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    Nord Stream 2, la costruzione del gasdotto è finita. Per Mosca sarà in funzione “nei prossimi giorni”

    Bruxelles – Sono giunti al termine ieri (6 settembre) i lavori di costruzione del controverso gasdotto da 11 miliardi di dollari Nord Stream 2, che raddoppierà la capacità di gas naturale (metano) in arrivo dalla Russia alla Germania attraverso il Mar Baltico. Ad annunciarlo è la compagnia energetica russa Gazprom, che ne controlla le attività, a cui si aggiungono le parole del ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov secondo cui il gasdotto Nord Stream 2 entrerà in funzione nei prossimi giorni, secondo quanto riportato dall’agenzia di stampa Interfax.
    Il gasdotto Nord Stream 2 collegherà la Germania alla Russia
    L’ultima sezione del gasdotto è stata saldata e ora dovrà essere calato nel collegamento sottomarino sotto al Mar Baltico. Secondo Reuters, il gasdotto deve ancora ricevere la certificazione che potrebbe richiedere fino a quattro mesi di tempo. Entro fine anno dovrebbe essere pienamente operativo.
    Il percorso di Nord Stream 2 andrà a replicare quello del gemello Nord Stream che è già in attività. Si parla di circa 55 miliardi di metri cubi all’anno di gas verso la Germania a capacità massima, da raddoppiare fino a 110 miliardi di metri cubi di gas che consentono a Mosca di trasportare il gas in Europa senza passare per via terrestre attraverso l’Ucraina, come faceva prima, indebolendone la posizione strategica.
    La costruzione del gasdotto è stata fin dall’inizio osteggiata da molti Paesi, primi tra tutti gli Stati Uniti, per i timori di una maggiore influenza di Mosca sul vecchio Continente che ne dipende energeticamente. Solo a fine luglio, Berlino e Washington hanno raggiunto un accordo di massima per ultimare i lavori del progetto, promettendo sanzioni alla Russia in caso di pressioni sull’Ucraina, come l’annessione illegale della penisola di Crimea nel 2014.
    Un’opposizione che il progetto ha trovato anche in Europa, guidata in particolare dai Paesi dell’Europa orientale. Solo la cancelliera Angela Merkel ha sposato la causa, impegnandosi a portarla a termine. Da quando a fine agosto di un anno fa l’oppositore russo Alexei Navalny è stato avvelenato su iniziativa del presidente russo Vladimir Putin sono però aumentate di molto le pressioni su Merkel per abbandonare il progetto. Pressioni che sono aumentate ancora con l’ulteriore incrinarsi dei rapporti di Bruxelles con Mosca, con i Paesi dell’Europa centrale e orientale che temono l’ulteriore dipendenza energetica dei Ventisette dal gas russo.

    Saldata l’ultima sezione del gasdotto da 11 miliardi di dollari che raddoppierà la capacità di gas naturale in arrivo dalla Russia alla Germania attraverso il Mar Baltico. Per il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov sarà in funzione nei prossimi giorni

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    Brexit, pressing britannico vuol rinegoziare il periodo di grazia nel Mare d’Irlanda. Ma per l’UE “il Protocollo non si tocca”

    Bruxelles – La guerra delle salsicce ricomincia. Il 30 settembre scade la proroga dell’Unione Europea al periodo di grazia per il commercio nel Mare d’Irlanda e Londra è già in pressing. Il governo guidato da Boris Johnson è intenzionato a rinegoziare la durata della concessione temporanea ai controlli dei certificati sanitari per il commercio di generi alimentari refrigerati dalla Gran Bretagna all’Irlanda del Nord da parte delle autorità UE (che nel contesto post-Brexit sono necessari per mantenere integro il Mercato Unico sull’isola d’Irlanda).
    Il consigliere britannico per la Sicurezza nazionale, David Frost, ha annunciato ieri (6 settembre) di voler continuare a commerciare “sulla base delle pratiche attuali”, senza fissare una data di scadenza per la concessione temporanea. In realtà questo periodo di grazia sta assumendo i contorni di un tentativo di rinegoziare l’intero Protocollo sull’Irlanda del Nord dell’accordo di recesso tra UE e Regno Unito, siglato per garantire l’unità sull’isola. Lo stallo “fornirà spazio per ulteriori discussioni con Bruxelles”, ha spiegato Frost, in particolare sulle “profonde differenze” delle parti in merito all’accordo di divorzio.
    La richiesta di una “revisione totale” dell’accordo è stata già respinta a fine luglio dalla Commissione Europea. Anche questa volta la porta è rimasta chiusa: “Prendiamo atto della dichiarazione, ma non accetteremo una rinegoziazione del Protocollo“, si legge nella nota dell’esecutivo UE. “Continuiamo a sottolineare che l’accordo di recesso è un accordo internazionale e il Protocollo ne è parte integrante”. Gli sforzi di Bruxelles vanno nella direzione di identificare “soluzioni a lungo termine, flessibili e pratiche”, con l’obiettivo di “affrontare le questioni relative all’attuazione pratica del Protocollo” che stanno vivendo cittadini e imprese dell’Irlanda del Nord. Tuttavia, Unione Europa e Regno Unito sono “legalmente vincolati ad adempiere ai loro obblighi ai sensi dell’accordo“.
    Il periodo di grazia era entrato in vigore provvisoriamente all’inizio di quest’anno, con la firma dell’accordo di commercio e di cooperazione (TCA), e sarebbe dovuto scadere il primo aprile. Solo la proroga concessa dalle autorità europee il 30 giugno aveva momentaneamente risolto il conflitto diplomatico nato dalla decisione unilaterale di Downing Street di estendere il periodo di grazia fino a fine di ottobre.
    La porta sulla rinegoziazione dell’accordo rimane sigillata, ma l’Unione sembra voler evitare lo scontro frontale con Downing Street. Lo dimostra il fatto che la procedura d’infrazione avviata lo scorso 15 marzo per le presunte violazioni del Protocollo sull’Irlanda del Nord da parte di Londra è rimasta congelata (è stata momentaneamente sospesa lo scorso 28 luglio). “La Commissione si riserva i suoi diritti per quanto riguarda le procedure d’infrazione”, specifica la nota del gabinetto guidato da Ursula von der Leyen. Tuttavia, “per ora non stiamo passando alla fase successiva” all’invio della lettera di costituzione in mora.

    🇪🇺🇬🇧 Statement by @EU_Commission following today’s announcement by the UK government regarding the operation of the Protocol on Ireland / Northern Ireland 👇https://t.co/VMO4cDKzHM pic.twitter.com/JcIlGCZFLn
    — Daniel Ferrie 🇪🇺 (@DanielFerrie) September 6, 2021

    Il consigliere per la Sicurezza nazionale Frost ha annunciato che il commercio tra Gran Bretagna e Irlanda del Nord deve continuare “sulla base delle pratiche attuali”. Bruxelles si oppone al disimpegno sull’accordo di recesso

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    Bielorussia, condannati gli oppositori Kolesnikova e Znak. L’UE: “Minsk disprezza i diritti umani. Siano rilasciati subito”

    Bruxelles – È arrivato il verdetto. Maria Kolesnikova e Maksim Znak, membri del Presidium del Consiglio di coordinamento dell’opposizione bielorussa, sono stati condannati dal tribunale regionale di Minsk rispettivamente a 11 e 10 anni di carcere. Entrambi sono stati ritenuti colpevoli di aver incitato la popolazione a “commettere azioni contro la sicurezza nazionale, di cospirazione per impadronirsi del potere con mezzi incostituzionali e di creazione e direzione di una formazione estremista”. In altre parole, di aver organizzato le proteste popolari e la piattaforma di opposizione al presidente Alexander Lukashenko, dopo le elezioni-farsa del 9 agosto dello scorso anno.
    Il processo a carico dei due imputati era iniziato un mese fa, dopo quasi un anno di detenzione. A settembre dello scorso anno aveva fatto scalpore la vicenda dell’arresto di Kolesnikova. L’attivista – che aveva diretto il quartier generale del candidato presidenziale Viktor Babariko e successivamente aveva offerto sostegno alla campagna elettorale di Sviatlana Tsikhanouskaya – era stata rapita dai servizi segreti bielorussi a Minsk in pieno giorno. Portata alla frontiera con l’Ucraina, le autorità avevano tentato di espellerla dal Paese, ma Kolesnikova si era opposta e aveva distrutto il suo passaporto. A quel punto era stata arrestata e portata in isolamento nel carcere della capitale.
    “L’Unione Europea deplora la continua palese mancanza di rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali del popolo bielorusso da parte del regime di Minsk “, è stata la condanna di Bruxelles, attraverso una nota del Servizio europeo per l’azione esterna (SEAE). “Ribadiamo la richiesta di rilascio immediato e incondizionato di tutti i prigionieri politici in Bielorussia“, che al momento “sono più di 650”. Tra questi, oltre Kolesnikova e Znak, anche “giornalisti e tutte le persone che sono dietro le sbarre per aver esercitato i loro diritti”.
    L’UE ha avvertito il regime di Lukashenko che “deve rispettare i suoi impegni e obblighi internazionali” e che le istituzioni europee continueranno i loro “sforzi per promuovere la responsabilità della brutale repressione da parte delle autorità bielorusse”. Dopo le sanzioni economiche contro Minsk e i quattro pacchetti di misure restrittive nei confronti di persone e aziende vicine al regime, è attesa a stretto giro a Bruxelles l’adozione di un quinto pacchetto di sanzioni mirate.
    Per quanto riguarda il processo che ha portato alle condanne per i due membri del Presidium dell’opposizione democratica, l’UE ha bollato come “infondate” le accuse del tribunale di Minsk. Anche la leader dell’opposizione e presidente legittima riconosciuta dall’UE, Sviatlana Tsikhanouskaya, ha puntato il dito contro gli uomini di Lukashenko: “Si tratta di terrore contro i cittadini bielorussi che osano opporsi al regime“, ha commentato su Twitter. “Chiediamo l’immediato rilascio di Maria e Maksim, che non sono colpevoli di nulla”.

    The regime sentenced Maria Kalesnikava & Maksim Znak to 11 & 10 years in prison. We demand the immediate release of Maria & Maksim, who aren’t guilty of anything. It’s terror against Belarusians who dare to stand up to the regime. We won’t stop until everybody is free in Belarus. pic.twitter.com/RbnefQzX0q
    — Sviatlana Tsikhanouskaya (@Tsihanouskaya) September 6, 2021

    I due membri del Presidium del Consiglio di coordinamento dell’opposizione bielorussa sono stati riconosciuti colpevoli di cospirazione e direzione di una formazione estremista. Accuse definite “infondate” da Bruxelles, che invoca il rispetto degli obblighi internazionali

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    L’Europa deve avere una politica estera comune

    Se c’è un piccolo aspetto  positivo che si può ricavare dalla drammatica crisi afghana è quello che è stato resa ancora più chiara a tutti la non più prorogabile esigenza di creare una politica estera comune europea. Persino il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha parlato apertamente di questa necessità per la politica europea che sempre più mostra tutte le sue incongruenze e debolezze. Il periodo della condivisione da parte dell Europa a quella che era la politica estera del guardiano del mondo statunitense, che spesso senza nemmeno consultare i propri alleati del vecchio continente  prendeva decisioni, a cui poi gli europei dovevano, anche loro malgrado adeguarsi ( proprio l invasione dell Afghanistan aveva incontrato molte resistenze fra i paesi europei) sembra ormai definitivamente alle spalle.
    Gli Stati Uniti hanno ormai mostrato in più occasioni di non voler più assumere quel ruolo di guardiano del mondo che dalla caduta del muro ha dovuto assumere per garantire l’ordine mondiale. Il chiaro intento della politica estera americana è quello di non impegnarsi più in dispute che non riguardino direttamente i propri interessi nazionali. Questo atteggiamento non è cominciato, come si potrebbe pensare, con l’amministrazione Trump, ma è iniziato ben prima. Già nell’ultimo periodo del secondo mandato di George W. Bush, la politica estera americana aveva cominciato una nuova fase maggiormente “attendista”, che è poi proseguita con maggiore vigore sotto le due amministrazioni Obama, soprattutto durante il secondo mandato.
    Fu proprio Obama, infatti, il primo presidente a parlare di un disimpegno dall’Afghanistan e per un graduale ridimensionamento del ruolo americano sullo  scenario mediorientale e africano. Ed è proprio da qui che forse è cominciato non a caso a crescere il peso internazionale della Cina in primis, verso cui Obama ha sempre adottato una politica distensiva e anche di Turchia e Russia, che proprio grazie alla “morbida” politica estera Usa sotto Obama hanno potuto allargare la loro influenza strategica sullo scacchiere geopolitico internazionale.
    Trump ha solo reso esplicito quello che Obama invece ha cercato di fare in maniera un po più surrettizia. Gli Stati Uniti hanno capito di non poter più sostenere il peso sia economico che politico di controllori degli equilibri geopolitici. Il cittadino medio americano non sopporta più che vengano privilegiate questioni di politica estera ben lontane dagli interessi legati alla economia al welfare alla sicurezza nazionale. La lotta la terrorismo non basta più per giustificare un simile gravoso impegno.
    L’Afghanistan è nata proprio a questo fine sulla scorta della grande spinta emotiva determinata dai drammatici  attacchi terroristici del 11 Settembre, ma aveva come fine principale quello di dare la caccia a chi questo attentato aveva preparato e finanziato Osama Bin Laden. L ‘Europa non ha potuto fare altro che allinearsi al volere del potente alleato atlantico, anche se vi erano stati alcuni distinguo all’epoca, anche da parte italiana. La gestione di questi venti anni di occupazione dell Afghanistan ha mostrato la sostanziale debolezza dei paesi europei sul piano organizzativo decisionale e politico. Basti pensare al fatto che i paesi europei impegnati militarmente in Afghanistan non siano stati in grado di evacuare i propri cittadini da Kabul, da soli o in uno sforzo coordinato dell’UE, senza l’assistenza degli Stati Uniti. Questo fatto da solo dimostra ulteriormente quale sia lo stato effettivo  delle capacità militari collettive dell’Europa
    Questo anche perché l’Europa nel conflitto ha sempre avuto un ruolo tutto sommato marginale e di appoggio a decisioni e strategie pensate a Washington. Malgrado ciò non si può non elogiare il lavoro svolto dai militari impegnati sul campo, a cominciare proprio da quello fatto dal contingente  italiano ad Herat.
    La terribile e disastrosa fine del conflitto con il ritiro unilaterale degli Usa, dopo i discutibili accordi di Doha, a cui gli europei nemmeno hanno partecipato, ha mostrato come sia necessaria che l Europa abbia finalmente una politica estera comune, che possa incidere sui principali teatri geopolitici in cui invece essa è sempre più marginale.
    Questo poi può rappresentare  il viatico per la costituzione di una sorta di esercito comune, che sia in grado di intervenire nei casi di crisi come quelli recentemente accaduti in Tunisia e Libia. In assenza di ciò potenze come Turchia e Russia potranno avere buon gioco nell’allargare la loro sfera di influenza anche in zone storicamente e geograficamente di primario interesse per l Europa. Il tempo delle scelte solitarie e non condivise è ormai antistorico e improduttivo, serve una chiara e definita azione comune che dia un senso ad una Europa sempre più ai margini del nuovo ordine mondiale.

    Questo contributo è stato pubblicato nell’ambito di “Parliamo di Europa”, un progetto lanciato da
    Eunews per dare spazio, senza pregiudizi, a tutti i suoi lettori e non necessariamente riflette la
    linea editoriale della testata.

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    Migranti, Polonia dichiara stato di emergenza sul confine bielorusso. Vietato l’accesso ad attivisti e giornalisti

    Bruxelles – Con lo stato di emergenza dichiarato di ieri (2 settembre) dal presidente polacco, Andrzej Duda, si apre un nuovo capitolo della controversa vicenda della rotta bielorussa. Per i prossimi 30 giorni sarà vietato l’accesso ai non autorizzati a una striscia di terra larga tre chilometri lungo il confine orientale con la Bielorussia. Il decreto è già in vigore e, nonostante possa ancora essere impugnato dal Parlamento di Varsavia, non dovrebbe incontrare grossi ostacoli nella votazione di lunedì prossimo (6 settembre) per il via libera del Sejm, la Camera bassa.
    La decisione è senza precedenti nella storia post-comunista della Polonia ed è stata presa “in relazione a una particolare minaccia alla sicurezza dei cittadini e all’ordine pubblico, legata all’attuale situazione al confine di Stato della Polonia con la Bielorussia”, si legge nella dichiarazione ufficiale dell’ufficio del presidente della Repubblica. Si tratta del flusso migratorio irregolare di migliaia di persone verso l’Unione Europea, agevolato dal presidente bielorusso, Alexander Lukashenko, come ritorsione alle sanzioni economiche imposte da Bruxelles.
    Secondo le guardie di frontiera polacche, dall’inizio dell’anno sono stati registrati 3 mila tentativi di attraversare il confine in modo irregolare, in particolare dopo l’inizio della costruzione del muro tra Lituania e Bielorussia e i primi respingimenti operati dalle autorità di frontiera lituane. In tutto il 2020 le persone migranti fermate al confine polacco sono state 122. Per rispondere a questa crisi migratoria, Varsavia ha emulato il vicino baltico e ha iniziato la costruzione di una barriera lungo i 399 chilometri di confine.
    Operazioni di allestimento della recinzione di filo spinato sul confine tra Polonia e Bielorussia
    Con lo stato di emergenza lo scenario però cambia e mette in allarme i difensori dei diritti umani. Non è previsto solo il divieto di “soggiornare in luoghi, strutture e aree designati in orari specifici”, ma anche di “registrare con mezzi tecnici l’aspetto o altre caratteristiche di determinati luoghi, oggetti o aree”. Se non bastasse, sarà imposta la “limitazione dell’accesso alle informazioni pubbliche sulle attività svolte nell’area coperta dallo stato di emergenza”, ovvero una fascia larga tre chilometri dal confine. In questo modo, gli attivisti saranno impossibilitati a portare cibo e primo soccorso alle persone migranti, mentre ai giornalisti sarà negato il diritto di cronaca e di indagine sulla situazione alla frontiera. C’è allarme tra gli addetti ai lavori sugli episodi di pushback, i respingimenti illegali di persone con diritto alla protezione internazionale ai confini dell’Unione Europea.
    Il portavoce presidenziale, Błażej Spychalski, ha riferito che la situazione al confine è “difficile e pericolosa” e Varsavia, “essendo responsabile non solo dei confini nazionali, ma anche di quelli dell’Unione Europea”, deve prendere misure “per garantire la sicurezza della Polonia e dell’intera Unione“. Tuttavia, attivisti e parlamentari polacchi dell’opposizione al governo di Mateusz Morawiecki hanno riportato casi di respingimenti illegali alla frontiera per tutto il mese di agosto: ultimi in ordine cronologico i 30 migranti dall’Afghanistan bloccati nei pressi del villaggio di Usnarz Gorny.
    Lo stato di emergenza è stato già disposto anche nelle zone di confine con la Bielorussia in Lituania (il 7 luglio) e in Lettonia (dall’11 agosto al 10 novembre). Il governo lettone ha vietato di presentare domande per lo status di rifugiato nelle regioni dove è in vigore il decreto e tutti i migranti sono stati respinti in Bielorussia prima di poter fare richiesta per la protezione internazionale. Vilnius ha invece rigettato tutte le richieste di asilo ricevute dal primo agosto e ha adottato una strategia di respingimento sistematico: larga parte dell’opinione pubblica lituana sta avallando queste misure contrarie al diritto internazionale.

    Con l’entrata in vigore del decreto (che dovrà essere approvato dal Parlamento) per i prossimi 30 giorni è disposto il divieto di riprese e la limitazione alle informazioni in una striscia di terra larga tre chilometri lungo la frontiera. Preoccupano i respingimenti illegali operati dalla guardia di frontiera

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    Afghanistan, Borrell: “Presenza dell’UE a Kabul necessaria, ma in sicurezza”

    Bruxelles – Come impostare il dialogo con l’Afghanistan in mano ai talebani e come fare a evacuare tutte le persone che l’UE vuole e deve ancora evacuare. Su queste due questioni i ministri europei degli Esteri cercano la quadra, riuniti oggi (3 settembre) in un vertice informale di Gymnich a Kranj, in Slovenia, ospitato dall’attuale presidente di turno del Consiglio dell’UE.
    La crisi in Afghanistan irrompe nell’agenda e costringe l’alto rappresentate UE per la politica estera e di sicurezza, Josep Borrell, ad ammettere che l’UE è decisa a impostare un dialogo “operativo” e costruttivo con i talebani, con la necessità di instaurare una “presenza” congiunta dell’UE a Kabul per coordinare e monitorare le operazioni. Il dialogo sarà basato su un “impegno operativo”, spiega Borrell, che in altre parole significa che sarà finalizzato ad ottenere una serie di condizioni: Kabul non potrà essere terreno fertile per lo sviluppo o la protezione di cellule terroristiche; serviranno progressi sul rispetto diritti umani, “in particolare per le donne” (sostiene Borrell) e sullo stato di diritto e la libertà dei media; la formazione di un governo di transizione attraverso negoziati con le altre forze politiche, che consenta anche libero accesso agli aiuti umanitari. C’è poi l’ultimo impegno richiesto ai talebani sul lasciar partire persone afgane e di nazionalità straniere che sono a rischio e sono rimaste lì. Cinque condizioni che elenca Borrell in una conferenza stampa improvvisata quando il Consiglio Gymnich non è ancora finito. Ben consapevole che se queste sono le “condizioni” messe sul tavolo da Bruxelles non è scontato che i talebani abbiano la stessa idea di come saranno le future relazioni con il Continente.
    Se un dialogo “mirato” è percepito come necessario, altrettanto dovuta è la presenza europea a Kabul per coordinare le operazioni e in qualche modo monitorare che queste condizioni siano rispettate. Lo dice chiaramente Borrell, confermando una serie di indiscrezioni uscite nei giorni scorsi su una “ambasciata” europea a Kabul. Il capo della diplomazia europea non parla espressamente di ambasciata, ma di “presenza congiunta dell’Unione Europea coordinata dal Servizio europeo per l’azione esterna” di cui è al timone. Per coordinare gli sforzi di evacuazione di chi resta da evacuare, “gli Stati membri decideranno su base volontaria se accogliere le persone” ma “abbiamo deciso di lavorare in coordinamento, per coordinare i nostri contatti con i Talebani, anche attraverso una presenza congiunta dell’UE a Kabul coordinata dal Servizio europeo per l’azione esterna (Seae) se le condizioni della sicurezza sono soddisfatte”, ha precisato Borrell.

    Dialogo necessario e finalizzato “a un impegno operativo”, dice l’alto rappresentate UE, Josep Borrell, a margine della riunione Gymnich. Accordo tra i ministri degli Esteri per una presenza europea in loco per coordinare le operazioni di evacuazione, “se saranno soddisfatte le condizioni di sicurezza”

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    Afghanistan, Borrell: “L’UE deve imparare la lezione. A novembre presenteremo le nuove forze a impiego rapido”

    Bruxelles – “La crisi e l’evacuazione dall’Afghanistan hanno dimostrato che non avere un’autonomia strategica sul fronte militare ha un prezzo“. Le parole dell’alto rappresentanti UE per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, sono il riassunto di una giornata di discussioni tra i 27 ministri della Difesa europei. Dalla riunione informale di oggi (2 settembre) a Kranj, in Slovenia, è emersa la necessità di “imparare la lezione e unire le nostre forze e la nostra volontà di agire”. Tradotto: bisogna accelerare sulla preparazione delle forze europee di impiego rapido.
    “Se non fossimo stati costretti a dipendere da decisioni di altri attori, anche se alleati, avremmo potuto sviluppare la nostra strategia e le nostre azioni per l’evacuazione dall’aeroporto di Kabul”, ha sottolineato Borrell. “Abbiamo le risorse e dobbiamo metterle insieme, altrimenti non potremo mai seguire una nostra strada autonoma”. Lo strumento delineato dall’alto rappresentante è quello della Bussola strategica per la sicurezza e la difesa, che “sarà presentata e spero approvata non oltre il 16 novembre dal Consiglio Affari Esteri”.
    Da sinistra: il ministro della Difesa sloveno, Matej Tonin, e l’alto rappresentante UE, Josep Borrell (2 settembre 2021)
    Nonostante oggi in Slovenia non sia stata trovata l’unanimità sulla formazione delle forze europee di impiego rapido, sono state poste le basi per una discussione strutturata. Si tratterà di “alzare il livello di preparazione con esercitazioni militari comuni” e “implementare nuove missioni che coinvolgano circa 5 mila soldati“. Ai giornalisti che in conferenza stampa hanno chiesto spiegazioni sulle voci di una forza da 50 mila unità, l’alto rappresentante UE ha risposto che “non è mai stato nella nostra agenda, 5 mila è un numero realistico e sufficiente”.
    Per quanto riguarda la situazione in Afghanistan, Borrell ha ricordato i numeri dell’evacuazione: 17.500 persone, di cui 520 dello staff UE e relative famiglie. “Tutti i Paesi membri sono stati coinvolti, ma ora è necessario aumentare il nostro impegno a supporto dei cittadini afghani che non hanno potuto lasciare il Paese“. Persone che, ha specificato Borrell, “sono richiedenti asilo, non migranti. Dobbiamo usare le parole giuste e comportarci di conseguenza”. In questo senso si inserisce la volontà di “impegnarsi con il governo dei talebani in una discussione basata su condizioni“, vale a dire uno sforzo diplomatico per lo sviluppo dell’assistenza umanitaria e il rispetto dei diritti umani.
    Le reazioni
    A dare i dettagli sulla discussione di oggi è stato il ministro della Difesa sloveno e presidente di turno del Consiglio dell’UE, Matej Tonin: “L’iniziativa non è stata attivata perché manca l’unanimità, ma stiamo discutendo di un meccanismo a maggioranza“. Dopo un lungo stallo, l’accelerazione è stata frutto della “lezione afghana”, ha confermato Tonin: la forza di 5 mila unità “sarà composta dai Paesi membri più volenterosi, ma potrà agire a nome dell’intera Unione“. Secondo quanto spiegato dal ministro, “sarebbero le istituzioni europee a decidere quando attivare le truppe”. La presidenza di turno slovena sostiene la visione di un’Unione “che sia attore globale attraverso una difesa efficace e una diplomazia unita, non solo con un’economia forte”.

    Alla riunione dei Ministri della Difesa UE. È il momento di accelerare su autonomia strategica Europa. Epilogo impegno in #Afghanistan ci spinge ad agire su #Difesa comune e attraverso lo #StrategicCompass è necessario definire azione concreta #UE in sinergia con #NATO pic.twitter.com/lMWxfsRTeH
    — Lorenzo Guerini (@guerini_lorenzo) September 2, 2021

    Tra i favorevoli al progetto c’è l’Italia, rappresentata oggi dal ministro Lorenzo Guerini. “La crisi afghana rappresenta per l’Unione Europea un nuovo monito a compiere l’auspicato salto di qualità nella sua dimensione di difesa e nella gestione delle crisi”, ha comunicato attraverso una nota al termine dell’incontro in Slovenia. “Sono convinto che lo Strategic Compass debba essere un documento ambizioso e concreto“.
    In conferenza stampa a Roma dedicate alle misure di prevenzione del COVID, oggi il premier Mario Draghi ha anche sottolineato che “l’Unione Europea indubbiamente è stata abbastanza assente in Afghanistan, perché su certi piani non è organizzata”. Per questo motivo “c’è molto da fare”, in un momento storico in cui “si ripensano tutte le relazioni internazionali”, ha aggiunto il capo del governo. “Io non credo all’abbandono e nell’isolazionismo”.
    Anche la Germania sostiene l’idea di un rafforzamento della sicurezza e della difesa dell’UE: “Se stiamo affrontando un indebolimento permanente dell’Occidente dipende dalle conclusioni che possiamo trarre dalla pesante sconfitta in Afghanistan”, ha commentato senza mezzi termini la ministra tedesca, Annegret Kramp-Karrenbauer. “La nostra credibilità dipenderà dall’essere in grado di agire in modo più indipendente in futuro, anche e soprattutto come europei”.

    Alla riunione informale dei ministri UE della Difesa l’alto rappresentante UE ha ricordato che “non avere un’autonomia strategica sul fronte militare ha un prezzo”. Si cerca l’approvazione della Bussola strategica per la sicurezza e la difesa anche senza unanimità

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    La crisi in Afghanistan riaccende il dibattito sulla difesa comune europea

    Bruxelles – La crisi afghana è il filo rosso che lega i due appuntamenti strategici che l’Unione Europea ha in programma per questa settimana: la riunione informale dei ministri della Difesa che si terrà domani e dopodomani (1°e 2 settembre) e quella sempre informale dei ministri degli Esteri (chiamata Gymnich) che si terrà giovedì 2 e venerdì 3 settembre. Non mancherà “una discussione comprensiva” su quanto è accaduto dopo il rapido ritiro delle truppe occidentali da Kabul la scorsa settimana e su quali opzioni sono oggi sul tavolo dell’Unione Europea che si dice pronta a un dialogo necessario con i talebani, che, nel bene e nel male, faranno parte del futuro dell’Afghanistan.
    Entrambe le riunioni dei ministri europei si terranno a Kranj, in Slovenia, ospitate dall’attuale presidente di turno del Consiglio dell’UE e saranno presiedute dall’alto rappresentante UE per la politica estera e di sicurezza, Josep Borrell. La crisi in Afghanistan e gli sviluppi delle relazioni dell’UE saranno sul tavolo del vertice Gymnich, ma la discussione si interseca alla questione su come dare all’Unione Europea una difesa comune, che non significa solo un proprio contingente militare, forze armate a disposizione degli Stati membri, ma anche una comune visione strategica delle minacce dell’UE. Cosa che finora non è riuscita proprio perché gli Stati membri hanno opinioni diverse su quali siano le minacce per l’UE, ognuno con le proprie priorità strategiche.
    La riflessione innescata dalla crisi afghana farà breccia domani e dopodomani nella riunione dei ministri della Difesa, nel quadro della discussione sullo ‘Strategic compass’, la cosiddetta ‘bussola strategica’ a cui gli Stati membri stanno lavorando per orientare la rotta comune sulle minacce prioritarie alla sicurezza europea nell’arco del prossimo decennio. La crisi afghana e l’evidente disimpegno di Washington nelle dinamiche internazionali costringono a un’accelerazione della discussione e hanno riaperto a Bruxelles e dintorni il dibattito sulla necessità di rafforzare la capacità militare dell’UE e della propria autonomia strategica.
    E’ una delle lezioni dalla crisi in Afghanistan che l’UE dovrebbe imparare, ha affermato Borrell in una recente intervista al Corriere della Sera, parlando di “fallimento del mondo occidentale” ma anche di un momento spartiacque per le relazioni internazionali. Spartiacque perché costringe a una riflessione e porterà a dei cambiamenti. I lavori sulla bussola strategica “sono in corso” e si concluderanno durante il semestre di presidenza francese, presumibilmente a marzo del 2022, anche se “una prima bozza sarà disponibile già a novembre”, assicura un funzionario dell’UE che si occupa dei lavori.
    La posizione del capo della diplomazia europea è chiara: Borrell crede che i governi dell’UE debbano portare avanti una forza di reazione rapida europea per essere meglio preparati alle crisi future, come è successo in Afghanistan. La discussione va avanti da tempo: dal 2007 l’UE si è dotata di una capacità di intervento rapido per la gestione delle crisi, il cosiddetto ‘EU battle group’, che consiste in gruppi tattici o unità militari multinazionali, generalmente composte da 1.500 persone ciascuna. Come ogni decisione relativa alla politica di sicurezza e di difesa comune (PSDC) dell’UE, il loro dispiegamento però è soggetto a una decisione unanime del Consiglio e quindi non sono mai stati dispiegati perché di fatto manca l’unanimità in Consiglio su quali siano le priorità di dispiegamento. Oltre a una chiara mancanza di una cultura della difesa europea, c’è il tema dei numeri. Borrell ha proposto di portare a 5.000 unità il numero, perché l’Unione Europea “dovrebbe essere in grado di sviluppare una forza militare europea”: l’aumento della capacità è una delle possibili modifiche sul tavolo dei negoziati tra gli Stati membri, di cui vedremo una prima bozza già a novembre.
    La capitolazione di Kabul nelle mani dei talebani sarà dominante, ma non l’unico argomento all’ordine del giorno. Sul tavolo dei ministri degli Esteri ci sarà anche una discussione sull’Iran e sui rapporti di Bruxelles con la Cina, mentre al centro dei colloqui tra i ministri della Difesa ci saranno anche gli altri impegni geostrategici dell’UE (in Libia, nei Balcani Occidentali e in Mozambico, per citare qualche priorità indicata da funzionari europei) e infine uno scambio di vedute con la NATO e l’ONU sulle future “aree comuni” di interesse strategico.

    Il futuro delle relazioni dell’UE con Kabul in mano ai talebani e il rafforzamento dell’autonomia strategica del Continente irrompono nell’agenda della riunione informale dei ministri europei della Difesa (1° e 2 settembre) e dei ministri degli Esteri Gymnich (2 e 3 settembre). Per il capo della diplomazia europea non c’è dubbio che sia arrivato il tempo di dotarsi di una propria forza militare comune