Un’alleanza tra M5s e Pd ai ballottaggi delle comunali: è l’auspicio del ministro di M5s Federico D’Incà, che ha ricevuto il plauso del segretario del Pd Enrico Letta, mentre il leader di M5s Giuseppe Conte si è mostrato più cauto, probabilmente anche per non danneggiare Virginia Raggi a Roma. Un eventuale accordo ai ballottaggi, in ogni caso aprirebbe la strada ad un ulteriore avvicinamento politico, tra i due partiti, che ha come tappe successive l’elezione dell’inquilino del Quirinale a gennaio e le politiche del 2023, sulle quali il leader di M5s ha messo i puntini sulle “i”. Il ministro per i Rapporti con il Parlamento, in tour in varie città della Calabria, dove M5s e Pd sostengono insieme la candidata presidente Amalia Bruni, ha ricordato come i due partiti in alcune nella maggior parte delle città non sono alleati. Tuttavia, ha aggiunto D’Incà, “possiamo tornare insieme ai ballottaggi”.
Una prospettiva per molti analisti plausibile ma che al momento è oggetto della polemica pre-elettorale, specie a Roma, dove i rapporti tra M5s e Pd sono più ruvidi. Sui social alcuni militanti romani del Movimento hanno criticato le parole D’Incà, perché esse “complicano la corsa di Virginia Raggi”. D’altra parte l’ipotesi è commentata con ironia da Carlo Calenda, che punta a catturare gli elettori del centrosinistra più ostili a M5s, cercando di rubarli a Gualtieri, che infatti in passato ha escluso alleanze formali. Anche per questo contesto è arrivata la frenata di Conte. Il leader di M5s, in tour in Campania, è stato interpellato sulla realtà locale, ma la sua risposta sembra valere anche per altre situazioni: “se noi non siamo andati in coalizione perché nelle proposte che erano state fatte non c’erano le condizioni, il ballottaggio non cambierà nulla”. Ma che quella di D’Incà non sia una “voce dal sen fuggita”, lo dimostra il convinto plauso di Enrico Letta: “Mi sembra che abbia detto una cosa saggia, che condivido. Fa parte di questo spirito di convergenza con il quale stiamo cercando di lavorare per una coalizione più larga possibile e più incisiva possibile”. Una coalizione, dunque, cioè un’alleanza strutturata, che ha come primo appuntamento l’elezione del presidente della Repubblica a fine gennaio. Pd, M5s e Leu, da soli sfiorano la maggioranza assoluta dei voti necessari per eleggere il Capo dello Stato, dunque un numero non sufficiente, ma è importante, si ragiona al Nazareno, arrivare all’appuntamento con obiettivi comuni.
L’altro appuntamento sono le elezioni politiche del 2023, in vista delle quali M5s e Pd hanno da sciogliere il nodo del rapporto con Draghi, inteso sia come persona che come programma, visto che dopo l’Assemblea di Confindustria si parla di un Draghi bis nella prossima legislatura. Giuseppe Conte, a Napoli, è stato eloquente: “L’ orizzonte di questo Governo non può andare, ovviamente, oltre il 2023,”. Mentre “le sorti della prossima legislatura, in un Paese democratico, sono decise dai cittadini!”, e non, sembra dire Conte, dalle Associazioni imprenditoriali o altri soggetti. D’altra parte Letta oggi ha benedetto il “patto per il lavoro” lanciato da Draghi sul palco di Confindustria, indicando però cinque punti che stanno a cuore ai Dem. Tra questi anche il salario minimo, uno dei cavalli di battaglia di M5s. Il nodo rimane l’orizzonte temporale entro il quale far governare non solo l’Italia e il Pnrr ma questa patto sociale a Draghi: fino al 2023 o anche oltre? Nel centrodestra un allarme lo lancia il ministro Giorgetti, parlando ad una riunione dei sindaci lombardi della Lega: “tendenzialmente noto che l’astensionismo penalizza più il centrodestra che il centrosinistra. E’ un fatto storico”.
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