More stories

  • in

    Rutte si rafforza in cima alla lista dei candidati come prossimo segretario generale della Nato

    Bruxelles – Si scalda la campagna per la successione di Jens Stoltenberg a segretario generale della Nato. Il primo ministro olandese dimissionario dal luglio 2023, Mark Rutte, è a oggi il candidato più quotato dopo aver incassato l’appoggio di 20 Paesi membri (su 31) dell’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord, in particolare di Stati Uniti e Regno Unito. È quanto emerge da diverse fonti di Reuters e Politico, tutte a indicare proprio Rutte come candidato favorito a diventare il prossimo segretario generale dell’Alleanza Atlantica.Il primo ministro dei Paesi Bassi, Mark RutteLa corsa per la successione di Stoltenberg, segretario generale in carica dal primo ottobre 2014, è iniziata da qualche mese, dopo la proroga di un anno confermata all’ultimo vertice Nato di Vilnius. “Il presidente Joe Biden appoggia con forza la candidatura del premier Rutte“, ha reso noto un funzionario statunitense parlando con Reuters, elencando tra le caratteristiche del quasi ex-premier olandese la “profonda comprensione dell’importanza dell’Alleanza”, il fatto di essere “un leader e un comunicatore naturale, la sua leadership sarebbe utile all’Alleanza in questo momento critico“. Il mandato di Stoltenberg terminerà a ottobre, ma per evitare una sovrapposizione con gli appuntamenti elettorali in Europa e negli Stati Uniti, la decisione potrebbe già arrivare in primavera (prima del vertice di Washington del 9-11 luglio). Il successore o la successora avrà il compito di sostenere i 31 alleati nella difesa dell’Ucraina dall’invasione russa, ma senza esacerbare i rapporti con Mosca fino a trascinare l’intera Alleanza in guerra.La selezione della figura del segretario generale della Nato avviene attraverso consultazioni diplomatiche informali tra i Paesi membri, che propongono i candidati alla carica (tradizionalmente un’alta personalità politica europea): non c’è una votazione vera e propria, ma la decisione non viene confermata finché non si raggiunge il consenso su un candidato. Altre fonti all’interno dell’Alleanza hanno confermato a Politico che Rutte ha finora incassato il sostegno di 20 Paesi membri – compreso il Regno Unito – con un’altra decina che sarebbe invece ancora incerta o da convincere: “Continueremo ad ascoltare le loro domande e preoccupazioni”, hanno confermato le fonti a proposito delle possibili resistenze di Turchia, Ungheria e Paesi baltici. Proprio i Baltici avevano messo gli occhi sulla carica di vertice dell’Alleanza, ma né il ministro degli Esteri ed ex-premier della Lettonia, Krišjānis Kariņš, né la prima ministra dell’Estonia Kaja Kallas, sarebbero ancora stati presentati formalmente come possibili candidati. La prima ministra della Danimarca, Mette Frederiksen, ha invece escluso l’opzione.

    Il segretario generale della Nato, Jens StoltenbergAlcune indicazioni sul fatto che Rutte possa essere il favorito nella corsa alla segreteria della Nato erano già emerse da un editoriale dell’ex-portavoce dell’Alleanza Atlantica (fino a settembre 2023), Oana Lungescu: “Creare consenso tra i 31 alleati della Nato è il compito principale del segretario generale” e Rutte, “a volte chiamato ‘Teflon Mark’ per la sua capacità di guidare coalizioni diverse e di sopravvivere agli scandali politici, è un pragmatico negoziatore e un maestro del consenso“. In questo senso, il premier olandese ha stretto i rapporti non solo con Stoltenberg, ma anche con altri leader dell’Alleanza, dall’Albania alla Lituania, dalla Polonia agli Stati Uniti. La questione dei legami con Washington sarà una delle questioni decisive nella scelta del segretario generale dell’Alleanza: va ricordato che Rutte ha sviluppato un ottimo rapporto con il presidente Joe Biden, e allo stesso tempo è anche uno dei pochi leader europei ad aver cercato di mantenere stabile quello con il suo predecessore Trump, che potrebbe ritornare alla Casa Bianca dopo le elezioni di novembre.Il punto di debolezza del premier olandese è il fatto di non aver ancora allineato il suo Paese alla soglia minima di spesa per la difesa del 2 per cento rispetto al Pil (anche se non è ancora nota la lista completa dei 18 membri che nel 2024 l’avranno fatto, come anticipato da Stoltenberg). È questa una delle criticità maggiori, in particolare se si considerano le recenti minacce di Trump, secondo cui Washington non dovrebbe difendere da un’eventuale aggressione russa gli alleati che non spendono abbastanza per la difesa. D’altra parte Rutte si è ritagliato un ruolo di alleato affidabile per l’Ucraina, dopo aver preso l’iniziativa insieme alla Danimarca di Frederiksen di creare un centro di addestramento di piloti di caccia F-16 in Romania e inviando sistemi di difesa aerea Patriot e carri armati Leopard.

  • in

    I Paesi Ue che vendono armi a Israele “potranno essere ritenuti complici del possibile genocidio a Gaza”

    Bruxelles – Entro lunedì 26 febbraio Israele è chiamata a presentare a l’Aia un rapporto che spieghi le misure messe in campo nell’offensiva contro Hamas per scongiurare un genocidio contro il popolo palestinese a Gaza. Che lo faccia o meno, la Corte Internazionale di Giustizia ha ritenuto “plausibili” le accuse messe nero su bianco dal Sudafrica. E questo obbliga già tutti i Paesi firmatari della Convenzione sul genocidio a fare il possibile per prevenire che venga commesso quel crimine.È la denuncia della Federazione Internazionale dei Diritti Umani (Fidh), che ha organizzato al Parlamento europeo – insieme al gruppo dei Greens – una conferenza sulle implicazioni politiche e legali della qualificazione di genocidio a Gaza. Raggiunto da Eunews, il vicepresidente di Fidh, Alexis Deswaef, ha spiegato che nel trattato internazionale sono previste delle “obbligazioni per i Paesi terzi”. E l’articolo 3 della Convenzione stabilisce chiaramente che tra gli atti puniti è incluso anche “la complicità” nel genocidio.“Non è vendendo armi che adempiamo i nostri doveri – ha insistito Deswaef -, se i Paesi non prendono misure, potranno essere ritenuti complici di genocidio”. Secondo i dati più recenti, pubblicati dallo Stockholm International Peace Research Institute e relativi al 2022, da Washington arriva circa il 70 per cento delle armi utilizzate dalle Forza di difesa israeliane (Fdi), mentre il secondo fornitore di equipaggiamento militare per Tel Aviv è la Germania (24 per cento dell’arsenale israeliano), seguita dall’Italia (5,6 per cento).Il Belgio, uno dei Paesi dell’Ue più critico nei confronti dell’operazione militare israeliana nella Striscia di Gaza, dopo l’allarme della Corte de l’Aia sul rischio di genocidio ha sospeso temporaneamente le licenze in corso per la vendita a Israele di polvere da sparo. “È anche per questo che il procedimento alla Corte internazionale di Giustizia è cosi importante, per mettere pressione ai Paesi terzi per non collaborare con un governo e un esercito criminale”, prosegue l’avvocato e vicepresidente di Fidh. In Italia, dopo le accuse lanciate a metà gennaio dalla segretaria del Partito democratico, Elly Schlein, il ministro degli Esteri Antonio Tajani aveva assicurato che Roma “ha interrotto l’invio di qualsiasi tipo di armi a Israele” dal 7 ottobre.

    I relatori della conferenza sulle implicazioni legali e politiche della qualificazione di genocidio a Gaza, al Parlamento europeo di BruxellesSecondo la Fidh, che raccoglie 188 organizzazioni nazionali di difesa dei diritti umani in oltre 100 paesi del mondo, “basta guardare i media israeliani e i discorsi di membri del governo e capi militari” per rendersi conto che usare la parola genocidio non è a sproposito. Al di là del numero delle vittime, più di 29 mila – e diverse migliaia di dispersi sotto le macerie – in quattro mesi e mezzo di bombardamenti a tappeto.Nella giurisprudenza internazionale, per genocidio si intende una serie di crimini commessi “con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico o religioso”.Per fare pressione sul governo israeliano, a Bruxelles gli strumenti non mancherebbero: sospendere l’accordo di associazione, proporre un embargo sulla vendita di armi, imporre sanzioni contro i coloni violenti in Cisgiordania. La lista è lunga. A mancare è la volontà politica. Ma anche qui, il procedimento innescato dal Sudafrica a l’Aia potrebbe fare la differenza ed essere “la goccia che fa traboccare il vaso”, si augura Deswaef.Spagna e Irlanda hanno richiesto alla Commissione europea una revisione urgente degli obblighi sul rispetto dei diritti umani previsti nell’articolo due dell’accordo di associazione Ue-Israele. Un accordo che prevede una serie di privilegi commerciali alle imprese israeliane nel mercato europeo. “Possiamo constatare che di rinnovo in rinnovo questo accordo non viene rispettato e la situazione oggi ha raggiunto un punto assolutamente critico, per cui una possibile misura è quella di sospendere l’accordo come sanzione contro questo governo criminale israeliano”, ha dichiarato Deswaef.Al Parlamento europeo era presente anche l’ambasciatore del Sudafrica in Olanda, Vusi Madonsela, che ha ricordato quanto il proprio Paese abbia “diretta esperienza dell’importanza delle istituzioni multilaterali e delle Nazioni Unite”. La liberazione dall’apartheid, raggiunta nel 1991, “fu dovuta in larga parte” alle sanzioni economiche e alla pressione della comunità internazionale sul regime di Johannesburg.

  • in

    L’Ue è immobile davanti a una Serbia sempre più ambigua con la Russia, dalle sanzioni alle armi

    Bruxelles – Di fronte alle continue prove di non-allineamento da parte della Serbia del presidente Aleksandar Vučić – se non di vere e proprie provocazioni – alla politica Ue sul rapporto con la Russia di Vladimir Putin, l’Unione Europea nel suo complesso sembra a tutti gli effetti immobile e incapace di reagire. Perché se alcune istituzioni sono in grado di porsi in netta opposizione e prendere posizioni anche durissime (come il Parlamento Ue ha fatto recentemente), altre non stanno nemmeno provando a far capire a Belgrado che ogni azione negativa sul percorso di adesione Ue può comportare una reazione uguale e contraria a Bruxelles.

    Il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić (credits: Alex Halada / Afp)“Il nuovo slancio del processo di allargamento dell’Ue offre alla Serbia e ai Balcani Occidentali l’opportunità di avanzare, mentre il Piano di crescita accelererà l’integrazione, il momento di agire è adesso”, è quanto scritto in un post su X dal presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, al termine di una telefonata con il leader serbo sulla “strada da seguire per il cammino della Serbia verso l’Ue”. Un messaggio non particolarmente vibrante, che in un certo modo stona con la settimana di dichiarazioni e azioni politiche all’insegna dell’intesa storica tra Belgrado e Mosca, nonostante gli ostacoli della guerra in Ucraina per le relazioni tra Vučić e Putin. Nel corso degli ultimi due anni il presidente serbo ha dovuto fare l’equilibrista per non diventare il paria in Europa – abbracciando un’opposizione totale alla linea dura dell’Ue contro il Cremlino – ma allo stesso tempo per non trovarsi costretto a recidere il legame con Mosca adottando le sanzioni internazionali.Da sinistra: la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, e il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić, a Belgrado (31 ottobre 2023)In altre parole, mentre rimane aperta la strada verso l’adesione all’Ue, la Serbia di Vučić è l‘unico partner dell’Unione che rivendica il non-allineamento alla Politica estera e di sicurezza comune, soprattutto sulle sanzioni contro Mosca per l’invasione dell’Ucraina, nemmeno a livello di principio. “Avete molti amici in tutti i Paesi europei, e tutti hanno imposto sanzioni alla Russia, l’unico Paese che non l’ha fatto è la piccola Serbia“, è il messaggio dello stesso presidente Vučić in un’intervista per l’agenzia di stampa russa Tass, condito con quella che non può non essere considerata una palese provocazione all’indirizzo di Bruxelles: “Un vero amico si riconosce nei momenti di difficoltà, è in questi momenti che si mostra il proprio vero volto”. Mentre a ogni appuntamento internazionale “l’argomento principale sono le sanzioni contro la Russia”, Vučić ha ribadito che “ci sforzeremo di difendere la nostra posizione il più a lungo possibile, ci siamo riusciti per due anni, spero riusciremo a continuare a farlo”.Da sinistra: il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić, e il presidente della Federazione Russa, Vladimir Putin, a Sochi (4 dicembre 2019)Non sono solo le sanzioni alla Russia a rappresentare un nodo nei rapporti tra Bruxelles e Belgrado. Nonostante riceverà un pacchetto di sostegno energetico da Bruxelles pari a 165 milioni di euro – oltre a quanto già previsto dal Piano economico e di investimenti e ai possibili stanziamenti del Piano di crescita per i Balcani Occidentali – nel maggio 2022 Vučić ha siglato un’intesa con Putin per tre anni di gas russo a condizioni favorevoli. Per il Cremlino la Serbia è una sorta di testa di ponte nei Balcani Occidentali, tanto che Bruxelles continua a sollevare preoccupazioni sulla possibile destabilizzazione russa della regione dopo l’attacco armato all’Ucraina. Una delle modalità privilegiate è attraverso la disinformazione e la propaganda anti-occidentale che sul territorio serbo è reso possibile da Russia Today Balkan, emittente bandita dall’Unione Europea ma dal luglio 2022 operativa a Belgrado.E poi c’è la questione del rapporto militare, che è emersa in maniera preoccupante proprio nel corso degli ultimi giorni. Lo stesso presidente Vučić ha presentato giovedì scorso (15 febbraio) la nuova integrazione nell’arsenale dell’esercito serbo, il sistema anti-drone Repellent acquistato dalla Russia: un sistema mobile che può distruggere sciami di droni di sorveglianza e d’attacco, consentendo di individuare e neutralizzare automaticamente i droni da ricognizione e i droni kamikaze nemici a distanze fino a 30 chilometri. A questo si aggiunge poi l’investimento da 300 milioni di euro nell’industria nazionale, in particolare i sistemi di artiglieria. Presentandoli, Vučić ha lanciato un altro messaggio non poco equivoco: “Possiamo amare i droni e gli elicotteri, ma è l’artiglieria a vincere sul fronte, lo possiamo vedere in Ucraina“.

  • in

    Il tredicesimo pacchetto di sanzioni alla Russia è pronto e colpirà anche alcune aziende cinesi

    Bruxelles – L’Unione europea segnerà il secondo anniversario dell’invasione russa dell’Ucraina con l’approvazione del tredicesimo pacchetto di sanzioni a Mosca. A tre giorni dal 24 febbraio, gli ambasciatori dei 27 hanno dato il via libera all’applicazione di misure restrittive a quasi 200 individui ed entità, che vanno ad aggiungersi agli oltre 2000 soggetti vicini al Cremlino già sanzionati in due anni di guerra.Il pacchetto sanzionatorio sarà ora adottato formalmente dal Consiglio con procedura scritta entro la data simbolica auspicata del 24 febbraio. “Uno dei più ampi” approvati finora, ha sottolineato nel dare l’annuncio la presidenza belga dell’Ue.  Il pacchetto si dovrebbe concentrare sulla lotta all’elusione delle misure restrittive – in continuità con il dodicesimo – e sulle reti di approvvigionamento di tecnologia avanzata e equipaggiamento militare del Cremlino.In particolare, Bruxelles vuole colpire le aziende che riforniscono Mosca dei componenti per la costruzione di droni, che vengono poi utilizzati nei bombardamenti sulle città ucraine. “Dobbiamo continuare a ridurre la macchina da guerra di Putin. Con 2000 nomi in totale, manteniamo alta la pressione sul Cremlino. Stiamo anche riducendo ulteriormente l’accesso della Russia ai droni”, ha commentato in un post su X la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen.Oltre a diverse imprese russe, l’Ue avrebbe inserito nella lista nera anche aziende turche e della Corea del Nord. Ma soprattutto, a quanto si apprende le nuove sanzioni prenderanno di mira – per la prima volta – anche tre aziende cinesi che avrebbero fornito tecnologia militare a Mosca. “La Russia sta pagando per le sue azioni. Il tredicesimo pacchetto di sanzioni concordato oggi dall’Ue ridurrà ulteriormente la produzione dell’arsenale del Cremlino e frammenterà la sua cassa di guerra”, ha esultato la presidente del Parlamento europeo, Roberta Metsola.

  • in

    Le famiglie degli ostaggi israeliani a Bruxelles. L’ambasciatore presso l’Ue: “Non ci fermeremo finché non saranno rilasciati”

    Bruxelles – Due numeri che quasi si equivalgono: 134 ostaggi, detenuti da 137 giorni nella rete di tunnel di Hamas nella Striscia di Gaza. “Il tempo sta per scadere”, urla in coro dalla capitale europea la delegazione dei familiari dei cittadini israeliani rapiti negli attacchi del 7 ottobre. Cinque famiglie, con la vita sospesa da oltre quattro mesi, hanno lanciato un appello all’Unione europea per fare tutto il possibile perché i loro cari tornino a casa.In una conferenza stampa organizzata dalla Europe Israel Press Association, i familiari di Omri Miran, Arbel e Dolev Yehud, Rom Breslavsky e Oz Daniel hanno preso la parola uno alla volta, per raccontare l’incubo che hanno vissuto e stanno ancora vivendo. Prima di loro, l’appello dell’Ambasciatore israeliano presso l’Unione europea e la Nato, Haim Regev: “Abbiamo avuto un grande supporto da parte dell’Ue, l’abbiamo visto fin dal primo giorno. Ma ora abbiamo bisogno di più sostegno, di più pressione per far tornare gli ostaggi“.L’ambasciatore israeliano presso l’Ue, Haim RegevUna richiesta che arriva nel momento in cui la comunità internazionale è sempre più critica nei confronti dell’efferata offensiva israeliana a Gaza. Dopo quasi trentamila vittime palestinesi in quattro mesi e mezzo, riportare l’attenzione sui 134 israeliani detenuti nella Striscia non è impresa facile. Anche perché il governo Netanyahu, dopo il fallimento delle trattative mediate dall’Egitto a causa delle “richieste deliranti di Hamas”, insiste sull’idea che solo la pressione militare porterà alla liberazione degli ostaggi.L’Ue proprio ieri ha chiesto a Israele di non intraprendere alcuna operazione militare a Rafah, dove sono ammassati oltre un milione e mezzo di sfollati palestinesi, ma Regev ha risposto che “non ci fermeremo finché gli ostaggi non saranno rilasciati”. E ha aggiunto: “La nostra guerra non è contro i palestinesi, ma contro Hamas. Questa guerra può finire in un’ora, devono solo rilasciare tutti gli ostaggi“.L’ultima richiesta di Hamas è stata ritenuta inaccettabile: la contemporanea liberazione di 1500 detenuti palestinesi nelle carceri israeliane, tra cui personaggi condannati a più ergastoli per aver partecipato ad attentati terroristici in Israele. Ma aver abbandonato le trattative non è andato giù ai familiari degli ostaggi, che in patria hanno definito la decisione di Netanyahu come “una condanna a morte” per i propri cari. E anche oggi la delegazione ha lanciato un appello al proprio governo che “non sta facendo abbastanza” per riportare a casa i propri connazionali, ricordando che nelle principali città israeliane “stiamo manifestando giorno e notte”.Anche ieri sera centinaia di persone hanno marciato fino all’ufficio di Netanyahu a Gerusalemme per chiedere un accordo immediato per il rilascio degli ostaggi. “Ma noi siamo in Europea perché metà degli ostaggi sono anche europei“, ha denunciato la moglie di Omri Miran, cittadino israelo-ungherese che viveva con la famiglia in un kibbutz a poche centinaia di metri da Gaza e che la mattina del 7 ottobre è stato trascinato nella Striscia. Mentre la compagna, con cittadinanza portoghese, e le due figlie, sono state incredibilmente risparmiate dai terroristi.

  • in

    L’obiettivo della Georgia è di essere “il Paese più pronto all’adesione Ue al 2030”

    Bruxelles – Dopo il risultato storico della concessione dello status di candidato all’adesione Ue, per la Georgia la sfida dell’avvicinamento all’Unione è appena iniziata. “Abbiamo piani ambiziosi per l’integrazione, entro il 2030 la Georgia sarà pronta più di qualsiasi altro Paese candidato per l’adesione“, ha messo in chiaro il primo ministro della Georgia, Irakli Kobakhidze, in conferenza stampa a Bruxelles oggi (20 febbraio) al termine dell’ottava sessione del Consiglio di Associazione Ue-Georgia. O, per dirla in termini più diretti, “al massimo entro il 2030 la Georgia sarà membro Ue“.

    Da sinistra: l’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, e il primo ministro della Georgia, Irakli Kobakhidze (20 febbraio 2024)L’obiettivo è stato fissato dal primo ministro entrato in carica lo scorso 8 febbraio, in uno scambio di ruoli con l’ex-premier Irakli Garibashvili (che a sua volta ha sostituito Kobakhidze alla testa del partito al potere Sogno Georgiano), per preparare il percorso di avvicinamento alle elezioni legislative in programma il 26 ottobre. Elezioni definite “un test importante per la democrazia georgiana” dall’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, che ha esortato il governo a “completare le riforme con tutte le raccomandazioni per elezioni libere, eque e competitive”. Tornando alla questione dell’adesione all’Unione, il premier Kobakhidze ha assicurato che a Tbilisi “non cerchiamo scorciatoie“, ma che oggi “abbiamo voluto dimostrare i nostri progressi per rispettare i nostri impegni” verso il prossimo step del processo: “Aprire i negoziati di adesione e integrarci nel Mercato unico“.

    La richiesta della Georgia di aderire all’Ue è arrivata il 3 marzo 2022, a una settimana dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina. Tre mesi più tardi il gabinetto von der Leyen ha indicato a Tbilisi la necessità di lavorare su una serie di priorità, con la decisione definitiva del Consiglio Europeo del 23 giugno che ha approvato la linea tracciata dalla Commissione: mentre l’Ucraina e la Moldova sono diventati Paesi candidati, la Georgia ha ricevuto solo la “prospettiva europea”. In un anno e mezzo di lavoro le autorità nazionali sono riuscite a completare 3 priorità su 12 – come confermato dal Pacchetto Allargamento 2023 – ma la Commissione Ue ha comunque deciso di indicare ai Ventisette la possibilità di concedere a Tbilisi lo status di candidato “a condizione che vengano prese alcune misure”: più precisamente allineamento alla politica estera dell’Unione, contrasto alla polarizzazione politica, attuazione delle riforme giudiziarie, lotta alla corruzione e alla de-oligarchizzazione e attuazione della strategia per i diritti umani, la libertà dei media e l’impegno della società civile. Il passo decisivo a Bruxelles è stata preso all’ultimo Consiglio Europeo del 14-15 dicembre, quando i 27 leader Ue hanno deciso di rendere la Georgia il nono Paese candidato ufficialmente a fare ingresso nell’Unione.Lo stesso alto rappresentante Borrell ha voluto sottolineare il fatto che la prima visita all’estero del neo-premier Kobakhidze sia stata a Bruxelles: “È la dimostrazione che prendete il percorso Ue seriamente”. Ma questo non alleggerisce il lavoro che Tbilisi deve fare per “un allineamento significativo nei prossimi anni” alla Politica estera e di sicurezza comune (Pesc) dell’Unione, sulla lotta alla disinformazione, alla manipolazione delle informazioni e all’interferenza estera – “ne vedremo ancora di più con le elezioni europee e con le vostre elezioni” – ma soprattutto sull’implementazione delle riforme secondo le 9 priorità ancora non rispettate: “La porta è aperta, dovete attraversarla rispettando i criteri che sono uguali per tutti”, ha ribadito Borrell. A fargli eco il commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi: “Bisogna capitalizzare la decisione del Consiglio, chiediamo di accelerare il lavoro sulle riforme per passare allo stadio successivo”. Nel frattempo si possono guardare i progressi sulla cosiddetta “integrazione anticipata” in settori specifici: “Abbiamo tutto a disposizione per fare una proposta al Consiglio per integrare la Georgia il prima possibile all’area roaming, sarebbe un cambiamento che i cittadini possono vedere in modo tangibile al pari della liberalizzazione dei visti”, ha assicurato il commissario Várhelyi.La situazione politica in GeorgiaNonostante la concessione dello status di Paese candidato all’adesione Ue, il rapporto tra Bruxelles e Tbilisi rimane particolarmente complesso a causa dello scollamento tra una popolazione a stragrande maggioranza filo-Ue e un governo quantomeno controverso sulle tendenze filo-russe (anche se poi ha fatto richiesta di aderire all’Unione per i timori sollevati dall’espansionismo del Cremlino). Non solo è evidente la difficoltà a implementare le riforme richieste dal cammino di avvicinamento all’Unione, ma nel corso degli ultimi due anni si sono registrati episodi che hanno evidenziato l’ambiguità del partito al potere Sogno Georgiano – il cui fondatore è l’oligarca Bidzina Ivanishvili, che compare nella risoluzione non vincolante del Parlamento Ue che chiede sanzioni personali nei suoi confronti. Per esempio, nel maggio dello scorso anno sono ripresi dei voli tra Georgia e Russia dopo la decisione di Mosca di eliminare il divieto in vigore, e il Paese caucasico non si è mai allineato alle misure restrittive introdotte da Bruxelles contro il Cremlino dopo l’invasione dell’Ucraina. Lo scorso autunno il governo ha anche tentato di mettere sotto impeachment (fallito) la presidente della Repubblica, Salomé Nino Zourabichvili, per una serie di viaggi nell’Unione Europea che che avrebbero rappresentato una violazione dei poteri della capa di Stato secondo la Costituzione nazionale.

    Le proteste pro-Ue dei manifestanti georgiani a Tbilisi, 7 marzo 2023 (credits: Afp)A cavallo della decisione di Bruxelles di giugno 2022 di non concedere ancora alla Georgia lo status di candidato all’adesione, a Tbilisi si sono svolte due grandi manifestazioni pro-Ue: una ‘marcia per l’Europa’ per ribadire l’allineamento del popolo ai valori dell’Unione e una richiesta di piazza di dimissioni del governo. I tratti comuni di queste manifestazioni sono state le bandiere – bianca e rossa delle cinque croci (nazionale) e con le dodici stelle su campo blu – cartelli con rivendicazioni europeiste e l’inno georgiano intervallato dall’Inno alla Gioia. Nel marzo dello scorso anno sono poi scoppiate dure proteste popolari contro un controverso progetto di legge sulla ‘trasparenza dell’influenza straniera’ di filo-russa memoria, per registrare tutte le organizzazioni che ricevono più del 20 per cento dei loro finanziamenti dall’estero come ‘agente straniero’ (in modo simile a quanto in vigore in Russia dal primo dicembre dello scorso anno). Dopo l’approvazione in prima lettura da parte del Parlamento decine di migliaia di cittadini georgiani sono scesi in piazza con le bandiere della Georgia e dell’Unione Europea – gridando slogan come Fuck Russian law e tappezzando la città di insulti a Putin – sostenuti sia dalle istituzioni Ue sia dalla presidente Zourabichvili. Dopo due giorni di proteste ininterrotte il partito Sogno Georgiano ha ritirato il progetto di legge, ma senza sconfessare la propria iniziativa.In questo scenario non va dimenticato il rapporto particolarmente delicato della Georgia con la Russia, Paese con cui confina a nord. La candidatura all’adesione Ue e Nato – sancita dalla Costituzione nazionale – da tempo è causa di tensioni con il Cremlino. Dopo i conflitti degli anni Novanta con le due regioni separatiste dell’Ossezia del Sud (1991-1992) e dell’Abkhazia (1991-1993) a seguito dell’indipendenza della Georgia nel 1991 dall’Unione Sovietica, sul terreno la situazione è rimasta di fatto congelata per 15 anni, con le truppe della neonata Federazione Russa a difendere i secessionisti all’interno del territorio rivendicato. Il tentativo di riaffermare il controllo di Tbilisi sulle due regioni nell’estate del 2008 – voluto dall’allora presidente Mikheil Saakashvili – determinò il 7 agosto una violenta reazione russa non solo nel respingere l’offensiva dell’esercito georgiano, ma portando anche all’invasione del resto del territorio nazionale con carri armati e incursioni aeree per cinque giorni. Da allora la Russia di Vladimir Putin riconosce l’indipendenza di Abkhazia e Ossezia del Sud e ha dislocato migliaia di soldati nei due territori per aumentare la propria sfera d’influenza nella regione della Ciscaucasia, in violazione degli accordi del 12 agosto 2008.

  • in

    L’Ue è ferma sulle sanzioni ai coloni israeliani estremisti perché serve l’unanimità. Ma dopo la Francia altri Paesi sono pronti

    Bruxelles – Del piano annunciato più di due mesi fa dall’Alto rappresentante Ue per gli Affari esteri, Josep Borrell, di imporre un regime di sanzioni europee contro i coloni israeliani estremisti, non c’è ancora traccia. Ostaggio della regola dell’unanimità che vige tra i 27, l’Ue rimane ferma nella paradossale condizione di voler ridare vigore alla soluzione dei due Stati ma contemporaneamente non fare nulla contro chi ne mette a repentaglio le fondamenta.“Se vogliamo mantenere la nostra credibilità, dobbiamo denunciare ciò che sta accadendo in Cisgiordania”, ha avvertito ancora una volta Borrell al suo arrivo al Consiglio Ue Affari esteri a Bruxelles. Ma il consenso non c’è ancora. I due Paesi ancora restii sono Ungheria e Repubblica Ceca, ma tanto basta per lasciare l’Ue immobile davanti alla crisi israelo-palestinese. Al di là delle sanzioni ai coloni che si macchiano di violenze contro le comunità palestinesi: dal vertice dei ministri degli Esteri è uscito un comunicato in cui 26 Paesi membri “richiedono una pausa umanitaria immediata che porti a un cessate il fuoco sostenibile, alla liberazione degli ostaggi e alla fornitura continua di assistenza umanitaria”. Anche qui a 26, non a 27.Ma alcuni Paesi membri sono pronti a forzare la mano, per quanto una mossa individuale non possa avere lo stesso peso di una posizione presa dal blocco. A dare l’esempio la Francia, che già una settimana fa ha vietato l’ingresso sul suolo nazionale a 28 cittadini israeliani colpevoli di violenze nella West Bank. E oggi, anche i ministri di Spagna e Belgio hanno paventato lo strappo. José Manuel Albares, ministro degli Affari esteri spagnolo, ha dichiarato che “se non si arriverà a un accordo nell’Ue Madrid sarà pronta a procedere unilateralmente“, mentre  l’omologa belga, Hadja Lahbib, ha annunciato che il Belgio – che detiene la presidenza di turno del Consiglio dell’Ue – ha “deciso di adottare delle sanzioni contro i coloni estremisti e diversi Paesi europei sono pronti a seguirci. Vedremo se potremo andare avanti a Ventisette in merito”.Anche da Dublino sono pronti a proseguire da soli, ha dichiarato il ministro degli Esteri Micheál Martin, esprimendo “rammarico” per la mancanza di consenso unanime in seno all’Ue. L’Italia si è mostrata possibilista, ma solo a una decisione comune: il vicepremier Antonio Tajani ha spiegato che Roma “si riconosce nella posizione adottata dal G7 che condanna i coloni e le violenze perpetrate” e che “se ci saranno sanzioni europee non ci opporremo“. Dopo che una decisione in tal senso è già stata presa dai principali alleati occidentali, Stati Uniti e Regno Unito, l’Ue appare già in ritardo. Soprattutto alla luce dei dati dell’ufficio delle Nazioni Unite Ocha-Opta: dal 7 ottobre 2023 sono stati registrati 558 attacchi di coloni israeliani contro palestinesi che hanno causato vittime palestinesi (50 incidenti), danni a proprietà di proprietà palestinese (447 incidenti) o sia vittime che danni a proprietà (61 incidenti).Tajani ha anche sottolineato che contemporaneamente l’Ue sta lavorando a nuove sanzioni su Hamas, e qui l’unanimità ci sarebbe già. Il capo della diplomazia europea Borrell ha tagliato corto in conferenza stampa: “Abbiamo deciso di continuare a lavorare su come procedere contro gli estremisti violenti e contro le violazioni dei diritti e le violenze sessuali di Hamas”, ha concluso.

  • in

    L’Ue vuole intitolare all’oppositore russo Alexei Navalny il regime di sanzioni per i diritti umani

    Bruxelles – Intitolare il regime europeo di sanzioni per i diritti umani ad Alexei Navalny, l’oppositore russo morto venerdì (16 febbraio) in carcere ad alta sorveglianza in Russia, dove era detenuto da quasi tre anni. Questa la proposta con cui il capo della diplomazia europea, Josep Borrell, ha fatto ingresso questa mattina (19 febbraio) al Consiglio Ue Affari Esteri a Bruxelles, che ha visto anche la partecipazione della vedova di Navalny, Yulia Navalnaya, a cui i ministri dell’Ue hanno inviato in una dichiarazione un forte messaggio “di sostegno ai combattenti per la libertà in Russia”.I am proposing to EU Member States to rename our Global Human Rights Sanctions Regime the “Navalny Regime”.To honour his memory, for his name to be written on the work of the EU in the defence of human rights around the world. pic.twitter.com/yIGfpcDWBE— Josep Borrell Fontelles (@JosepBorrellF) February 19, 2024Una proposta accolta oggi ‘politicamente’ dai 27 ministri dell’Ue e che ora andrà formalmente adottata a livello tecnico dagli ambasciatori degli Stati membri. “Per rendere omaggio ad Alexei Navalny lentamente assassinato dal regime di Putin e onorare la sua memoria ho proposto ai ministri di rinominare il regime di sanzioni dell’Ue per i diritti umani con il suo nome”, ha spiegato questa mattina l’alto rappresentante Ue per la politica estera e di sicurezza. Sarà il ‘regime Navalny per le sanzioni Ue per la tutela dei diritti umani’ affinché il suo nome sia scritto per sempre nel lavoro per la tutela dei diritti umani”, ha precisato.Il regime europeo di sanzioni dei diritti umani è stato inaugurato dall’Ue non molto tempo fa, a dicembre 2020. Una ‘legge Magnitsky europea’, ovvero un nuovo regime di sanzioni dedicato a colpire i responsabili di violazioni dei diritti umani, per rispondere a chi accusa l’Europa di essere troppo lenta o poco coraggiosa nei confronti di chi viola i diritti umani. Il nome di Navalny, 47 anni, era diventato celebre in occidente per il tentativo fallito del Cremlino di avvelenarlo ad agosto 2020.Era detenuto in Russia da gennaio 2021, arrestato appena dopo essere tornato nel suo Paese dalla Germania. A Berlino era rimasto per mesi per ricevere le cure necessarie dopo aver subito un avvelenamento attribuibile, secondo varie inchieste, ai servizi di sicurezza russi. Lo scorso agosto era stato condannato a scontare altri 19 anni di carcere.

    Yulia Navalnaya insieme al presidente del Consiglio europeo, Charles MichelPresente alla riunione dei ministri degli esteri anche Yulia Navalnaya, che nel corso della giornata ha avuto un incontro bilaterale con il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, e con il ministro degli Esteri, Antonio Tajani. “E’ una donna che vuole continuare a battersi per difendere la libertà nel suo Paese e ha ribadito che la Russia non è Putin e Putin non è la Russia, l’abbiamo trovata determinata. Borrell, a nome di tutti noi, le abbiamo assicurato che continueremo a sostenere il diritto di parlare in Russia, di poter condurre battaglie politiche e chiederemo la liberazione di tutti i prigionieri politici”, ha detto Tajani in un punto stampa.