Ventisette anni fa in questi giorni l’Europa visse una delle pagine più nere della sua storia recente. Fra l’11 e il 18 luglio 1995 venne infatti perpetrato il genocidio di Srebrenica, una delle atrocità più sconvolgenti della guerra in Bosnia Erzegovina (1992-1995), che costò la vita a 8.300 persone secondo le cifre ufficiali, mentre secondo altre fonti locali gli scomparsi sarebbero più di diecimila.
In quei giorni le truppe serbo-bosniache agli ordini del generale Ratko Mladic entrarono nella città di Srebrenica e massacrarono la popolazione musulmana. Quando i serbo-bosniaci irruppero in città, oltre 40.000 abitanti fuggirono verso la base dell’Onu di Potocari, a nord del centro urbano. Circa 7.000 persone riuscirono a entrare nell’area della base, presidiata da un centinaio di caschi blu olandesi che avrebbero dovuto difendere la città, dichiarata dall’Onu zona protetta. Gli altri si accamparono fuori. All’arrivo dei serbo-bosniaci i caschi blu non intervennero, mentre Mladic fece separare gli uomini da donne e bambini, che furono deportati.
Gli uomini – secondo le testimonianze di sopravvissuti e secondo l’atto di accusa del Tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia (Tpi) che con una sentenza dell’aprile 2004 ha stabilito per primo che fu genocidio – furono passati per le armi. I corpi degli uccisi nelle esecuzioni di massa vennero sotterrati in fosse comuni.
A migliaia fuggirono nelle campagne circostanti e le milizie serbo-bosniache aprirono una gigantesca caccia all’uomo catturandone moltissimi: in gruppi di 200-300 furono messi in fila e fucilati. “In quattro ore il 16 luglio ne abbiamo uccisi 1.200”, racconterà anni dopo davanti al Tpi Drazen Erdemovic, uno dei comandanti delle truppe serbo-bosniache, il primo a essere condannato nel 1996 a cinque anni di carcere. “Ho visto decine di uomini sgozzati in un campo di grano – ha raccontato Abid Efendic – ho visto teste mozzate, ragazze violentate da decine di soldati”.
Ratko Mladic e Radovan Karadzic, rispettivamente capo militare e leader politico di serbi di Bosnia, entrambi già condannati definitivamente all’ergastolo, dopo il massacro cantarono vittoria: con Srebrenica i serbi avevano conquistato oltre il 60% della Bosnia, ma quella strage convincerà l’allora presidente americano Bill Clinton ad intervenire dopo che per oltre tre anni l’Europa aveva guardato distaccata e divisa la mattanza alle porte di casa. In pochi mesi Washington riuscì a portare al tavolo di Dayton (Usa) musulmani, croati e serbi, ma il risultato si limitò a sancire la divisione etnica creando un Paese diviso in due entità, la Repubblica Srpska, a maggioranza serba e che comprende anche Srebrenica, e la Federazione croato-musulmana.
La tragedia ha pesato a lungo e continua a pesare sulla coscienza della comunità internazionale. Per Srebrenica, nell’aprile 2002 il governo olandese di Wim Kok decise di dimettersi dopo che l’Istituto per la documentazione di guerra riconobbe la responsabilità dei politici e dei caschi blu olandesi nel non aver saputo impedire il massacro. Il comando olandese dirà poi d’aver chiesto l’intervento degli aerei Nato a difesa della città. Nell’ottobre del 1999 l’allora segretario generale dell’Onu Kofi Annan ammise le responsabilità: “La tragedia di Srebrenica peserà per sempre sulla nostra storia”.
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