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Gli archeologi italiani ambasciatori nel mondo

   C’è chi racconta il fascino di una vita passata a studiare gli affreschi rupestri dell’Africa, chi ricorda gli scavi pieni di sorprese in Iraq, chi racconta delle scoperte che hanno fatto la storia come quella dell’antica Ebla in Siria. Dalla protostoria all’età classica, da Cipro alla Siria, dalla Grecia fino all’Iraq, passando per il Pakistan e persino il Giappone, il gotha dell’archeologia italiana si ritrova per un giorno riunito nelle sale ricche di storia del Campidoglio, chiamato a raccolta dalla Farnesina per confrontarsi, discutere, identificare, se c’è, una modello italiano davvero riconoscibile nel mondo. Un occasione unica anche per capire i problemi, per illuminare le criticità, entrare nelle vite dei tantissimi studiosi che spendono le loro vite in terre spesso lontane, a contatto con popolazioni locali, talvolta in situazioni di pericolo per guerre, terremoti, terrorismo. Quello che ne viene fuori è un caleidoscopio di storie diversissime, da chi scava templi e palazzi dell’età classica a chi per mestiere segue la vita delle popolazioni nomadi della Mongolia. L’archeologia italiana “è una realtà composita”, sottolinea non a caso Alessandro De Pedys, vicedirettore generale per la diplomazia pubblica e culturale della Farnesina, aprendo la tavola rotonda che porta nel vivo la Giornata dell’archeologia italiana all’estero.

    Eppure un filo conduttore sembra proprio esserci, sottolineato da molti, e lo si ritrova prima di tutto nell’approccio, nelle relazioni attente con le popolazioni con le istituzioni locali, nel rispetto e nell’ascolto. Un po’ una conferma della funzione sempre più importante, anche di mediatori che gli studiosi italiani rivestono all’estero, come ricorda Franco D’Agostino, che nell’Iraq meridionale dirige la missione di Abu Tbeirah, a 45 chilometri da Nassiria: “Nel 2010 siamo stati i primi a tornare, gli iracheni ci aspettavano, avevano voglia di pace e di ricostruzione, l’archeologia è la più pacifica delle attività”. Anche se i primi ad occuparsi del patrimonio iracheno devastato e saccheggiato dalla guerra, ricorda, “sono stati i nostri carabinieri dei beni culturali” e fondamentale è stata la cooperazione con i nostri diplomatici.

    Gli altri accanto a lui annuiscono: l’archeologia sul campo, sintetizza Lorenzo Nigro, raccontando della sua missione a Betlemme , “è una esperienza di vita, si sta sul terreno con i colleghi stranieri, oggi quasi tutte le missioni sono congiunte.

    E’ una sfida affascinante, l’archeologia insegna che bisogna rispettare l’altro”. Un rispetto che viene dalla condivisione di un patrimonio, dice, ma anche dalla credibilità scientifica degli studiosi italiani. Jacopo Bonetto, parla della Grecia, dove nel 1909 è nata la scuola di Atene, “In quelle aule si sono formati sei soprintendenti di Pompei, da Amedeo Maiuri a Massimo Osanna”. Daniele Petrella racconta del Giappone, dove ad oggi operano 3 missioni, anche qui con un primato: “Siamo stati i primi a cui i giapponesi hanno consentito di scavare”. Di un rapporto di grande empatia con la popolazione parla Francesca Lugli, etno archeologa da tanti anni operativa in Mongolia e in Russia. Un concetto ripetuto anche da Marcella Frangipane, per decenni alla guida della missione italiana in Anatolia orientale, secondo cui però la vera particolarità italiana è nell’attenzione alla conservazione e al restauro.

    L’archeologia, sintetizza Paolo Matthiae, una vita dedicata alla grande scoperta italiana di Ebla in Siria, ha un ruolo fondamentale per la formazione dei funzionari, per la condivisione del metodo scientifico oltre naturalmente per le conoscenze storiche acquisite con gli scavi. Un mondo che si è formato nei decenni dalle esperienze dei primi del Novecento fino alle 246 missioni finanziate nel 2022. Condivisione, rispetto, scambio di saperi, sostegno alle popolazioni. La via italiana all’archeologia nel mondo oggi si presenta così.

   


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