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    L’UE trova l’intesa sul quinto pacchetto di sanzioni contro la Bielorussia di Lukashenko

    Bruxelles – L’intesa c’è, ora si attende l’entrata in vigore. I ventisette ministri UE degli Affari esteri hanno raggiunto oggi (lunedì 15 novembre) “un’intesa politica” sul quinto pacchetto di sanzioni contro la Bielorussia. Ad annunciarlo è stato l’alto rappresentante UE per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, nel corso della conferenza stampa al termine della prima giornata di Consiglio Affari Esteri a Bruxelles: “I nomi inseriti nel nuovo pacchetto di misure restrittive saranno comunicati nei prossimi giorni“.
    Non è ancora ufficiale, ma l’entrata in vigore della quinta tornata di sanzioni UE contro la Bielorussia è solo una questione di ore. Dopo la decisione di ampliare il regime di misure restrittive per includere la strumentalizzazione delle persone migranti alla frontiera, rimane solo da scoprire chi è incluso nel “grande numero di persone, istituzioni e imprese che contribuiscono all’organizzazione di voli verso Minsk e di lì verso i confini dell’Unione”, come anticipato da Borrell. “Studiamo tutte le opzioni possibili per bloccare il regime di Lukashenko, che continua a commettere crimini anche contro la sua popolazione” e che “minaccia l’UE con un’aggressione ibrida”, ha aggiunto l’alto rappresentante.
    L’alto rappresentante UE per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell
    Borrell ha aggiornato il Consiglio sulla conversazione telefonica avuta ieri (domenica 14 novembre) con il ministro degli Esteri bielorusso, Vladimir Makei, in cui ha intimato la “fine delle violazioni dei diritti umani nei confronti di persone migranti vulnerabili”. Stando alle parole dell’alto rappresentante UE, da Minsk è arrivata una risposta positiva per l’accesso al territorio bielorusso alle agenzie ONU e per il sostegno agli aiuti umanitari lungo la frontiera, “ma ha declinato tutte le responsabilità sulla presenza dei migranti in quei territori”, ha spiegato Borrell.
    Per Bruxelles “la colpa di quello che sta accadendo è bielorussa al cento per cento”, dal momento in cui “la crisi è stata creata in modo artificiale“. La strada verso l’UE “non passa dalla Bielorussia” e “le frontiere comunitarie sono aperte solo nei valichi di confine, con il rispetto delle procedure legali sulle richieste di protezione internazionale”, ha ricordato Borrell. L’alto rappresentante UE ha voluto però sottolineare che “le persone migranti non possono essere prese in giro e trasformate in un obiettivo politico, è una pratica disumana” e per questo motivo dovrà essere bloccato il flusso dai Paesi d’origine verso la Minsk attraverso “un intenso lavoro diplomatico con i nostri partner”.
    Tra questi non c’è la Russia di Vladimir Putin, accusata invece dai Ventisette di essere coinvolta in modo più o meno diretto nella crisi: “Anche se afferma di non c’entrare niente, sappiamo bene che Lukashenko non potrebbe fare tutto questo senza un forte supporto di Mosca“, ha accusato Borrell. Per quanto riguarda invece le sanzioni UE contro la Bielorussia, “le toglieremo solo quando saranno rispettati i diritti umani” dei cittadini bielorussi e stranieri.
    Gli altri temi sul tavolo
    Oltre alla questione delle sanzioni contro la Bielorussia di Lukashenko, sempre sul fronte orientale i ministri degli Esteri UE si sono confrontati con i leader dei Paesi del Partenariato Orientale. A causa della decisione di Minsk di ritirarsi lo scorso 28 giugno, “la Bielorussia non è stata invitata, ma abbiamo lasciato una sedia vuota con un cartello per il popolo bielorusso”, ha spiegato Borrell. “Abbiamo ribadito il nostro forte impegno nella regione”, in particolare seguendo la situazione lungo le frontiere orientali dell’Ucraina: “Ci sono movimenti preoccupanti di soldati, ma l’Unione sostiene la sovranità e l’integrità territoriale del Paese“, ha assicurato Borrell, che ha anche ricordato i rapporti da stringere secondo la nuova agenda UE-Ucraina, “in attesa del vertice del prossimo mese”.
    L’alto rappresentante UE per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell
    In attesa della discussione sulla Bussola strategica per la sicurezza e la difesa nel corso della cena di lavoro, i ministri degli Esteri si sono confrontati “a lungo” sulla situazione nei Balcani: “Vogliamo coinvolgerli di più nelle discussioni di politica estera e di sicurezza informatica, associandoli più strettamente al Consiglio Affari Esteri”, ha spiegato l’alto rappresentante Borrell. Se da parte della Commissione “è necessario organizzare le conferenze intergovernative per l’adesione di Albania e Macedonia del Nord anche prima della fine della presidenza slovena del Consiglio dell’UE, per evitare un impatto negativo di visibilità dell’Unione nella regione”, preoccupa altrettanto la crisi in Bosnia ed Erzegovina.
    Borrell ha puntato il dito contro “alcuni leader politici nazionali che hanno sfruttato una retorica divisiva per portare avanti l’ostruzionismo alle riforme nell’anno non-elettorale” (in Bosnia si alternano ogni due anni le elezioni parlamentari e quelle amministrative). Il primo accusato è il membro serbo-bosniaco della Presidenza tripartita, Milorad Dodik, che ha minacciato di portare la Republika Srpska (l’entità serba) fuori dal controllo delle autorità centrali: “La situazione è grave e ogni tentativo di creare nuovi Stati è una fonte di problemi“, ha sottolineato con forza Borrell che, nel ribadire la “prospettiva europea della Bosnia”, ha specificato l’obbligo che il Paese rimanga “unito e sovrano”.
    Trovi un ulteriore approfondimento nella newsletter BarBalcani, curata da Federico Baccini

    Il Consiglio Affari Esteri ha stilato una nuova lista di persone ed entità da sanzionare per la strumentalizzazione dei migranti alle frontiere dell’Unione: “Entrerà in vigore nei prossimi giorni”, ha assicurato l’alto rappresentante Borrell

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    COP26: il carbone frena le ambizioni di Glasgow, accordo sul clima al ribasso. L’UE: “Il lavoro non è finito”

    Bruxelles – Due settimane di negoziati intensi per arrivare a un accordo che va indiscutibilmente nella giusta direzione, ma non entusiasma proprio tutti. La Conferenza sul clima delle Nazioni Unite (COP26) si è chiusa sabato sera (13 novembre) con la firma di un Patto per il clima di Glasgow, in cui gli oltre 190 Paesi partecipanti si sono impegnati a rafforzare i propri obiettivi di riduzione delle emissioni al 2030 e a rivederli ogni anno a partire dal 2022 per “mantenere vivo” l’obiettivo di circoscrivere la temperatura globale entro i 1,5°C, in linea con quanto prescritto ormai sei anni fa dagli accordi di Parigi.
    Oggi le stime degli esperti parlano di una rotta globale che porterebbe a una temperatura compresa tra 1,8°C e 2,4°C, per questo nelle conclusioni i Paesi si sono impegnati a rivedere ogni anno (e non più ogni cinque, come accade ora) le loro traiettorie con un nuovo processo di revisione, per mantenersi sulla buona strada per 1,5°C di riscaldamento. Il tassello più rivoluzionario e allo stesso tempo più deludente per il mondo ambientalista dell’accordo di Glasgow è però il riferimento al carbone, tra i combustibili fossili il più inquinante e responsabile di circa il 40 per cento delle emissioni di CO2.
    L’accordo di Glasgow è considerato positivo a metà perché per la prima volta in un patto internazionale sul clima delle Nazioni Unite i Paesi si impegnano a “ridurre gradualmente” la parte di loro energia prodotta dal carbone, ma il testo finale è stato in parte annacquato all’ultimo quando l’India, sostenuta dalla Cina e da altri Paesi in via di sviluppo più dipendenti dal carbone, si è opposta alla dicitura “eliminazione graduale”, spingendo per sostituirla con un impegno più tiepido a “ridurre gradualmente” (“phase down”) il loro uso di energia prodotta da carbone. Il compromesso sul carbone è un netto passo avanti in termini di impegni rispetto a quanto le grandi potenze globali erano riuscite a ottenere, anche nel quadro dei negoziati G20, ma manca anche di un chiaro riferimento temporale a quando l’impegno dovrebbe attuarsi.
    Alok Sharma
    Ai Paesi è servito un giorno in più per chiudere l’accordo, facendo concludere il vertice sabato invece che venerdì. Il presidente della COP26, il britannico Alok Sharma, si è detto “profondamente dispiaciuto” per come si sono conclusi gli eventi, ma era necessario preservare l’accordo nel suo insieme e dunque arrivare a un compromesso con quelle economie che non si ritengono pronte ad abbandonare completamente l’uso del carbone per produrre energia. “I testi approvati sono un compromesso. Riflettono gli interessi, le condizioni, le contraddizioni e lo stato della volontà politica nel mondo di oggi”, ha ammesso anche Antonio Guterres, Segretario generale delle Nazioni Unite al termine della COP. “Fanno passi importanti, ma purtroppo la volontà politica collettiva non è bastata a superare alcune profonde contraddizioni”.
    Passi avanti si sono registrati sulla finanza climatica, ovvero il tentativo di ridurre il divario finanziario tra Paesi ricchi e poveri per la lotta ai cambiamenti climatici e anche l’adattamento ad essi (ad esempio la costruzione di infrastrutture protettive). Tutti i Paesi sviluppati si sono impegnati a raddoppiare la quota collettiva dei finanziamenti per l’adattamento entro il 2025 e a raggiungere l’obiettivo di 100 miliardi di dollari ai Paesi poveri “il prima possibile”. Le stime presentate proprio in occasione della COP26 dicono che l’impegno per 100 miliardi non sarà raggiungibile prima del 2023, con circa 3 anni di ritardo sulla tabella di marcia.
    In ultimo, ma non da meno, dopo due tentativi falliti alle precedenti COP di Katowice e Madrid, i Paesi hanno concluso un accordo sul regolamento dell’accordo di Parigi, compreso l’insieme delle regole (l’articolo 6 rimasto incompleto) che disciplina i mercati globali del carbonio e sugli obblighi di trasparenza e rendicontazione delle emissioni di CO2.
    Le reazioni europee
    Ursula von der Leyen
    L’Unione Europea – tra le potenze partecipanti più ambiziose in termini climatici – è contenta a metà di quanto raggiunto a Glasgow dopo due intense settimane di negoziati. “La COP26 è un passo nella giusta direzione. I 1,5 gradi Celsius rimangono a portata di mano; ma il lavoro è tutt’altro che finito”, riassume la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, in una nota che fa seguito alla sigla del patto climatico. “Il minimo che possiamo fare ora è attuare le promesse di Glasgow il più rapidamente possibile e poi puntare più in alto”, aggiunge, dando appuntamento a tutti alla prossima COP che si terrà in Egitto nel 2022. L’augurio che “ci metta saldamente sulla buona strada per i1,5 gradi”.
    Pur non essendo un accordo perfetto, “mantiene vivo l’obiettivo di limitare il riscaldamento globale a 1,5 gradi. Ora, le promesse devono essere mantenute e gli impegni consegnati rapidamente. La lotta al cambiamento climatico non può subire ulteriori ritardi”, ha ammonito in un tweet il presidente dell’Europarlamento, David Sassoli.

    Although not perfect, #COP26 Glasgow keeps the goal of limiting global warming to 1.5 degrees alive. Now, promises must be kept and commitments delivered on quickly. The fight against climate change cannot suffer any further delay.
    — David Sassoli (@EP_President) November 14, 2021

    Presente a Glasgow nella seconda settimana di lavori (8-12 novembre) anche una delegazione di eurodeputati. Per il francese Pascal Canfin (Renew Europe) – capo delegazione e presidente della commissione Ambiente (ENVI) – “l’accordo alla COP26 presenta alcuni buoni passi avanti sull’obiettivo di raccogliere 100 miliardi di dollari per i paesi in via di sviluppo vulnerabili e la coalizione per fermare il finanziamento pubblico di nuovi progetti di combustibili fossili all’estero. Tuttavia, dobbiamo ammettere che l’accordo si basa sul minimo comune denominatore. La priorità ora per tutti i più grandi emettitori è quella di condividere tabelle di marcia concrete e credibili verso emissioni nette zero”.
    Gli impegni collaterali alla COP26
    A margine delle discussioni vere e proprie della COP26, si sono tenute varie riunioni collaterali che hanno portato ad alleanze o impegni all’unanimità tra gruppi ristretti di Paesi. La COP26 si è aperta con un impegno di oltre 100 Paesi a fermare la deforestazione entro il 2030, compresi quelli come Brasile, Canada, Colombia e Russia che contano l’85 per cento delle aree forestali del mondo. Molti critici mettono in evidenza che l’impegno non è vincolante e che questa promessa era già stata fatta nel 2014 e gli obiettivi per il 2020 di ridurre il tasso di deforestazione al 50 per cento sono stati mancati con un enorme margine di difetto.
    Venticinque Paesi – compresa l’Italia – si sono impegnati poi a porre fine al finanziamento diretto internazionale con fondi pubblici per i sussidi ai fossili entro il 2022 e 103 Paesi hanno sottoscritto il Global Methane Pledge, l’alleanza lanciata da USA e UE per ridurre le emissioni globali di metano del 30 per cento entro il 2030. Segnali positivi (anche se poco concreti) di un avvicinamento tra Cina e USA, che hanno siglato un accordo per lavorare insieme sulla questione climatica. Nulla di molto concreto, ma è un segnale positivo che i due maggiori emettitori al mondo (rispettivamente il 31 e il 14 per cento delle emissioni al mondo) abbiano intenzione di discutere di prima, nonostante i loro rapporti diplomatici tesi.

    Luci e ombre di un compromesso che va senza dubbio nella giusta direzione, ma che in molti si aspettavano più ambizioso. Von der Leyen: “Il minimo ora è attuare le promesse di Glasgow il più rapidamente possibile e puntare più in alto”

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    Kabul e gli errori dell’occidente: ora non abbandonare gli afgani. L’Europa al bivio di una difesa comune

    Roma – Non abbandonare Kabul, non lasciare che l’Afghanistan precipiti verso la catastrofe umanitaria che ancora si può evitare. L’Europa, la Nato, la difesa UE e gli errori compiuti dall’occidente in questi 20 anni. Riflessioni di protagonisti, esperti, giornalisti e politici che la Rappresentanza della Commissione europea in Italia ha fatto incontrare per comprendere meglio il contesto in cui è avvenuto il ritiro dal Paese ora in mano ai Talebani.
    “Quel giorno di agosto l’UE non c’era” ha ricordato Marco Minniti, ex ministro ed esperto di questioni internazionali, “senza un sistema di protezione autonoma e di difesa, l’Europa non esiste”. Una considerazione che dall’aeroporto di Kabul può essere facilmente trasposta nel Mediterraneo nell’affrontare l’acutissima crisi libica. “Tripoli assediata si è rivolta alla Turchia” afferma Minniti che avverte sui pericoli dell’immobilismo in questo frangente. Difficile dar torto ma la difesa europea ha molti ostacoli davanti a sé, lo spiega bene Antonio Parenti, capo della Rappresentanza italiana ricordando i limiti dell’unanimismo, I’incapacità dei Paesi membri di essere uniti pure davanti alle emergenze. Davanti a certe scelte la cooperazione rafforzata è una strada seppure difficile, l’unica da percorrere, perché “ogni giorno che lasciamo passare perdiamo terreno nella lotta contro le autocrazie”. Nel dibattito entrano a pieno titolo Russia e Cina, gli attori che l’Europa sta soffrendo maggiormente nel gioco dei pesi a livello internazionale.
    Non basta la Nato anche se l’ambasciatore a Stefano Pontecorvo ne difende il ruolo, le prerogative e la buona organizzazione nella catena di comando. L’evacuazione da Kabul da parte italiana ha funzionato molto bene “abbiamo salvato tutti i collaboratori, quelli che rischiavano la vendetta talebana e lasciamo indietro una società migliore di quella che avevamo trovato”.
    Tutto vero ma non basta a giustificare gli errori, il fallimento della “Nation building”, ricorda il giornalista Amedeo Ricucci che non ha timori nel definire in “20 anni di occupazione” la presenza occidentale in Afghanistan. Racconta dell’esercito fantasma, “che abbiamo visto liquefarsi da un giorno all’altro. Lo sapevano tutti che i talebani non erano sconfitti e che tutto sarebbe collassato.  Un ritiro precipitoso, nonostante tutto fosse già scritto da oltre un anno: l’annuncio di Obama e poi la decisione definitiva di Trump, e ancora una partita lasciata tutta nelle mani dei militari uno dei drammatici errori.
    Una piena responsabilità che non consente di avere titubanza nell’affrontare l’emergenza umanitaria. Una catastrofe ancora evitabile, “trasformando gli impegni finanziari in azioni concrete utilizzando la rete di ONG ancora diffusa”, sostiene l’ambasciatore Pontecorvo. Per il sottosegretario alla Difesa Giorgio Mulè “abbiamo il dovere di attivare i corridoi umanitari” ma insieme a questa via diplomatica “nessun riconoscimento a un regime che non ha nulla di democratico”.  A incalzare la politica e i piani alti di Bruxelles è ancora Minniti che allarga il campo al ruolo che l’UE dovrebbe conquistarsi nello scacchiere mondiale: “Se aspetta l’unanimità tra poco questa partita non sarà più giocabile”.

    Esperti e protaginisti a confronto sul futuro di uno Stato ripiombato nel fondamentalismo. Minniti: “Lo scacco all’occidente” ma ora l’UE sulla difesa comune non può più restare ferma. La cooperazione rafforzata come unica strada percorribile per superare le divergenze degli Stati membri

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    Lukashenko minaccia l’UE: “Niente sanzioni oppure stop al gas”

    Bruxelles – “Noi riscaldiamo l’Europa e ora loro ci minacciano con la chiusura del confine. Cosa accadrebbe se bloccassimo il transito di gas naturale?”.  Aljaksandr Lukashneko torna ad attaccare l’UE in merito alla crisi dei migranti che in questi giorni ha scaldato la frontiera tra Polonia e Bielorussia.
    La minaccia del presidente bielorusso segue le notizie sul quinto pacchetto di sanzioni – ora confermate da fonti della Commissione europea – che i Paesi UE stanno discutendo. La Commissione ha ribadito che “le sanzioni sono solo uno degli strumenti che l’Unione ha a disposizione” e che una decisione in merito da parte degli Stati membri arriverà a breve.
    Non si conoscono con certezza i settori che potrebbero essere colpiti da eventuali sanzioni. Per il momento è possibile che ad essere interessate saranno quelle compagnie aeree colpevoli di trasportare illegalmente migranti dal Medio Oriente alla Bielorussia, dove vengono utilizzati per mettere sotto pressione le frontiere polacche e lituane. Anche in questo caso la Commissione non si è ancora espressa ma ha confermato di essere in contatto con le principali compagnie aeree per portare avanti delle indagini.
    Paolo Gentiloni, commissario europeo all’Economia, ha risposto che “non dovremmo sentirci intimiditi dalle minacce della Bielorussia”. Posizione ribadita dalla Commissione, che giudica il taglio alla fornitura di gas come “uno scenario estremamente ipotetico”, che “danneggerebbe in primis la Bielorussia”.
    Lukashenko minaccia l’UE, ma gli serve il permesso di Putin
    Il gas che attraversa il Paese per arrivare in Polonia, e da lì arriva in Europa, scorre attraverso il gasdotto Yamal che nel suo tratto bielorusso è di esclusiva competenza di Gazprom – la controllata statale russa. Anche la materia prima proviene esclusivamente dalla Federazione, che lo estrae principalmente nel mare di Kara.
    Interrompere le forniture significherebbe, come riferito dalla Commissione, “danneggiare i fornitori” e dunque la Russia, unico alleato di Lukashenko e partner insostituibile per preservare la stabilità del regime bielorusso.
    Per tagliare l’approvvigionamento di gas, Minsk dovrebbe innanzitutto avere il via libera da Mosca. Il consenso del Cremlino, tuttavia, trascinerebbe la Russia in una vicenda a cui vorrebbe rimanere estranea (almeno a livello ufficiale) – posizione che il presidente Vladimir Putin ha fatto intendere anche durante una recente telefonata con Angela Merkel.

    Il Presidente della Bielorussia risponde all’Unione europea, che in questi giorni pensa all’emissione di un quinto pacchetto di sanzioni contro il governo di Minsk per l’utilizzo come arma dei migranti. Adesso Lukashenko minaccia di interrompere il flusso dei gasdotti russi che, passando attraverso il Paese, riscaldano gli Stati europei

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    Merkel chiama Putin: “Intervieni sul comportamento disumano della Bielorussia”

    Bruxelles – “La Cancelliera ha telefonato al presidente Putin per discutere della situazione al confine tra Bielorussia e Polonia“. Lo annuncia su Twitter il portavoce di Angela Merkel, Steffen Seibert. Il Cremlino ha precisato che che si è trattato di “un’iniziativa della Germania”.
    Secondo Seibert, Merkel “ha sottolineato che la strumentalizzazione dei migranti attraverso il regime bielorusso è disumana e inaccettabile e ha pregato il presidente Putin di intervenire”. Di seguito la cancelliera avrebbe chiesto al presidente russo di utilizzare la propria influenza per dissuadere il governo di Minsk dal proseguire quello che per l’UE è un “attacco asimmetrico”.
    Da Mosca è arrivata una risposta tiepida. Se infatti Putin ha acconsentito “a continuare i colloqui su questo tema”, non sono stati presi impegni di sorta per porre un freno alla crisi. Quanto emerge dalle dichiarazioni è che per l’inquilino del Cremlino si tratta di un problema tra l’Unione europea e la Bielorussia, che non tocca direttamente la Russia.
    Nel corso della telefonata con Angela Merkel, Putin ha suggerito di risolvere la questione “attraverso un colloquio diretto tra gli Stati membri dell’UE e Minsk”, affermando che la Russia avrebbe fatto il possibile per mettere in contatto le due parti in causa – ma senza intervenire in prima persona.
    Merkel ha poi ringraziato pubblicamente i Paesi “che sono preoccupati per la protezione delle frontiere esterne dell’Unione europea, Lituania, Lettonia e Polonia”, lasciando intendere un supporto tedesco alle istanze degli Stati che stanno gestendo direttamente i flussi migratori orchestrati dal regime bielorusso.

    Per la Cancelliera la “strumentalizzazione dei migranti attraverso il regime bielorusso è un comportamento disumano e inaccettabile”, ma Vladimir Putin invita gli Europei a parlare direttamente con Minsk

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    Grandi (UNHCR) al Parlamento europeo: “Sui migranti l’UE ha fatto molto, ma ora deve fare di meglio”

    Bruxelles – Per i 70 anni dalla Convenzione di Ginevra, l’Alto Commissario ONU per i rifugiati Filippo Grandi è intervenuto in apertura della plenaria del Parlamento Europeo. Grandi ha ricordato che “nessuno sceglie di essere un rifugiato”, ma oggi sempre più persone sono costrette a fuggire da Paesi afflitti da condizioni di disagio estreme.
    Il Commissario ha ribadito l’impegno dell’UNHCR “per proteggere i rifugiati, operando sul campo in più di 130 Paesi del mondo”. Un impegno, quello della solidarietà, che Grandi ha chiesto di potenziare e rinnovare a tutti i membri dell’Unione europea: “L’Europa oggi fa già molto, ma ora serve una leadership politica che prevenga le cause”.
    Nel corso dell’intervento è stato tracciato un rapido quadro della situazione dei rifugiati oggi. “Circa il 90 per cento dei rifugiati provengono da Paesi a basso o medio reddito”, ha ricordato Grandi, per poi soffermarsi su alcune situazioni in particolare: “In Libano praticamente un abitante su cinque è un rifugiato, nel caso della Colombia invece stiamo parlando di circa 1,7 milioni di rifugiati venezuelani ospitati sul territorio”.
    Grandi ha poi sottolineato come il cambiamento climatico abbia esasperato situazioni vecchie e nuove: “Nel Sahel il peggioramento delle condizioni climatiche ha prodotto una scarsità di risorse che rischia di distruggere la coesione sociale e dare spazio a nuove migrazioni di massa”.
    Le migrazioni sono oggi una sfida globale, che richiedono una risposta coordinata. Per Grandi il primo passo è “aiutare i Paesi in via di sviluppo per prevenire i movimenti forzati”, ma non solo. Molte delle persone costrette a fuggire sognano un giorno di tornare in patria, ma non possono per problemi di sicurezza o mancanza di servizi. Per l’UNHCR “rimuovere gli ostacoli che impediscono il rientro” è oggi uno dei punti fondamentali per migliorare la condizione di milioni di persone costrette alla fuga.
    In chiusura il Commissario ha ribadito che “le sfide delle migrazioni non possono giustificare i muri, i pestaggi e i respingimenti dei migranti”, con una chiara allusione alla situazione di tensione al confine tra Polonia e Bielorussia. Per Grandi l’UE dovrebbe “fare di meglio” per rispettare lo Stato di diritto e aiutare i Paesi che gestiscono i flussi migratori in prima persona.
    In questo senso il Patto per le migrazioni e l’asilo proposto dalla Commissione europea ha sollevato l’apprezzamento di Grandi, che lo ha definito “un primo passo per fornire ai membri dell’UE un quadro per la gestione dei flussi migratori”.

    L’Alto commissario ONU per i rifugiati è intervenuto in apertura della plenaria dell’Europarlamento in occasione dei 70 anni della Convenzione di Ginevra per i rifugiati, tracciando una serie di punti per la gestione globale delle migrazioni

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    Il ricatto dei migranti

    Dopo Erdogan in Turchia, che da tempo usa i migranti ammassati al suo confine per ricattare l’Europa, e la Libia che si serve dei disperati che arrivano li dopo una estenuante traversata del  deserto per cercare la fuga dai loro paesi di origini, ora ci si mette anche Alexander Lukashenko che dalla Bielorussia forza centinaia di migranti ad ammassarsi ai confini con la Polonia, scatenando una dura reazione del governo di Varsavia.
    Dall’inizio dell’anno, secondo fonti Ue, circa 8 mila migranti sono arrivati in Europa dalla sua Repubblica assolutista, molto  vicina alla Russia di Putin, che sarebbe secondo alcuni uno dei veri  manovratori di questa ardita mossa della Bielorussia, da tempo in aperta polemica con l’Unione europea, che non perde occasione per accusarlo per i suoi comportamenti non proprio democratici.
    In Bielorussia il flusso migratorio è stato creato ad arte, con un ponte aereo. Quella del leader bielorusso sembra una strategia studiata a tavolino, proprio per utilizzare la leva dei migranti come arma di ricatto contro l’Europa. Da mesi in Turchia, Siria, Emirati Arabi, Azerbaigian e forse anche qualche Paese dell’Africa, le ambasciate bielorusse offrono visti turistici a chi è disposto a pagare una fortuna per una finta vacanza nelle steppe: 10/12mila euro. Il governo ha anche ridotto il numero di agenzie turistiche autorizzate, in sostanza Lukashenko starebbe lucrando sui viaggi come un qualsiasi trafficante di uomini. La promessa è di un facile passaggio verso la tanto agognata Europa.
    L’Unione sta pensando a prendere dure contromisure, come quella di impedire  ai voli delle compagnie aeree che trasportano i migranti dai Paesi africani e dal Medio Oriente verso Minsk, capitale bielorussa. E si stanno valutando anche possibili sanzioni economiche che potrebbero persino arrivare al divieto di sorvolare lo spazio aereo europeo per una ventina di compagnie.
    La situazione è resa ancora più delicata dal rapporto conflittuale, del quale anche i migranti rischiano di diventare vittime, instauratosi fra la Commissione europea e il governo polacco, che vorrebbe che la Ue finanziasse la costruzione di un muro ai suoi confini. Il premier Morawiecki ieri è andato a visitare le truppe al confine ed ha ribadito senza messi termini la assoluta urgenza  di prendere adeguate contromisure contro questo rischio: “Chiudere il confine polacco è nostro interesse nazionale. Ma oggi è in gioco la stabilità e la sicurezza di tutta l’UE”.
    Questo episodio mette ancora una volta l’Europa di fronte alle sue responsabilità verso una questione come quella degli immigrati, a cui non è riuscita ancora a a dare risposte adeguate e risolutive, se non quella di farsi ricattare dal dittatore di turno, oppure lasciare i Paesi di primo approdo come Italia, Grecia e Spagna da soli ad affrontare l’emergenza. E alle porte si affaccia l’ennesima emergenza dei profughi afghani, che Erdogan, Lukashenko e Putin stesso sfruttare per mettere in difficoltà un’Unione europea sempre più debole e disunita di fronte ad un problema che la riguarderà  sempre più da vicino.
    Continuando a mantenere questo atteggiamento ondivago da parte delle autorità europee, non si potrà non riconoscere che rispetto allo status quo e al cedere ai ricatti, sia forse meglio quello di prendere iniziative autonome da parte dei singoli Stati, magari non ortodosse come quelle di Polonia ed Ungheria che propongono la costruzione di muri alle frontiere o quelle di chi come Giorgia Meloni in Italia è per il blocco navale al largo delle coste libiche. Perché anche su questo tema a prevalere sembrano essere più gli interessi di parte che quelli della intera comunità.

    Questo contributo è stato pubblicato nell’ambito di “Parliamo di Europa”, un progetto lanciato da
    Eunews per dare spazio, senza pregiudizi, a tutti i suoi lettori e non necessariamente riflette la
    linea editoriale della testata.

    In Bielorussia il flusso migratorio è stato creato ad arte, con un ponte aereo. Quella del leader bielorusso sembra una strategia studiata a tavolino, proprio per utilizzare la leva dei migranti come arma contro l’Europa

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    Accordo tra Italia e Grecia: fissati i confini marittimi, potenziata la cooperazione tra Roma e Atene

    Bruxelles – L’incontro alla Farnesina trai ministri degli Esteri di Italia Grecia ha visto lo scambio degli strumenti di ratifica dell’accordo sui confini marittimi dei due Paesi. Nikos Dendias, in una lettera indirizzata all’omologo italiano Luigi di Maio, ha parlato di “un atto simbolico di eccezionale importanza”.
    L’accordo tra Italia e Grecia e la ZEE
    Un’intesa era stata già trovata nel giugno del 2020, poi pubblicata in Gazzetta ufficiale nel 2021. Adesso l’accordo diventa realtà anche sul piano internazionale. I confini marittimi ricalcano quelli disegnati già nel 1977. All’epoca però non erano state definite le specificità funzionali delle zone disegnate. Adesso Atene e Roma si sono accordate per delimitare le rispettive Zone economiche esclusive (ZEE). 
    Si tratta della prima ZEE formalmente dichiarata dall’Italia. Fino al 2020 la Penisola era uno dei pochi Paesi Mediterranei a non aver esteso il proprio diritto esclusivo su un braccio di mare oltre le 12 miglia di acque territoriali. Tutt’oggi i confini marittimi e di sfruttamento delle risorse italiani sono fonte di controversie con Malta, Algeria e Tunisia, non esistendo una zona definita nel Canale di Sicilia e al largo delle coste sarde.
    Luigi di Maio auspica che l’accordo odierno possa “rappresentare un modello per il futuro”. Le ZEE sono in genere proclamate tramite decisioni unilaterali, ma solo l’accordo con i Paesi confinanti assicura che le delimitazioni vengano realmente rispettate. Un approccio simile a quello tenuto con la Grecia potrebbe ad esempio essere replicato con le nazioni sull’altro lato dell’Adriatico, con cui Roma ha in generale buoni rapporti.

    Non solo confini marittimi
    Ma i ministri non hanno discusso solo di confini marittimi. Come ha dichiarato di Maio, Italia e Grecia hanno affrontato una serie di dossier che spaziano dal “rafforzare il ruolo di hub energetici in Europa” alla “collaborazione sui temi europei, in particolare sulla necessità di un accordo sulle migrazioni”. L’incontro ha confermato che le due diplomazie sono d’accordo per una soluzione promossa dall’UE per evitare l’instabilità nei Balcani occidentali.
    Sul tavolo anche la Libia. Dendias ha ribadito la sua fiducia nella Conferenza internazionale sul futuro del Paese che inizierà a Parigi il 12 novembre. Lo scopo fondamentale per il ministro greco è quello di “favorire l’uscita dei mercenari dal Paese”, insieme a “un impegno di lungo periodo per ricostruire lo Stato”.
    Stando alle dichiarazioni dei funzionari del governo italiano l’accordo è solo una questione tra Roma ed Atene. Ma la lettera scritta dal ministro degli Esteri greco è indirizzata anche ad un altro interlocutore, la Turchia. Nel documento Dendias fa riferimento alle continue “violazioni del diritto internazionale” operate dalla marina turca nel Mediterraneo orientale e alla “ricerca di un casus belli” contro la Grecia.
    Dichiarazioni che fanno pensare che l’accordo con l’Italia, almeno per la Grecia, è una risposta all’intesa che Erdogan ha raggiunto con il governo dell’ex premier libico al-Sarraj nel 2019, per la creazione di un corridoio economico esclusivo tra Turchia e Libia. Questa delimitazione comprende anche alcuni tratti di mare a largo dell’isola di Creta che Atene rivendica come di propria competenza.

    L’accordo sulla delimitazione dei confini marittimi era stato firmato nel giugno del 2020 e riprendeva i confini di un’intesa siglata già nel 1977, ma negli ultimi 45 anni non erano ancora state individuate le rispettive zone di giurisdizione funzionale