Sergio Mattarella ha già piantato alcuni paletti che i partiti conoscono e che delimitano confini da non superare. E lo ha fatto con gli atti, nella sua precedente gestione della formazione di ben quattro governi, e con le parole che hanno disegnato senza soluzione di continuità una linea di politica estera ed economica invalicabile per chiunque. Un ancoraggio atlantista ed europeo.
Il presidente della Repubblica ora attende silente di entrare in scena. E lo farà ma non prestissimo – i tempi tecnici per l’elezione dei presidenti delle Camere e dei gruppi parlamentari ci portano orientativamente almeno alla metà di ottobre – attraverso l’analisi del risultato del voto, avendo sempre come faro delle sue scelte l’effettiva possibilità di trovare una maggioranza che possa governare il Paese, se non fino a fine legislatura (opzione statisticamente improbabile in Italia) almeno per un lasso di tempo ragionevole ad affrontare la crisi Ucraina e l’emergenza economica.
Che poi in Italia si tenda ad affidare al Quirinale poteri esoterici è cosa nota, ma il capo dello Stato segue in realtà regole e consuetudini lineari che si poggiano in primis sui numeri. E’ ovvio che se dalle urne uscirà una maggioranza chiara e coesa, per esempio quella di centrodestra, il lavoro del presidente si ridurrà ad un giro di consultazioni preliminare e ad un incarico veloce al leader che verrà indicato dalla coalizione stessa, e quindi presumibilmente a Giorgia Meloni, data saldamente in testa dagli ultimi sondaggi noti.
Più complesso sarà il lavoro del Quirinale in caso di risultato equilibrato o con la possibilità – che non si può escludere – di una maggioranza chiara in una sola Camera. In questo caso il presidente della Repubblica potrebbe aver bisogno di dilatare i tempi per la composizione del quadro politico e potrebbe affidare un mandato esplorativo a una personalità di sua scelta. La scorsa legislatura ci vollero tre mesi per produrre una soluzione che si materializzò alla fine nel famoso governo giallo-verde, un matrimonio inaspettato tra M5s e Lega.
Ma il tutto accadde prima dell’estate del 2018 e il Paese aveva un certo respiro per elaborare la novità. Questa volta il voto a settembre porta, a causa delle scadenze tecniche, la possibilità di avere un governo, seppur si realizzasse in tempi velocissimi, ragionevolmente non prima di novembre. Una data che già metterebbe pericolosamente a rischio la possibilità di preparare e votare la manovra economica entro i termini di legge, cioè entro la fine dell’anno. E l’esercizio provvisorio non può che preoccupare Sergio Mattarella.
Ma conoscendo l’uomo, ormai alla guida del Colle da quasi otto anni, in molti fanno sapere che rispetto alla formazione frettolosa di un governo è meglio fare le cose bene. Anche perché il presidente ha piazzato già i suoi paletti, volendo evitare proprio quanto successe nelle faticosissime consultazioni del 2018 quando alcuni suoi “no” portarono i Cinque stelle addirittura ad evocare l’impeachment per il capo dello Stato. Una richiesta alla quale si unì anche la più probabile candidata premier di oggi, Giorgia Meloni. Il sistema fu sull’orlo di una crisi gravissima che nessuno in questa fase si augura. Ma che era successo per arrivare a tanto? Semplice: il presidente aveva usato i suoi poteri sanciti dall’articolo 92 della Costituzione dicendo “No” alla proposta di Paolo Savona al Tesoro, giudicato troppo antieuropeista. L’articola recita: “il Governo della Repubblica è composto del Presidente del Consiglio e dei Ministri, che costituiscono insieme il Consiglio dei Ministri. Il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei Ministri e, su proposta di questo, i Ministri”. Si tratta quindi del necessario incontro di due volontà e poteri, nella cornice Costituzionale. Non c’è dubbio che questa regola varrà anche per il futuro esecutivo, almeno per i ministeri che il presidente considera di garanzia, cioè Esteri, Difesa ed Economia.
Amplissime diventano infine le possibilità di scelta del presidente della Repubblica in caso di stallo politico dopo il voto: prima di accettare un nuovo, traumatico, scioglimento delle Camere appena elette il capo dello Stato esplorerebbe tutte le soluzioni possibili. Ne è stato un esempio la decisione di chiamare Mario Draghi per formare un governo di unità nazionale o “del presidente” cercando una maggioranza tecnica in Parlamento. Certo, si tratta di una soluzione d’emergenza che in avvio di legislatura sembra essere un’ipotesi di scuola.
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