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    Il dialogo Pristina-Belgrado è incagliato sull’Associazione delle municipalità a maggioranza serba in Kosovo

    Bruxelles – Un compromesso fallito, almeno per il momento. Perché la partita a scacchi che l’Ue sta giocando contemporaneamente con il Kosovo e con la Serbia – complessa, lunga e a tratti estenuante – va impostata sulla costanza e sull’uso bilanciato di promesse, minacce e ricompense, accettando qualche passo falso. Ma abbandonare il tavolo non è possibile, o si rischia di abbandonare a se stessa una regione in cui solo 25 anni fa è andato in scena uno dei conflitti etnici più violenti della recente storia europea. “Il tempo sta scadendo e alla fine quelli che soffrono di più per l’incapacità dei loro leader di rispettare la parola data sono proprio i cittadini” di Serbia e Kosovo, è il duro commento dell’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, al termine dell’ultimo round di alto livello del dialogo Pristina-Belgrado: “È una cosa particolarmente grave in un momento, poi, in cui l’Ue procede verso l’allargamento ed entrambi i leader dichiarano di voler essere membri dell’Unione, Serbia e Kosovo rischiano di essere lasciati indietro“.
    È questo il riassunto di una giornata di colloqui complessi oggi (14 settembre) a Bruxelles – alla presenza del presidente serbo, Aleksandar Vučić, e del primo ministro kosovaro, Albin Kurti – con il focus sull’implementazione dell’accordo per la normalizzazione dei rapporti tra i due Paese balcanici, dopo l’ultimo incontro di quasi tre mesi fa occupato dalla crisi nel nord del Kosovo. “È da un anno che abbiamo iniziato le discussioni e sei mesi da quando le abbiamo finalizzate”, ha ricordato Borrell, con riferimento all’accordo di Bruxelles del 27 febbraio (che ha definito gli impegni specifici per Serbia e Kosovo) e l’intesa sull’allegato di implementazione raggiunta a Ohrid il 18 marzo. A oggi “solo tre elementi sono stati affrontati“, ovvero la dichiarazione sulle persone scomparse, l’annuncio sul comitato di monitoraggio congiunto e la presentazione della bozza sull’Associazione delle municipalità a maggioranza serba in Kosovo. Ma è proprio questo il punto su cui è ancora incagliato il dialogo Pristina-Belgrado: l’Accordo di Bruxelles del 2013 mai implementato sulla comunità nel Paese a cui dovrebbe essere garantita autonomia su tutta una serie di materie amministrative. L’implementazione del “punto più sostanziale” dell’intesa raggiunta tra febbraio e marzo “non è ancora iniziata e parla chiaro sull’impegno delle parti per normalizzare le relazioni, o meglio sull’assenza di impegno“, è il duro commento dell’alto rappresentante Borrell: “L’assenza di azione è una violazione dei rispettivi obblighi e promesse”.
    Da sinistra: l’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, e il primo ministro del Kosovo, Albin Kurti (14 settembre 2023)
    L’istituzione dell’Associazione delle municipalità a maggioranza serba in Kosovo “è un vecchio obbligo per le parti ed é sempre stato un elemento-chiave per il processo di normalizzazione delle relazioni”. Il fallimento di oggi è legato ai “ripetuti sforzi per un compromesso”, rispetto a due interlocutori “partiti dagli estremi opposti”. Il presidente serbo “vuole l’istituzione dell’Associazione prima di impegnarsi nei suoi obblighi”, mentre il premier kosovaro “parte prima dagli aspetti politici”, ovvero la “formalizzazione del riconoscimento de facto” della sovranità del suo Paese (che ha dichiarato l’indipendenza unilaterale da Belgrado nel 2008). È per questo motivo che l’alto rappresentante Borrell e il rappresentante speciale per il dialogo Pristina-Belgrado, Miroslav Lajčák, hanno proposto “quello che consideriamo l’unico e migliore compromesso possibile a oggi” secondo Bruxelles e i partner statunitensi: un processo che permetta di “portare avanti le due istanze in parallelo”. Do ut des, senza progressi da una parte non si procede dall’altra. Mentre il presidente Vučić “ha accettato la proposta” – anche se arrivato a Bruxelles con una sua – “sfortunatamente dopo un lungo incontro il premier Kurti non era pronto per procedere“, ha spiegato Borrell: “Abbiamo provato con forza, ma non siamo riusciti a superare le differenze”.
    Da sinistra: l’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, e il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić (14 settembre 2023)
    Tutto questo ha un impatto concreto sul campo. “Non c’è stato nessun progresso sulle tensioni nel nord del Kosovo“, ha tagliato corto l’alto rappresentante Ue, ribadendo che “entrambe le parti devono prendere misure decise per evitare un’ulteriore escalation e permettere che nuove elezioni locali si svolgano immediatamente”. Proprio sulle controverse elezioni in quattro comuni – Zubin Potok, Zvečan, Leposavić e Kosovska Mitrovica – si è soffermato il capo della diplomazia comunitaria: “Non possiamo rimanere seduti ad aspettare un’altra crisi, le nuove elezioni possono passare sia dalle dimissioni dei sindaci sia dalla raccolta di firme da parte dei cittadini“. Mentre il governo di Pristina si sta indirizzando verso la seconda via – “più lenta e non certa” – da Bruxelles l’indicazione è chiara: “Le dimissioni sono il modo più rapido e migliore per permettere nuove elezioni”. Allo stesso tempo “i cittadini serbo-kosovari devono mostrare uno spirito costruttivo e impegnarsi in modo incondizionato al processo elettorale“, ovvero – rispetto a quanto accaduto ad aprile – “devono partecipare, altrimenti quanto fatto sarebbe senza scopo”. Il rischio di uno slittamento dell’appuntamento elettorale ripetuto è “una nuova escalation che continuerà a incombere” sulla delicatissima partita a scacchi dell’Ue con la Serbia e con il Kosovo.
    Le tensioni tra Serbia e Kosovo
    Il circolo di tensione non ancora risolto tra i due Paesi è iniziato lo scorso 26 maggio, con lo scoppio di violentissime proteste nel nord del Kosovo da parte della minoranza serba a causa dell’insediamento dei neo-eletti sindaci di Zubin Potok, Zvečan, Leposavić e Kosovska Mitrovica. Proteste che si sono trasformate il 29 maggio in una guerriglia che ha coinvolto anche i soldati della missione internazionale Kfor a guida Nato (30 sono rimasti feriti, di cui 11 italiani). Una situazione deflagrata dalla decisione del governo Kurti di forzare la mano e far intervenire le forze speciali di polizia per permettere l’ingresso nei municipi ai sindaci eletti lo scorso 23 aprile in una tornata particolarmente controversa: l’affluenza al voto è stata tendente all’irrisorio – attorno al 3 per cento – a causa del boicottaggio di Lista Srpska, il partito serbo-kosovaro vicino al presidente serbo Vučić e responsabile anche dell’ostruzionismo per impedire ai sindaci di etnia albanese (a parte quello di Mitrovica, della minoranza bosniaca) di assumere l’incarico. Dopo il dispiegamento nel Paese balcanico di 700 membri aggiuntivi del contingente di riserva Kfor e una settimana di apparente stallo, nuove proteste sono scoppiate a inizio giugno per l’arresto di due manifestanti accusati di essere tra i responsabili delle violenze di fine maggio e per cui la polizia kosovara viene accusata di maltrattamenti in carcere.
    Scontri tra i manifestanti serbo-kosovari e i soldati della missione Nato Kfor a Zvečan, il 29 maggio 2023 (credits: Stringer / Afp)
    A gravare su una situazione già tesa c’è stato un ulteriore episodio che ha infiammato i rapporti tra Pristina e Belgrado: l’arresto/rapimento di tre poliziotti kosovari da parte dei servizi di sicurezza serbi lo scorso 14 giugno. Un evento per cui i due governi si sono accusati a vicenda di sconfinamento delle rispettive forze dell’ordine, in una zona di confine tra il nord del Kosovo e il sud della Serbia scarsamente controllata dalla polizia kosovara e solitamente usato da contrabbandieri che cercano di evitare i controlli di frontiera. Dopo settimane di continui appelli alla calma e alla de-escalation non ascoltati né a Pristina né a Belgrado, per Bruxelles si è resa necessaria una nuova soluzione ‘tampone’, ovvero convocare una riunione d’emergenza con il premier Kurti e il presidente Vučić per cercare delle vie percorribili per ritornare fuori dalla “modalità gestione della crisi” e rimettersi sul percorso della normalizzazione dei rapporti intrapreso tra Bruxelles e Ohrid. A pochi giorni dalla riunione a Bruxelles del 22 giugno è arrivata la scarcerazione dei tre poliziotti kosovari da parte della Serbia, ma per il momento non è stato deciso nulla sulle nuove elezioni nel nord del Kosovo.
    La questione delle tensioni tra Pristina e Belgrado è finita anche nelle conclusioni del Consiglio Europeo del 29-30 giugno, quando i leader Ue hanno condannato “i recenti episodi di violenza nel nord del Kosovo” e hanno chiesto “un’immediata attenuazione della situazione, sulla base degli elementi chiave già delineati dall’Unione Europea il 3 giugno 2023″ (riferimento alla dichiarazione dell’alto rappresentante Borrell sulle violenze di inizio mese). Entrambe le parti sono state invitate a “creare le condizioni per elezioni anticipate in tutti e quattro i comuni del nord del Kosovo“, con la minaccia velata che “la mancata attenuazione delle tensioni avrà conseguenze negative”. A causa del mancato “atteggiamento costruttivo” da parte di Pristina per la de-escalation della tensione, Bruxelles ha imposto a fine giugno misure “temporanee e reversibili” contro il Kosovo, che prevedono anche la sospensione del lavoro degli organi dell’Accordo di stabilizzazione e associazione. Per eliminare queste misure (“non sanzioni”, come ricorda Bruxelles) è stata concordata il 12 luglio una tabella di marcia con quattro tappe, che Pristina sta implementando ancora a fatica.
    Come si è arrivati a questo complesso 2023
    Il primo ministro del Kosovo, Albin Kurti, con le nuove targhe l’immatricolazione di tutti i veicoli nel Paese (credits: Afp)
    Ricostruire le tensioni tra Serbia e Kosovo è come affrontare un domino. Per ogni tessera caduta bisogna risalire a quella precedente, caduta a sua volta per colpa di un’altra più dietro. Dopo le due riunioni estive del 2021 tra il premier Kurti e il presidente Vučić a Bruxelles mediate dall’Ue, a metà settembre dello stesso anno è scoppiata per la prima volta nel nord del Kosovo la cosiddetta ‘battaglia delle targhe‘ tra i due Paesi, scatenata dalla decisione del governo di Pristina di imporre il cambio delle targhe ai veicoli serbi in entrata nel territorio kosovaro. La questione è stata momentaneamente risolta grazie alla mediazione Ue, ma l’assenza di una soluzione definitiva ha poi infiammato la seconda metà del 2022. A fine luglio sono comparsi blocchi stradali e barricate delle frange più estremiste della minoranza serbo-kosovara e due riunioni fallimentari tra Vučić e Kurti a Bruxelles non hanno portato a nessuno sbocco politico.
    La situazione si è però aggravata ancora di più il 5 novembre, con le dimissioni di massa di sindaci, consiglieri, parlamentari, giudici, procuratori, personale giudiziario e agenti di polizia dalle rispettive istituzioni nazionali in protesta contro il piano graduale per l’applicazione delle regole sulla sostituzione delle targhe serbe e contro quella che Lista Srpska ha definito una “violazione del diritto internazionale e dell’Accordo di Bruxelles” del 2013. Tra i dimissionari c’erano anche i sindaci di Kosovska Mitrovica, Zubin Potok, Zvecan e Leposavić e per questo motivo si è reso necessario tornare alle urne nelle quattro città: in programma inizialmente per il 18 dicembre, sono state poi rinviate al 23 aprile. Parallelamente è stata raggiunta una soluzione di compromesso sulle targhe nella notte tra il 23 e il 24 novembre tra il leader serbo e quello kosovaro, anche se prima del vertice Ue-Balcani Occidentali del 6 dicembre a Tirana si è registrato un altro episodio di tensione politica tra Pristina e Belgrado, sempre legata alla questione del nord del Kosovo.
    Le barricate ai valichi di frontiera nel nord del Kosovo a dicembre 2022
    Il presidente serbo ha minacciato di boicottare il vertice di Tirana a causa della nomina di Nenad Rašić come ministro per le Comunità e il ritorno dei profughi all’interno del governo kosovaro: Rašić è il leader del Partito Democratico Progressista, formazione serba ostile a Belgrado e concorrente di Lista Srpska il cui leader, Goran Rakić, si è dimesso dal ministero riservato alla minoranza serba nel Paese a inizio novembre. A pochi giorni dal vertice Ue-Balcani Occidentali, il 2022 si è chiuso con una nuova escalation di tensione ai valichi di frontiera nel nord del Kosovo, dopo la decisione di Pristina di inviare alcune centinaia di forze di polizia per sopperire alla mancanza di agenti dimessisi sempre a novembre. Le barricate delle frange serbo-kosovare più estremiste sono state smantellate solo dopo alcune settimane grazie allo sforzo diplomatico dei partner europei e statunitensi. L’appuntamento alla nuova crisi doveva attendere solo cinque mesi.

    Trovi ulteriori approfondimenti sulla regione balcanica nella newsletter BarBalcani ospitata da Eunews

    Nulla di fatto al nuovo round di colloqui di alto livello mediato dall’alto rappresentante Ue, Josep Borrell. Scontro tra il presidente serbo, Aleksandar Vučić, che vuole l’immediata istituzione della comunità, e il premier kosovaro, Albin Kurti, che esige prima il riconoscimento de-facto

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    La Tunisia blocca l’ingresso alla delegazione del Parlamento Ue. La Commissione è “profondamente sorpresa”

    Evidentemente troppo per Saied che, anche se fresco di partnership rafforzata con l’Ue, non ha voluto che l’Eurocamera ficcasse il naso negli affari interni del Paese. La decisione è arrivata all’indomani di un infuocato dibattito all’emiciclo di Strasburgo in cui la stragrande maggioranza degli eurodeputati hanno criticato duramente la Commissione europea per aver stretto l’accordo con Saied. Nel documento con cui il Ministero degli Affari Esteri tunisino ha notificato il divieto di ingresso alla delegazione Ue, reso pubblico su Twitter, non c’è traccia di motivazioni: “Nonostante le numerose riserve nei suoi confronti, la delegazione non sarà autorizzata a entrare sul territorio nazionale”, si legge. Tunisi non ha al momento fornito spiegazioni ufficiali all’origine della dura presa di posizione. Una condotta che “non ha precedenti dalla rivoluzione democratica del 2011”, hanno sottolineato in un comunicato congiunto i membri di Afet.  “Condanniamo la decisione delle autorità tunisine di rifiutare l’ingresso alla delegazione e chiediamo spiegazioni dettagliate”, si legge nella nota del Parlamento Ue.
    Si è attivato immediatamente anche l’ambasciatore Ue in Tunisia, esprimendo “rammarico per la decisione”. Al briefing quotidiano con la stampa internazionale, alla domanda se lo sgarbo di Saied potrà avere ripercussioni sull’implementazione del Memorandum d’intesa, la Commissione europea ha risposto: “L’Ue e la Tunisia sono legate da un partenariato forte e strategico, la continuazione di un dialogo aperto è ancora più importante nel momento in cui affrontiamo insieme sfide senza precedenti“. Insomma, l’intesa per arginare l’emergenza sbarchi dal Mediterraneo centrale ha la priorità.
    La condanna alla Tunisia dall’universo Socialdemocratico
    Di tutt’altro avviso la capogruppo dei Socialisti e democratici, Iratxe Garcia Perez, che promette battaglia: la leader spagnola ha fatto sapere che chiederà alla presidente del Parlamento europeo, Roberta Metsola, di condannare ufficialmente l’accaduto e ha esortato Ursula von der Leyen a “sospendere immediatamente l’attuazione del Memorandum“. All’appello si è unito il capodelegazione del Pd, Brando Benifei, che ha definito “molto grave” la vicenda e ha chiesto “una condanna da parte dei vertici delle istituzioni europee”.
    Non solo, Perez ha annunciato che chiederà una valutazione sulla legalità dell’accordo da parte dei servizi giuridici del Parlamento. “La decisione delle autorità tunisine di negare l’ingresso della missione della Commissione Affari Esteri dimostra ciò che affermiamo sin dalla firma del Memorandum d’Intesa tra la Presidente della Commissione Ursula von der Leyen e il Presidente Saied. Esternalizzare la gestione della migrazione è un errore politico, e dare soldi a un regime autoritario che viola i diritti umani e reprime ogni oppositore va contro i nostri valori”, ha dichiarato la capogruppo S&d. Che ha poi puntato il dito contro l’alleato-rivale Manfred Weber, leader dei popolari che solo due settimane fa si è recato in Tunisia per difendere la legittimità dell’accordo. “È tempo che il Ppe e il suo leader Manfred Weber riconoscano che questo Memorandum era un’idea sbagliata fin dall’inizio – se non illegale – e smettano di dire che si tratta di un modello da replicare”.

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    Tsikhanouskaya chiede a Strasburgo la prospettiva europea per la Bielorussia. “L’Ue da Lisbona a Minsk, l’incubo di Putin”

    Bruxelles – Un lungo e appassionato discorso per chiedere qualcosa che sembra quasi impossibile per tutti, tranne che per lei, la presidente legittima della Bielorussia riconosciuta dall’Ue. “Sono venuta al Parlamento Europeo per chiedervi di sostenere la prospettiva europea della Bielorussia, vogliamo sentire che l’Ue ci attende, che il nostro Paese non sarà un premio di consolazione per Putin”, è quanto affermato senza margini di esitazione da Sviatlana Tsikhanouskaya, la leader delle forze di opposizione all’autocrate Alexander Lukashenko. Il suo terzo intervento alla sessione plenaria dell’Eurocamera – nel giorno del discorso sullo Stato dell’Unione della presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen – è il momento in cui l’asticella viene posta più in alto che mai: “Senza Ucraina e Bielorussia il progetto europeo non sarà completo“.
    Da sinistra: l’autocrate bielorusso, Alexander Lukashenko, e quello russo, Vladimir Putin
    La Bielorussia di Lukashenko, autoproclamato presidente bielorusso dopo le elezioni-farsa dell’agosto 2020, è il partner più stretto della Russia di Vladimir Putin, e tutto ci si aspetta fuorché possa essere aperto un discorso sull’adesione di Minsk all’Ue. Ma questo perché non si considera il giusto interlocutore. “Un mese fa le forze democratiche hanno redatto una dichiarazione congiunta per gli obiettivi strategici, che non sono altro che l’adesione all’Unione Europea“, ha messo in chiaro Tsikhanouskaya nel suo intervento di oggi (13 settembre) all’emiciclo di Strasburgo, spiegando senza troppi giri di parole perché questo dovrebbe essere uno scenario auspicato a Bruxelles: “L’Ue da Lisbona a Minsk è un incubo per Putin, ma per noi è la realtà in cui vogliamo vivere, perché porterà al crollo dell’impero del male una volta per tutte”. L’impero del male è quello del Cremlino e del suo alleato Lukashenko, di cui la leader bielorussa aveva già tratteggiato i contorni agli eurodeputati: “Quando sono stata qui due anni fa ho parlato della tirannia come un virus, che non può essere limitato dalle frontiere” e dal novembre 2021 a oggi “abbiamo visto che il virus della tirannia può mutare e diventare un vero e proprio tumore, quello della guerra“.
    Se la guerra in Ucraina è fatta di armi e bombe, quella in Bielorussia invece è “una guerra silenziosa“, ma l’obiettivo è lo stesso: “Il Cremlino vuole annientare un Paese sovrano per farne un satellite russo”. Un progetto portato avanti con la complicità del dittatore bielorusso, “che sta vendendo la nostra indipendenza e il nostro Paese pezzo dopo pezzo”, con l’obiettivo di recidere “tutti i legami con la nostra storia, la nostra cultura e ciò che ci allinea all’Europa”. In altre parole, “evitare che la Bielorussia diventi una nazione democratica europea, in modo che neanche l’Europa possa essere in pace e completa”. Ecco perché la richiesta è di continuare a tenere alta la pressione su Putin con le sanzioni, ma senza dimenticare Lukashenko, che “tortura i manifestanti pacifici, collabora con la Russia contro l’Ucraina e non merita nulla all’interno del forum della comunità internazionale, se non un biglietto di sola andata verso l’Aia”, è il duro attacco di Tsikhanouskaya.
    Da sinistra: la presidente ad interim riconosciuta dall’Ue e leader delle forze democratiche bielorusse, Sviatlana Tsikhanouskaya, e la presidente del Parlamento Europeo, Roberta Metsola (13 settembre 2023)
    Dal 2020 c’è un nuovo spirito in Bielorussia, nonostante la repressione, nonostante la collaborazione tra Putin e Lukashenko, nonostante la guerra e nonostante l’isolamento internazionale del Paese. “Nessuna tirannia, Wagner o Kgb può annientare il germe della libertà in Bielorussia, i bielorussi sono eroi e resilienti, sono eroi silenziosi”, ha rivendicato la presidente ad interim riconosciuta dall’Ue, spiegando che nel suo Paese “anche parlare bielorusso oggi è un atto di eroismo”. E la direzione del popolo e delle forze democratiche è chiara: “I tiranni voglio che l’Ue sia un castello di carte pronto a crollare, ma noi bielorussi – proprio come gli ucraini e i moldavi – vogliamo far parte di questa famiglia, vogliamo tornare a casa”. L’Europa “è nel nostro Dna, l’abbiamo scelta secoli fa e l’abbiamo ribadito nel 2020”, è la conferma calorosa di Tsikhanouskaya, che riconosce il fatto che “ci vorrà tempo, non sarà facile, ma non c’è possibilità di tornare indietro, l’Ue è la nostra destinazione finale, punto e basta“.
    La speranza ha dei contorni precisi nelle sue parole: la bandiera bielorussa che sventola con le altre 27, i rappresentanti bielorussi “eletti democraticamente in quest’Aula”, la lingua bielorussa “che ha sofferto tanto la dominazione russa” una tra quelle ufficiali dell’Ue. Ringraziando la presidente del Parlamento Europeo, Roberta Metsola, “per averci sempre sostenuti e per essere un esempio per tutti”, Tsikhanouskaya ha anche fornito un’altra indicazione sulla collaborazione sempre più stretta che dovrà iniziare a impostarsi da subito tra le forze democratiche bielorusse e i Ventisette. “La situazione per noi diventerà ancora peggiore, perché la settimana scorsa Lukashenko ha firmato una legge per sottrarci i passaporti all’estero, ci serve una soluzione e stiamo lavorando per rilasciare passaporti nazionali bielorussi“, grazie alla consulenza dei governi nazionali e dell’esecutivo comunitario. “Questi documenti confermano la cittadinanza bielorussa e permetteranno di viaggiare ai cittadini in esilio”, come fatto dai Baltici durante l’occupazione sovietica: “Presto chiederemo ai vostri Paesi di riconoscere i nuovi passaporti“, ha annunciato la leader bielorussa.
    La risoluzione del Parlamento Ue sulla Bielorussia
    La presidente ad interim riconosciuta dall’Ue e leader delle forze democratiche bielorusse, Sviatlana Tsikhanouskaya, alla sessione plenaria del Parlamento Europeo (13 settembre 2023)
    La risposta del Parlamento Europeo alla richiesta di “istituzionalizzare le relazioni tra Parlamento Europeo e Bielorussia democratica prima delle prossime elezioni europee” non si è fatta attendere ed è stata quasi un plebiscito: 514 voti a favore, 21 contrari e 40 astenuti per la risoluzione firmata dal lituano Petras Auštrevičius. La richiesta è in linea con l’intervento della leader bielorussa, a partire dal presupposto che il ritiro unilaterale del regime di Lukashenko dalla politica del partenariato orientale dal 28 gennaio 2021 “non ha alcuna legittimità in quanto non riflette la vera volontà del popolo bielorusso e le relative aspirazioni a uno Stato libero e democratico”. Di qui l’esortazione alle altre istituzioni Ue e ai Ventisette di “valutare la possibilità di consentire ai rappresentanti della società civile e delle forze democratiche di occupare le cariche vacanti, a titolo bilaterale e multilaterale“, al Consiglio Affari Esteri di rivolgere “un invito permanente” a Tsikhanouskaya a qualsiasi riunione riguardi i rapporti con Minsk, e alla Comunità Politica Europea di “includere le forze democratiche bielorusse conferendo loro lo status di osservatore”.
    Il tutto si basa sulla solidità delle forze guidate da Tsikhanouskaya: “Hanno una struttura ben consolidata che gode di sempre maggiore riconoscimento internazionale”, compresa una Missione a Bruxelles aperta lo scorso primo marzo. Ma più di tutto sono inequivocabili le “aspirazioni europee dei bielorussi”, che ribadiscono i “legami storici della Bielorussia con il resto d’Europa”, condividendone il patrimonio culturale e identitario. Ecco perché Minsk – non l’attuale regime Lukashenko – “dovrebbe rimanere parte dello spazio politico, culturale ed economico europeo” e la conferma dovrebbe arrivare da una “strategia più ambiziosa e globale, unita a un ampio piano economico” per sostenere le forze anti-regime. Da parte sua il Parlamento Ue sostiene la volontà di “sottoscrivere un accordo per formalizzare e sistematizzare la cooperazione con le forze democratiche e la società civile”, mentre Consiglio e Commissione dovrebbero preparasi a “diversi scenari, come la sostituzione (forzata) di Lukashenko oppure l’annessione de facto o l’occupazione” del Paese da parte dell’esercito del Cremlino.
    Gli eurodeputati continuano a chiedere alla Commissione che “le sanzioni applicate nei confronti della Russia siano applicate anche nei confronti della Bielorussia“, ma rimane centrale la salvaguardia dei più fragili, ovvero coloro che fuggono o si trovano già in esilio: “Esortiamo gli Stati membri a semplificare ulteriormente le procedure per ottenere i visti e il permesso di soggiorno” per i perseguitati politici o per chi deve ricorrere a trattamenti medici all’estero per le violenze. Parallelamente l’invito sia alla Commissione e sia ai Ventisette è di “elaborare norme e procedure per trattare i casi in cui siano privati della loro cittadinanza”, ma anche di “fornire sostegno ai bielorussi residenti nell’Ue i cui documenti di identità stanno per scadere e che non dispongono di mezzi per rinnovarli, dal momento che non possono tornare in Bielorussia”, specifica la risoluzione dell’Eurocamera.

    Alla sessione plenaria dell’Eurocamera la presidente legittima riconosciuta dall’Ue ha esortato a dialogare “sull’obiettivo strategico” con l’opposizione a Lukashenko: “Senza Ucraina e Bielorussia il progetto europeo non sarà completo”. Appoggio degli eurodeputati a larga maggioranza

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    Il destino intrecciato dell’allargamento Ue e della riforma dei Trattati nel discorso sullo stato dell’Unione di von der Leyen

    Bruxelles – Non c’è allargamento Ue senza ripensamento sui meccanismi interni dell’Unione, non c’è riforma dei Trattati senza aspirazione a “completare la nostra Unione Europea” con i nuovi Paesi che hanno iniziato il percorso di avvicinamento all’adesione. Parola della presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, dal podio nell’emiciclo del Parlamento Ue a Strasburgo per l’ultimo discorso sullo Stato dell’Unione di questi cinque anni di mandato per il suo gabinetto: “È giunto il momento per l’Europa di pensare ancora una volta in grande e di scrivere il nostro destino”.
    La presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, alla sessione plenaria del Parlamento Europeo a Strasburgo (13 settembre 2023)
    L’allargamento Ue occupa un posto di notevole rilievo nell’ora di intervento della presidente von der Leyen alla sessione plenaria dell’Eurocamera questa mattina (13 settembre): “Il futuro dell’Ucraina, dei Balcani Occidentali, della Moldova è nella nostra Unione, e so bene quanto sia importante la prospettiva europea per molti abitanti della Georgia”. In un mondo in cui potenze come la Russia “cercano di eliminare i Paesi uno ad uno”, la numero uno dell’esecutivo comunitario ha ricordato che “non possiamo permetterci di lasciare indietro i nostri concittadini europei” – ucraini, balcanici, moldavi, georgiani – anche perché “è chiaramente nell’interesse strategico e di sicurezza dell’Europa”. Prima di ogni azione è però necessario “delineare una visione per un allargamento di successo”, per non snaturare un’Unione “libera, democratica e prospera” in cui Stato di diritto e i diritti fondamentali “saranno sempre il fondamento” degli Stati membri attuali e “in quelli futuri”. Ecco perché tra gli annunci dello Stato dell’Unione sui nuovi tavoli aperti dalla Commissione c’è anche quello sulle relazioni sullo Stato di diritto “a quei Paesi in via di adesione che si aggiorneranno ancora più rapidamente”, per metterli “sullo stesso piano degli Stati membri” e “sostenere i loro sforzi di riforma”.
    Ripensare alla struttura dell’Unione di fronte alla prospettiva di allargamento Ue che al momento conta 10 ‘ospiti’ a varie fasi di avvicinamento – Albania, Bosnia ed Erzegovina, Georgia, Kosovo, Macedonia del Nord, Moldova, Montenegro, Serbia, Turchia e Ucraina – significa riflettere già ora a “come funzioneranno le nostre istituzioni, come saranno il Parlamento e la Commissione“, ma anche al “futuro del nostro bilancio, cosa finanzia, come lo finanzia e come viene finanziato”. Tutte questioni che “dobbiamo affrontare oggi se vogliamo essere pronti per il domani”, è l’esortazione della numero uno della Commissione Europea, annunciando che “presenteremo le nostre idee alla discussione dei leader sotto la presidenza belga” del Consiglio dell’Ue nel primo semestre del 2024: “Dobbiamo rispondere alle domande su come funzionerà in pratica un’Unione di oltre 30 Paesi e in particolare sulla nostra capacità di agire”.
    La presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, alla sessione plenaria del Parlamento Europeo a Strasburgo (13 settembre 2023)
    Sul rapporto tra allargamento Ue e riforma dei Trattati la presidente von der Leyen non potrebbe essere più chiara: “Non si tratta di approfondire l’integrazione o di allargare l’Unione, possiamo e dobbiamo fare entrambe le cose“. In altre parole, “dobbiamo superare i vecchi dibattiti binari sull’allargamento”, anche considerato il fatto che “ogni ondata di allargamento è stata accompagnata da un approfondimento politico”: dalla Comunità europea del carbone e dell’acciaio alla piena integrazione economica, fino alla “vera e propria Unione di popoli e Stati” dopo la caduta della Cortina di Ferro. “Abbiamo dimostrato di poter essere un’Unione geopolitica e di poterci muovere velocemente quando siamo uniti, credo che Team Europe funzioni anche a più di 30″ Paesi membri, così come l’Unione della Salute e l’Unione Europea della Difesa “iniziate a 27 e potremo portarle a termine a più di 30”. L’impegno di von der Leyen è quello di “sostenere questa Assemblea e tutti coloro che vogliono riformare l’Unione” per farla funzionare meglio: “E sì, questo significa anche modificare la Convenzione europea e il Trattato se e dove è necessario”.
    Nel discorso sullo Stato dell’Unione la presidente della Commissione non fa promesse su una data per la fine del processo dell’allargamento Ue – come fatto in maniera piuttosto controversa dal leader del Consiglio Ue, Charles Michel – ma dà indicazioni politiche piuttosto nette: “Non possiamo – e non dobbiamo – aspettare la modifica del Trattato per procedere con l’allargamento Ue“, perché un’Unione adatta a questo scopo “può essere realizzata più rapidamente”. La “buona notizia” su cui si può partire è che “ad ogni allargamento Ue è stato dimostrato che chi diceva che ci avrebbe reso meno efficienti si sbagliava”. Il Next Generation Eu, l’acquisto di vaccini anti-Covid, le sanzioni contro la Russia e l’acquisto congiunto di gas – “non solo a 27, ma anche in Ucraina, Moldova e Serbia” – parlano da sé. Ma ora bisogna fare un passo oltre: “Dobbiamo esaminare più da vicino ogni politica e vedere come verrebbe influenzata da un’Unione più ampia” e con questo obiettivo “la Commissione inizierà a lavorare su una serie di revisioni delle politiche pre-allargamento Ue, per vedere come ogni settore dovrebbe essere adattato”. Segnali di apertura a quell’idea di “processo più rapido, graduale e reversibile” avanzata dal presidente del Consiglio Ue, anche se “l’adesione è basata sul merito e la Commissione difenderà sempre questo principio”, ha messo in chiaro senza mezzi termini von der Leyen dal podio di Strasburgo.
    A che punto è l’allargamento Ue
    Sui sei Paesi dei Balcani Occidentali che hanno iniziato il lungo percorso per l’adesione Ue, quattro hanno già iniziato i negoziati di adesione – Albania, Macedonia del Nord, Montenegro e Serbia – uno ha ricevuto lo status di Paese candidato – la Bosnia ed Erzegovina – e l’ultimo ha presentato formalmente richiesta ed è in attesa del responso dei Ventisette – il Kosovo. Per Tirana e Skopje i negoziati sono iniziati nel luglio dello scorso anno, dopo un’attesa rispettivamente di otto e 17 anni, mentre Podgorica e Belgrado si trovano a questo stadio rispettivamente da 11 e nove anni. Dopo sei anni dalla domanda di adesione Ue, il 15 dicembre dello scorso anno anche Sarajevo è diventato un candidato a fare ingresso nell’Unione, mentre Pristina è nella posizione più complicata, dopo la richiesta formale inviata alla fine dello scorso anno: dalla dichiarazione unilaterale di indipendenza da Belgrado nel 2008 cinque Stati membri Ue non lo riconoscono come Stato sovrano (Cipro, Grecia, Romania, Spagna e Slovacchia) e parallelamente sono si sono inaspriti i rapporti con Bruxelles dopo le tensioni diplomatiche con la Serbia di fine maggio.
    I negoziati per l’adesione della Turchia all’Unione Europea sono stati invece avviati nel 2005, ma sono congelati ormai dal 2018 a causa dei dei passi indietro su democrazia, Stato di diritto, diritti fondamentali e indipendenza della magistratura. Nel capitolo sulla Turchia dell’ultimo Pacchetto annuale sull’allargamento presentato nell’ottobre 2022 è stato messo nero su bianco che “non inverte la rotta e continua ad allontanarsi dalle posizioni Ue sullo Stato di diritto, aumentando le tensioni sul rispetto dei confini nel Mediterraneo Orientale”. Al vertice Nato di Vilnius a fine giugno il presidente turco, Recep Tayyip Erdoğan, ha cercato di forzare la mano, minacciando di voler vincolare l’adesione della Svezia all’Alleanza Atlantica solo quando Bruxelles aprirà di nuovo il percorso della Turchia nell’Unione Europea. Il ricatto non è andato a segno, ma il dossier su Ankara è tornato sul tavolo dei 27 ministri degli Esteri Ue del 20 luglio.
    Lo stravolgimento nell’allargamento Ue è iniziato quattro giorni dopo l’aggressione armata russa quando, nel pieno della guerra, l’Ucraina ha fatto richiesta di adesione “immediata” all’Unione, con la domanda firmata il 28 febbraio 2022 dal presidente Zelensky. A dimostrare l’irreversibilità di un processo di avvicinamento a Bruxelles come netta reazione al rischio di vedere cancellata la propria indipendenza da Mosca, tre giorni dopo (3 marzo) anche Georgia e Moldova hanno deciso di intraprendere la stessa strada, su iniziativa rispettivamente del primo ministro georgiano, Irakli Garibashvili, e della presidente moldava Sandu. Il Consiglio Europeo del 23 giugno 2022 ha approvato la linea tracciata dalla Commissione nella sua raccomandazione: Kiev e Chișinău sono diventati il sesto e settimo candidato all’adesione all’Unione, mentre a Tbilisi è stata riconosciuta la prospettiva europea nel processo di allargamento Ue. Dall’inizio dell’anno sono già arrivate le richieste dall’Ucraina e dalla Georgia rispettivamente di iniziare i negoziati di adesione e di diventare Paese candidato “entro la fine del 2023”.

    La presidente della Commissione Europea ha annunciato che “presenteremo le nostre idee alle discussioni dei leader sotto la presidenza belga” nel primo semestre 2024. Il “completamento dell’Unione” è una priorità strategica che “non può aspettare” la fine del rinnovamento interno

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    Anche i leader dei Balcani Occidentali dicono di poter essere pronti all’allargamento Ue entro – “ma non oltre” – il 2030

    Bruxelles – Alla vaghezza del presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, i sei leader balcanici rispondono con il massimo della chiarezza possibile, senza abbandonare quel filo di ambiguità che permette di mantenere buoni rapporti con Bruxelles: “Sia l’Ue sia i Balcani Occidentali dovrebbero essere pronti all’allargamento, il prima possibile, ma non oltre il 2030“. Anche nella dichiarazione finale dell’ultima riunione del Processo di Brdo rimane quel non meglio precisato “essere pronti” all’allargamento Ue – così come era stato nelle parole del leader dell’istituzione comunitaria al Bled Strategic Forum di fine agosto – ma la data temporale non ammette eccezioni per l’obiettivo di fine decennio.
    Riunitisi ieri (11 settembre) a Skopje, in Macedonia del Nord, per l’incontro di alto livello dell’iniziativa nata nel 2010 per la collaborazione tra i Paesi dei Balcani Occidentali – Albania, Bosnia ed Erzegovina, Kosovo, Macedonia del Nord, Montenegro e Serbia – nel percorso di avvicinamento all’Unione Europea, i sei presidenti hanno dato priorità a tre macro-tematiche: accelerazione del processo di adesione Ue, lotta ai cambiamenti climatici e cercare un freno all’emigrazione giovanile dalla regione. La parte del leone la fa senz’ombra di dubbio il processo “più diretto al mantenimento della pace e della stabilità e più che mai questione geopolitica”. Ecco perché il punto di partenza è quella data – il 2030 – menzionata dal presidente del Consiglio Ue, ma che già aveva creato notevoli controversie al vertice Ue-Balcani Occidentali del 2021 (proprio a Brdo, in Slovenia). Agli occhi dei leader balcanici non può essere superata come termine ultimo, anche alla luce delle “ricadute” della “continua aggressione russa contro l’Ucraina”. Da parte delle sei capitali viene riconosciuto il fatto che “riforme politiche, economiche e sociali di ampio respiro sono fondamentali per l’adesione all’Ue” e la promessa è quella di un impegno per “intensificare gli sforzi per l’attuazione” nel campo dello Stato di diritto, del funzionamento delle istituzioni democratiche e della pubblica amministrazione.
    Non passa inosservato il riferimento alla “cooperazione regionale e le relazioni di buon vicinato”, definite “essenziali” perché i singoli Paesi possano avanzare nei rispettivi percorsi verso l’Unione. Un dettaglio da tenere a mente in vista del nuovo round di colloqui di alto livello del dialogo Pristina-Belgrado mediato dall’Ue, annunciato oggi (12 settembre) dal Servizio europeo per l’azione esterna (Seae), e che vedrà la presenza del presidente serbo, Aleksandar Vučić, e del premier kosovaro, Albin Kurti, a quasi tre mesi dall’ultima riunione molto delicata. “Ci impegniamo a collaborare per promuovere un’atmosfera di fiducia reciproca, di comprensione, di risoluzione pacifica e duratura delle restanti questioni bilaterali e di solidarietà reciproca”, si legge nel testo della dichiarazione del Processo di Brdo. Altro aspetto di particolare interesse è il richiamo alle suggestioni di Michel su una possibile “apertura di percorsi che consentano ai Balcani Occidentali di esplorare le opportunità di accesso a politiche, iniziative e fondi specifici dell’Ue e di portare alcuni dei benefici ai cittadini” anche “prima dell’adesione formale”.
    La riunione di alto livello del Processo di Brdo a Skopje, Macedonia del Nord (11 settembre 2023)
    Trova spazio nella dichiarazione la questione della lotta agli effetti del cambiamento climatico, considerata una “responsabilità condivisa, che richiede sforzi collaborativi” tra governi, privati e partner internazionali, “coordinati con l’Ue e i suoi programmi correlati”. In questo capitolo rientrano la transizione verde, la protezione della biodiversità, il “rafforzamento della diversificazione energetica” e la “transizione verso la produzione di energia rinnovabile e l’efficienza”, anche attraverso “investimenti ecocompatibili in fonti idroelettriche, solari, eoliche e geotermiche“. Di nuovo ritorna il rapporto con Bruxelles, in particolare per quanto riguarda il pacchetto di sostegno energetico di un miliardo di euro “con cui l’Ue ha esteso le stesse misure di solidarietà adottate all’interno” dell’Unione dopo l’aggressione russa all’Ucraina.
    E infine uno dei temi più urgenti e drammatici per i Balcani Occidentali: l’emigrazione diventata ormai quasi di massa tra le fasce più giovani della popolazione. “Ha implicazioni significative per la vitalità a lungo termine delle nostre società, per la crescita economica sostenibile e per il progresso sociale”, è l’allarme lanciato dai sei presidenti, che cercano un modo per “trattenere i giovani” all’interno della regione e “sfruttare il potenziale per far progredire le nostre società”. Con l’Ue è “fondamentale” un partenariato “per garantire il successo dell’attuazione delle strategie” che si basano sulla promozione di “società inclusive e aperte”. Tutto parte da una “istruzione di qualità”, motivo per cui dovrà essere impostato un lavoro per “migliorare i sistemi educativi”, ma anche per “creare un ambiente commerciale attraente e competitivo che incoraggi l’innovazione, l’imprenditorialità e la creazione di posti di lavoro” per i giovani con idee che possano trasformare i Balcani Occidentali. Che – proprio come in Italia e in altri Paesi membri Ue più in difficoltà su questo fronte – vogliono “fermare la fuga dei cervelli” e fornire “migliori prospettive” a lungo termine.
    A che punto è l’allargamento Ue nei Balcani Occidentali
    Sui sei Paesi dei Balcani Occidentali che hanno iniziato il lungo percorso per l’adesione Ue, quattro hanno già iniziato i negoziati di adesione – Albania, Macedonia del Nord, Montenegro e Serbia – uno ha ricevuto lo status di Paese candidato – la Bosnia ed Erzegovina – e uno ha presentato formalmente richiesta ed è in attesa del responso dei Ventisette – il Kosovo.
    Per Tirana e Skopje i negoziati sono iniziati nel luglio dello scorso anno, dopo un’attesa rispettivamente di otto e 17 anni, mentre Podgorica e Belgrado si trovano a questo stadio rispettivamente da 11 e nove anni. Dopo sei anni dalla domanda di adesione Ue, il 15 dicembre dello scorso anno anche Sarajevo è diventato un candidato a fare ingresso nell’Unione, mentre Pristina è nella posizione più complicata, dopo la richiesta formale inviata alla fine dello scorso anno: dalla dichiarazione unilaterale di indipendenza da Belgrado nel 2008 cinque Stati membri Ue non lo riconoscono come Stato sovrano (Cipro, Grecia, Romania, Spagna e Slovacchia) e parallelamente sono si sono inaspriti i rapporti con Bruxelles dopo le tensioni diplomatiche con la Serbia di fine maggio.

    È quanto emerge dalla dichiarazione dell’ultima riunione a Skopje del Processo di Brdo, l’iniziativa per la collaborazione dei sei Paesi della regione. Tra gli obiettivi l’accelerazione del processo di adesione Ue, la lotta ai cambiamenti climatici e il freno all’emigrazione giovanile

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    Strasburgo ricorda Mahsa Amini a un anno dalla sua uccisione. Gli eurodeputati chiedono all’Ue il pugno duro sull’Iran

    Bruxelles – Il 16 settembre 2022, la morte di una ragazza ventiduenne curdo-iraniana mentre era in tenuta in stato di fermo dalla polizia morale del regime di Teheran, ha innescato una reazione capace di far tremare le fondamenta della Repubblica islamica. A un anno dall’uccisione di Mahsa Amini, il Parlamento europeo si interroga su ciò che da quel giorno è per sempre cambiato in Iran, su ciò che è rimasto del movimento di protesta che ha infuocato il Paese, sulla politica adottata dall’Ue nei confronti del governo dei mullah.
    Dodici mesi che “hanno marcato un chiaro cambiamento del nostro rapporto con l’Iran”, ha dichiarato l’Alto rappresentante Ue per gli Affari esteri, Josep Borrell, dall’emiciclo di Strasburgo. Un anno in cui i 27 Stati membri hanno emanato 9 pacchetti consecutivi di sanzioni contro i responsabili di gravi violazioni dei diritti umani in Iran. Nella lista nera dell’Ue figurano ora 223 individui e 37 entità legate e diverso titolo agli apparati governativi che hanno attuato la feroce repressione dei moti di protesta. “Le nostre relazioni sono al punto più basso – ha sottolineato il capo della diplomazia Ue-, ma è essenziale mantenere i canali diplomatici aperti”.
    L’Alto rappresentante Ue per gli Affari Esteri, Josep Borrell
    È questa volontà di non chiudere completamente il rapporto a scatenare la reazione dell’Eurocamera. Ognuno ha il suo ruolo: Borrell usa i guanti di velluto perché deve tenere conto degli equilibri geopolitici sempre più incerti, con l’Iran che ammicca sempre di più verso Putin e fornisce al Cremlino i droni usati per bombardare infrastrutture civili in Ucraina, ma gli eurodeputati gli chiedono il pugno duro. Troppo poco ha fatto la politica delle sanzioni rispetto alle centinaia di morti per mano delle forze di polizia (secondo Iran Human Rights erano 537 i manifestanti uccisi nei primi 200 giorni di proteste) e le 499 esecuzioni di condanne a morte solo nel 2023, con un aumento di oltre il 70 per cento rispetto all’anno precedente.
    Una strategia definita “fallimentare”, quella attuata da Borrell per conto del blocco. La mancanza più grave, non aver raccolto l’invito del Parlamento europeo a designare il corpo dei Guardiani della Rivoluzione Iraniana (Irgc) come organizzazione terroristica. Il motivo c’è, Borrell l’ha spiegato un’altra volta in Aula, ma nasconde una mancanza di volontà politica. Per inserire l’Irgc nella lista europea delle organizzazioni terroristiche “deve essere presentata la decisione di un tribunale nazionale che dimostri che tale organizzazione ha partecipato un atto qualificato come terrorista”. E serve poi l’unanimità tra i 27 Paesi Ue.
    A distanza di un anno dalla morte di Mahsa Amini, il regime di terrore in Iran continua. Terrore perpetrato da uno Stato che ha paura di cadere sotto i colpi del motto “Donne, vita, libertà” che ha accompagnato il movimento di protesta in questi mesi. “Voglio ribadire ancora che il Parlamento europeo è accanto a queste donne e uomini coraggiosi che continuano a lottare per l’uguaglianza, la libertà e la dignità in Iran. Siamo accanto a coloro che anche dal carcere continuano a portare avanti il movimento Women Life Freedom”, ha dichiarato la presidente dell’Eurocamera, Roberta Metsola.

    Dallo scoppio delle proteste l’Ue ha emanato 9 pacchetti di sanzioni contro i responsabili della dura repressione governativa. Per l’Eurocamera non basta, la strategia dell’Alto rappresentante Borrell è stata “fallimentare”

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    Semaforo verde dall’Eurocamera al piano da 300 milioni per gli appalti congiunti di armi

    Bruxelles – Trecento milioni di euro fino alla fine del 2025 per rafforzare l’industria europea della difesa attraverso gli appalti congiunti. Con ampia maggioranza (530 voti a favore, 66 contrari e 32 astenuti), il Parlamento europeo riunito a Strasburgo in plenaria ha dato il via libera definitivo oggi (12 settembre) al nuovo regolamento, concordato con gli Stati membri Ue a fine giugno, per istituire uno strumento temporaneo per rafforzare l’industria europea della difesa attraverso appalti comuni tra i Ventisette (il nome inglese è ‘Edirpa’, European Defence Industry Reinforcement through common Procurement Act) che avrà una dotazione di 300 milioni fino al 2025. 
    Una proposta avanzata dalla Commissione europea a luglio 2022, che ricoprirà anche un ruolo di finanziamento importante per il piano Ue per lo sviluppo dell’industria della difesa, presentato dalla lo scorso 3 maggio per arrivare a produrre almeno un milione di munizioni all’anno Made in Europe con cui contribuire alla resistenza dell’Ucraina all’aggressione della Russia. Gli acquisti congiunti dovranno coinvolgere un minimo di tre Stati membri e saranno aperti alla partecipazione dei Paesi dell’Associazione europea di libero scambio che sono anche membri dello Spazio economico europeo (Paesi associati).
    Una nota dell’Europarlamento spiega che il contributo finanziario dell’Ue a ciascun acquisto sarà limitato al 15 per cento del valore stimato del contratto di appalto comune per consorzio, che può essere portato al 20 per cento se l’Ucraina o la Moldavia sono destinatarie di quantità aggiuntive di prodotti per la difesa, o se almeno il 15 per cento del valore stimato del contratto di appalto comune è assegnato a PMI o a società a media capitalizzazione in qualità di appaltatori o subappaltatori.
    Lo strumento incentiverà gli Stati membri ad acquistare in comune i prodotti per la difesa più critici e urgenti nel quadro della guerra di Russia in Ucraina, rafforzando l’interoperabilità tra gli Stati membri per gli stessi prodotti, faciliterà i risparmi sui costi e aumenterà la competitività e l’efficienza della base industriale e tecnologica di difesa europea. “Il voto di oggi segna un momento storico per la difesa dell’Ue, in quanto istituisce il primo strumento comunitario per l’approvvigionamento congiunto da parte degli Stati membri. Questo strumento li aiuterà a rifornire le loro scorte, ad aumentare l’interoperabilità tra le nostre forze armate, a rafforzare la nostra industria e a contribuire al nostro incrollabile sostegno all’Ucraina. Tuttavia, di fronte a una crisi storica, l’EDIRPA può essere solo un punto di partenza per un’agenda di difesa comune molto più ambiziosa”, ha dichiarato il co-relatore tedesco della commissione affari esteri Michael Gahler.
    Edirpa rappresenta un nuovo passo verso una difesa europea più ambiziosa e integrata, insieme alla Legge per il sostegno della produzione di munizioni, un piano in due pilastri (uno ‘programmatico’ e uno ‘normativo’) messo nero su bianco dal commissario per il mercato interno, Thierry Breton, a valle di un vero e proprio ‘tour della difesa’ che lo ha visto tra marzo e aprile impegnato a visitare gli undici Paesi dell’Unione europea con l’industria della difesa più avanzata, tra cui anche l’Italia. Il piano prevede di mobilitare 500 milioni di euro dal bilancio fino a giugno 2025 per aumentare la capacità dell’industria europea di produrre munizioni, con l’obiettivo di produrre almeno un milione di pezzi all’anno (di cui 260 milioni dal Fondo europeo per la difesa e 240 milioni proprio dallo strumento Edirpa). 

    Con ampia maggioranza approvato il nuovo regolamento, concordato con gli Stati membri Ue a fine giugno, per istituire uno strumento temporaneo per rafforzare l’industria europea della difesa

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    All’Eurocamera l’accordo con la Tunisia non piace (quasi) a nessuno. Nel mirino aumento degli sbarchi e violazioni dei diritti umani

    Bruxelles – Pioggia di critiche per il controverso memorandum d’intesa Ue-Tunisia fortemente voluto e firmato lo scorso 16 luglio dalla Commissione europea e dall’autoritario presidente Kais Saied. Non solo da sinistra, come era lecito aspettarsi. Anche una parte dell’universo conservatore del Parlamento europeo ha sollevato i propri dubbi su un accordo poco trasparente, che nel breve periodo non ha portato alcun risultato e che rischia di rendere l’Ue ostaggio delle politiche aggressive dell’uomo forte di Tunisi.
    A un giorno dall’atteso discorso sullo Stato dell’Unione di Ursula von der Leyen, la scelta della presidente della Commissione europea di rafforzare la cooperazione con un Paese sempre più lontano dagli standard di democrazia e rispetto dei diritti umani tanto cari all’Ue non è andata giù all’emiciclo di Strasburgo. A metterci la faccia il commissario Ue per l’allargamento, Olivér Várhelyi, che ha cercato di convincere gli eurodeputati delle ragioni che hanno reso necessario un accordo che prevede l’esborso immediato di 150 milioni di euro a supporto del budget del Paese nordafricano e 105 milioni per la gestione delle frontiere. E altri 900 milioni di euro di assistenza macrofinanziaria vincolati all’accordo tra Saied e il Fondo Monetario Internazionale per un maxi-prestito da 1,9 miliardi di dollari.
    Il commissario Ue per l’Allargamento, Oliver Varhelyi
    Varhelyi ha definito il memorandum “un investimento nella nostra prosperità, stabilità e nelle future generazioni” e ha garantito che ora il focus è sulla sua rapida implementazione, che starebbe procedendo con “regolari meeting tecnici e politici” con le controparti tunisine. Obiettivo “fondamentale” è trovare una soluzione ai flussi migratori in un modo “comprensivo e sostenibile”: per il commissario i trend attuali – con un aumento degli sbarchi del 69 per cento dal Mediterraneo centrale da quando è stato firmato il memorandum-, non smentiscono l’accordo ma anzi ne “evidenziano l’urgenza”. Essenziale prevenire partenze irregolari “che troppo spesso finiscono in tragedia”, attraverso “un rafforzamento della capacità di gestione dei confini” e “del sistema di sorveglianza marittima” delle autorità tunisine. Sulla base della partnership operativa anti-trafficanti siglata ad aprile dalla commissaria Ue per gli Affari Interni, Ylva Johansson, il memorandum prevede un’intensificazione degli sforzi per rompere il business delle reti di criminali che si arricchiscono sui viaggi spesso fatali dei migranti. Secondo Varhelyi la guardia costiera tunisina ha già disposto circa 24 mila fermi quest’anno, contro i 9 mila del 2022. E ha salvato già quasi 50 mila persone migranti.
    L’accusa più forte mossa all’esecutivo Ue è aver chiuso un occhio sulle sempre più sistematiche violazioni dei diritti umani perpetrate in Tunisia ai danni dei migranti subsahariani. Violazioni documentate: secondo Human Rights Watch sarebbero circa 1200 i migranti respinti e abbandonati dalle autorità tunisine verso il deserto, al confine con la Libia, soltanto nel periodo tra la fine di giugno e la fine di luglio. Il commissario Ue ha assicurato che, in cooperazione con l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (Oim), l’Unhcr e altri partner locali, l’Ue starebbe “rafforzando il proprio impegno sulla protezione dei migranti in condizioni di vulnerabilità”, fornendo “sollievo immediato con acqua, primo soccorso e rifugi d’emergenza”. Ma Varhelyi ha rimandato al Consiglio d’Associazione Ue-Tunisia, che nelle intenzioni dell’esecutivo comunitario dovrebbe svolgersi prima della fine dell’anno, tutti i discorsi sulla situazione dei diritti umani e sui principi fondamentali.
    Migranti subsahariani abbandonati nel deserto al confine con la Libia, 16 luglio 2023 (Photo by Mahmud Turkia / AFP)
    Socialisti e democratici, Sinistra europea e Verdi non hanno fatto sconti. Per la leader S&d, Iratxe Garcia Perez, è “inaccettabile che il denaro dei contribuenti europei sia utilizzato da un governo che attacca i principi fondamentali dei diritti umani”, per il capodelegazione del Partito Democratico, Brando Benifei, il memorandum non è altro che “l’ennesimo tentativo inutile di esternalizzare il controllo delle frontiere europee con grandi rischi per i diritti umani”. Perché se errare è umano, perseverare è diabolico: “L’esperienza libica dovrebbe averci insegnato come accordi di questo tipo siano drammaticamente fallimentari”, ha ricordato in aula Benifei. Anche la pentastellata Laura Ferrara ha avvertito che il rischio è di “alimentare la dipendenza da un Paese terzo con tutele dei diritti umani del tutto inadeguate”, un Paese che “è evidente che non possa essere considerato sicuro”. Ancora più duro Pietro Bartolo (Pd), ex medico a Lampedusa, per cui l’Ue è “complice della caccia ai negri aperta da Saied”.
    Se da sinistra si è levata a gran voce la richiesta di tornare sui propri passi e cancellare l’accordo, anche il Partito Popolare europeo ne ha riconosciuto i limiti. Per Manfred Weber “è necessario, ma non perfetto”, mentre l’eurodeputato di Forza Italia Salvatore De Meo ha parlato di “bicchiere mezzo pieno”. Il leader del Ppe, volato a Tunisi di recente per una serie di incontri, ha dichiarato che il primo ministro tunisino avrebbe spiegato che “l’aumento di arrivi di migranti dalla Tunisia sono motivati dal panico creato dal memorandum d’intesa” e che a Tunisi “si aspettavano di vedere un aumento prima che i numeri possano iniziare a diminuire”. Anche più a destra, nei gruppi dei Conservatori e Riformisti (Ecr) e Identità e Democrazia (Id) qualcuno ha storto il naso: Assita Kanko (Ecr) ha dichiarato che “l’Europa sta ballando con il diavolo”, mentre la leghista Annalisa Tardino ha denunciato le “tante passerelle e i zero risultati” dell’intesa.
    Un fuoco incrociato che mette in difficoltà von der Leyen, che ha definito il memorandum “una pietra miliare” dei rapporti con i Paesi del vicinato nordafricano. Forse con troppa fretta, o con la bramosia di incassare un successo in più a un anno dalle elezioni europee. Perché basta dare una sfogliata al trattato sull’Ue per riscoprire che, all’articolo 21, “i diritti umani sono il metro di misura della nostra politica estera”.

    Da S&d, Sinistra europea e Verdi la richiesta di ritirare il Memorandum d’intesa, qualche critica anche da Ecr e Id. Per il leader del Ppe, Manfred Weber, l’accordo con la Tunisia “è necessario, non perfetto”