Bruxelles – A nemmeno 24 ore dal giuramento come neo-premier dell’Irlanda del Nord, il nuovo corso repubblicano di Michelle O’Neill è servito. “Contesto assolutamente ciò che sostiene il governo britannico, la mia elezione dimostra il cambiamento che sta avvenendo sull’isola“, ha messo in chiaro la vicepresidente dei repubblicani di Sinn Féin in un’intervista per Sky dopo la nomina a prima ministra della nazione a oggi ancora appartenente al Regno Unito. Una risposta chiara alla posizione di Londra – secondo cui il referendum per l’unione alla Repubblica d’Irlanda sia distante “decenni” – e una prospettiva sul medio termine per il primo governo a guida repubblicana nella storia dell’Irlanda del Nord: “Credo che siamo nel decennio delle opportunità“.
Dal maggio 2022 a Belfast non è stata possibile la formazione di un governo dopo la prima vittoria assoluta per il partito indipendentista repubblicano, a causa del boicottaggio del Partito Unionista Democratico (secondo quanto previsto dall’Accordo del Venerdì Santo del 1998 deve essere garantita la condivisione di potere tra i partiti unionisti e repubblicani). Dopo quasi due anni di stallo è stata trovata l’intesa tra le due maggiori forze all’Assemblea dell’Irlanda del Nord e sabato scorso (3 febbraio) O’Neill ha giurato come prima ministra, mentre l’unionista Emma Little-Pengelly come vice-premier. “Possiamo avere una condivisione del potere, renderla stabile e lavorare insieme ogni giorno in termini di servizi pubblici, e perseguire le nostre aspirazioni altrettanto legittime“, sono state le prime parole alla stampa della nuova leader della nazione, che solo il giorno prima aveva rotto con la tradizione repubblicana usando il termine ‘Irlanda del Nord’ nel suo discorso di giuramento. “Sono una repubblicana orgogliosa, ma credo che sia davvero importante guardare alle persone che si identificano come britanniche e unioniste e dire loro che rispetto i loro valori”, ha spiegato O’Neill.
Il partito Sinn Féin è stato fondato nel 1905 come espressione delle aspirazioni indipendentiste da Londra e per l’unità sull’isola d’Irlanda e negli anni della guerra civile è stata l’ala politica dell’Esercito Repubblicano Irlandese (Ira). Il sostegno al partito è cresciuto esponenzialmente dopo la firma dell’Accordo del Venerdì Santo che ha messo fine al conflitto, e nel 2022 ha conquistato il maggior numero di seggi in Parlamento (27 su 90). La formazione del governo dell’Irlanda del Nord si è legata strettamente alle conseguenze della Brexit, dal momento in cui la reintroduzione dei controlli doganali tra la Gran Bretagna e l’Irlanda del Nord su una serie di categorie di prodotti – richiesta dall’Unione Europea dopo l’uscita del Regno Unito proprio per preservare l’unità sull’isola d’Irlanda sancita dall’accordo di pace del 1998 – ha creato scontenti e proteste tra gli unionisti, incluso il boicottaggio politico. La settimana scorsa il governo britannico di Rishi Sunak ha mediato un accordo con il Partito Unionista Democratico che prevede un aumento dei finanziamenti e che – nel delineare i nuovi equilibri della condivisione del potere a Belfast – prevede che non ci sia “alcuna prospettiva realistica di un referendum” sull’indipendenza nel prossimo decennio. Per i repubblicani nordirlandesi l’indipendenza si lega al processo di unione alla Repubblica di Irlanda, che automaticamente li riporterebbe all’interno dell’Unione Europea dopo l’addio nel 2020 per decisione degli elettori del Regno Unito nel suo complesso.
Oltre l’Irlanda del Nord, la Scozia
L’Irlanda del Nord non è l’unica delle quattro nazioni che compongono il Regno Unito ad avere aspirazioni indipendentiste e di ritorno nell’Unione Europea. La disputa più celebre di Londra è quella con la Scozia, che a dieci anni dal referendum sull’indipendenza (bocciato) è pronta a rimettere sul tavolo delle trattative un progetto per la scissione politica. La Brexit è stata un vero e proprio spartiacque per il Partito Nazionale Scozzese, dal momento in cui in Scozia il referendum per l’uscita del Regno Unito dall’Ue ha visto prevalere una schiacciante maggioranza del 62 per cento dei ‘no’ contro il 38 dei ‘sì’, in controtendenza con il resto del Paese (il 52 per cento degli elettori britannici si è espresso a favore). A un solo anno dall’ufficialità della Brexit, il trionfo alle elezioni per il rinnovo del Parlamento di Holyrood da parte dell’ex-prima ministra, Nicola Sturgeon, nel 2021 ha sembrato confermare l’irrequietezza scozzese.
Nonostante l’uscita di scena di Sturgeon lo scorso anno a causa di uno scandalo sui finanziamenti del Partito Nazionale Scozzese, anche nell’agenda del suo successore – l’ex-braccio destro Humza Yousaf – è rimasta la priorità di un nuovo referendum sull’indipendenza (che al momento vede il ‘sì’ leggermente in vantaggio), con la condanna della Brexit e delle sue conseguenze economiche come fattore trainante. È per questo motivo che bisognerà fare attenzione al risultato delle prossime elezioni nel Regno Unito – ancora non è nota la data, ma sono attese per la seconda metà del 2024 – dal momento in cui il primo ministro Yousaf le vede come un possibile momento di svolta. Il governo di Edimburgo potrebbe avviare immediatamente i negoziati con Londra nel caso in cui il Partito Nazionale Scozzese dovesse conquistare la maggioranza dei seggi garantiti alla Scozia alla Camera dei Comuni, mentre un altro scenario è quello dell’utilizzo delle elezioni per il rinnovo del Parlamento scozzese nel 2026 come voto ‘de facto’ sull’indipendenza dal Regno Unito e una richiesta di (ri)adesione all’Unione Europea.