Addio all’uomo che Henry Kissinger definì “il più pericoloso d’America”: Daniel Ellsberg, la talpa all’origine della clamorosa fuga di notizie militari dei Pentagon Papers, è morto all’età di 92 anni nella sua casa di Kensington in California. Lo stesso Ellsberg aveva annunciato in marzo di essere malato di cancro al pancreas e di aver rifiutato le cure. Nel 1971 i Pentagon Papers imbarazzarono l’amministrazione Nixon segnando un punto di svolta nella guerra del Vietnam e permettendo a New York Times e Washington Post una serie di scoop equivalenti, per l’epoca, alle più recenti rivelazioni di Wikileaks. “Magari averlo avuto ai tempi del Vietnam”, aveva detto all’ANSA, parlando di Julian Assange, lo stesso Ellsberg, andato a Londra per dare una mano all’australiano nella conferenza stampa in cui Wikileaks lanciò nel 2010 la pubblicazione di oltre 400 mila documenti sulla guerra in Iraq. Commissionati nel 1967 dal segretario alla Difesa Robert McNamara, i Pentagon Papers permisero di scoprire che varie amministrazioni avevano mentito all’opinione pubblica e al Congresso ordinando l’escalation delle operazioni militari in Vietnam pur nutrendo seri dubbi sulle possibilità di successo.
Ellsberg, analista militare ed ex Marine conquistato alla causa della pace, era entrato in possesso del dossier e l’aveva segretamente fotocopiato. Aveva poi contattato il giornalista del New York Times Neil Sheehan, ex corrispondente in Vietnam col dente avvelenato per gli orrori della guerra, a patto di leggergli, non di consegnargli materialmente, i documenti. La moglie di Neil suggerì una via di uscita: sarebbe toccato allo stesso Sheehan fotocopiare le settemila pagine dei Papers per poi consegnarle al giornale.
Raccontata nel film di Steven Spielberg ‘The Post’ con Meryl Streep e Tom Hanks – a dare il volto al giornalista fu Justin Swain mentre Ellsberg fu interpretato da Matthew Rhys – è memorabile la scena in cui la scatola dei Pentagon Papers viaggia su un sedile accanto a Sheenan sull’aereo per New York. La vicenda portò poi a un braccio di ferro sulla libertà di stampa. Dopo tre giorni di scoop a raffica, l’amministrazione Nixon riuscì a fermare il Times accusando il giornale di spionaggio e il testimone della pubblicazione passò al Washington Post. Alla fine il caso arrivò alla Corte Suprema che, in nome del Primo Emendamento, diede via libera ai media.
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