristina – che sta indispettendo la controparte serba – è stata la nomina della nuova presidente della Repubblica, Vjosa Osmani, che da aprile chiede più vaccini anti-COVID per il suo Paese: “Il dialogo con Belgrado prima dei vaccini non è una priorità”.
    Da sinistra: l’alto rappresentante UE, Josep Borrell, e il premier del Kosovo, Albin Kurti (15 giugno 2021)
    Per l’UE si tratta di una delle questioni più spinose nei Balcani Occidentali. Dopo il fallimento della ripresa del dialogo nel doppio incontro di alto livello di quest’estate, a inizio autunno si è toccato il punto più basso. Lo scorso 20 settembre è scoppiata la cosiddetta ‘battaglia delle targhe’ tra i due Paesi, dopo la decisione del governo di Pristina di imporre il cambio delle targhe ai veicoli serbi in entrata nel territorio kosovaro. Dopo 10 giorni di incontri e negoziati promossi da Bruxelles, l’UE è riuscita a far siglare un’intesa a Serbia e Kosovo, che ha risolto una situazione potenzialmente esplosiva.
    Ma è stata una vittoria di Pirro, che non ha fatto avanzare di un millimetro il processo di normalizzazione dei rapporti tra Pristina e Belgrado e che ha avuto come strascico un indebolimento ulteriore della fiducia reciproca. Lo ha dimostrato il fatto che a Bruxelles non si è tenuto più nemmeno un vertice con il premier kosovaro e il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić. “È inutile incontrarci, se in partenza non c’è l’intenzione di trovare un compromesso”, ha commentato recentemente quasi sconsolato l’alto rappresentante UE per gli Affari esteri, Josep Borrell. Alla vigilia del 2022 la prospettiva di compromessi non sembra essere nemmeno teorica, né sul riconoscimento dell’indipendenza di Pristina da parte di Belgrado, né sulla creazione dell’Associazione delle municipalità serbe in Kosovo.
    I buoni propositi per il 2022
    Da cosa ripartire dal primo gennaio del prossimo anno per raddrizzare il cammino dei Balcani Occidentali verso l’UE? Prima di tutto da quello che è indiscutibilmente il vero successo dell’Unione, che le sta consentendo di non perdere troppa credibilità agli occhi dei partner della regione: il Piano economico e di investimenti presentato dal commissario per la Politica di vicinato e di allargamento, Olivér Várhelyi, il 6 ottobre del 2020 e la cui importanza è stata ribadita nel Pacchetto Allargamento 2021.
    Con una mobilitazione di finanziamenti fino a 29 miliardi di euro – e con il sostegno dello strumento di assistenza pre-adesione IPA III per favorire le riforme strutturali – l’UE punta a far sentire la propria presenza economica nella regione, sfidando le insidie russe e soprattutto cinesi nella regione. Una risposta anche allo scandalo del debito da 809 milioni di euro del Montenegro a Pechino, che ha preoccupato l’opinione pubblica fino a fine luglio.
    Il commissario per la Politica di vicinato e di allargamento, Olivér Várhelyi
    Il secondo punto su cui si dovrà insistere sarà la fornitura di vaccini anti-COVID alla regione. Dopo mesi di grandi difficoltà da parte dell’UE, a partire da maggio la situazione dell’invio diretto di dosi e attraverso il meccanismo COVAX ai Balcani Occidentali si è sbloccata, lasciando la sensazione che Bruxelles abbia tutto l’interesse di mettere in sicurezza a livello sanitario i sei Paesi partner. La questione ha una valenza anche geopolitica, dal momento in cui la lotta al COVID-19 sta diventando uno strumento per tenere in piedi il processo di allargamento dell’Unione e si scontra con la penetrazione di Mosca (con il suo vaccino Sputnik V) e di Pechino (con Sinopharm).
    E infine sarà necessario dare una dimostrazione di forza per la stabilizzazione della regione. Evitando errori di comunicazione come quello sul non paper di Lubiana per “completare la dissoluzione dell’ex-Jugoslavia” – che ha infiammato l’opinione pubblica dei Balcani e dei Paesi membri UE prima dell’inizio del semestre sloveno di presidenza del Consiglio dell’UE – Bruxelles è chiamata a dare una risposta concreta alla crisi istituzionale in Bosnia ed Erzegovina. Che si tratti di sanzioni economiche, pressioni politiche o coordinamento con i partner statunitensi sul campo, le istituzioni europee dovranno decidere come non trasformare il 2022 nell’anno in cui le violenze etniche riprenderanno piede nel Paese. Tutto questo a causa delle minacce sempre più reali del membro serbo-bosniaco della Presidenza tripartita, Milorad Dodik, che a ottobre aveva minacciato di portare la Republika Srpska (l’entità serba) fuori dal controllo delle autorità centrali.
    Per l’UE il tempo del temporeggiamento nei Balcani Occidentali sta scadendo. La politica estera nei confronti dei partner più vicini e sensibili alla prospettiva di adesione all’Unione non potrà più basarsi su promesse non mantenute e soli impegni economici. Il 2022 non dovrà essere un ennesimo anno perso sulla strada dell’allargamento, o il rischio di perdere tutta la credibilità accumulata in anni di avvicinamento si potrebbe manifestare in forme più o meno violente. In una regione che ha già dimostrato solo 30 anni fa all’Europa il dramma delle guerre etniche.

    Pesano soprattutto il mancato avvio dei negoziati di adesione con Albania e Macedonia del Nord, il dialogo Kosovo-Serbia sempre più stagnante e le difficoltà nel rispondere alla crisi istituzionale in Bosnia ed Erzegonia

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    Tra sanzioni, violazioni dei diritti umani e traffico di migranti: l’anno in cui i rapporti tra UE e Bielorussia si sono frantumati

    Bruxelles – È difficile pensare a un anno più tormentato per le relazioni tra l’UE e un Paese terzo. Dopo le elezioni-farsa a Minsk dell’agosto 2020, nemmeno a Bruxelles ci si aspettava che tra la Bielorussia e l’Unione Europea non solo calasse il gelo, ma che si aprisse uno scontro diplomatico la cui fine non si riesce ancora a intravedere.
    Che le relazioni tra Minsk e Bruxelles fossero ormai irrimediabilmente incrinate si era capito già da tempo, almeno da quando l‘Unione Europea aveva dichiarato “illegale” l’insediamento dell’autoproclamato presidente della Bielorussia, Alexander Lukashenko, riconoscendo nella leader dell’opposizione, Sviatlana Tsikhanouskaya, la presidente eletta e guida ad interim del Paese. Tuttavia, aldilà delle denunce e delle prese di posizione, alla fine del 2020 l’azione delle istituzioni europee non era sembrata così decisa per sostenere il popolo bielorusso oppresso da quello che viene definito “l’ultimo dittatore d’Europa”. Fatta eccezione per i tre pacchetti di sanzioni contro il regime e l’assegnazione del Premio Sakharov per la libertà di pensiero ai leader dell’opposizione.
    Il dirottamento dell’aereo Ryanair Atene-Vilnius su Minsk da parte delle autorità bielorusse (23 maggio 2021)
    Ma dopo mesi di silenzio da parte dell’Unione Europea – in cui la repressione delle proteste pacifiche e del dissenso in Bielorussia è comunque continuata senza sosta (come ha recentemente ricordato Tsikhanouskaya alla plenaria del Parlamento UE) – la crisi è scoppiata il 23 maggio con il dirottamento del volo Ryanair Atene-Vilnius su Minsk. L’azione bollata come “terrorismo di Stato” da parte dei leader UE è stata voluta dallo stesso dittatore bielorusso per arrestare il giornalista e oppositore politico, Roman Protasevich, che stava viaggiando su quell’aereo. La risposta di Bruxelles è stata la chiusura dello spazio aereo alla compagnia di bandiera bielorussa, Belavia, e il lancio di sanzioni economiche contro il Paese.
    Da quel momento i rapporti tra Unione Europea e Bielorussia si sono disintegrati, complice anche la fragilità del regime di Lukashenko, messo in crisi dalle misure restrittive di un importante partner commerciale quale è l’UE. Come un animale accecato da una ferita, il dittatore si è reso ancora più dipendente dal presidente russo, Vladimir Putin, annunciando poi la sospensione della propria partecipazione al Partenariato orientale e giocandosi la carta che sarebbe diventata dominante nei mesi a seguire: una nuova rotta migratoria aperta artificialmente dal regime bielorusso verso le frontiere dell’Unione.
    La questione era stata sollevata per la prima volta dai Paesi baltici al Consiglio Europeo di giugno, ma allora erano in pochi ad aver capito che la rotta bielorussa avrebbe creato non pochi problemi ai Paesi membri UE. Già a inizio luglio l’incremento di arrivi irregolari di persone migranti in Lituania e Lettonia era stato esponenziale rispetto agli anni precedenti, ma per tutta l’estate il flusso è costantemente aumentato e ha coinvolto anche la Polonia. I leader dell’Unione Europea hanno iniziato a parlare di una “guerra ibrida” condotta dal dittatore della Bielorussia, caratterizzata dall’organizzazione di viaggi per i cittadini dei Paesi del Medio Oriente e dall’Africa subsahariana verso Minsk e di lì verso le frontiere dell’UE.
    Idranti usati dai soldati polacchi contro le persone migranti bloccate alla frontiera con la Bielorussia (16 novembre 2021)
    La mossa di Lukashenko è stata ben calcolata, dal momento in cui sapeva di toccare uno dei tasti più delicati dell’Unione: quello delle divisioni interne nella gestione dei flussi migratori. Non è un caso se i Paesi di frontiera hanno iniziato subito a destinare fondi per la costruzione di barriere di filo spinato e muri, introducendo stati di emergenza e zone rosse che hanno reso inaccessibili a giornalisti e ONG i confini con la Bielorussia. In particolare in Polonia, si sono iniziati a registrare una serie di pushback (respingimenti illegali di persone con diritto alla protezione internazionale ai confini dell’Unione Europea), mentre a Bruxelles si aprivano duri scontri tra istituzioni comunitarie e tra eurodeputati su come affrontare la crisi: il tema prevalente è diventato presto la possibilità di destinare fondi comunitari per il finanziamento di muri al confine con la Bielorussia.
    Alla fine è passata la linea del ‘no’ della Commissione: “Nel proteggere l’Unione va comunque rispettato il principio di non-respingimento e la possibilità di richiedere la protezione internazionale ai valichi di frontiera”, ha ribadito alla plenaria del Parlamento UE di novembre l’alto rappresentante per gli Affari esteri, Josep Borrell (anche se solo un mese dopo è stato proprio l’esecutivo UE a proporre la sospensione di alcune regole sull’asilo e la migrazione in Polonia, Lituania e Lettonia). Bruxelles si è concentrata su tre direttrici di intervento per cercare di risolvere la crisi lungo la rotta bielorussa: convincere i Paesi di origine delle persone migranti a interrompere i voli verso Minsk, inviare aiuti umanitari alla frontiera e colpire con un nuovo pacchetto di sanzioni i responsabili del favoreggiamento della tratta di migranti per scopi politici. Una tattica che al momento sembra aver tamponato una situazione che non è mai stata disperata in termini numerici – mai più di diecimila persone migranti in tutto il territorio bielorusso, secondo le stime più negative – ma lo stesso non si può dire in termini umani.
    La leader bielorussa, Sviatlana Tsikhanouskaya, e il presidente del Parlamento UE, David Sassoli (24 novembre 2021)
    In tutti questi mesi di crisi alla frontiera l’errore che però l’Unione Europea ha commesso spesso è stato quello di dimenticare la situazione interna in Bielorussia (anche questo era uno degli obiettivi di Lukashenko). Nel Paese si contano almeno 882 prigionieri politici, un regime del terrore che ha messo in ginocchio non solo l’opposizione, ma anche qualsiasi voce critica e il giornalismo indipendente. In ordine temporale, gli ultimi a essere condannati sono stati Maria Kolesnikova e Maksim Znak, membri del Presidium del Consiglio di coordinamento dell’opposizione bielorussa, e il marito della leader Tsikhanouskaya, Siarhei Tsikhanouski, imprigionato il 29 maggio del 2020 con l’obiettivo di impedirgli di partecipare alle elezioni presidenziali). Dietro le sbarre c’è anche Ales Bialiatski, uno dei vincitori del Premio Sakharov e fondatore dell’organizzazione per i diritti umani Viasna.
    La leader bielorussa Tsikhanouskaya, presidente eletta riconosciuta dall’UE, ha spiegato dettagliatamente quali sono i passi per non far passare invano un altro anno: isolamento del regime, limitazioni alle risorse e rafforzamento della resistenza democratica. Se era difficile pensare a un anno più tormentato per le relazioni tra l’Unione Europea e la Bielorussia, non risulta molto più semplice immaginare come evolverà la situazione nel 2022. Una delle poche certezze è che Bruxelles dovrebbe iniziare a dare più ascolto alle voci che lottano contro il regime di Lukashenko dall’interno, o rischierà di essere messa di nuovo in crisi su piani che fatica a gestire e che scavano divisioni ancora più profonde all’interno dell’Unione.

    Dopo le elezioni-farsa dell’agosto dello scorso anno, nel 2021 è scoppiata la crisi tra Bruxelles e Minsk. Dopo le sanzioni economiche imposte dall’UE, Lukashenko ha risposto aprendo una nuova rotta migratoria. Ma rimane drammatica anche la situazione dell’opposizione nel Paese

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    Brexit un anno dopo: tanti britannici cominciano a pensare che le cose siano andate male

    Bruxelles – Un anno dopo il 60 per cento degli elettori britannici pensa che la Brexit sia andata peggio del previsto, e il 42 per cento di coloro che hanno votato a favore della separazione non è soddisfatto di come è andata. E’ quanto emerge da un sondaggio pubblicato a un anno dall’uscita del regno dall’UE, promosso dal Observer.
    Il sondaggio condotto dalla società Opinium rivela che il 26 per cento dei sostenitori del Leave ha affermato che è andata peggio di quanto si aspettassero, mentre il 16 per cento di coloro che hanno votato per la Brexit ha affermato di aver previsto che sarebbe andata male e di aver avuto ragione.
    Tra le persone che hanno votato Remain, l’86 per cento ha affermato che era andata male o peggio di quanto si aspettassero. Nel complesso, solo il 14 per cento di tutti gli elettori ha affermato che la Brexit è andata meglio del previsto.
    Adam Drummond, di Opinium, sottolinea che “quello che stiamo vedendo è una significativa minoranza di Leavers che dice che le cose stanno andando male o almeno peggio di quanto si aspettassero, solo il 17% degli elettori di Leave ha dichiarato: ‘Mi aspettavo che andasse bene e penso che sia andata così’”.
    La sensazione negativa non potrà che peggiorare dopo il primo gennaio, quando saranno introdotti  controlli doganali completi sulle merci esportate dall’UE verso il Regno Unito, cosa che che secondo i leader aziendali potrebbero dissuadere alcuni operatori più piccoli, come gli esportatori di generi alimentari, dal rifornire i rivenditori del Regno Unito poiché i loro costi e le pratiche burocratiche aumentano.

    Secondo un sondaggio un’ampia minoranza dei leavers ritiene che le cose stiano andando male, solo il 17 per cento è soddisfatto

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    La Macedonia del Nord pronta per un nuovo governo. L’UE: “Zaev ha dato l’esempio, ora al lavoro con il successore”

    Bruxelles – Dopo un mese e mezzo di crisi di governo, la Macedonia del Nord è pronta per un nuovo esecutivo. Il primo ministro, Zoran Zaev, si è ufficialmente dimesso, inviando la lettera di dimissioni al presidente dell’Assemblea nazionale, Talat Xhaferi, e lasciando posto a un governo ad interim che guiderà la transizione.
    Si attende solo il voto del Parlamento di Skopje che dovrà accettare formalmente le dimissioni di Zaev. A quel punto il presidente della Repubblica della Macedonia del Nord, Stevo Pendarovski, avrà dieci giorni di tempo per consegnare il mandato di formare un nuovo governo alla coalizione guidata dall’Unione socialdemocratica di Macedonia (SDSM) – il partito dell’ex-premier Zaev – che a sua volta dovrà riuscire a esprimere una maggioranza parlamentare nell’arco di 20 giorni.
    Entro la fine di gennaio tutto l’iter dovrà essere completato. Lo scenario più probabile è un gabinetto guidato dal nuovo leader socialdemocratico, Dimitar Kovačevski, economista 47enne laureati ad Harvard, che due giorni fa (martedì 21 dicembre) ha presenziato con Zaev alla firma dei protocolli d’intesa dell’accordo Open Balkan con Albania e Serbia. Un altro scenario potrebbe essere quello di elezioni anticipate, come richiesto dall’opposizione del Partito democratico per l’unità nazionale macedone (VMRO DPMNE). Questo nel caso in cui non si riuscisse a trovare nemmeno un’alternativa parlamentare guidata dal partito di destra in coalizione con l’Alleanza per gli Albanesi, l’estrema sinistra di Levica e il partito di etnia albanese BESA.
    La crisi di governo in Macedonia del Nord si era aperta a inizio novembre, dopo il crollo del partito del premier Zaev alle elezioni amministrative anche nella capitale Skopje. Il primo ministro aveva annunciato che si sarebbe dimesso, ma da allora la situazione era rimasta congelata. Zaev è stato a capo del governo della Macedonia del Nord dal 2017, confermato anche alle elezioni anticipate del 30 agosto 2020. Tre anni fa era riuscito a raggiungere un accordo con la Grecia per il cambio di nome del Paese, condizione imposta da Atene per l’adesione alla NATO e all’UE. Con gli Accordi di Prespa firmati il 12 giugno 2018, la Repubblica di Macedonia è diventata Repubblica della Macedonia del Nord. Il 27 marzo 2020 Skopje ha fatto ingresso nell’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord (diventandone il 30esimo Paese membro), mentre si è rivelata più complicata la strada per l’accesso all’Unione Europea.

    Prime Minister @Zoran_Zaev set an example for the region with the #Prespa agreement, consolidating good neighbourly relations. It was good working with you, I look forward further advancing North Macedonia’s EU path, on which you firmly anchored the country, w/the next government
    — Josep Borrell Fontelles (@JosepBorrellF) December 23, 2021

    “È stato un piacere lavorare con Zaev, che ha dato un esempio per la regione con l’accordo Prespa, consolidando le relazioni di buon vicinato”, è stato il saluto dell’alto rappresentante UE per gli Affari esteri, Josep Borrell. “Non vedo l’ora di far avanzare ulteriormente con il prossimo governo il percorso della Macedonia del Nord verso l’UE, su cui hai saldamente ancorato il Paese”, si è rivolto direttamente all’ex-premier l’alto rappresentante Borrell.
    Le dimissioni di Zaev – e il nuovo governo in Bulgaria guidato da Kiril Petkov – aprono la strada a un possibile nuovo rapporto tra Skopje e Sofia, per cercare una soluzione alla questione dello stallo nel processo di adesione UE della Macedonia del Nord (e dell’Albania, vincolata dallo stesso dossier) causato dal veto della Bulgaria all’apertura dei quadri negoziali con il Paese confinante per questioni di natura puramente nazionalistica. Dopo l’opposizione di Francia, Danimarca e Paesi Bassi all’avvio dei negoziati con Tirana protrattasi in Consiglio fino al marzo 2020, il processo si ero rimesso in moto l’anno scorso solo per pochi mesi. Nemmeno il vertice UE-Balcani Occidentali dello scorso 6 ottobre in Slovenia è riuscito a portare sostanziali novità per risolvere la crisi tra la Macedonia del Nord e la Bulgaria. Nel 2022 ci riproveranno due nuovi governi nazionali, non appena si chiarirà il quadro politico macedone.

    Dopo le dimissioni ufficiali dell’ex-premier (attese da oltre un mese), entro fine gennaio Skopje attende un nuovo esecutivo, con cui l’alto rappresentante Borrell vuole “far avanzare il percorso del Paese verso l’UE”

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    La risposta di Europol al favoreggiamento sui social media del traffico di persone migranti dalla Bielorussia

    Bruxelles – È arrivata una prima risposta da Europol alla richiesta della Commissione Europea di coordinare un’azione contro il traffico di persone migranti dalla Bielorussia alle frontiere dell’Unione. Secondo quanto reso noto dall’Ufficio europeo di polizia, sono stati individuati 455 account sui social media che favoreggiano l’immigrazione irregolare, attraverso la pubblicizzazione online della vendita di documenti d’identità, passaporti e visti contraffatti o servizi di trasporto illegale.
    Con questa operazione su larga scala il Centro europeo per il traffico di migranti (EMSC) di Europol – insieme all’Unità di riferimento Internet dell’Unione europea (EU IRU), all’interno del Centro europeo antiterrorismo (ECTC) – ha coordinato l’azione di contrasto contro il traffico di esseri umani in Bielorussia, coinvolgendo anche le autorità di Lituania, Lettonia, Estonia, Finlandia, Polonia e Germania. Il fulcro delle attività è stata la raccolta di contenuti e dati sui social media che promuovono i servizi di immigrazione per i cittadini di Paesi terzi, in particolare del Medio Oriente e dell’Africa subsahariana.
    Dal momento in cui la rotta bielorussa è “fortemente pubblicizzata” alle persone migranti sui social media e sulle applicazioni di messaggistica istantanea (“il che rappresenta un fattore di attrazione significativo”, spiega la nota di Europol), i 455 account sono stati segnalati ai fornitori di servizi online con la richiesta di esaminarli per violazione dei termini di servizio. “L’uso improprio di queste piattaforme online” da parte dei trafficanti è considerato un fattore decisivo per il “grande aumento delle partenze e degli attraversamenti irregolari” delle frontiere dell’Unione. 
    La questione del favoreggiamento dell’immigrazione irregolare dalla Bielorussia è al centro dell’attività di Europol e delle altre agenzie UE a supporto dei Paesi di frontiera: l’Ufficio europeo di sostegno per l’asilo (EASO) per l’elaborazione delle domande di asilo e l’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera (Frontex) per le attività di controllo delle frontiere e di rimpatrio. Dallo scorso 23 novembre anche gli operatori di trasporto complici della tratta delle persone migranti sono stati inseriti nella lista delle sanzioni UE contro il regime bielorusso di Alexander Lukashenko.

    L’Ufficio europeo di polizia ha individuato e segnalato 455 account che pubblicizzano sulle piattaforme online la vendita di documenti contraffatti e servizi di trasporto illegali per cittadini di Paesi terzi che vogliono entrare nell’UE

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    UK: David Frost si dimette da negoziatore post Brexit con l’UE. Al suo posto la ministra degli Esteri Liz Truss

    Bruxelles – Un nuovo colpo di scena nel romanzo senza fine intitolato ‘Brexit’: David Frost, capo negoziatore per il Regno Unito nelle trattative con l’UE per l’implementazione dell’accordo di recesso entrato in vigore il primo gennaio 2021, si è dimesso tra le polemiche dal governo britannico guidato da Boris Johnson. Al suo posto nell’Ufficio di gabinetto la segretaria di Stato per gli Affari esteri, Liz Truss, da ieri (domenica 19 dicembre) incaricata anche di prendere le redini dei negoziati con Bruxelles sul protocollo sull’Irlanda del Nord.
    Frost ha fatto un passo indietro dal ruolo di primo negoziatore per le relazioni con l’UE post-Brexit, dicendosi “disilluso” sulla direzione che sta prendendo il governo conservatore sul fronte della lotta alla pandemia COVID-19, in particolare sulla decisione di reintrodurre le restrizioni sui viaggi (obbligo di doppio tampone, uno 48 ore prima del viaggio e uno dopo l’ingresso, con isolamento in attesa del secondo risultato). A questo si aggiunge la batosta politica nel North Shropshire, nell’Inghilterra centro-occidentale, seggio conservatore da oltre 200 anni e finito giovedì scorso (16 dicembre) nelle mani dei liberal-democratici, dopo uno scandalo di corruzione che ha portato a elezioni suppletive.
    La segretaria di Stato per gli Affari esteri del Regno Unito e capo negoziatrice delle relazioni post-Brexit con l’Unione Europea, Liz Truss
    La perdita di Frost – consigliere di Johnson quando era ministro degli Esteri nel governo di Theresa May e successivamente capo negoziatore Brexit – allunga le ombre di un possibile voto di sfiducia nei confronti di BoJo da parte del suo stesso partito. La nomina di Truss appare una mossa tattica del primo ministro nel tentativo di disinnescare una delle personalità più popolari nel suo gabinetto, che sta emergendo sempre più come potenziale candidata ad assumere la leadership in caso di cambio di guida del governo. “Liz Truss assumerà la responsabilità ministeriale per le relazioni del Regno Unito con l’Unione Europea con effetto immediato e guiderà i negoziati in corso per risolvere i problemi derivanti dall’attuale funzionamento del protocollo sull’Irlanda del Nord”, ha comunicato l’ufficio di Johnson.
    Ma l’uscita di scena di Frost e la comparsa di Truss al tavolo dei negoziati post-Brexit per Bruxelles potrebbe non essere un male. Al contrario, l’ex-capo negoziatore è stato spesso indicato come l’artefice principale della caotica strategia di Downing Street di uscita dall’Unione Europea, nonché responsabile delle continue tensioni sul commercio nel Mare d’Irlanda tra Gran Bretagna e Irlanda del Nord. “Penso che Frost abbia sempre sottovalutato l’unità degli europei, il nostro attaccamento al Mercato Unico e il mandato che avevo dai leader dell’Unione”, ha commentato l’ex-negoziatore Brexit per l’UE, Michel Barnier. Va ricordato che l’attuale segretaria di Stato per gli Affari esteri e nuova capo negoziatrice per il Regno Unito era stata una sostenitrice del Remain nella campagna referendaria del 2016 sulla Brexit: nonostante ora sostenga la politica del governo Johnson, potrebbe presentarsi con posizioni più concilianti al primo incontro con la controparte comunitaria.
    Dopo l’annuncio del passaggio di testimone a Londra, il vicepresidente della Commissione UE per le Relazioni interistituzionali e le prospettive strategiche, Maroš Šefčovič, ha ribadito su Twitter che “la mia squadra e io continueremo a cooperare con il Regno Unito con lo stesso spirito costruttivo su tutti gli importanti compiti futuri, compreso il protocollo sull’Irlanda del Nord”. Dopo la proposta dello scorso venerdì (17 dicembre) da parte della Commissione UE per garantire la continuità della fornitura a lungo termine di medicinali dalla Gran Bretagna all’Irlanda del Nord, le due parti dovrebbero riprendere i negoziati a gennaio su tutta una serie di questioni sulle verifiche doganali e i controlli dei prodotti agroalimentari che si spostano nel Mare d’Irlanda, che nel contesto post-Brexit sono essenziali per mantenere integro il Mercato Unico sull’isola d’Irlanda.

    I take note of the appointment of @trussliz as co-chair of the 🇪🇺🇬🇧 Joint Committee and Partnership Council. My team and I will continue to cooperate with the UK in the same constructive spirit on all important tasks ahead, including the Protocol on Ireland/Northern Ireland.
    — Maroš Šefčovič🇪🇺 (@MarosSefcovic) December 19, 2021

    Passaggio di testimone a Downing Street alla guida dei negoziati con Bruxelles sull’accordo di recesso e il protocollo sull’Irlanda del Nord. Il vicepresidente della Commissione UE Šefčovič: “Continueremo a cooperare con lo stesso spirito costruttivo”

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    EU IDEA project: differentiated integration has to be used “very carefully” in the Western Balkans

    Brussels – “We have to be very careful, because if we go too far with differentiated integration outside the European Union, it can bring to disintegration”. Dragan Tilev, State Counselor at the Secretariat for European Affairs of the Republic of North Macedonia, is convinced that the path to EU accession for the Western Balkans has to follow “a new methodology, addressing all the open issues with more unity and pragmatism”.
    In a nutshell, these are the challenges for the European Union dealing with the enlargement process and with the future EU membership of the Western Balkans’ countries. Tilev gave a keynote speech during the conference Differentiated Integration and the Western Balkans, organized by the Institute for Democracy ‘Societas Civilis’ (IDSCS) today (Friday 17 December) within the framework of EU IDEA – Integration and Differentiation for Effectiveness and Accountability.
    EU IDEA is a project funded by the European Commission under the Horizon2020 programme and led by Istituto Affari Internazionali (IAI), with the participation of Eunews as media partner, EU IDEA addresses differentiation and integration issues in order to find viable solutions to the current challenges that the EU is facing.
    Dragan Tilev, State Counselor at the Secretariat for European Affairs of the Republic of North Macedonia
    Opened by the remarks by Nenad Markovikj, Professor at Faculty of Law at Ss. Cyril and Methodius University in Skopje and member of the Executive Board at Institute for Democracy ‘Societas Civilis’, the conference focused on the causes and consequences of this approach in the Western Balkans. “EU accession negotiations frameworks impose differentiated integration to the countries that are not still part of the European Union”, Tilev stated. “This is a fact and a necessity in times of crisis, also considering the different national interests”, he added. However, “nowadays the enlargement process is endangered by the disunity of the 27 Member States“, as the case of the accession of North Macedonia shows: “The different position of Bulgaria, which is blocking the starting of negotiations, is deteriorating the situation”. The European Union should also “accelerate on the negotiations with Serbia and Montenegro, play a key-role in the stabilization of Bosnia and push for visa liberalization in Kosovo”.
    Considering all these challenges, during the EU IDEA conference, Sandra Lavenex, Professor of European and International Politics at the University of Geneva, wondered “under which circumstances, differentiated integration can be effective and legitimate“, even if this is “something that will last in the future and will affect Western Balkans’ governments”. Denis Preshova, Assistant Professor at the Faculty of Law at Ss. Cyril and Methodius University in Skopje and Associate Researcher at IDSCS tried to focus on the positive aspects of this approach: “There is a nexus between pre-conditionality and the EU accession process, for example on the respect of Rule of Law”. Since the European Union “is becoming more active in reducing the heterogeneity of judicial systems in the enlargement process”, differentiated integration “is dealing with different judicial systems”.
    In this sense, at the end of the whole process, the scenario in the Western Balkans could be “more harmonized that the one in Eastern Europe”, Preshova underlined. Ivan Damjanovski, Associate Professor at the Faculty of Law at Ss. Cyril and Methodius University in Skopje, stressed that the concept of Rule of Law: “will lead to more uniformity of the judicial systems”. At the same time, “more integration is also needed, in particular through the collaboration with the EU agencies”, such as Frontex and Europol.
    Despite the current problematic issues, “we are talking about a privileged partnership”, Damjanovski stated. For Matteo Bonomi, Research Fellow at the Istituto Affari Internazionali (IAI), “the role of the EU on integration, migration and foreign policy is a complex puzzle“. For example, in the Western Balkans “we see more and more political alignment, but it does not mean that the economical and institutional situation goes hand in hand”.
    Senem Aydin-Düzgit, Professor of International Relations at the Faculty of Arts and Social Sciences at the Sabancı University, recalled her intervention during another EU IDEA conference held in March: “External differentiated integration sometimes limits the flexibility in collaborative initiatives of EU Member States”, not only in the Western Balkans. “Formally, Turkey is a candidate to the EU accession, but the degree of cooperation depends on the level of political alignment with the partner“, Aydin-Düzgit concluded.

    At the conference of the Institute for Democracy ‘Societas Civilis’ (IDSCS) in Skopje, the EU IDEA panel discussed how differentiated integration affects the Western Balkans countries and their accession process

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    UE si dice pronta a reagire a Mosca in Ucraina, nuove sanzioni contro Lukashenko

    Bruxelles – Disponibili alla diplomazia, pronti allo scontro. La prima è la via da privilegiare, il secondo la strada da percorrere se fosse necessario. Nei confronti della Russia e nei riguardi delle tensioni che si registrano a est dell’Europa i capi di Stato e di governo confermano di essere pronti a tutto, e quindi ad ogni possibilità. Le conclusioni dell’ultimo vertice del consiglio europeo dell’anno mostrano un’Europa determinata e pronta a reagire nelle intenzioni. Nel documenti si riflettono le diverse anime di un’Europa che in politica estera continua a fare fatica, e che comunque spera di non dover fare davvero sul serio.
    Di fronte alle pressioni di Mosca, che ammassa truppe sul confine con l’Ucraina, una parte dei Ventisette – baltici e blocco dell’est – esorta ad una linea ferma e risoluta, mentre altri, i principali – Italia, Germania, Francia e Spagna – spinge da sempre per mantenere aperto il canale del dialogo. Al termine della discussione i leader confermano la linea che mette tutti d’accordo. La linea dura è pronta, e prevede “serie conseguenze e gravi costi in risposta a ulteriori aggressioni militari” ai danni di Kiev e del suo territorio. Nel pacchetto di azioni anche “misure restrittive coordinate con i partner“.
    L’UE è dunque pronta a reagire con sanzioni, sulla cui natura ed entità nessun leader si sbilancia. La discussione su Ucraina, Bielorussia e attività della Russia in questa zona è stata condotta a porte chiuse nel senso più vero dell’espressione. Sono stati spenti i telefoni cellulari per non far trapelare alcun dettaglio. L’UE non vuole mostrare le carte, perché sa che la posta in gioco è enorme.
    La linea rossa resta l’integrità territoriale dell’Ucraina. “E’ un importante fondamento della pace in Europa e faremo di tutto per mantenere questa inviolabilità”, afferma il cancelliere tedesco, Olaf Scholz. Gli europei hanno già dovuto assistere alla conquista della Crimea da parte dei russi, senza poter muovere un dito. Il fatto che si chiarisca che ogni reazione a dodici stelle sarà comunque preso di concerto coi partner implica la partecipazione della NATO, come conferma anche la stessa alleanza atlantica al termine delle discussioni dei Ventisette. “Qualsiasi ulteriore aggressione contro l’Ucraina avrebbe enormi conseguenze e avrebbe un prezzo elevato. La NATO continuerà a coordinarsi strettamente con le parti interessate e altre organizzazioni internazionali, compresa l’UE”. 
    Soffiano venti di guerra, e a non nasconderlo è il presidente lituano Gitanas Nauseda, tra quelli che non vorrebbe perdere tempo e agire. “Lo scenario peggiore, quello di un conflitto militare, purtroppo non possiamo escluderlo“. Ma l’UE continua a sondare la via non certo più agevole ma sicuramente più percorribile. Il Consiglio europeo “incoraggia gli sforzi diplomatici” innanzitutto. La seconda via, quella del confronto muscolare, dipenderà dalle mosse di Mosca a cui si chiede di “ridurre le tensioni”. Europa pronta a reagire, ma solo se lo richiederà il caso.
    Una linea analoga si adotta per la Bielorussia. Qui si torna a chiedere il rilascio “immediato e incondizionato” degli oppositori del regime di Alexander Lukashenko, per cui chiede “attuazione rapida” delle sanzioni già decretate e di “essere pronti a comminarne delle altre, se necessario”.
    Come per l’Ucraina, anche in Bielorussia sulle risposte l’UE si prepara ad ogni evenienza e studia le mosse degli avversari. Con la differenza che mentre nel primo caso si vuole salvaguardare le frontiere altrui, qui si intende blindare le proprie. I leader insistono sulla necessità di “proteggere efficacemente” i confini esterni dell’UE, e chiedono in tal senso ai propri ministri competenti di “esaminare le misure d’emergenza della Commissione europea“. Sono quelle che intendono, tra le altre cose, permettere agli Stati di chiudere le porte in faccia ai richiedenti asilo usati come ariete, nel caso della Bielorussia.

    I Ventisette mostrano i muscoli e minacciano la linea dura in caso di aggressioni militari nei confronti di Kiev. La diplomazia resta la via maestra, nuovo invito a Minsk per il rilascio degli oppositori