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    Migranti, la soluzione di Polonia e Paesi baltici per fermare la rotta bielorussa è innalzare muri e sanzionare Minsk

    Bruxelles – Si sta trasformando sempre più in una polveriera il confine dell’Unione Europea con la Bielorussia. Lituania e Polonia sono sul piede di una guerra diplomatica con il regime di Alexander Lukashenko a causa di quello che dai funzionari europei viene definito un “attacco ibrido”. Il presidente bielorusso da mesi agevola il flusso irregolare di migliaia di persone migranti verso l’Unione Europea, come ritorsione alle sanzioni economiche imposte da Bruxelles.
    Dopo la pubblicazione dei dati sul flusso di immigrazione irregolare da parte del dipartimento di Statistica del governo lituano, il ministro degli Esteri, Gabrielius Landsbergis, ha fatto sapere ieri (24 agosto) durante una conferenza stampa che Vilnius ha proposto all’Unione Europea di imporre sanzioni ai bielorussi che stanno aiutando i migranti ad attraversare la frontiera. Il ministro lituano ha presentato al Servizio europeo per l’azione esterna (SEAE) una lista di cittadini e aziende bielorusse “coinvolte nei flussi migratori illegali”.
    Il valico di frontiera di Padvaronys, tra Lituania e Bielorussia
    Dal primo gennaio a oggi (25 agosto) le statistiche ufficiali del governo riportano 4.140 tentativi di attraversamento illegale della frontiera lituana dal territorio bielorusso. A inizio luglio erano 672, in tutto lo scorso anno 81 (tra il 2017 e il 2020 complessivamente 303). Nel solo mese di luglio l’entità del flusso migratorio è aumentata esponenzialmente, oltre sei volte quella registrata nei primi sei mesi dell’anno.
    “Dobbiamo mandare un segnale molto chiaro non solo alla Bielorussia, ma anche a qualsiasi dittatore che decida di usare un tale strumento contro l’Unione Europea o uno dei suoi Stati”, ha minacciato Landsbergis. Ma le sanzioni sono solo l’ultimo tra gli strumenti proposti dal governo di Vilnius. Il 9 luglio la Lituania ha annunciato la costruzione di una barriera di filo spinato di 550 chilometri – sui 678 totali – di confine con la Bielorussia, che prevede di completare entro settembre del prossimo anno. Rispetto alle previsioni di spesa (41 milioni di euro), il costo stimato è lievitato e si attesta ora a 152 milioni di euro. Estonia, Slovenia e Danimarca hanno già aiutato la Lituania, inviando materiale per la costruzione della prima barriera di filo spinato.
    Muri, sanzioni e finanziamenti
    Costruire muri per proteggere le frontiere esterne dell’UE costa e, come la Lituania, anche gli altri Paesi membri della regione sono alla ricerca di sostegno economico per intraprendere lo stesso tipo di operazioni. In primis la Polonia, da dove è arrivata la notizia che sarà costruita una recinzione simile a quella lituana lungo i 399 chilometri di confine con la Bielorussia. Ad annunciarlo è stato il ministro della Difesa, Mariusz Błaszczak, su Twitter: si tratterà di una recinzione di 2,5 metri di altezza, mentre “più soldati saranno coinvolti per aiutare la guardia di frontiera”.
    Nel frattempo il premier Mateusz Morawiecki ha accusato Lukashenko di “cercare sistematicamente e in modo organizzato di destabilizzare la situazione politica” in Polonia. Morawiecki ha riferito di essere a conoscenza di “pubblicità che incoraggiano gli iracheni a viaggiare in Bielorussia” e di lì sarebbero poi “scortati al confine e costretti da ufficiali bielorussi ad attraversare la frontiera“.
    Il governo polacco è stato però criticato da diverse organizzazioni per i diritti umani per essersi reso responsabile di episodi di pushback (respingimenti illegali di persone con diritto alla protezione internazionale ai confini dell’Unione Europea), come nel caso di un gruppo di migranti nei pressi del villaggio di Usnarz Gorny. “Questi non sono rifugiati, sono migranti economici portati dal governo bielorusso“, ha risposto in modo inquietante ai giornalisti il viceministro degli Esteri, Marcin Przydacz, giustificando implicitamente possibili azioni illegali da parte della guardia di frontiera polacca.

    Na granicy z Białorusią powstanie nowy, solidny płot o wysokości 2,5 m. Więcej żołnierzy będzie zaangażowanych w pomoc Straży Granicznej. Wkrótce przedstawię szczegóły dotyczące dalszego zaangażowania Sił Zbrojnych RP. pic.twitter.com/uTQ0lKYIb4
    — Mariusz Błaszczak (@mblaszczak) August 23, 2021

    Come la Lituania, anche la Polonia e la Lettonia hanno visto aumentare il numero di attraversamenti illegali, mentre l’Estonia teme ripercussioni sulla stabilità interna e di tutta la regione. Per questo motivo i primi ministri dei quattro Paesi (rispettivamente Ingrida Šimonytė, Mateusz Morawiecki, Arturs Krišjānis Kariņš e Kaja Kallas) hanno firmato una dichiarazione congiunta per portare all’attenzione dell’Assemblea Generale e del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite “la questione degli abusi dei migranti sul territorio bielorusso”.
    I quattro premier hanno sollecitato l’alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati a “prendere misure attive per facilitare la soluzione di questa situazione”, dal momento in cui “la crisi in corso è stata pianificata e sistematicamente organizzata dal regime di Alexander Lukashenko“. Il fatto di “usare gli immigrati per destabilizzare i Paesi vicini costituisce una chiara violazione del diritto internazionale”, da qualificarsi come “attacco ibrido”.
    In quest’ottica all’Unione Europea è stato chiesto di “ripensare l’approccio alla protezione dei nostri confini”. Non si tratterebbe solo di “un’adeguata attenzione politica a livello europeo”, ma soprattutto di “stanziare fondi sufficienti” ai singoli Stati membri, essendo questa una “responsabilità comune” dell’intera Unione. Lituania, Polonia, Lettonia ed Estonia hanno messo nero su bianco che “prenderemo tutte le azioni necessarie, compreso il patrocinio di eventuali nuove misure restrittive da parte dell’UE, per prevenire qualsiasi ulteriore immigrazione illegale orchestrata dallo Stato bielorusso”. Allo stesso tempo, è stata ribadita la volontà di “fornire tutta la protezione necessaria alle persone che entrano nei nostri Paesi alle condizioni previste dal diritto internazionale dei rifugiati”.
    La risposta dell’Unione
    “Non possiamo accettare alcun tentativo da parte di Paesi terzi di incitare alla migrazione illegale”, ha commentato ieri il portavoce per la Giustizia della Commissione UE, Christian Wigand, durante il punto giornaliero con la stampa. “Respingiamo fermamente i tentativi di strumentalizzare le persone per scopi politici”. L’esecutivo comunitario starebbe comunque “monitorando da vicino gli sviluppi al confine per la gestione ordinata delle frontiere e il pieno rispetto dei diritti fondamentali dei migranti”.
    La commissaria europea per gli Affari interni, Ylva Johansson, durante la sua visita al valico di frontiera di Padvaronys (2 agosto 2021)
    Una replica attendista, soprattutto in ottica di possibili nuovi pushback alle frontiere dell’Unione Europea (dopo quelli in Ungheria, Croazia e Grecia). Il portavoce dell’esecutivo non si è voluto sbilanciare, richiamandosi piuttosto alle dichiarazioni che hanno seguito la riunione straordinaria dei ministri degli Interni di mercoledì scorso (18 agosto). “Questo comportamento aggressivo è inaccettabile ed equivale a un attacco diretto e mirato a mettere sotto pressione l’Unione“, aveva spiegato alla stampa la commissaria europea per gli Affari interni, Ylva Johansson.
    Ora che si innesta anche la questione di nuovi flussi migratori provenienti da un’Afghanistan destabilizzato, “l’Unione Europea dovrà considerare ulteriormente la sua risposta a queste situazioni, per scoraggiare qualsiasi tentativo di strumentalizzare l’immigrazione illegale“, ha aggiunto la commissaria Johansson. Dalla settimana prossima, quando l’esecutivo UE tornerà a lavorare a pieno regime, si capirà quale sarà la linea che verrà seguita sia a livello di ulteriori sanzioni contro la Bielorussia, sia sul piano di eventuali finanziamenti europei per l’innalzamento di nuovi muri alle frontiere esterne dell’Unione.

    La Lituania chiede all’UE di imporre sanzioni a chi agevola il flusso irregolare nel Paese, mentre Varsavia annuncia la costruzione di una barriera di confine. Denunciato il regime di Lukashenko in una dichiarazione congiunta con Estonia e Lettonia

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    Ungheria, l’ultima provocazione di Orbán: trattative aperte con la Russia per la produzione di Sputnik V

    Bruxelles – Non è la prima provocazione dell’Ungheria verso l’UE e non sarà l’ultima. Dopo aver somministrato il vaccino russo Sputnik V anche senza autorizzazione dell’Agenzia europea per i medicinali (EMA), Budapest compie un ulteriore passo e apre le trattative con Mosca per ottenere la licenza per la produzione del vaccino russo direttamente sul territorio ungherese. Produzione che potrebbe iniziare dalla fine del 2022, dal momento che Russia e Ungheria sono “in trattative avanzate”, ha confermato ieri (24 agosto) il ministro degli Esteri ungherese Peter Szijjarto che ha ricevuto a Budapest l’omologo russo, Sergej Lavrov. A gennaio l’Ungheria è stata il primo Paese dell’Unione europea ad autorizzare l’uso del vaccino russo, poi seguita anche dalla Slovacchia.

    🇷🇺🇭🇺 In #Budapest, Russian Foreign Minister Sergey #Lavrov held talks with Hungarian Minister of Foreign Affairs and Trade Peter Szijjarto.#RussiaHungary pic.twitter.com/o35xNyEIAo
    — MFA Russia 🇷🇺 (@mfa_russia) August 24, 2021

    Budapest si è premurata di sottolineare che senza il vaccino russo “l’Ungheria non avrebbe avuto la campagna vaccinale di maggior successo in Unione europea”, ringraziando Mosca e il governo russo per l’assistenza. In realtà, come mostrano i dati del Centro europeo per il controllo e la prevenzione delle malattie (ECDC) in Ungheria il 64 per cento della popolazione è completamente vaccinata, al di sotto di molti Paesi europei, mentre la media dell’intera Unione Europea è ferma al 65 per cento. L’Ungheria non solo non è tra i migliori in quanto a progressi nella campagna di vaccinazione, ma soprattutto ha anche usufruito del portafoglio di vaccini pre-acquistato dalla Commissione UE per i suoi Stati membri. Ad ogni modo, l’intenzione è quella di costruire “una fabbrica di vaccini nella città di Debrecen e produrremo lo Sputnik V”, ha spiegato Szijjarto.
    L’incontro tra omologhi è anche l’occasione per discutere di forniture di gas russo per l’Ungheria, mentre Mosca è alle prese con la fine della costruzione del gasdotto Nord Stream 2 che trasporterà gas russo in Germania e in Europa. Secondo Reuters, il ministro ungherese ha espresso l’intenzione di firmare un nuovo accordo di fornitura di gas naturale di 15 anni con la compagnia russa Gazprom quest’anno, con il prezzo e la flessibilità da stabilire già nelle prossime settimane. “Spero di poter firmare il nuovo contratto di fornitura di 15 anni quest’autunno con buone condizioni”, ha detto Szijjarto. L’omologo russo Levrov ha fatto eco, ribadendo che la cooperazione tra Russia e Ungheria è a livelli mai raggiunti, mentre quella di Mosca e Bruxelles è forse ai minimi storici.

    La licenza per la produzione del vaccino russo nella città ungherese di Debrecen al centro dei colloqui tra il ministro degli Esteri ungherese Peter Szijjarto e l’omologo russo, Sergej Lavrov. Mosca e Budapest in trattative “avanzate”, la produzione potrebbe iniziare a fine 2022. Discusse anche le forniture di gas russo

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    Afghanistan, al vertice straordinario del G7 l’UE chiederà l’estensione della scadenza del 31 agosto per l’evacuazione

    Bruxelles – La parola è d’ordine è “evacuazione”. Evacuazione del personale e dei cittadini afghani che hanno collaborato per vent’anni con le forze statunitensi, europee e della NATO, da completarsi quanto più possibile entro una settimana esatta a partire da oggi. Sarà questo il tema centrale del vertice straordinario dei leader del Gruppo dei Sette, che inizierà fra poche ore (15.30 italiane) in forma virtuale.
    Ma fa già discutere e preoccupare la scadenza fissata dal regime dei talebani per il ritiro delle truppe occidentali dal Paese. Dopo Francia, Germania e Regno Unito, anche l’Unione Europea chiederà al vertice del G7 di estendere la data oltre il 31 agosto, per portare a termine tutte le operazioni di evacuazione all’aeroporto internazionale di Kabul. Per il momento rimane contrario il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, anche considerate le minacce talebane di ritorsioni se dal primo settembre saranno ancora presenti contingenti militari stranieri in Afghanistan, come confermato ieri (23 agosto) da un portavoce ai microfoni di Sky News.
    A Bruxelles la questione crea particolare apprensione ed è probabile che durante il vertice del G7 i due rappresentanti dell’Unione – il presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, e la presidente della Commissione, Ursula von der Leyen – insisteranno su una linea comune di rafforzamento dell’impegno per mettere in sicurezza tutti i membri dello staff ancora sul territorio afghano. Funzionari UE hanno riferito che la priorità per l’Unione è che le operazioni di evacuazione e l’assistenza umanitaria possano continuare, anche se si dovesse andare oltre la data del 31 agosto.
    Circa 400 persone tra staff locale della delegazione UE e rispettive famiglie sono già state evacuate (il portavoce della Commissione, Eric Mamer, ha annunciato che tutto il personale afghano che ha collaborato con le delegazioni UE è in salvo), ma gli stessi funzionari non hanno voluto riportare quante ne rimangano ancora da imbarcare verso l’Europa.
    Sul tavolo ci sarà poi il tema di se e come affrontare le future discussioni politiche con il regime dei talebani. Sempre secondo le fonti europee, si dovrebbe impostare un dialogo su tre pilastri: rispetto dei diritti umani dei gruppi vulnerabili e delle donne, lotta alla corruzione interna e impegno a non fare di nuovo del Paese “terreno fertile” per terroristi e traffici illeciti. Su questo aspetto Bruxelles non nega che “Cina e Russia sono parte della questione“, dal momento in cui tutti gli attori internazionali hanno interessi per un Afghanistan stabile, “magari con obiettivi diversi”.

    At today’s @G7 Leaders call, I will announce an increase in the humanitarian support for Afghans, in and around the country, from #EU budget from over €50m to over €200m.
    This humanitarian aid will come on top of Member States’ contributions to help the people of Afghanistan.
    — Ursula von der Leyen (@vonderleyen) August 24, 2021

    Un’altra priorità per l’Unione riguarda gli aiuti umanitari per i cittadini afghani “dentro e intorno al Paese”, come anticipato dalla presidente von der Leyen su Twitter. “Alla riunione del G7 annuncerò un aumento del sostegno dal bilancio dell’UE“, da 50 a oltre 200 milioni di euro. A questo sostegno comunitario si aggiungeranno i contributi dei singoli Stati membri UE.
    Qui si apre l’ultima questione, che interessa da molto vicino le istituzioni europee e che negli ultimi giorni ha già sollevato polemiche all’interno dell’Unione. Si tratta della gestione dei flussi migratori dall’Afghanistan che si intensificheranno con l’inizio del governo talebano. Non è un caso se la presidente della Commissione ha fatto riferimento ad aiuti “intorno al Paese”. Come riferiscono i funzionari UE, il primo obiettivo sarà quello di sostenere i programmi umanitari nei Paesi confinanti (in particolare Iran e Pakistan), per renderli “soluzioni più credibili” agli occhi degli afghani rispetto al “consegnarsi nelle mani di trafficanti”.
    Prima di discutere sulla possibilità di una ridistribuzione dei profughi tra Paesi membri UE (“la situazione è ancora troppo fluida per tracciare le dimensioni dei flussi”, riferiscono le fonti di Bruxelles), si guarda alla Turchia. Il presidente Recep Tayyp Erdogan ha già riferito che la capacità di ricezione del Paese “è limitata”, dal momento in cui è già ospitato un “gran numero” di migranti. Mentre il presidente del Consiglio UE Michel “rimane in contatto con Erdogan per discutere dei limiti di accoglienza di Ankara”, questo pomeriggio i leader del G7 proveranno a tracciare alternative percorribili.

    Per Bruxelles le priorità rimangono la messa in sicurezza di staff locale e delegazione europea anche oltre la scadenza fissata dai talebani, aiuti umanitari alla popolazione civile “dentro e intorno al Paese” e la gestione dei flussi migratori

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    Charles Michel: “Kiev non è sola, la Crimea è Ucraina”

    È iniziato a Kiev l’incontro internazionale Crimea Platform. Lo scopo del meeting è quello di coordinare gli sforzi internazionali per garantire il ritorno della Crimea all’Ucraina.
    All’evento prendono parte rappresentanti di tutti i Paesi UE, di Stati Uniti, Giappone, Australia, Nuova Zelanda, Svizzera, Turchia, Georgia e Moldova, nonché dell’Unione Europea e della NATO.
    Le autorità ucraine si aspettano che sia adottata una dichiarazione nella quale i partecipanti confermeranno la volontà di aderire alla politica di non riconoscimento dei tentativi di annessione della Crimea.
    Le parole di Charles Michel
    “L’Unione Europea continuerà a sostenere il popolo ucraino nel suo cammino per un futuro migliore. L’Ucraina non sarà mai sola e la Crimea è Ucraina”. Con queste parole nel suo discorso di apertura il presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, ha chiarito quale sia la posizione dell’UE sulla vicenda.
    “Sfortunatamente, la Russia continua una politica che continua a moltiplicare gli impatti negativi dell’annessione della Crimea. La continua militarizzazione della penisola incide pesantemente sulla situazione della sicurezza nel Mar Nero. La situazione dei diritti umani, inoltre, resta grave: i tatari di Crimea continuano a essere perseguitati e sottoposti a pressioni”, ha concluso Michel.
    Le richieste dell’Ucraina
    Il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, ha annunciato da parte sua l’inizio del “conto alla rovescia” per recuperare la Crimea. “Oggi annunciamo il conto alla rovescia per il giorno nel quale la Crimea non sarà più occupata”, ha detto Zelensky aprendo i lavori del summit. “Non si può perdere nemmeno un giorno: dobbiamo iniziare a scrivere una nuova pagina nella storia dell’Ucraina e nella storia della Crimea ucraina”.
    Per raggiungere questo obiettivo con mezzi politici, Kiev ha sviluppato una “strategia di deoccupazione” della penisola. Ma ha bisogno dello “sforzo congiunto” della comunità internazionale per fare fronte alla Russia.
    “L’occupazione della Crimea solleva dubbi sul sistema di sicurezza internazionale, in particolare per quel che riguarda l’inviolabilità delle frontiere”, ha proseguito il presidente ucraino, “nessuna nazione può sentirsi al sicuro”.
    “La sinergia dei nostri sforzi deve obbligare la Russia a sedersi al tavolo delle trattative per la restituzione della nostra penisola”, ha proseguito Zelensky. “L’Ucraina da sola non potrà recuperare la Crimea, abbiamo bisogno di un sostegno efficace a livello internazionale”, nello specifico, ha spiegato, “sanzioni più forti contro Mosca”.
    L’ira della Russia
    “Valutiamo questo evento come estremamente ostile nei confronti del nostro paese”, ha commentato Dmitry Peskov, il portavoce del presidente Vladimir Putin, secondo quanto riporta l’agenzia Interfax. Già venerdì scorso la Russia aveva sanzionato il ministro degli Esteri ucraino, Dmytro Kuleba, probabilmente proprio come “vendetta” per l’organizzazione del summit.
    La Russia ha annesso di fatto la Crimea nel 2014, strappandola all’Ucraina con un’invasione di uomini armati e senza insegne di riconoscimento e con un controverso referendum.
    In realtà i rapporti tra Russia e Ucraina sono tesi da tempo, non solo per la Crimea ma anche per il conflitto nel Donbass, dove il Cremlino è accusato di sostenere militarmente i separatisti.
    Il gasdotto Nord Stream 2
    C’è un’altra questione calda sul tavolo che ha caratterizzato le relazioni del meeting: il gasdotto Nord Stream 2.
    Kiev vorrebbe entrare nella NATO, ma a preoccupare la repubblica ex-sovietica è anche l’ormai quasi completato gasdotto Nord Stream 2, che dovrebbe raddoppiare il flusso di gas russo verso la Germania. L’Ucraina teme che Mosca possa portare il proprio metano in Europa aggirando i gasdotti ucraini e infliggendole un grave colpo economico.
    L’incontro tra Zelensky e la cancelliera tedesca, Angela Merkel, è stato segnato dalla tensione su questo tema. Il presidente ucraino ha definito il gasdotto “una pericolosa arma geopolitica del Cremlino”. Da parte sua, la cancelliera tedesca ha cercato di rassicurare il governo di Kiev affermando che Berlino e Washington prevedono “sanzioni” se il gas dovesse in effetti essere “usato come un’arma”.
    Per questo motivo, a margine del Crimea Platform si è tenuto un incontro tra i ministri dell’Energia di Ucraina, Stati Uniti e Germania. I ministri hanno discusso di come fornire garanzie all’Ucraina sul suo futuro come Paese di transito in seguito alla costruzione del gasdotto russo Nord Stream 2.
    Il ministro tedesco dell’Economia e dell’Energia, Peter Altmaier, ha ribadito che Berlino vuole sostenere la transizione dell’Ucraina verso le energie rinnovabili.
    La posizione dell’Italia
    Per l’Italia, ha partecipato al meeting il sottosegretario agli Esteri, Benedetto Della Vedova. ”A oltre sette anni dall’annessione illegale della Crimea, siamo ancora preoccupati per il rispetto dei diritti umani e per i possibili impatti avversi sulla situazione regionale”, ha detto Della Vedova. “Siamo al corrente delle sofferenze che il popolo tartaro di Crimea affronta. Sottolineiamo l’importanza del rispetto pieno e della protezione dei diritti fondamentali e delle libertà di tutte le minoranze”.
    Della Vedova ha quindi reiterato il sostegno dell’Italia all’integrità territoriale dell’Ucraina e alla sua sovranità e indipendenza. Ferma è stata la condanna dell’annessione illegale della Crimea e la determinazione a mantenere la politica di non-riconoscimento concordata a livello UE. L’obiettivo è quello di una fine pacifica dell’occupazione.
    Gli stessi concetti, riferisce la Farnesina, Della Vedova li ha ribaditi negli incontri bilaterali avuti con il viceministro degli Esteri ucraino, Viktor Bodnar, e con il ministro degli Interni, Denys Monastyrskiy. Con loro è stato fatto anche il punto sull’eccellente rapporto bilaterale tra Italia e Ucraina e sulle opportunità per incrementare ulteriormente le già fruttuose relazioni economico-commerciali.

    Questo contributo è stato pubblicato nell’ambito di “Parliamo di Europa”, un progetto lanciato da
    Eunews per dare spazio, senza pregiudizi, a tutti i suoi lettori e non necessariamente riflette la
    linea editoriale della testata.

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    Afghanistan, i corridoi umanitari UE restano un tabù: Austria, Slovenia e Ungheria vogliono frontiere chiuse ai profughi

    Bruxelles – L’Unione Europea si spacca e per l’ennesima volta dimostra di non essere in grado di trovare una linea comune sulla politica migratoria, anche quando si tratta di emergenze di portata storica. Si fanno sempre più insistenti le richieste di cittadini, di organizzazioni non governative e di deputati dei Paesi membri alle istituzioni europee di attivare corridoi umanitari per i profughi in arrivo dall’Afghanistan, a una settimana dalla presa di Kabul da parte dei talebani. Ma l’asse Lubiana-Vienna-Budapest fa muro contro quella che viene classificata come una riedizione della crisi migratoria di sei anni fa lungo la rotta balcanica.
    A sollevare le polemiche era stato ieri (22 agosto) il primo ministro sloveno, Janez Janša: “Non ripeteremo gli errori strategici del 2015, aiuteremo solo coloro che ci hanno supportato durante la missione NATO e i Paesi membri dell’UE che difendono i nostri confini esterni”. L’opposizione di Janša ha assunto particolare rilievo anche per il fatto che attualmente ricopre la carica di presidente di turno del Consiglio dell’UE (dal primo luglio fino a fine anno). “Non è compito dell’Unione o della Slovenia aiutare e pagare per tutti coloro che fuggono nel mondo“, ha rincarato la dose il premier sloveno, confermando di essersi completamente allineato alle posizioni del Gruppo di Visegrád (Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia) per quanto riguarda le questioni migratorie.
    A nemmeno ventiquattr’ore di distanza è arrivata la sponda austriaca e ungherese, con un copione molto simile a quello del presidente di turno del Consiglio dell’UE. “Gli eventi in Afghanistan sono drammatici, ma non dobbiamo ripetere gli errori del 2015. La gente che esce dal Paese deve essere aiutata dagli Stati vicini”, ha commentato su Twitter il cancelliere austriaco, Sebastian Kurz. Per Vienna la priorità dell’UE deve essere “proteggere le frontiere esterne e combattere la migrazione illegale e i trafficanti di esseri umani“, anche considerata la situazione interna del Paese: “L’Austria ha accolto 44mila afghani, abbiamo una delle più grandi comunità pro-capite al mondo”, ha aggiunto il cancelliere. “Ci sono ancora grossi problemi con l’integrazione e siamo quindi contrari all’arrivo di altri profughi”.
    Da Budapest il premier ungherese, Viktor Orbán, ha fatto sapere che “proteggeremo l’Ungheria dalla crisi dei migranti” e che “deve essere evitato che i profughi lascino la regione”. Oltre a ciò, sarà poi necessario sostenere il ruolo “fondamentale” della Turchia e dei Paesi dei Balcani occidentali, per “evitare l’ingresso dei migranti nell’Unione Europea”.

    Österreich hat mit der Aufnahme von 44.000 Afghanen sehr viel geleistet. Wir haben pro Kopf eine der größten afghanischen Communities der Welt nach Iran, Pakistan & Schweden. Bei der Integration gibt es noch große Probleme & wir sind daher gegen eine zusätzliche Aufnahme.
    — Sebastian Kurz (@sebastiankurz) August 22, 2021

    In vista della riunione straordinaria del G7 convocata dal premier britannico, Boris Johnson, per domani (24 agosto), sembrano andare in frantumi le speranze dell’Unione Europea di presentarsi compatta di fronte agli interlocutori internazionali sulla questione dell’accoglienza dei profughi. Nel corso dell’audizione alla commissione Affari esteri (AFET) del Parlamento Europeo di lunedì scorso (16 agosto), l’alto rappresentante UE per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, aveva aperto alla possibilità di applicare per la prima volta la Direttiva europea sulla protezione temporanea del 2001. Prima di essere immediatamente sconfessato proprio da un portavoce dell’esecutivo comunitario.
    Due giorni più tardi (mercoledì 18 agosto), al termine del vertice straordinario con i 27 ministri UE, la commissaria europea per gli Affari interni, Ylva Johansson, aveva però ammesso che Bruxelles si sta preparando “a tutti gli scenari”. Durante il vertice si era parlato della “priorità immediata”, ovvero l’evacuazione del personale e dei cittadini comunitari e del personale locale che ha lavorato con gli Stati membri in Afghanistan (è notizia dell’ultim’ora l’imbarco di oltre 170 collaboratori UE all’aeroporto di Kabul grazie alle forze speciali francesi).
    Ma è anche stata considerata “l’instabilità che porterà probabilmente a un aumento della pressione migratoria”. In questo senso sarà necessario un sostegno ai Paesi vicini (Iran e Pakistan) e trovare una quadra a livello comunitario per i richiedenti asilo: “Allo stato attuale la situazione nel Paese non è sicura e non lo sarà per un po’ di tempo”, erano state le parole di apertura della commissaria Johansson. “Non possiamo costringere le persone a tornare in Afghanistan“.
    Reazioni da Bruxelles
    Le prese di posizione dei governi di Lubiana, Vienna e Budapest sono state accolte da durissime critiche a Bruxelles. Il presidente del Parlamento Europeo, David Sassoli, dai microfoni di Rainews24 ha risposto seccamente a Janša, ricordandogli che “non spetta all’attuale presidenza del Consiglio dire cosa farà l’Unione Europea“. Dal momento in cui “tutte le nostre istituzioni stanno lavorando per vedere quale solidarietà è necessaria per coloro che sono a rischio dal nuovo regime”, il presidente del Parlamento UE ha invitato il premier sloveno a “discutere con le istituzioni europee” per decidere insieme a riguardo. “Tutti i nostri Paesi si sentono coinvolti nella situazione in corso in Afghanistan“.

    It is not up to the Slovenian Presidency to say what the position of the EU is on the humanitarian crisis in Afghanistan.
    We invite PM Janša to discuss with the EU institutions what the next steps should be but it’s clear we need to show solidarity. https://t.co/sK15X3Q2fZ
    — David Sassoli (@EP_President) August 22, 2021

    Posizione ribadita anche dal commissario europeo per l’Economia, Paolo Gentiloni, che ha ricordato che il presidente di turno “coordina l’attività, non ha poteri decisionali di alcun tipo” a livello di politica estera europea (un incidente tra Lubiana e Bruxelles a riguardo si era già consumato a pochi giorni dall’avvio del semestre sloveno). Ma c’è di più: “L’Unione deve lavorare sull’accoglienza e sulle quote di immigrazione legale di rifugiati afghani e deve farlo anche togliendosi l’alibi della unanimità nelle decisioni“. Considerato il fatto che “so che l’unanimità non ci sarà mai”, il Consiglio dovrà agire “a maggioranza, se si vuole dare una mano ai rifugiati”.
    Dall’Italia, il presidente della commissione Esteri della Camera dei Deputati, Piero Fassino, ha fatto appello al presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, perché “richiami immediatamente il premier sloveno ad attenersi rigorosamente ed esclusivamente alle sue titolarità”. Ma dal Consiglio, per il momento, tutto tace e le uniche notizie che trapelano sono di una discussione con con il presidente turco, Recep Tayyp Erdogan. “Si tratta di una sfida comune per la Turchia e l’Unione Europea”, ha commentato Michel su Twitter.
    Tuttavia, Ankara ha più volte ribadito che non diventerà il “deposito dell’UE per i rifugiati” e nega di aver ricevuto richieste per la creazione di hub per la prima accoglienza dei richiedenti asilo afghani sul suo territorio. A causa delle sue divisioni interne, l’Unione Europea sta rischiando di rimanere sempre più isolata sullo scacchiere internazionale.

    Credo che l’#UnioneEuropea abbia il dovere di lavorare sull’accoglienza e su quote di immigrazione legale dei rifugiati #afghani e abbia il dovere di farlo anche togliendosi l’alibi dell’unanimità nelle decisioni.@PaoloGentiloni al #meeting21. pic.twitter.com/WlNUqWWEAB
    — Meeting Rimini (@MeetingRimini) August 23, 2021

    Trovi un ulteriore approfondimento nella newsletter BarBalcani, curata da Federico Baccini

    In vista del vertice straordinario del G7 di domani, i primi ministri Janša (presidente di turno del Consiglio dell’UE) e Orbán e il cancelliere Kurz si sono opposti all’accoglienza per chi fugge dal regime dei talebani: “Non ripeteremo gli errori del 2015”

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    Sui migranti Italia si sente nuovamente isolata, e cresce il risentimento nei confronti dell’UE

    Mentre tutti preparano i festeggiamenti per i primi soldi del Recovery Fund da Bruxelles ( 26 miliardi di euro), come tutte le estati si rinnova il problema degli sbarchi di migliaia di migranti sulle coste italiane. La Lega ha fatto sentire la sua voce di dissenso, attraverso il sottosegretario agli Interni Nicola Molteni, che ha criticato il suo ministro Lamorgese, in merito agli ultimi sbarchi di circa 800 migranti sulle coste siciliane. “Salvini ha dimostrato che bloccare l’immigrazione clandestina era ed è assolutamente possibile”, le sue parole. “La politica dei decreti sicurezza che qualcuno ha smantellato, e penso al governo Conte II, sta producendo più sbarchi più partenze e più morti e più costi di accoglienza”.
    Ma anche il presidente della Regione Siciliana, Nello Musumeci, ha lanciato tramite la sua pagina facebook un accorato appello a governo ed istituzioni europee perché si intervenga per fermare una situazione ormai insostenibile. “Non amo ripetermi – ha scritto sulla sua bacheca telematica – e neppure alimentare polemiche sterili. Dico con forza che la Sicilia continua a essere presa d’assalto dagli sbarchi e che le politiche nazionali non riescono a bloccare questo criminale commercio di carne umana”. I viaggi dei ministri degli Esteri e dell’Interno sull’altra sponda del Mediterraneo, lamenta, “non stanno raggiungendo gli obiettivi sperati”. In tutto questo “l’Europa guarda complice e silente”. La Sicilia, continua, “è la frontiera a Sud di un Continente che preferisce girarsi dall’altro lato, mentre la disperazione sale dall’Africa, cercando in Sicilia la porta di accesso a una vita che in queste condizioni non potrà mai essere migliore». Poi l’appello accorato al presidente del Consiglio: «Serve un segnale forte e ormai può venire solo da lui. Faccia quello che non ha voluto fare chi l’ha preceduto e dichiari lo stato di emergenza per gli sbarchi”.
    Secondo i dati dell’Alto commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite (UNCHR) nei primi sette mesi del 2021 in Italia sono arrivati circa 29mila migranti, che rappresentano un aumento del 107% rispetto allo stesso periodo del 2020. La prima nazione di provenienza con il 24% è la Tunisia, seguita da Bangladesh ed Egitto. Solo a Luglio gli arrivi sono stati ottomila. Se si considera tutta la zona euro  gli arrivi sono stati circa 51mila contro i 39mila del 2020. Il nostro paese è il primo paese di approdo seguita dalla Spagna con circa 16mila arrivi e dalla Grecia con 4400.
    Sulla base di questi dati si pensava che al Consiglio Europeo di fine giugno si prendessero decisioni in merito. Il premier italiano Draghi era convinto, spalleggiato dal leader spagnolo Sanchez, di poter ottenere risultati concreti da parte della Ue sul tema migranti.
    Invece come al solito e come ha affermato, alla fine dei lavori, in Parlamento il presidente dell’Ecr Raffaele Fitto ” si è preferito non decidere rinviando ogni soluzione ad ottobre, quando invece avremmo avuto bisogno di progressi immediati, urgenti”. Aggiungendo che l’Europa sembra sorda alle richieste di Spagna Italia e Grecia per una redistribuzione equa dei migranti in tutti gli Stati dell’Unione.
    Il punto è che l’Europa nel senso di istituzioni comunitarie ha poca voce in capitolo. La Commissione europea già nella precedente legislatura con Jean-Claude Juncker ha messo sul tavolo la proposta di un meccanismo per la ripartizione tra Stati membri dei richiedenti asilo che arrivano nei Paesi di frontiera europea, come Italia e Grecia. La proposta è stata impallinata dai governi. Bruxelles ha cercato di giustificare la mossa come la risposta all’emergenza del 2015, ma la politica solidale legata all’emergenza non ha saputo trovare repliche.
    Gli Stati membri dell’UE proprio non vogliono sentire parlare di redistribuzione dei migranti, preferendo coprire di euro la Turchia per evitare di aprire un nuovo fronte, quello balcanico che potrebbe colpire direttamente Germania e Francia, solo a parole sono solidali con Italia, Spagna e Grecia. E la situazione complicata che si è aperta in Tunisia dal punto di vista politico, certo non può che preoccupare ulteriormente proprio chi come il nostro paese è in prima linea sul fronte sbarchi dai paesi del nord Africa.
    Ma a guardare i recenti dati dell’UNCHR il rischio che la situazione diventi presto incontrollabile è altissimo. Alla fine del 2020, erano 82,4 milioni le persone sfollate in tutto il mondo, il numero più alto mai registrato, e 235,4 milioni di persone, una su 33 in tutto il mondo, avevano bisogno di aiuti di emergenza.  L’Ufficio delle Nazioni Unite del Coordinatore per l’Assistenza Umanitaria attribuisce queste crescenti esigenze ai conflitti globali prolungati, alla crisi climatica e in particolare alle ricadute economiche della pandemia di COVID-19, che ha causato il più grande calo annuale del reddito pro capite globale su base percentuale da quando  1870.
    Gli accordi di Malta del 2020 si sono rivelati ennesimo fallimento di una politica europea che sul tema migranti continua a non decidere e a lasciare la patata bollente a Italia, Spagna e Grecia. Basti pensare che tra ottobre 2019 e marzo 2021, con gli accordi di Malta il nostro paese ha ricollocato circa 990 persone su 44.300 sbarcati, il 2,2% del totale, come ha osservato Matteo Villa, dell’Osservatorio migrazioni dell’ISPI.
    Il tempo delle discussioni sembra ormai finito e se l’Europa vuole dimostrare di essere una vera unione deve mettere in campo una strategia comune, chiara, decisa per porre un argine ad un fenomeno, che presto potrebbe divenire incontrollabile.

    Questo contributo è stato pubblicato nell’ambito di “Parliamo di Europa”, un progetto lanciato da
    Eunews per dare spazio, senza pregiudizi, a tutti i suoi lettori e non necessariamente riflette la
    linea editoriale della testata.

    In Sicilia aumentano gli arrivi e gli amministratori locali non si sentono sostenuti. Malumori anche nel governo. Ma l’Unione europea può poco, decidono gli Stati. Il governo ha bisogno di creare consensi e trovare alleanze in seno al Consiglio

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    Non solo migranti, in Afghanistan c’è in gioco molto di più. E l’UE s’inquieta

    Bruxelles – “La situazione è molto complessa, ma non impossibile”. A Bruxelles ci si rende conto che l’Afghanistan è ormai fuori controllo. Lo indica l’avanzata dei talebani, che hanno ripreso il controllo della maggior parte del Paese, e la spigolosità di un interlocutore poco incline a dialogo e trattative. di fronte a un nuovo scenario di instabilità e incertezze c’è un parte dell’Unione europea che si preoccupa dei migranti, eredità di una missione NATO a cui 22 Stati membri dell’UE hanno partecipato dal 2003 a oggi, momento di smobilitazione.
    In Commissione come in Consiglio numeri, dati e cartine politiche si susseguono e si aggiornano continuamente. Attualmente i talebani controllano il 65% del territorio, 230 distretti rispetto ai 65 amministrati del governo. Il resto è oggetto di contese coi signori delle guerra. I talebani già controllano otto punti di attraversamento di frontiera, tutto ciò che entra ed esce lungo le frontiere con Iran, Tagikistan e Turkmenistan. A sud, gestiscono anche un punto di passaggio verso il Pakistan. Così, coloro contro i quali venne lanciata l’operazione in Afghanistan, si garantiscono il controllo delle merci e introiti annui stimati attorno ai due e i due miliardi e mezzo l’anno.
    L’avanzata dei talebani e il loro controllo del territorio al 10 agosto 2021
    “L’obiettivo è la pace”, ripetono a Bruxelles, consapevoli che è difficile da ottenere. “Si può ottenere solo se tutte le parti lavorano per questo. Ma sulle trattative i nuovi padroni del Paese frenano.  “I talebani non hanno mai detto di non volere un accordo, ma vogliono delle precondizioni: liberazione di 700 prigionieri e cancellazione delle liste di sanzioni”. Questa è la situazione per un’Unione europea che in Afghanistan vede ridimensionata la sua vocazione geopolitica.
    La Cina ha già riconosciuto i talebani, mentre l’UE e i suoi Stati membri hanno sempre puntato su altri attori e interlocutori. Il ritorno degli ‘esclusi’ e il loro riconoscimento sullo scacchiere internazionale è una sconfitta. Ora le domande che si pongono “hanno bisogno di una risposta nazionale degli Stati”. Spetta a loro decidere se riconoscere la nuova autorità, e se richiamare i loro connazionali in patria. Ci sono ancora 9 Stati membri con personale diplomatico nel Paese.
    A Bruxelles si cerca di utilizzare a proprio vantaggio una situazione anche se vantaggiosa non è. “In questi ultimi anni solo tre Paesi – Arabia Saudita, Emirati arabi e Pakistan – riconoscevano i talebani. Adesso questi ultimi hanno bisogno di noi, per il commercio, per gli aiuti umanitari…” Questo il ragionamento con cui ci si cerca di convincere che gli stranieri in Afghanistan si trovino in una situazione di forza.
    La Commissione lavora per una soluzione che porti la sicurezza, dialogando con il governo di Kabul che perde forza. Dall’altra parte “nessuna mediazione è stata accettata”, riconoscono gli addetti ai lavori. “La situazione si risolve da sola, tra afghani” Il rischio è che si risolva nel sangue e in un modo che non giovi all’occidente e all’Europa.
    Ci sono 3,5 milioni di rifugiati e sfollati in Pakistan, altri 3 milioni sono ammassati in Iran, circa 500mila sono in Turchia. L’UE si trova costretta a fare in modo che queste persone non si mettano in marcia. “Bisogna lavorare con questi Paesi per prevenire nuove rotte illegali”. In questo il ruolo della Turchia, e l’UE rischia di diventare ancor più dipendente da Recep Tayipp Erdogan e di esporsi ancora di più ai capricci del sultano.
    Alcuni Stati guardano con preoccupazione all’aspetto migratorio della questione, ma a Bruxelles si guarda ad altro. Si considera una crisi di richiedenti asilo non imminente, perché i numeri non forniscono indicazioni in tal senso. L’aumento degli afghani che bussano alle porte dell’Europa si teme, ma non c’è. L’UE lavorerà con gli Stati confinanti dell’Afghanistan per fare in modo che la situazione resti così. Vuol dire pagare per non avere richiedenti asilo e fare in modo che resti dove sono.
    In Commissione come in Consiglio si guarda ad altri aspetti. “Ci preoccupa che i talebani possano riprendere in mano il commercio della droga e fare del Paese una base per il terrorismo islamico”. Questo è interesse della Cina

    Controllo delle merci, ripristino del business della droga, terrorismo islamico, peso geopolitico: il ritorno dei talebani apre nuovi scenari difficili da gestire

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    I britannici hanno voglia di Erasmus, ma la versione nazionale rischia di non soddisfarli

    Bruxelles – Dopo la Brexit in Regno Unito c’è una gran voglio di Erasmus. Perfino troppa. Le richieste di programmi studio e di mobilità sono talmente tante da non poter essere soddisfatte dal nuovo sistema su cui il governo di Londra sta lavorando.
    Tutto nasce dai negoziati sulle relazioni future. Il premier britannico Boris Johnson non ha ritenuto di tenere dentro la partecipazione al programma di mobilità studentesca e professionale. Ma dopo la chiusura degli accordi la comunità accademica e lavorativa è riuscita a riottenere quanto perduto: il governo di Sua Maestà ha predisposto un nuovo schema di scambio con l’estero, Turing. Ma la storia non sarà a lieto fine, almeno per ora.
    La sostituzione del governo per il programma di scambio Erasmus sembra essere iniziata alla grande. Circa 120 università hanno richiesto una quota del programma da 110 milioni di sterline, insieme a scuole e istituti di istruzione superiore, per finanziare posti di lavoro e studio. Il Dipartimento per l’Istruzione afferma che più di 40mila potranno lavorare e studiare all’estero entro la fine dell’anno grazie a Turing. Di queste 40mila borse circa 28mila sono per tirocini per studenti universitari nel 2021-22, più dei 18.300 tirocini che hanno avuto luogo nell’ambito del programma Erasmus nell’anno accademico 2018-19.
    Tanta domanda, ma il rischio di poca offerta reale. Gli esperti avvertono che il numero finale di giovani partecipanti sarà probabilmente ben al di sotto delle aspettative iniziali. Paul James Cardwell, professore alla City Law School, Università di Londra, ha messo a confronto il vecchio Erasmus col nuovo Turing, e i dubbi ci sono. “Tutte le opportunità di studiare all’estero sono benvenute, ma dobbiamo essere chiari su quanti studenti andranno effettivamente all’estero, che sarà probabilmente molto inferiore ai numeri per cui è stata offerta“. Non c’è solo un problema di posti effettivamente disponibili, ma di coperture finanziarie. “Non sappiamo se questi collocamenti siano stati organizzati e confermati e, soprattutto, quanti finanziamenti saranno assegnati a ciascun partecipante”.
    Il rischio è che alla fine con Turing tornerà in Erasmus chi potrà permetterselo, se gli assegni dovessero costringere le famiglie a contribuire più del sostenibile. Senza contare che con il COVID l’uscita dall’UE è una svantaggio. Il nuovo schema ha una portata geografica più ampia di quella dell’Erasmus. Il Dipartimento per l’Istruzione enfatizza come grazie a Turing i giovani riceveranno finanziamenti per intraprendere tirocini di studio e lavoro in 150 paesi. Tuttavia, molti dei paesi partner hanno restrizioni all’ingresso alle frontiere a causa della pandemia di Covid che continuerà a ostacolare la partecipazione per il prossimo anno.
    In sintesi, il mondo universitario mostra meno tronfalismo. “Anche se gli studenti sono in grado di recarsi nel paese ospitante durante la pandemia, se il finanziamento individuale non copre i costi associati al viaggio, il numero di partenze effettive potrebbe essere piuttosto basso“. Turing non è Erasmus e si vede. Ma Brexit vuol dire Brexit.

    Turing è lo schema di mobilità studentesca e giovanile che il governo britannico ha introdotto per sopperire all’uscita dal programma simbolo dell’UE. Oltre 40 mila borse annunciate, ma le università avvertono: “Non tutti potrebbero partecipare, si rischia un numero piuttosti basso di partenze”