“Hai visto che è successo sette anni fa? Questa volta dobbiamo essere prudenti, molto prudenti”. Scottato dall’esperienza del 1955, quando il suo candidato Merzagora era stato silurato in favore di Gronchi, Amintore Fanfani non vuole più commettere errori. Adesso lui è a palazzo Chigi, con un governo che ha il sostegno esterno dei socialisti e Aldo Moro, l’altro cavallo di razza della Dc, ha preso la guida del partito. I due si ritrovano uno di fronte all’altro nello studio di Fanfani a Palazzo Chigi e studiano il da farsi. Qualche mese prima Fanfani, alla guida del governo con un’alleanza che per la prima volta vedeva i socialisti dare il loro appoggio esterno, ha stretto un patto con la corrente moderata dei dorotei: a lui la certezza di continuare a guidare il governo, alla destra Dc la candidatura del loro esponente più autorevole, Antonio Segni, un sardo di famiglia aristocratica, vecchio esponente dei popolari di Sturzo, tra i fondatori della Dc e autore dell’importante riforma agraria approvata dai governi De Gasperi.
Ma a ridosso dell’inizio delle votazioni, i giochi si riaprono. Moro nello studio di Fanfani, spiega come la vede: la Dc candida Segni, Pri e socialdemocratici candidano Saragat, che avrà anche i voti di socialisti e comunisti; nessuno ottiene la maggioranza e entro pochi giorni si arriverà al candidato vero. Quale? Nei suoi diari Fanfani resta nel vago (“non si e’ parlato di me”) ma il suo nome circola su tutti i giornali. Tanto è insistente il tam tam che Gronchi chiama Fanfani e gli chiede di smentire ufficialmente tutte le voci.
Il politico aretino non ci casca: “Ma io non posso smentire quello che non esiste”, gli risponde serafico. La partita è doppiamente complicata perchè, facendo conto sulle divisioni della Dc, il capo dei socialdemocratici Giuseppe Saragat si è candidato con non poche possibilità di successo. Si arriva così all’assemblea dei gruppi della Dc del 30 aprile: Segni vince ma non stravince. Alla prima votazione del 2 maggio il candidato della Dc prende 333 voti (una settantina in meno rispetto al totale dei parlamentari dc) ma è comunque in testa. I primi tre scrutini non riservano sorprese. Dal quarto in poi Saragat viene votato da comunisti e socialisti e si avvicina pericolosamente: 354 per il candidato Dc 321 per il socialdemocratico. I socialisti di Nenni provano a sparigliare proponendo di far ritirare tanto Segni quanto Saragat e di puntare su un terzo uomo a scelta tra Leone e Merzagora. Ma Moro non vuole mandare all’aria la fragile unità del partito e Fanfani intima ai franchi tiratori di rientrare nei ranghi. Il 6 maggio incontra Segni a casa del figlio Mariotto.
Patto siglato e strada (quasi) spianata per Segni: il settimo scrutinio termina con il candidato Dc a solo 4 voti da raggiungimento del quorum. L’ottavo registra un incidente: Sandro Pertini, vedendo il deputato della Dc Azara che non avendo ancora ritirato la scheda prende quella del suo vicino dove c’è già scritto il nome di Segni, grida all’imbroglio e fa lasciare l’aula a tutti i deputati del Psi. Votazione annullata. Subito viene indetto il nono scrutinio. Ultime frenetiche ore: i comunisti “tentano” il presidente della Camera Leone promettendogli tutti i loro voti, ma lui rifiuta di prestarsi al gioco. Segni viene eletto con 443 voti, superando di poco il quorum. Determinanti risultano i 46 voti del movimento sociale e dei monarchici. Ma quella di Segni al Colle sarà una permanenza breve: dopo soli due anni, il 7 agosto del 1964, il presidente dovette drammaticamente lasciare il Quirinale, colpito da un’emorragia cerebrale che lo lascerà muto e immobilizzato fino alla morte, sopravvenuta nel 1972. Il malore di Segni arrivò durante un tesissimo incontro con Saragat e Moro. Qualcuno, anni dopo, ipotizzò che Segni fosse stato accusato da Saragat di avere tentazioni golpiste e che avesse perso i sensi durante il diverbio. Ricostruzione che non ha però mai avuto conferme.
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