More stories

  • in

    Israele non si ferma più, ennesimo appello dell’Ue per porre fine alle “colonie illegali”

    Bruxelles – Continuano gli appelli europei per porre fine all’illegale occupazione israeliana nei territori palestinesi. Ma, invece che ridursi, le colonie sono sempre di più: dopo il via libera, datato 17 maggio, del governo israeliano per la costruzione di oltre 600 unità abitative negli insediamenti esistenti e nuovi in Cisgiordania, il 22 maggio gli abitanti di Ein Samiya, piccolo villaggio a pochi chilometri da Ramallah, hanno dovuto dire addio alle proprie case dopo anni di angherie subite per mano di cittadini israeliani.
    “L’Ue è sconvolta nell’apprendere che la comunità palestinese di Ein Samiya, che comprende 172 persone, tra cui 78 bambini, è stata costretta a lasciare definitivamente le proprie case a seguito dei ripetuti attacchi dei coloni e degli ordini di demolizione”, ha dichiarato in una nota Peter Stano, portavoce del Servizio Europeo di Azione Esterna (Seae). Dopo diversi episodi di violenza, restrizioni sulla costruzione di case e infrastrutture, demolizioni – l’ultima approvata da Tel Aviv riguarda una scuola finanziata proprio dall’Unione Europea- gli abitanti palestinesi hanno alzato bandiera bianca. Se anche la scuola del villaggio verrà rasa al suolo, andrà ad aggiungersi alle 101 costruzioni finanziate dall’Unione Europea o dai suoi Stati membri demolite lo scorso anno da Israele, per un valore di circa 337 mila euro.
    Una tenda bruciata nel villaggio di Ein Samiya, dopo un attacco di estremisti israeliani nel 2015 (Photo by ABBAS MOMANI / AFP)
    Anche il commissario Ue per la gestione delle crisi, Janez Lenarčič, ha espresso dure parole di condanna: “Lo sgombero forzato dei palestinesi dalla Cisgiordania, la demolizione delle strutture finanziate dai donatori, la violenza e la coercizione devono finire. Esorto Israele a prevenire i trasferimenti forzati, porre fine alle violazioni del diritto internazionale e garantire la sicurezza delle persone colpite”, ha dichiarato su Twitter.
    Oggi sono circa 475 mila i coloni israeliani che vivono in insediamenti, autorizzati dal governo, nella West Bank palestinese. “Gli insediamenti – ha ricordato il portavoce dell’Alto rappresentante Ue, Josep Borrell – sono illegali secondo il diritto internazionale e minano la praticabilità della soluzione dei due Stati. Tali azioni unilaterali vanno contro gli sforzi per abbassare le tensioni sul terreno”.

    Dopo il via libera alla costruzione di oltre 600 nuove unità abitative in Cisgiordania, i quasi 200 abitanti del piccolo villaggio palestinese di Ein Samiya sono stati costretti ad abbandonare le proprie case. A rischio demolizione anche una scuola finanziata dall’Ue. “La violenza deve finire”, ha dichiarato il commissario Ue, Janez Lenarčič

  • in

    L’Ue reagisce alla visita del serbo-bosniaco Dodik a Putin: “I nostri alleati non vanno in Russia”

    Bruxelles – È successo di nuovo. In più di un anno di guerra in Ucraina non era mai successo che un leader europeo facesse visita all’autocrate russo, Vladimir Putin, a Mosca. E invece per due volte in otto mesi a rompere l’unità del continente su questo punto è stato Milorad Dodik, presidente della Repubblica Srpska (l’entità a maggioranza serba della Bosnia ed Erzegovina), il più controverso e divisivo politico tra i partner dell’Unione Europea. Un viaggio che rappresenta il culmine di una striscia di provocazioni a Bruxelles, dalle spinte separatiste all’onorificenza a Putin, fino alla legge sugli ‘agenti stranieri’ di ispirazione russa, che rappresenta una sorta di ‘recidiva’ rispetto alla visita al Cremlino del 20 settembre dello scorso anno.
    Da sinistra: il presidente della Republika Srpska, Milorad Dodik, e l’autocrate russo, Vladimir Putin, al Cremlino il 23 maggio 2023 (credits: Alexey Filippov / Sputnik / Afp)
    “Noi pensiamo che la Federazione Russa, che con insistenza si è battuta per un suo quadro di sicurezza e che ha cercato di ottenere tali garanzie, sia stata semplicemente costretta all’operazione militare in Ucraina“, è quanto riporta il Cremlino in una trascrizione delle parole rivolte da Dodik a Putin, durante il colloquio andato in scena al Cremlino nella giornata di ieri (23 maggio). Proprio sulla guerra in Ucraina l’autocrate russo ha rivolto un ringraziamento al leader serbo-bosniaco per aver mantenuto una “posizione neutrale”, impendendo di fatto alla Bosnia ed Erzegovina di allinearsi alle posizioni dell’Ue e alle sanzioni internazionali contro la Russia.
    Proprio su questo punto Dodik si è lamentato con Putin del fatto che “la Repubblica Srpska è soggetta a pressioni da parte di partner occidentali che ci impediscono di svilupparci normalmente”. Nonostante ciò il commercio bilaterale tra l’entità serba in Bosnia e la Russia nel 2022 sarebbe aumentato del 57 per cento rispetto all’anno precedente, in particolare per quanto riguarda le forniture di gas: come la Serbia, anche la Bosnia ed Erzegovina (e di conseguenza la Republika Srpska) riceve gas dal colosso energetico russo Gazprom attraverso il gasdotto BalkanStream (prolungamento del TurkStream tra Russia e Turchia), che passa dalla Bulgaria. Nonostante Sofia non riceva più gas russo da oltre un anno per essersi rifiutata di pagarlo in rubli, non ha mai impedito il transito del flusso verso i due Paesi balcanici. Duro l’attacco da parte di Bruxelles, che ancora una volta ribadisce come “mantenere stretti legami con la Russia è incompatibile con il percorso dell’Ue“. Il portavoce del Servizio Europeo per l’Azione Esterna (Seae), Peter Stano, ha fatto leva su quanto messo in chiaro con tutti i Paesi candidati all’adesione all’Unione – come lo sono la Bosnia ed Erzeogovina e le sue due entità costitutive dal 15 dicembre dello scorso anno: “Le relazioni con la Russia non possono essere business as usual con Putin“.
    Distributore Gazprom in Bosnia ed Erzegovina
    Ecco perché l’Ue si aspetta dai partner che aspirano a fare ingresso nell’Unione “affidabilità per principi, valori, sicurezza e prosperità comuni”, come ricordato dall’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, lunedì (22 maggio) durante la riunione a Bruxelles con ministri degli Esteri di tutti i sei Paesi dei Balcani Occidentali (Albania, Bosnia ed Erzegovina, Kosovo, Macedonia del Nord, Montenegro e Serbia). Anche il commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi, al termine di una riunione a Sarajevo la settimana scorsa con la neo-premier bosniaca, Borjana Krišto, aveva condannato il possibile viaggio di Dodik a Mosca: “Gli alleati dell’Ue non vanno in Russia”. Sulla possibilità di imporre sanzioni contro Dodik o la Republika Srpska, fonti Ue rivelano a Eunews che esiste già da tempo un quadro di misure restrittive pronto per essere applicato, ma per qualsiasi atto concreto serve l’unanimità ed è l’Ungheria a non permettere il via libera. In altre parole, finché Viktor Orbán “gli coprirà le spalle”, Dodik non sarà inserito nella lista delle sanzioni dell’Unione Europea.
    Le provocazioni di Dodik a Bruxelles
    È dall’ottobre del 2021 – ben prima dell’inizio dell’invasione russa in Ucraina – che Dodik è diventato una spina nel fianco dell’Ue, facendosi promotore di un progetto secessionista in Republika Srpska. L’obiettivo è quello di sottrarsi dal controllo dello Stato centrale in settori fondamentali come l’esercito, il sistema fiscale e il sistema giudiziario, a più di 20 anni dalla fine della guerra etnica in Bosnia ed Erzegovina. Il Parlamento Europeo ha evocato sanzioni economiche (le stesse che le fonti precisano essere in stallo) e dopo la dura condanna dei tentativi secessionisti dell’entità a maggioranza serba in Bosnia (con un progetto di legge per l’istituzione di un Consiglio superiore della magistratura autonomo), a metà giugno del 2022 i leader bosniaci si sono radunati a Bruxelles per siglare una carta per la stabilità e la pace, incentrata soprattutto sulle riforme necessarie sul piano elettorale e costituzionale nel Paese balcanico.
    Da sinistra: il presidente della Republika Srpska, Milorad Dodik, e l’autocrate russo, Vladimir Putin, al Cremlino il 20 settembre 2022 (credits: Alexey Nikolsky)
    Alle provocazioni secessioniste si è affiancato dal 24 febbraio dello scorso anno il non-allineamento alla politica estera dell’Unione e alle sanzioni internazionali contro il Cremlino: insieme alla Serbia la Bosnia ed Erzegovina è l’unico Paese europeo a non aver adottato le misure restrittive Ue a causa dell’opposizione della componente serba della presidenza tripartita. Già il 20 settembre dello scorso anno Dodik aveva viaggiato a Mosca per un incontro bilaterale con Putin, dopo le provocazioni ai partner occidentali sull’annessione illegale da parte del Cremlino delle regioni ucraine Donetsk, Luhansk, Kherson e Zaporizhzhia. Provocazioni che sono continuate a inizio gennaio di quest’anno con il conferimento all’autocrate russo dell’Ordine della Republika Srpska (la più alta onorificenza dell’entità a maggioranza serba del Paese balcanico) – come riconoscimento della “preoccupazione patriottica e l’amore” nei confronti delle istanze di Banja Luka – in occasione della Giornata nazionale della Republika Srpska, festività incostituzionale secondo l’ordinamento bosniaco.
    Parallelamente sono continuati i tentativi di imporre un sistema di controllo sui media e la libertà di stampa che ricorda molto da vicino quello russo. A fine marzo l’Assemblea nazionale della Repubblica Srpska ha votato a favore di emendamenti al Codice Penale che reintroducono sanzioni penali per la diffamazione. Il 22 maggio sono scaduti i 60 giorni di consultazione pubblica per l’entrata in vigore degli emendamenti. Allo stesso tempo il governo dell’entità serba della Bosnia ed Erzegovina ha presentato un progetto di legge per istituire un registro di associazioni e fondazioni finanziate dall’estero: il modello è simile a quello adottato a Mosca dal primo dicembre dello scorso anno, che ha ampliato l’utilizzo politico dell’etichetta ‘agente straniero’ già utilizzata dal 2012 per colpire media indipendenti e Ong.

    Il presidente della Republika Srpska, l’entità a maggioranza serba della Bosnia ed Erzegovina, è tornato il primo leader europeo a incontrare a Mosca l’autocrate russo. Fonti Ue riportano a Eunews che a ostacolare l’imposizione di un regime di sanzioni è il veto dell’Ungheria di Viktor Orbán

  • in

    L’indipendente Oğan appoggia Erdoğan al ballottaggio. In Turchia è sempre più probabile la rielezione del sultano

    Bruxelles – Le speranze dell’opposizione in Turchia di estromettere dal potere il presidente in carica, Recep Tayyip Erdoğan, sono appese a un filo sempre più sottile. Perché il terzo candidato sconfitto al primo turno delle presidenziali, l’indipendente Sinan Oğan, ha reso finalmente nota la propria indicazione di voto ai sostenitori in vista del ballottaggio del prossimo 28 maggio. E il sostegno non è andato a chi avrebbe avuto più bisogno di quei 5,2 punti percentuali per insidiare da vicino l’uomo forte di Ankara e riaprire la partita elettorale, ovvero lo sfidante Kemal Kılıçdaroğlu. “Chiedo ai miei elettori di appoggiare Erdoğan“, ha annunciato il leader ultra-nazionalista in una conferenza stampa convocata nel tardo pomeriggio di ieri (22 maggio), in cui ha messo in chiaro che il presidente in carica è il candidato che potrà dare più stabilità al Paese.
    Il candidato indipendente sconfitto al primo turno delle elezioni presidenziali in Turchia, Sinan Oğan (credits: Adem Altan / Afp)
    In verità l’annuncio non ha sorpreso gli analisti, considerato il fatto che il partito da cui Oğan proviene, il Partito del Movimento Nazionalista (Mhp), farà parte della nuova maggioranza di 323 deputati che in Parlamento sosterrà l’esecutivo a trazione Akp (il Partito della Giustizia e dello Sviluppo del presidente Erdoğan). L’Alleanza Ata che ha sostenuto Oğan – formata da piccoli partiti di destra nazionalista e ultranazionalista – si è già sciolta, ma sembra verosimile che i quasi tre milioni di elettori del primo turno seguiranno le indicazioni dell’ormai ex-candidato comune. Ad accomunarli ci sono gli stessi sentimenti di odio sia nei confronti delle persone migranti arrivate dalla Siria, sia nei confronti della minoranza curda, che hanno fatto propendere la scelta del candidato sconfitto al primo turno più per Erdoğan che per Kılıçdaroğlu.
    Nei giorni successivi al voto del 14 maggio il candidato estromesso dalla corsa a due di domenica prossima ha incontrato il presidente in carica che, secondo quanto riportato in conferenza stampa, condivide la sua visione di “prendere tutte le misure per rimpatriare i migranti” nel più breve tempo possibile. Buona parte della campagna elettorale è stata giocata proprio sul tema della gestione degli oltre tre milioni di cittadini siriani rifugiati in Turchia dopo lo scoppio della guerra civile del 2011. Erdoğan ha promesso che incoraggerà il rimpatrio di almeno un milione di persone e negli ultimi giorni Kılıçdaroğlu l’ha seguito su questa strada di consenso elettorale, nella speranza di strappare voti al leader dell’Akp su questo tema, ma non è sembrato sufficientemente credibile agli occhi dei nazionalisti. Un’altra questione di non poco conto è quella delle accuse dell’ex-Alleanza Ata alla cosiddetta ‘Tavola dei Sei’ – il patto tra sei partiti di opposizione per esprimere un candidato comune – di sostenere il movimento politico-militare curdo del Pkk (Partito dei lavoratori del Kurdistan), a causa del sostegno dal Partito della Sinistra Verde (Ysp), di orientamento filo-curdo.
    Il primo turno delle elezioni in Turchia
    Da sinistra: il presidente della Turchia, Recep Tayyip Erdoğan, il presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, e la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen
    Al primo turno delle elezioni presidenziali in Turchia la presenza Oğan è stata decisiva per portare gli elettori di nuovo alle urne per il ballottaggio tra Erdoğan e Kılıçdaroğlu. Dopo un recupero quasi clamoroso rispetto ai sondaggi elettorali, il presidente in carica è andato molto vicino a farsi eleggere già il 14 maggio, conquistando il 49,5 per cento delle preferenze, mentre lo sfidante dell’opposizione si è fermato al 44,89, ben sotto le aspettative. Il candidato dell’Alleanza Ata ha incassato un 5,17 per cento, che ha significato diventare l’ago della bilancia per il secondo turno, mentre lo 0,43 è andato al candidato del Partito della Patria Muharrem İnce, il cui nome è rimasto sulle schede nonostante il ritiro dalla corsa elettorale a due giorni dall’appuntamento elettorale.
    Da Bruxelles i leader delle istituzioni comunitarie non si sono esposti – dopo aver chiesto trasparenza e incisività alle elezioni – sottolineando più il successo della tornata elettorale in termini di affluenza (attorno al 90 per cento). “È molto importante sottolineare il processo democratico, ora dobbiamo aspettare il risultato del secondo turno”, è stato il commento post-voto del presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel. A fargli eco la numero uno della Commissione Ue, Ursula von der Leyen: “La Turchia è un partner importante, abbiamo visto un’affluenza enorme a queste elezioni e questa è davvero un’ottima notizia, perché è un segno che i cittadini turchi danno valore alle istituzioni democratiche”.

    Il candidato ultra-nazionalista sconfitto al primo turno delle elezioni presidenziali ha sciolto le riserve, chiedendo ai sostenitori di votare il presidente in carica. Ridotte al minimo le possibilità dell’opposizione unita guidata da Kemal Kılıçdaroğlu di raggiungere la maggioranza assoluta

  • in

    Ucraina, gli aiuti Ue salgono a 70 miliardi di euro. Finanziamenti militari per 15 miliardi

    Bruxelles – Un totale di 70 miliardi di euro di aiuti. Di questi, 10 miliardi di euro solo per sostegno militare.  La Commissione europea inizia a fare un bilancio di quanto offerto all’Ucraina per far fronte all’aggressione russa e ciò che ne deriva. Cifre che rispondono agli impegni assunti, nel rispetto dei quali l’esecutivo comunitario annuncia un nuovo pacchetto di aiuti da 1,5 miliardi di euro assistenza micro-finanziaria per il governo di Kiev. Saranno sborsati “a giugno”, e serviranno per pagare stipendi e pensioni, oltre che mantenere in funzione i servizi pubblici essenziali come ospedali, scuole e alloggi.
    E’ nell’annunciare questo nuovo contributo che l’esecutivo comunitario offre i dati complessivi. Dall’inizio della guerra il sostegno all’Ucraina e agli ucraini ammonta a circa 70 miliardi di euro. E’ ripartito in aiuti finanziari, umanitari, di emergenza e militari. La parte di assistenza finanziaria per le necessità urgenti, con questo nuovo impegno appena deciso, ammonta a 18 miliardi di euro. Quasi la metà (7,5 miliardi) sono stati resi disponibili nel 2023.
    Questi 18 miliardi sono inclusi nel più ampio programma di assistenza finanziaria e umanitaria. Un totale di 37,8 miliardi di euro, tra fondi Ue (30 miliardi) e prestiti e garanzie degli Stati membri (7,8 miliardi). E’ qui che ricadono i pacchetti umanitari diretto (685 milioni), sostegno per sfollati (330 milioni), sostegno alle riforme (305 milioni).
    Mentre la parte solo militare vale da sola un oltre settimo del totale. Così spiega l’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza dell’Ue, Josep Borrell. “Complessivamente, al momento, grazie allo European Peace Facility, abbiamo incentivato 10 miliardi di euro di sostegno militare all’Ucraina“, dice in occasione della riunione dei ministri delle Difesa. Anche se, alle fine, con i contributi bilaterali il sostegno militare potrebbe arrivare anche 20 miliardi di euro. Allo stato attuale il contributo militare complessivo, tra fondi Ue e dei singoli governi, si aggira a 15 miliardi di euro.
    Il resto del sostegno Ue per gli Ucraini, 17 miliardi di euro, sono il frutto di fondi di coesione non utilizzati e che servono per sostenere donne e bambini ucraini accolti negli Stati membri grazie al meccanismo della protezione temporanea. Riconosciuta subito, è stata concessa a oltre tre milioni di persone.

    Il bilancio fornito in occasione dell’annuncio del nuovo pacchetto di aiuti da 1,5 miliardi per sostegno a stipendi e pensioni, disponibile a giugno

  • in

    Difesa Ue: Il Consiglio accoglie la Danimarca nella Pesco e lancia la quinta ondata di nuovi progetti

    Bruxelles – Il Consiglio ha adottato oggi 23 maggio una decisione che conferma la partecipazione della Danimarca alla Cooperazione strutturata permanente. La Danimarca diventa così il 26° membro della Pesco.
    “La Pesco è al centro della nostra cooperazione in materia di difesa. Con l’ingresso della Danimarca nella famiglia e gli 11 nuovi progetti adottati oggi, stiamo ampliando e approfondendo la nostra cooperazione. Ciò consente agli Stati membri di investire insieme, sviluppare le capacità necessarie e preparare le nostre forze”, ha sottolineato Josep Borrell, Alto Rappresentante dell’Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza.
    Con il referendum del primo giugno 2022, gli elettori danesi si sono espressi a favore dell’adesione della Danimarca alla politica di sicurezza e di difesa comune dell’Ue, ponendo fine all’opt-out del Paese, durato 30 anni, dalla cooperazione in materia di difesa dell’Unione.
    Di conseguenza, il 1° luglio 2022 la Danimarca ha aderito alla cooperazione dell’Ue in materia di sicurezza e difesa e ha iniziato a contribuire alle missioni e alle operazioni militari Psdc dell’Ue. Il 23 marzo 2023 ha notificato al Consiglio e all’Alto rappresentante la sua intenzione di partecipare alla Pesco e la sua capacità di rispettare gli impegni. La Danimarca ha inoltre aderito all’Agenzia europea per la difesa nel marzo 2023.
    Il Consiglio ha adottato oggi anche una decisione che aggiorna l’elenco dei progetti Pesco. Di conseguenza, 11 nuovi progetti saranno aggiunti all’elenco di quelli esistenti che sono stati sviluppati dal dicembre 2017.
    La Pesco
    La Cooperazione Strutturata Permanente (Pesco) è un’iniziativa chiave dell’Ue in materia di difesa. Fornisce un quadro per la cooperazione in materia di difesa tra gli Stati membri partecipanti che hanno assunto impegni più vincolanti tra loro. Essi sviluppano congiuntamente le capacità di difesa, coordinano gli investimenti, migliorano la prontezza operativa, l’interoperabilità e la resilienza delle loro forze armate e collaborano a progetti.
    Con la decisione odierna, il numero di progetti di collaborazione è salito a 68 e copre vari settori come: strutture di addestramento, sistemi di formazione terrestre, sistemi marittimi e aerei, cyber, servizi multipli congiunti e spazio.
    Ad oggi, i 26 Stati membri che partecipano alla Pesco sono: Austria, Belgio, Bulgaria, Croazia, Cechia, Cipro, Danimarca, Estonia, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Irlanda, Italia, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Paesi Bassi, Polonia, Portogallo, Romania, Slovacchia, Slovenia, Spagna, Svezia e Ungheria.

    Borrell: Questo programma “è al centro della nostra cooperazione in materia di difesa. Con l’ingresso di Copenaghen nella famiglia e gli 11 nuovi progetti adottati oggi, stiamo ampliando e approfondendo il lavoro”

  • in

    Unione Europea e Corea del Sud hanno siglato un nuovo Partenariato verde su ambiente e transizione energetica

    Bruxelles – Si riparte dalla transizione verde, dopo quella digitale. A sei mesi dall’intesa siglata per stringere i rapporti bilaterali nel campo delle nuove tecnologie, Unione Europea e Corea del Sud hanno dato il via libera oggi (22 maggio) a un nuovo Partenariato verde, per mettere insieme gli sforzi nei campi della lotta ai cambiamenti climatici, della protezione dell’ambiente e della transizione verso energie pulite.
    Da sinistra: il presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, il presidente della Corea del Sud, Yoon Suk Yeol, e la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen (Seul, 22 maggio 2023)
    A siglare l’intesa Ue-Corea del Sud sono stati i presidenti di Consiglio, Charles Michel, e Commissione Ue, Ursula von der Leyen, nel corso del viaggio che li ha portati a Seul per un confronto con il presidente coreano, Yoon Suk Yeol. “La Corea del Sud è uno dei partner più stretti dell’Ue nella regione, oggi compiamo un passo ulteriore nel rafforzamento del nostro partenariato strategico sulle maggiori sfide globali, come clima, salute e sicurezza”, ha sottolineato in conferenza stampa il leader del Consiglio, facendo riferimento non solo al nuovo Partenariato verde siglato oggi, ma anche alle discussioni sull’implementazione di quello digitale “su semiconduttori, quantum computing e intelligenza artificiale” concordato il 28 novembre 2022. A confermare il legame tra le due intese è stata la numero uno della Commissione: “Spingeremo la partnership digitale per permettere ai nostri team di lavoro di concentrarsi su intelligenza artificiale, computer ad alte prestazioni e soprattutto sui semiconduttori“.
    L’intesa messa a terra questa mattina per il Partenariato verde Ue-Corea del Sud prevede una “convergenza in aree-chiave come il prezzo del carbonio, la deforestazione e i prodotti in plastica”, ha aggiunto von der Leyen in conferenza stampa, precisando che “esploreremo progetti comuni nei settori delle energie rinnovabili, dell’efficienza energetica e dell’economia dell’idrogeno“. La base di partenza del confronto coinvolge la necessità di riduzioni “rapide, più profonde e sostenute” delle emissioni di gas a effetto serra per limitare l’aumento della temperatura globale a 1,5 gradi centigradi, ma anche la necessità di una “rapida transizione energetica pulita che sia equa e giusta e non lasci indietro nessuno” e sforzi “senza precedenti” per “proteggere, ripristinare e gestire in modo sostenibile la biodiversità per invertire la perdita di biodiversità entro il 2030”. Al centro dell’impegno congiunto c’è lo “sviluppo di modelli circolari in tutti i settori dell’economia“, dal momento in cui “i modelli lineari di produzione e consumo determinano un uso insostenibile delle risorse”. In questo contesto, la cooperazione nell’ambito del Partenariato digitale “contribuirà a raggiungere gli obiettivi del loro Partenariato verde”, si legge nel testo della dichiarazione.
    Il Partenariato verde Ue-Corea del Sud
    Il nuovo Partenariato verde Ue-Corea del Sud si concentra su tre campi d’interesse principali: azione per il clima, protezione dell’ambiente e transizione energetica. Per quanto riguarda il primo capitolo, “entrambe le parti mirano allo scambio e all’apprendimento reciproco sulle modalità di misurazione, rendicontazione e verifica delle emissioni” e alla “definizione di modelli di politiche future alla luce dei rispettivi obiettivi 2030 e 2050 a zero emissioni”. Uno dei focus prevalenti nell’azione per il clima è il sistema di scambio di emissioni e la tariffazione del carbonio, “per contribuire alla crescita economica e per creare incentivi alla riduzione delle emissioni”, anche grazie allo scambio di informazioni e consultazioni tecniche. Si rafforzerà “lo slancio globale per affrontare le emissioni di metano, anche attraverso il Global Methane Pledge” e “l’allineamento dei flussi finanziari con gli obiettivi a lungo termine dell’Accordo di Parigi e con il Quadro globale per la biodiversità”.
    Da sinistra: il presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, il presidente della Corea del Sud, Yoon Suk Yeol, e la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen (Seul, 22 maggio 2023)
    La sezione più corposa della nuova intesa tra Bruxelles e Seul riguarda la protezione dell’ambiente. Ue e Corea del Sud hanno ribadito formalmente l’intenzione di “promuovere la cooperazione nei forum bilaterali e multilaterali” su conservazione della biodiversità, economia circolare, efficienza delle risorse, protezione delle foreste, catene di approvvigionamento agricole sostenibili e inquinamento “in tutti gli ambienti”, dove l’impegno maggiore riguarda il lavoro per “un ambizioso accordo internazionale giuridicamente vincolante per porre fine all’inquinamento da plastica“. Da evidenziare l’impegno congiunto per promuovere “una maggiore sostenibilità delle catene di approvvigionamento”, a partire dalla questione dei prodotti derivanti da deforestazione. Gli sforzi a protezione dell’ambiente si intersecano con quelli dell’azione per il clima per quanto riguarda la visione di inquinamento zero al 2050 – “a livelli che non siano più considerati dannosi per la salute e gli ecosistemi naturali e che rispettino i limiti che il nostro pianeta può sopportare” – che si traduce in “obiettivi forti per il 2030”, hanno messo in chiaro i leader dell’Unione e della Corea del Sud.
    Ultimo, ma non per importanza, il capitolo sulla transizione energetica pulita e giusta. “Entrambe le parti intendono intensificare la cooperazione sulle energie rinnovabili – in particolare quelle offshore – sull’idrogeno, con particolare attenzione all’idrogeno rinnovabile e a basse emissioni di carbonio, e sull’efficienza energetica come futuro motore di crescita e strumento chiave per la de-carbonizzazione”, è quanto si legge nel testo del Partenariato verde Ue-Corea del Sud. Il lavoro si concentrerà sullo sviluppo di tecnologie e politiche “in linea con i rispettivi obiettivi e impegni internazionali”, anche per lo stop al rilascio di nuove autorizzazioni per progetti di produzione di energia elettrica a carbone non smaltita e al finanziamento pubblico di impianti a carbone all’estero. Si rafforzerà la cooperazione sulla cattura, l’utilizzo e lo stoccaggio del carbonio, le batterie e anche sul “funzionamento sicuro dell’energia nucleare“, a cui è dedicato un punto a sé stante nel testo della dichiarazione: ricerca e lo sviluppo di tecnologie avanzate, smaltimento sicuro delle scorie radioattive e smantellamento delle centrali nucleari.

    Dopo l’accordo raggiunto in materia digitale nel novembre 2022, a Seul i presidenti Michel e von der Leyen hanno dato il via libera all’intesa che stringe i rapporti bilaterali con l’alleato orientale nella lotta ai cambiamenti climatici e per la spinta alla decarbonizzazione delle economie

  • in

    Dai caccia F-16 alle tensioni con la Cina, a Hiroshima si chiude il Vertice G7 con il sostegno a Zelensky

    Bruxelles – Sanzioni alla Russia, sostegno militare all’Ucraina e condanna delle pressioni militari alla Cina. Si è chiusa domenica (21 maggio) a Hiroshima, in Giappone, la tre-giorni che ha riunito in Giappone i leader delle sette democrazie più ricche e industrializzate al mondo. Canada, Francia, Germania, Italia, Giappone, Regno Unito e Stati Uniti e Unione europea riuniti nel formato G7 sono stati raggiunti domenica dal presidente ucraino Volodymyr Zelensky a cui hanno ribadito la loro determinazione a sostenere l’Ucraina nella guerra di aggressione della Russia.
    E cercando allo stesso tempo il sostegno del cosiddetto ‘Sud globale’, come India e Brasile, che finora hanno mantenuto un atteggiamento neutrale sulla guerra del Cremlino. Assenti (non invitati) la Russia e la Cina, che però sono stati ugualmente al centro della tre giorni che ha visto anche la premier Giorgia Meloni seduta per la prima volta al tavolo del gruppo dei Sette. Nella prima giornata di Summit, i leader hanno concordato di rafforzare le misure restrittive contro la Russia e soprattutto di rafforzare i sistemi anti-elusione dei regimi di sanzioni già in essere. Ma la decisione più importante annunciata dal blocco è forse quella che in realtà è rimasta fuori dalla dichiarazione congiunta adottata ieri al termine della riunione. Sul fronte militare, Kiev ha ottenuto un’apertura dal presidente americano Joe Biden a consentire ai Paesi che lo vorranno di fornire aerei caccia da guerra Made in USA F-16 all’Ucraina. Dopo mesi di richieste da parte di Zelensky, Biden – dopo aver annunciato anche un nuovo  pacchetto di aiuti militari da 375 milioni di dollari all’Ucraina – ha comunicato agli altri leader G7 che gli Stati Uniti sosterranno anche gli sforzi di addestramento dei piloti ucraini sugli F-16, che potrebbero coinvolgere anche l’Italia.
    L’altro grande tema nella stanza era il rapporto dell’Occidente con le mire imperialiste della Cina. E la dichiarazione finale del G7 nella parte relativa ai rapporti con Pechino è, a detta di molti, la più dura mai pubblicata, tanto da aver attirato le critiche della Cina stessa. I leader hanno concordato di collaborare con un approccio unitario alla Cina, chiedendo di diversificare le catene di approvvigionamento per ridurre la dipendenza da materie critiche. Ma la dichiarazione comune è dura soprattutto riguardo alle tensioni diplomatiche che riguardano Taiwan, che la Cina continua a considerare parte del suo territorio. I Paesi G7 confermano di essere “seriamente preoccupati per la situazione nel Mar cinese orientale e nel Mar cinese meridionale”, dove si trova Taiwan, e di opporsi “fermamente a qualsiasi tentativo unilaterale di cambiare lo status quo con la forza o la coercizione”. Nel comunicato si fa esplicito riferimento alle violazioni dei diritti umani in Cina, in particolare la repressione delle minoranze del Tibet e della regione dello Xinjiang. Il comunicato su Pechino ha provocato subito la reazione del ministero degli Esteri cinese che in una nota ha accusato il G7 di aver “interferito nei suoi affari interni, compresa Taiwan”.

    After meeting in Hiroshima, the city of peace, we are moving forward together.
    We agreed that:
    Security in Europe and Asia is indivisible and UN principles must be upheld;
    Climate action will be stepped up;
    Partnerships should be win-win.
    The @G7 is more united than ever. pic.twitter.com/UJ96Jf6OMg
    — Ursula von der Leyen (@vonderleyen) May 21, 2023

    Il presidente ucraino ha raggiunto a sorpresa i leader delle sette più importanti economie democratiche al mondo nel G7 trasformando la riunione in un vertice G8

  • in

    Ue al lavoro su F16 all’Ucraina. Borrell: “Finalmente si prepara il terreno per la fornitura”

    Bruxelles – Aerei da combattimento per l’Ucraina, l’Unione europea adesso ci pensa. L’apertura del presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, ridisegna l’agenda politica a dodici stelle, con la questione della fornitura di F16 che entra nel vivo del dibattito dei ministri degli Esteri. “Una buona idea, un buon segnale quello che arriva dal G7″, scandisce l’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza dell’Ue, Josep Borrell. “Finalmente si è deciso di preparare il terreno per la fornitura degli aerei da combattimento di cui hanno bisogno” in Ucraina. “L’addestramento dei piloti è già iniziato  e auspico che molto presto si potrà rifornire l’Ucraina di questi apparecchi”.
    La fornitura dei cosidetti fighter jets fin qui aveva creato non poche divisioni e non meno remore tra i Paesi dell’Unione. Si guardava all’amministrazione Biden, partner storico e capofila della Nato. Ora che il passo è compiuto l’Unione europea sembra intenzionata a procedere nonostante tutto. “Non credo” questo porrà un problema, scandisce Tobias Billstrom, ministro degli Esteri della Svezia, Paese con la presidenza di turno del Consiglio dell’Ue. Semmai “accresce la pressione sulla Russia”. Quindi “nessun problema, semmai sarebbe un problema per la Russia, e Biden è stato chiaro”, aggiunge. Un riferimento alle parole del capo della Casa Bianca che conferma una volta di più i limiti di un’Unione europea in materia di affari esteri e difesa, legata alla mosse degli Stati Uniti.
    Forti della svolta a stelle e strisce, i Ventisette aggiungono un ulteriore tassello all’assistenza militare garantita fin qui a Kiev. Dalla fornitura di armi di difesa si è giunti all’armamento pesante dell’Ucraina. Prima i carriarmati tedeschi, adesso i caccia. “Molti F16 arriveranno da Paesi europei“, assicura il ministro degli Esteri lituano, Gabrielius Landsbergis. Questo tipo di velivoli militari è detenuto di Italia, Grecia, Paesi Bassi, Danimarca, Romania, Portogallo. Il contributo olandese è garantito, e anche l’Italia potrebbe fornire tornado. “La coalizione degli F16 ha dunque una dimensione europea forte”, continua il ministro lituano, che però insiste. “Non dobbiamo aggiungere nuovi elementi a quanto già concesso, bisogna continuare a fornire quanto già dato“.
    Gli olandesi confermano la loro disponibilità. “Per noi non ci sono tabù“, scandisce Wopke Hoekstra, che però mette in chiaro che per ora si parla di formazione. “Fornitura di F16 e addestramento fanno parte del dibattito ma ci sono decisioni separate” da prendere, e in tal senso i Paesi Bassi iniziano con l’addestramento, così “se decideremo di inviare gli aerei saranno pronti”.
    La Francia avverte: “La formazione richiede mesi”, scandisce Catherine Colonna, ministra degli Esteri francese. “Oggi le necessità dell’Ucraina sono essenzialmente munizioni e veicoli blindati di terra”. Kiev dovrà quindi attendere. “Niente è escluso, ma siamo in una fase di formazione”.

    Ventisette divisi e titubanti, ma l’apertura degli Stati Uniti avvia i dossier. La Lituania: “Importante continuare a fornire anche quanto già dato”