La fine del riserbo assoluto di Mario Draghi sul suo futuro solleva alcuni e preoccupa altri. I partiti si dividono sulle parole dosate dal premier nelle due ore di conferenza stampa di fine anno e interpretate per lo più come un’autocandidatura al Quirinale. Se così fosse, il Pd non si metterà di traverso. Lega e Forza Italia invece stoppano l’ipotesi, preferendo che il premier resti dov’è. “Se togli una casella autorevole come Draghi del doman non ci sarebbe certezza”, si espone in serata Matteo Salvini quasi citando Lorenzo il Magnifico. E assicura: “Conto di poter lavorare ancora con questa squadra”.
A parte Giorgia Meloni che ironizza sull'”autocelebrazione” del presidente del Consiglio e contesta categoricamente gli obiettivi raggiunti (“Non ci risultano”), il segretario della Lega è l’unico della maggioranza a schierarsi personalmente. Gli altri leader tacciono, ‘coperti’ dalle note dei partiti meno esplicite e più prudenti. E forse spiazzati dal monito alla politica a riprendere le redini delle decisioni – da cui tutto dipende – espresso dal premier. Tace anche Silvio Berlusconi, che però non avrebbe gradito l’uscita dell’ex presidente della Bce e temendo a questo punto ‘ostacoli’ alla sua corsa al Colle, valuterebbe anche di far convergere il ‘tesoretto’ di voti del centrodestra per il Quirinale, su un altro candidato. E un nome potrebbe essere, gira voce nel centrodestra, quello di Giuliano Amato.
Si mostra cauto invece il Movimento 5 stelle che apprezza l’operato del governo, ma rammenta che “c’è ancora tanto lavoro da fare”. In particolare, “bisogna soprattutto continuare la messa a terra del Pnrr ed è importante che continui una guida capace di tenere insieme una maggioranza larga e composita”, rimarca. Ma non va oltre. Sul filo dell’equilibrio è anche il commento del Nazareno: “Condividiamo il giudizio positivo sul bilancio dell’anno di governo e anche l’auspicio che la legislatura vada avanti in continuità con l’azione di governo fino al suo termine naturale”. Tradotto: i Dem condividono l’appello di Draghi sulla necessità di una maggioranza larga sia per scegliere il prossimo capo dello Stato sia per tenere in piedi un governo diverso dall’attuale. E di conseguenza lasciano le porte aperte ad altre ambizioni di Draghi. Del resto il Pd non ha al momento un proprio candidato – un primo confronto con il resto le centrosinistra è previsto il 13 gennaio – nè ha i numeri per farlo votare. In più, sottovoce, c’è lo status quo da mantenere, che fa gola a parecchi. Non a caso un ministro dem in Transatlantico mette le mani avanti nel pomeriggio, ricordando che la morsa del covid non si è allentata e che bisogna continuare a monitare i dati dell’epidemia per ogni valutazione.
Di sicuro nella maggioranza è unanime il giudizio positivo sui primi 10 mesi dell’esecutivo. Ma è sul ‘dopo’ che crescono i distinguo. Nel centrodestra Lega e FI sono d’accordo nel dire che la conseguenza logica è che il governo continui fino alla fine della legislatura con la stessa guida. Ma le motivazioni sono diverse. Per la Lega, è una scelta dovuta visto il sacrificio fatto aderendo a un governissimo anche con il Pd.
Tanto che si vocifera che se Draghi lasciasse Palazzo Chigi, anche il sostengo della Lega muterebbe virando verso un appoggio esterno. Una svolta che sarebbe utile ai fini elettorali a un anno dalle elezioni, per recupare i voti persi per strada e creare un asse con la Meloni in modo anche da controllare l’alleata-rivale. Per i forzisti “Draghi è un bravo chirurgo ed è bene che resti in sala operatoria anzichè fare il primario”, è la metafora che usa Mauruzio Gasparri per non scombinare il sogno di Berlusconi al Colle. La svolta di Draghi sarà perciò inevitabilmente sul tavolo del vertice del centrodesra che domani si troverà di nuovo tutto insieme dopo mesi di latitanza.
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