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    L’Unione Europea e la Nuova Zelanda hanno trovato un accordo per il libero scambio commerciale

    Bruxelles – Si stringono i rapporti tra i due estremi del globo. Sulla base di un commercio bilaterale da 7,8 miliardi di euro all’anno per le merci e da 3,7 miliardi per i servizi – con esportazioni per 5,5 miliardi e importazioni da 2,3 miliardi per Bruxelles – UE e Nuova Zelanda hanno trovato oggi (giovedì 30 giugno) un’intesa commerciale di libero scambio che copre settori come l’agricoltura, il tessile, il digitale, l’energia e, per la prima volta, l’ambiente. Un accordo “solido e moderno” che “rappresenterà un’occasione per i nostri consumatori e agricoltori”, ha voluto sottolineare la presidente della Commissione UE, Ursula von der Leyen, nel corso della conferenza stampa congiunta con la premier della Nuova Zelanda, Jacinda Ardern. O, come ha ricordato il vicepresidente esecutivo dell’esecutivo comunitario, Valdis Dombrovskis, “il primo del suo genere a prevedere sanzioni in caso di violazione sostanziale dell’Accordo sul clima di Parigi”.
    La firma dell’accordo di libero scambio tra UE e Nuova Zelanda (30 giugno 2022)
    Secondo i negoziati portati avanti negli ultimi quattro anni, dal giorno dell’entrata in vigore dell’accordo (che dovrà essere prima siglato dal Consiglio e approvato dal Parlamento UE, con la contemporanea ratifica a Wellington), saranno eliminati i dazi su tutte le esportazioni di merci e prodotti industriali e alimentari dai Paesi membri UE verso la Nuova Zelanda, mentre l’Unione eliminerà “o ridurrà sostanzialmente” i dazi sulla maggior parte delle merci neozelandesi, si legge nel testo dell’intesa. Per esempio, il governo di Wellington rinuncerà a tariffe fino al 10 per cento applicate attualmente al settore automobilistico e tessile, o del 5 per cento a quelli chimico, farmaceutico e alimentare.
    Proprio per quanto riguarda quest’ultimo punto, le due parti “collaboreranno per rafforzare le politiche e definire programmi che contribuiscano allo sviluppo di sistemi alimentari sostenibili, inclusivi, sani e resilienti“, anche grazie al fatto che a beneficiare maggiormente dell’accordo saranno “gli agricoltori da entrambe le parti, anche oltre il taglio ai dazi commerciali” su cibo e fertilizzanti, ha specificato la presidente von der Leyen. In questo senso va letta la “crescita dell’80 per cento degli investimenti”, ma anche la tutela delle oltre 200 indicazioni geografiche protette dell’UE. Saranno inclusi “l’intero elenco dei vini e degli alcolici” (tra cui il Prosecco) e “le più rinomate indicazioni geografiche alimentari” (come il formaggio Asiago). Nel capitolo sul regime di protezione che sarà applicato dalla controparte neozelandese si legge che “sarà illegale la vendita di imitazioni” – come il divieto dell’uso di un termine IG “per prodotti non genuini”, o espressioni come ‘genere’, ‘tipo’, ‘stile’, ‘imitazione’ – e l’uso “ingannevole” di simboli, bandiere o immagini che suggeriscono una falsa origine geografica.
    La presidente della Commissione UE, Ursula von der Leyen, e la premier della Nuova Zelanda, Jacinda Ardern (30 giugno 2022)
    Ma nell’intesa tra UE e Nuova Zelanda risalta in particolare il capitolo dedicato a Commercio e sviluppo sostenibile, che include questioni ambientali e climatiche. Le due parti si impegnano a collaborare su questioni come la determinazione del prezzo del carbonio e la transizione verso un’economia a basse emissioni, includendo “impegni sanzionabili in linea con l’Accordo di Parigi” del 2015. Nella logica di favorire tutto ciò che contribuisce al raggiungimento degli obiettivi ambientali e climatici “prevenendo, limitando, minimizzando o rimediando ai danni ambientali all’acqua, all’aria e al suolo”, sarà facilitato il commercio e gli investimenti in beni, servizi e tecnologie a basse emissioni di carbonio, a partire dall’azzeramento delle tariffe su energie rinnovabili e prodotti ad alta efficienza energetica.
    A questo si riconnette il capitolo sull’energia e le materie prime, che specifica l’eliminazione delle restrizioni all’esportazione di beni energetici, rinnovabili incluse. L’intesa “vieta i monopoli”, ma anche l’intervento “ingiustificato” nella determinazione dei prezzi e la doppia tariffazione (in cui i prezzi all’esportazione vengono fissati al di sopra dei prezzi interni). Saranno invece promossi il commercio e gli investimenti per le energie rinnovabili e i prodotti ad alta efficienza energetica, “affrontando le principali barriere non tariffarie specifiche per ogni tecnologia”: accesso non discriminatorio alla rete, utilizzo da parte di un’autorità di regolamentazione indipendente, bilanciamento dei mercati e promozione della cooperazione su standard comuni.
    Di rilievo è anche la parte dell’accordo riservata alla sfera digitale e alla proprietà intellettuale. Saranno facilitati i flussi di dati transfrontalieri, vietando i requisiti “ingiustificati” di localizzazione dei dati e mantenendo il livello di protezione dei dati personali secondo il Regolamento generale sulla protezione dei dati (GDPR) dell’UE, “che contribuisce in modo significativo alla fiducia nell’ambiente digitale”. In questo modo le imprese potranno contare sulla “prevedibilità e certezza del diritto” e i cittadini comunitari e neozelandesi su “un ambiente online sicuro” nel momento in cui effettuano transazioni commerciali digitali a livello transfrontaliero. Per quanto riguarda le disposizioni in materia di proprietà intellettuale, saranno protetti il diritto d’autore, i marchi, i disegni e i modelli industriali, con un aumento degli standard accettati da Wellington: 20 anni per i diritti di autori, esecutori e produttori di registrazioni sonore e 15 anni per disegni e modelli registrati.

    La Commissione Europea e il governo guidato da Jacinda Ardern hanno siglato un’intesa sull’eliminazione dei dazi sulle rispettive esportazioni industriali e alimentari. Ma è anche la prima a prevedere sanzioni in caso di “violazione sostanziale” dell’Accordo sul clima di Parigi

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    La più significativa svolta strategica della NATO dalla fine della Guerra Fredda

    Bruxelles – Un terremoto geopolitico come quello del 2022 non si vedeva probabilmente dal 1991, con la fine della Guerra Fredda che aveva caratterizzato i quattro decenni dopo la Seconda Guerra Mondiale. A 30 anni di distanza stiamo assistendo probabilmente a una nuova era delle relazioni internazionali e della sicurezza sul continente europeo, con gli alleati dell’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord (NATO) che tornano a confrontarsi con Mosca. Non più con l’Unione Sovietica, ma questa volta con la Federazione Russa autoritaria guidata da Vladimir Putin.
    L’intervento del presidente dell’Ucraina, Volodymyr Zelensky, al Summit NATO di Madrid (29 giugno 2022)
    Dopo anni di tentativi di instaurare un dialogo costruttivo con Mosca – che nel concetto strategico del 2010 l’aveva classificata come “partner” – l’invasione russa dell’Ucraina ha chiuso i canali diplomatici e ora i 30 alleati (più  i due in arrivo, Helsinki e Stoccolma) si sono allineati al nuovo concetto strategico NATO 2022, quella che viene considerata a tutti gli effetti la più significativa svolta nella strategia di sicurezza e difesa dell’Alleanza Atlantica dalla fine della contrapposizione tra blocchi. Il via libera al documento che riassume la posizione della NATO è arrivato nel corso della prima giornata del Summit di Madrid, che ha portato con sé un’altra decisione storica per l’Alleanza: dopo la revoca del veto turco, tutti i leader hanno acconsentito all’avvio del processo di adesione di Svezia e Finlandia, i due Paesi scandinavi che hanno portato avanti per decenni, se non per secoli, una politica di non-allineamento militare, almeno fino al terremoto geopolitico sul continente europeo.
    “La guerra Putin ha scatenato la più grande questione sicurezza dalla seconda guerra mondiale”, ha attaccato il segretario generale della NATO, Jens Stoltenberg, nel corso della conferenza stampa, spiegando il punto cardine del nuovo ambiente di sicurezza: “L’area euro-atlantica non è in pace” e dopo più di 30 anni “non possiamo escludere la possibilità di un attacco contro la sovranità e l’integrità territoriale degli alleati”. La Federazione Russa costituisce “la minaccia più significativa e diretta alla sicurezza degli alleati”, dal momento in cui “cerca di stabilire sfere di influenza e di controllo diretto attraverso la coercizione, la sovversione, l’aggressione e l’annessione”. La sfida per la NATO è rappresentata dal “potenziamento militare di Mosca, anche nelle regioni del Baltico, del Mar Nero e del Mediterraneo, insieme all’integrazione militare con la Bielorussia”, nell’ottica della sovversione dell’ordine interazione attraverso “la posizione militare coercitiva, la retorica e la comprovata volontà di usare la forza per perseguire i suoi obiettivi politici”. L’Alleanza Atlantica ribadisce di “non cercare il confronto e non rappresentare una minaccia” per Mosca, ma allo stesso tempo di “non poterla considerare un partner” a causa delle “politiche e azioni ostili”.
    Il segretario generale della NATO, Jens Stoltenberg (29 giugno 2022)
    Ma la Russia non è l’unico “attore autoritario che sfida i nostri interessi, i nostri valori e il nostro stile di vita democratico”, si legge nel documento. Lo fanno anche “le ambizioni dichiarate e le politiche coercitive della Repubblica Popolare Cinese“, che “impiega un’ampia gamma di strumenti politici, economici e militari per aumentare la sua impronta globale e proiettare potere, pur rimanendo poco trasparente riguardo alla sua strategia, alle sue intenzioni e al suo sviluppo militare”. È la prima volta che Pechino viene citata esplicitamente come una potenziale minaccia a livello globale per la sicurezza della NATO, anche considerato “l’approfondimento del partenariato strategico tra Cina e Russia” nei settori spaziale, cibernetico e marittimo e l’utilizzo della “leva economica per creare dipendenze strategiche e rafforzare la sua influenza”. Così come con Mosca, gli alleati si dicono “aperti a un impegno costruttivo” con Pechino, per “costruire una trasparenza reciproca” e “salvaguardare gli interessi di sicurezza dell’Alleanza”.
    Lo strumento per affrontare questo nuovo e più instabile ambiente di sicurezza è investire nella difesa e questo coinvolge tutti i membri con un impegno diretto. “Condivideremo equamente le responsabilità e i rischi per la nostra difesa e sicurezza“, ribadisce il documento sul nuovo concetto strategico della NATO: “Metteremo a disposizione tutte le risorse, le infrastrutture, le capacità e le forze necessarie per svolgere appieno i nostri compiti fondamentali e attuare le nostre decisioni”. In termini pratici significa un aumento delle spese nazionali per la difesa “commisurato alle sfide di un ordine di sicurezza più contestato”. Come ha messo in chiaro il segretario generale Stoltenberg in conferenza stampa, “rafforzeremo i battaglioni sul fianco orientale e dovremo aumentare le nostre capacità congiunte, anche a livello di addestramento”, ma “fare di più, costa di più”. In altre parole, “dobbiamo riallinearci completamente all’obiettivo di spesa di almeno il 2 per cento del prodotto interno lordo in materia di difesa e sicurezza“. Dopo le riduzioni di spesa generalizzate all’interno dell’Alleanza fino al 2014 – anno dell’annessione illegale della Crimea da parte della Russia e dell’inizio della guerra nel Donbass – anche questo significa “nuovo concetto strategico” secondo la NATO.

    Via libera al Summit di Madrid al nuovo concetto strategico dell’Alleanza Atlantica ed è stato avviato il processo di adesione di Svezia e Finlandia. La Russia viene considerata “la più significativa e diretta minaccia per la sicurezza”, la Cina “sfida interessi e valori” degli alleati

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    Cosa prevede il memorandum d’intesa tra Turchia, Svezia e Finlandia sull’adesione NATO, tra estradizioni e armi

    Bruxelles – La Turchia ha revocato il veto sull’adesione NATO della Svezia e della Finlandia e ora i due Paesi scandinavi potranno essere invitati a diventare trentunesimo e trentaduesimo membro dell’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord. Il via libera del presidente turco, Recep Tayyip Erdoğan, non arriva senza costi per i due Paesi scandinavi (e di riflesso per l’Unione Europea), che si sono dovuti in un certo modo piegare ai ricatti di Ankara su diversi dossier, ma in una forma che lascia ancora molto aperta la possibilità di libera interpretazione delle concessioni fatte nel memorandum d’intesa, soprattutto sulla questione delle estradizioni.
    Secondo quanto si legge nel memorandum trilaterale, il punto centrale dei negoziati condotti sotto gli auspici della NATO riguarda la “cooperazione nella lotta contro il terrorismo”, che per la Turchia significa la persecuzione del movimento politico-militare curdo del PKK (Partito dei lavoratori del Kurdistan). L’organizzazione è considerata terroristica non solo da Ankara, ma anche dall’Unione Europea – di cui Finlandia e Svezia fanno parte – nonostante l’attribuzione sia controversa proprio per le persecuzioni messe in atto dal regime di Erdoğan: ecco perché soprattutto Stoccolma ha considerato diversi membri del PKK rifugiati politici e si rifiuta di estradarli. Le concessioni su questo punto non sono sostanziali – appunto, anche Svezia e Finlandia considerano già il PKK un’organizzazione terroristica – ed è stato ribadito l’impegno generico a prevenirne le attività e a intensificare la cooperazione tra i tre Paesi.
    La firma del memorandum d’intesa NATO tra Turchia, Svezia e Finlandia a Madrid (28 giugno 2022)
    Non va sovrastimato il riferimento alle nuove leggi nazionali antiterrorismo dei due Paesi scandinavi, perché tutto dipende dal livello di implementazione per i casi specifici dei presunti esponenti del PKK considerati rifugiati politici (e che, in linea teorica, già ora sarebbero dovuti essere estradati). Allo stesso modo, se può preoccupare il riferimento esplicito all’affrontare “in modo rapido e approfondito” le richieste di espulsione o estradizione di “sospetti terroristi” presentate dalla Turchia – le informazioni, le prove e l’intelligence di Ankara dovranno integrarsi con i principi della Convenzione europea di estradizione e con quadri giuridici bilaterali in cui rimane ancora centrale la questione del diritto alla protezione per i rifugiati politici. In ogni caso, va rilevato anche un fattore pratico: una volta che Finlandia e Svezia saranno membri NATO, a prescindere dal “Meccanismo Congiunto Permanente” stabilito per l’attuazione delle misure, la Turchia non avrà più la possibilità di ricattare i due Paesi scandinavi in caso di rimostranze sulla gestione delle procedure di estradizione di esponenti del PKK (o sospetti tali).
    Controverso è anche il riferimento all’intesa sull’astensione dal fornire sostegno alle Unità di Protezione Popolare (YPG) e al Partito dell’Unione Democratica (PYD) curdi. “In quanto potenziali alleati della NATO, Finlandia e Svezia estendono il loro pieno sostegno alla Turchia contro le minacce alla sua sicurezza nazionale”, si legge nel memorandum d’intesa trilaterale, con la precisazione che “condannano senza ambiguità tutte le organizzazioni terroristiche che perpetrano attacchi contro la Turchia”. Le forze curde sono state coinvolte nella lotta contro lo Stato Islamico dal 2014, rendendosi indispensabili per l’offensiva della coalizione internazionale contro Daesh in Siria, ma sono state abbandonate da tutti gli ex-alleati occidentali durante le operazioni militari turche nella regione del Kurdistan siriano. Ecco perché stupisce fino a un certo punto che Helsinki e Stoccolma abbiano firmato un’intesa che coinvolge anche questa concessione discutibile, dal momento in cui non aggiunge né toglie nulla al supporto inesistente sul piano internazionale al confederalismo democratico curdo.
    Ma la questione più cruciale riguarda le sanzioni del 2019 per l’intervento militare turco in Siria, che hanno portato al divieto di vendita di armi ad Ankara. “La Turchia, la Finlandia e la Svezia confermano che ora non esistono più embarghi nazionali sulle armi“, si legge nel testo dell’accordo firmato alla vigilia del Summit NATO di Madrid. “La Svezia sta modificando il quadro normativo nazionale per le esportazioni di armi in relazione agli alleati” e “in futuro, le esportazioni di armi da Finlandia e Svezia saranno condotte in linea con la solidarietà dell’Alleanza”, specifica il memorandum. Questa potrebbe essere la vera chiave di volta dello sblocco del veto turco all’adesione di Helsinki e Stoccolma all’Alleanza Atlantica, con fondati sospetti che la partita sia più ampia e coinvolga anche Washington, per la fornitura dagli Stati Uniti dei 40 nuovi caccia F-16 alla Turchia bloccata da tempo al Congresso a causa i rapporti controversi degli ultimi anni tra Erdoğan e l’omologo russo Putin.

    È stato firmato dai ministri degli Esteri dei tre Paesi e ha sbloccato la strada per l’adesione all’Alleanza Atlantica di Helsinki Stoccolma. Sono evidenti le concessioni sulle richieste di Ankara (in particolare su embargo e PKK), ma tutto dipenderà dall’implementazione degli accordi

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    La Turchia toglie il veto sull’adesione NATO di Svezia e Finlandia: sosterrà l’invito al vertice di Madrid

    Bruxelles – Il più importante vertice dell’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord dalla fine della Guerra Fredda si apre con una decisione che è a tutti gli effetti storica. La Turchia ha annunciato che toglierà il veto alla richiesta di adesione NATO di Svezia e Finlandia, sostenendo l’invito durante il vertice di Madrid (29-30 giugno) a diventare nuovi membri dell’Alleanza.
    La firma del memorandum d’intesa NATO tra Turchia, Svezia e Finlandia a Madrid (28 giugno 2022)
    “Sono lieto di annunciare che abbiamo raggiunto un accordo che apre la strada all’adesione di Svezia e Finlandia alla NATO”, ha annunciato ieri sera (martedì 28 giugno) il segretario generale, Jens Stoltenberg, dopo il vertice a quattro con il presidente della Finlandia, Sauli Niinistö, la prima ministra svedese, Magdalena Andersson, e il presidente della Turchia, Recep Tayyip Erdoğan: “La politica delle porte aperte della NATO è un successo, abbiamo mostrato di saper risolvere i problemi attraverso le negoziazioni”. Con il memorandum d’intesa firmato dai ministri degli Esteri di Helsinki, Stoccolma e Ankara, si apre la strada per l’invito ai due Paesi scandinavi a diventare nuovi membri della NATO. La decisione formale sarà presa oggi dai 30 alleati – Turchia compresa – nel corso della prima giornata di Summit a Madrid.
    La decisione assume una particolare rilevanza nel contesto del nuovo concetto strategico dell’Alleanza Atlantica, che considera la Russia “la più significativa e diretta minaccia” per la sicurezza degli alleati. La svolta nei due Paesi scandinavi tradizionalmente non-allineati militarmente è arrivata dopo l’aggressione militare della Russia all’Ucraina, un attacco non giustificato a uno Stato indipendente e sovrano che ha fatto temere il peggio anche a Helsinki e Stoccolma. “Inviamo un messaggio molto chiaro a Vladimir Putin“, ha sottolineato con forza il segretario generale Stoltenberg. “La nostra porta è aperta, e ha ottenuto l’opposto di quello che chiedeva” prima di invadere il territorio ucraino: “Voleva meno NATO, ora si trova con più NATO ai suoi confini“. Anche da Bruxelles è stata accolta positivamente l’intesa tra Finlandia, Svezia e Turchia per aprire le porte dell’Alleanza Atlantica ai due Paesi scandinavi: “Una NATO unita manterrà i nostri cittadini al sicuro e faciliterà una maggiore cooperazione con l’UE“, ha commentato il presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel.
    La questione turca
    Dopo la firma del memorandum d’intesa tra Svezia, Finlandia e Turchia a livello NATO, si attende ora la definizione dei dettagli dell’accordo sulle “minacce alla sicurezza reciproca”, estradizioni verso Ankara comprese (che “rispetteranno gli standard europei”). Tutte questioni che, ancora prima che il segretario generale Stoltenberg ricevesse le richieste di adesione da Helsinki e Stoccolma, avevano spinto la Turchia di Erdoğan a mettersi di traverso, a causa delle tensioni diplomatiche con i due Paesi scandinavi.
    Il presidente della Turchia, Recep Tayyip Erdoğan, e il segretario generale della NATO, Jens Stoltenberg
    La prima questione che ha tenuto in stallo per più di un mese l’adesione NATO di Finlandia e Svezia è legata al presunto sostegno al movimento politico-militare curdo del PKK (Partito dei lavoratori del Kurdistan) da parte dei due Paesi europei. In realtà, l’organizzazione è bollata come terroristica non solo dalla Turchia, ma anche dall’Unione Europea (di cui Finlandia e Svezia fanno parte), anche se questa attribuzione è controversa: a causa delle persecuzioni a cui è sottoposta la popolazione curda in Turchia, in particolare Stoccolma si è rifiutata di estradare diversi membri del PKK, considerandoli rifugiati politici. La seconda ragione si spiega con le sanzioni imposte nel 2019 contro la Turchia per l’intervento militare in Siria, che hanno portato al divieto di vendita di armi ad Ankara.
    Il testo firmato ieri sera dai tre leader specifica che Finlandia e Svezia “estenderanno il loro pieno sostegno” alla Turchia in materia di sicurezza nazionale, facendo concessioni risolutorie: la promessa è di “non fornire sostegno” ai gruppi curdi siriani PYD/YPG, attivi nella lotta contro lo Stato Islamico (IS) in Siria e di aprire a possibili estradizioni di membri del PKK (al momento non c’è nulla di vincolante per i due Paesi scandinavi), mentre è stata ribadita l’assenza di embarghi nazionali sulle vendite di armi alla Turchia. Infine, Helsinki e Stoccolma hanno confermato il sostegno alla “più ampia inclusione possibile” di Ankara e di altri alleati extra-UE alle “iniziative attuali e future” dei quadri di difesa dell’Unione Europea.

    Il processo di adesione alla NATO
    Per diventare membro della NATO, un Paese deve inviare una richiesta formale, precedentemente approvata dal proprio Parlamento nazionale. A questo punto si aprono due fasi di discussioni con l’Alleanza, che non necessariamente aprono la strada all’adesione: la prima, l’Intensified Dialogue, approfondisce le motivazioni che hanno spinto il Paese a fare richiesta (come nel caso dell’Ucraina), la seconda, il Membership Action Plan, prepara il potenziale candidato a soddisfare i requisiti politici, economici, militari e legali necessari (sistema democratico, economia di mercato, rispetto dello Stato di diritto e dei diritti fondamentali, standard di intelligence e di contributo alle operazioni militari, attitudine alla risoluzione pacifica dei conflitti). Questa seconda fase di discussioni è stata introdotta nel 1999 dopo l’ingresso nella NATO di Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca, per affrontare il processo con aspiranti membri con sistemi politici diversi da quelli dei Paesi fondatori dell’Alleanza, come quelli ex-sovietici.
    La procedura di adesione alla NATO inizia formalmente con l’applicazione dell’articolo 10 del Trattato dell’Atlantico del Nord, che prevede che “le parti possono, con accordo unanime, invitare ad aderire ogni altro Stato europeo in grado di favorire lo sviluppo dei principi del presente Trattato e di contribuire alla sicurezza della regione dell’Atlantico settentrionale”. La risoluzione deve essere votata all’unanimità da tutti i Paesi membri NATO, che attualmente sono 30 (oggi dovrebbe succedere questo al vertice di Madrid, con l’allineamento della Turchia). A questo punto si aprono nel quartier generale dell’Alleanza a Bruxelles gli accession talks, per confermare la volontà e la capacità del candidato di rispettare gli obblighi previsti dall’adesione: questioni politiche e militari prima, di sicurezza ed economiche poi. Dopo gli accession talks, che sono a tutti gli effetti una fase di negoziati, il ministro degli Esteri del Paese candidato invia una lettera d’intenti al segretario generale della NATO.
    Il processo di adesione si conclude con il Protocollo di adesione, che viene preparato dalla NATO con un emendamento del Trattato di Washington, il testo fondante dell’Alleanza. Questo Protocollo deve essere ratificato da tutti i membri, con procedure che variano a seconda del Paese: in Italia è richiesto il voto del Parlamento riunito in seduta comune, per autorizzare il presidente della Repubblica a ratificare il trattato internazionale. Una volta emendato il Protocollo di adesione, il segretario generale della NATO invita formalmente il Paese candidato a entrare nell’Alleanza e l’accordo viene depositato alla sede del dipartimento di Stato americano a Washington. Al termine di questo processo, il candidato è ufficialmente membro dell’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord.

    Dopo la firma del memorandum d’intesa con Helsinki e Stoccolma, al Summit di Madrid Ankara si allineerà agli altri 29 membri dell’Alleanza Atlantica. Decisive le concessioni dei due Paesi scandinavi su estradizioni ed embargo di armi, ma si attendono i dettagli dell’accordo

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    19 ottobre 2023, la Scozia fissa la data per un nuovo referendum sull’indipendenza

    Bruxelles – La Scozia ci riprova. La prima ministra di Edimburgo definisce il calendario per l’indipendenza, fissando al 19 ottobre 2023 il giorno per un nuovo referendum. Non molla Nicola Sturgeon. Fa sul serio, e lo fa nel solco delle sempre più complicate relazioni con Londra. Nel 2014 il voto sullo status scozzese vide affermarsi lo status quo. Il 55,3 per cento dei votanti optò per restare Nazione costitutiva del Regno Unito, ma all’epoca il Regno Unito era ancora parte dell’Unione europea. E’ stata la Brexit a produrre un vero e proprio terremoto nel nord dell’isola. Inglesi e scozzesi hanno espresso idee completamente diverse sull’appartenenza al club a dodici stelle, con i primi – a favore dell’uscita – che hanno costretto i secondi – a favore della permanenza – a rinunciarvi.
    Da allora la premier scozzese ha iniziato un lavorio senza sosta per dare di nuovo ai suoi elettori un posto nell’UE. Sa che deve farlo secondo le regole, perché la separazione sia riconosciuta dalla comunità internazionale e potersi riconoscere il processo di adesione. C’è bisogno del via libera del governo di Londra per indire il referendum. Con il governo di Johnson ci sono già stati confronti sul tema, in passato. L’attuale inquilino del numero 10 di Dowing Street si è fin qui opposto a permettere un nuovo voto sull’indipendenza della Scozia, sostenendo che un’iniziativa simile deve avvenire “una volta in una generazione”. Sturgeon sta al gioco, senza desistere, e aspetta che passi il momento della ‘generazione’. 18 settembre 2014-19 ottobre 2023, ecco il passo generazionale. “La democrazia scozzese non sarà prigioniera di Boris Johnson”, scandisce Sturgeon nel suo Parlamento di Edimburgo. Ribadisce che la Brexit ha cambiato tutto, i presupposti alla base del quesito referendario del 2014, e annuncia che il 19 ottobre 2023 i cittadini-elettori saranno sottoposti un’altra volta allo stesso quesito: “Dovrebbe la Scozia essere uno Stato indipendente?”.
    Una sfida aperta, quella di Sturgeon. Con il presidente del partito di cui fa parte, il Partito nazionalista scozzese (SNP), Michael Russell, che fa notare come il 19 ottobre non sia un giorno scelto a caso. “Il 19 ottobre 1781 il generale Cornwallis si arrese a Yorktown mettendo effettivamente fine alla rivoluzione americana e assicurando l’indipendenza dell’America”.
    A Londra si glissa. “La nostra posizione rimane invariata”, il commento del portavoce del governo, che ribadisce come “sia la nostra priorità che quella del governo scozzese dovrebbe essere lavorare insieme con un’attenzione incessante sulle questioni che contano davvero per le persone”. Ma di fronte alle mosse di Sturgeon e dei nazionalisti scozzesi, “studieremo attentamente i dettagli della proposta e la Corte suprema valuterà”.

    L’annuncio della prima ministra Nicola Sturgeon. “”La democrazia scozzese non sarà prigioniera di Boris Johnson”. Londra minimizza. “Non è una priorità, valuterà la Corte suprema”

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    Draghi ‘caccia’ Putin: “Al G20 non ci sarà”. Mosca mangia la foglia: “Nessuna decisione se in presenza o da remoto”

    Roma – Il tono è di chi sta ‘semplicemente’ riportando una notizia, ma lo sguardo è di quelli che sanno di maneggiare ‘materiale delicato’. Mario Draghi affonda un colpo contro la Russia, consapevolmente, quando anticipa che Vladimir Putin non sarà al prossimo G20. “Il presidente indonesiano Joko Widodo ha escluso categoricamente che verrà”, dice in conferenza stampa al termine del G7 di Elmau, poco prima di imbarcarsi per Madrid, dove parteciperà al vertice Nato. La puntura di spillo arriva forte a Mosca, tanto in pochi minuti la Tass, l’agenzia di stampa russa, batte un take rilanciando le parole del presidente del Consiglio italiano, ma sottolineando che l’assistente del presidente russo, Yuri Ushakov, lunedì scorso aveva solo ipotizzato una presenza da remoto, ma che tutto era ancora da decidere.
    Draghi è carico e di buon umore in Germania. Del resto, non potrebbe essere altrimenti dopo che l’Europa – e l’Occidente – si è dovuta arrendere e prendere un impegno preciso ad accelerare sul tetto massimo al prezzo del gas. Solo pochi giorni dopo che il Consiglio Ue aveva rinviato a ottobre la discussione, in attesa del report della Commissione atteso per settembre. Con il nuovo impegno, invece, un testo dovrebbe essere presentato entro l’inizio dell’autunno. Il successo diplomatico del responsabile di Palazzo Chigi è quasi sicuramente un effetto domino del price cap sul petrolio, fortemente voluto e ottenuto dal presidente Usa, Joe Biden. Ma, come si suol dire, a “Caval Donato non si guarda in bocca”. L’importante è uscire dalla morsa russa sull’energia e garantire sicurezza a quella non cede nel braccio di ferro con Putin.
    Che si arricchisce di un altro capitolo, visto che tra le note più positive della quattro-giorni in Germania c’è lo spiraglio di luce in fondo al tunnel dove sono bloccate le migliaia di tonnellate di grano ucraino fermo sulle navi ormeggiate nei porti controllati a vista dalla Marina russa. A spiegare la novità è ancora Draghi, riportando le parole del segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres: “Molti di noi pensavano che occorresse sminare le acque per riuscire a portare fuori il grano, invece ci sono dei corridoi sicuri attraverso cui far passare le navi”. Questo significa “guadagnare dalle due settimane a un mese di tempo”, sottolinea, il che diventa vitale visto che i cereali stanno lentamente marcendo nei silos mentre si avvicina pericolosamente il periodo del nuovo raccolto. Il capo del governo, però, non se la sente di esultare: “Queste notizie ci fanno sperare bene, ma è prematuro essere troppo ottimisti”, perché manca ‘soltanto’ il sì del Cremlino. E Putin non è nuovo a cambiare idea all’ultimo secondo. Per ora Draghi si gode i successi diplomatici, in attesa di vedere i fatti, nero su bianco. E sorride, forse pensando a come avrà fatto ‘innervosire’ i russi sul G20.

    Il presidente del Consiglio dal G7 indica lo spiraglio di luce in fondo al tunnel dove sono bloccate le migliaia di tonnellate di grano ucraino

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    Entro la fine del 2022 sarà istituito il Club internazionale del clima. I leader G7 ne fissano i tre pilastri

    Bruxelles – Un circolo aperto a tutti i Paesi del mondo, da istituire “entro la fine dell’anno”. La volontà messa nero su bianco dai leader del Gruppo dei Sette (Canada, Francia, Germania, Giappone, Gran Bretagna, Italia e Stati Uniti) in un allegato specifico alle conclusioni del vertice del G7 a Schloss Elmau, in Baviera, è di dare vita al “Club del clima” internazionale “aperto e cooperativo”, per spingere il percorso verso la neutralità climatica entro il 2050. Un Club che sostenga “l’effettiva attuazione” dell’Accordo di Parigi, considerato che al momento “né l’ambizione climatica globale né l’attuazione sono sufficienti” per raggiungerne gli obiettivi, notano “con preoccupazione” i leader.
    I leader del G7 a Schloss in Baviera (26 giugno 2022)
    Il Club del clima internazionale si baserà su tre pilastri. Il primo riguarda la promozione delle politiche di mitigazione “per ridurre l’intensità delle emissioni delle economie partecipanti nel percorso verso la neutralità climatica”: le politiche e i risultati saranno resi “coerenti con le nostre ambizioni”, saranno rafforzati “i meccanismi di misurazione e rendicontazione delle emissioni” e contrastata la “rilocalizzazione delle emissioni di carbonio a livello internazionale”. Il secondo pilastro pone l’obiettivo di “trasformare congiuntamente le industrie per accelerare la decarbonizzazione“, anche a partire dai target dell’Agenda per la decarbonizzazione industriale, del Patto d’azione per l’idrogeno e dell’espansione dei mercati per i prodotti industriali verdi.
    Infine, la terza gamba del Club del clima internazionale è il rafforzamento dell’ambizione internazionale a “sbloccare i benefici socio-economici della cooperazione per il clima e promuovere una giusta transizione energetica“. Partnenariati e cooperazione internazionale serviranno a mobilitare il sostegno e l’assistenza ai Paesi in via di sviluppo, non solo per la decarbonizzazione dell’energia e dei settori industriali, ma anche per la trasparenza, la capacità tecnica, lo sviluppo e la diffusione del trasferimento tecnologico, “a seconda del loro livello di ambizione climatica“, si legge nell’allegato firmato dai leader del G7.
    Il Club del clima internazionale, “in quanto forum intergovernativo ad alta ambizione”, avrà una natura “inclusiva e aperta” a tutti i Paesi del mondo che si impegnano ad attuare “pienamente” l’Accordo di Parigi e le relative decisioni, in particolare il Patto per il Clima di Glasgow. “Invitiamo i partner, compresi i principali emettitori, i membri del G20 e altre economie emergenti e in via di sviluppo, a intensificare le discussioni e le consultazioni con noi su questo tema”, è l’invito finale dei sette ‘Grandi’ della Terra, che designeranno ciascuno il proprio ministero competente “per sviluppare termini di riferimento completi, raggiungendo partner interessati e ambiziosi”, negli ultimi sei mesi del 2022.

    Un allegato delle conclusione del vertice del Gruppo dei Sette ha formalizzato la proposta da implementare nei prossimi mesi per sostenere “l’effettiva attuazione” dell’Accordo di Parigi. Sarà aperto a tutti i Paesi del mondo con l’obiettivo della neutralità climatica entro il 2050

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    Il G7 si prepara per una guerra lunga in Ucraina: più sforzi su sicurezza alimentare, al vaglio il tetto ai prezzi dell’energia

    Bruxelles – Non viene meno il sostegno delle più grandi potenze mondiali all’Ucraina, che sarà sostenuta nella sua difesa dall’aggressione russa “per tutto il tempo necessario”, ma dal vertice dei leader del G7 emerge con chiarezza che bisogna prepararsi a una guerra lunga, che non finirà né in settimane, né in mesi. Per quanto riguarda la situazione sul campo e sul sostegno a Kiev, il Gruppo dei Sette – Canada, Francia, Germania, Giappone, Gran Bretagna, Italia e Stati Uniti – ha già messo in chiaro la sua posizione nella dichiarazione pubblicata ieri pomeriggio (lunedì 27 giugno), ma sono i commenti dei leader al termine del vertice che fanno capire in che direzione sta andando il conflitto. E di conseguenza anche il supporto dell’Unione Europea e delle potenze globali.
    “Nessuno pensa che la fine della guerra possa essere nelle prossime settimane o nei mesi a venire“, ha precisato il presidente francese, Emmanuel Macron, richiamandosi alle parole dell’omologo ucraino, Volodymyr Zelensky, secondo cui la guerra dovrebbe concludersi entro fine 2022: “Siamo a quattro mesi di guerra, la fine dell’anno è ancora lontana”, ha aggiunto Macron, ribadendo con forza che “c’è solo una certezza, che la Russia non può e non deve vincere“. Ecco perché il sostegno a Kiev e le sanzioni internazionali “resteranno con l’intensità necessaria durante i prossimi mesi”, in riferimento anche alla “atrocità dell’ennesimo crimine di guerra” dell’attacco contro il centro commerciale di Kremenchuk.
    Il cancelliere tedesco, Olaf Scholz, che ha fatto gli onori di casa a Schloss Elmau (Baviera), ha sottolineato che “non siamo nella situazione di vedere una fine della guerra“, dal momento in cui “va avanti con la stessa brutalità” degli ultimi 124 giorni di invasione. Ecco perché, non appena il conflitto si sarà concluso – e con sempre la certezza che “la Russia non vincerà” – al vertice del G7 si è parlato di un “piano Marshall per l’Ucraina“, in linea con quanto proposto da Bruxelles. Anche da parte del primo ministro italiano, Mario Draghi, c’è “preoccupazione” per la continua avanzata dell’esercito russo nel Donbass nelle ultime due settimane: “Questo non significa che il nostro sostegno a Kiev verrà meno“, ha avvertito il premier Draghi, né che i sette leader indeboliranno la collaborazione sui temi più urgenti da affrontare su scala globale.
    Capitolo energia
    Le conclusioni del vertice del G7 sull’Ucraina hanno confermato che le maggiori potenze mondiali sono pronte a prendere nuove misure per “contenere l’aumento dei prezzi dell’energia”, tra cui la tanto attesa possibilità del ‘price cap’, il tetto “temporaneo” ai prezzi delle importazioni energetiche, sia del petrolio sia del gas. Per ora c’è l’intesa tra i leader del Gruppo dei Sette per incaricare ai ministri competenti in materia energetica di valutare “con urgenza” la fattibilità e l’efficacia di queste misure, ma il premier Draghi si augura di arrivarci già entro ottobre, anche considerata la disponibilità della Commissione Europea è ad “accelerare il processo” sulle proposte che riguardano il gas.
    Come specificano fonti europee, quanto emerge dal vertice G7 in merito al ‘price cap’ sul gas “è più generico”, considerate le maggiori “difficoltà a livello tecnico”, mentre quello sul petrolio è già “più definito”. Le conclusioni dei leader specificano che tra gli approcci da prendere in considerazione c’è “un eventuale divieto globale di tutti i servizi che consentono il trasporto di greggio e prodotti petroliferi russi via mare”, a meno che il petrolio non venga acquistato “a un prezzo pari o inferiore a quello da concordare in consultazione con i partner internazionali”. Il cancelliere tedesco Scholz ha definito “molto ambizioso” l’obiettivo del tetto ai prezzi sul petrolio, anche se è ancora necessario “molto lavoro a livello tecnico”.
    Lo sforzo di coordinamento internazionale del G7 deriva dalla necessità di “impedire alla Russia di trarre profitto dalla sua guerra di aggressione” in Ucraina, di cui le fonti energetiche rappresentano la voce di entrate maggiori. Ecco perché le conclusioni del vertice lodano la decisione di Bruxelles di “esplorare con i partner internazionali le modalità per contenere l’aumento dei prezzi dell’energia” per quanto riguarda tutte le fonti fossili, “compresa la possibilità di introdurre, se necessario, tetti temporanei ai prezzi delle importazioni” di petrolio e gas. La proposta della Commissione dovrebbe arrivare dopo l’estate – come è stato annunciato al Consiglio Europeo della scorsa settimana – per essere discusso al vertice dei leader UE di ottobre. “È importante che la discussione sia solida, su base razionale e non solo psicologica“, ha avvertito il premier Draghi.
    Nel considerare la crisi energetica, per il Gruppo dei Sette rimane cruciale anche non abbandonare i Paesi più vulnerabili, contrastando i tentativi della Russia di sfruttare la propria posizione di produttore di energia “per trarre profitto dalla sua aggressione”. Ecco perché dovranno essere presi in considerazione anche meccanismi di mitigazione per garantire che tutti i partner internazionali “mantengano l’accesso ai mercati energetici, compresi quelli russi”. Queste misure – restrittive e di mitigazione – non andranno però a compromettere gli obiettivi climatici, a partire dalla riduzione dai combustibili fossili e l’accelerazione della transizione verde “per raggiungere le emissioni nette zero entro il 2050”. È in quest’ottica che va letto l’obiettivo di istituire entro la fine del 2022 “un club del Clima internazionale aperto e cooperativo“, che promuova l’azione “urgente, ambiziosa e inclusiva” verso l’attuazione dell’Accordo di Parigi.
    Capitolo sicurezza alimentare
    Altri 4,5 miliardi di dollari, per uno stanziamento di oltre 14 miliardi entro 2022 “per proteggere i più vulnerabili dalla fame e dalla malnutrizione”. È questo l’impegno dei leader del G7 a sostegno dell’Alleanza globale per la sicurezza alimentare, considerate le dimensioni drammatiche della fame nel mondo, dopo l’inizio dell’invasione russa in Ucraina. “Fino a 323 milioni di persone a livello globale diventeranno gravemente insicure dal punto di vista alimentare o saranno ad alto rischio, segnando un nuovo record”, come riportano i dati del Gruppo di risposta alla crisi Globale sull’alimentazione, l’energia e la finanza delle Nazioni Unite. Questa sfida “esistenziale” è determinata da “molteplici crisi intrecciate”, di cui l’ultima – la guerra russa contro l’Ucraina – ha causato “il blocco delle rotte di esportazione del grano ucraino, che sta drammaticamente aggravando la crisi della fame“.
    Ecco perché è stato ribadito “l’urgente invito” a Mosca a porre fine “senza condizioni” al blocco dei porti ucraini sul Mar Nero, ma anche alla distruzione delle principali infrastrutture portuali e di trasporto, dei silos e dei terminali per il grano e della “appropriazione illegale” di prodotti e attrezzature agricole in Ucraina. La Russia ha “un’enorme responsabilità” per l’aumento dei prezzi mondiali di cibo e fertilizzanti “a livelli senza precedenti”, a causa delle interruzioni della produzione agricola messe in atto sul territorio occupato, definite “un attacco geopolitico alla sicurezza alimentare globale”. I leader delle sette potenze metteranno in atto “intensi sforzi” non solo per la ripresa delle esportazioni agricole ucraine verso i mercati mondiali, ma anche per “sbloccare un corridoio marittimo sicuro attraverso il Mar Nero”, sostenendo le azioni promosse dalle Nazioni Unite. Ma nel frattempo si cercheranno “percorsi alternativi” a partire dall’iniziativa UE dei corridoi di solidarietà.
    Sono diverse le strategie che sono state messe nero su bianco nel vertice G7 focalizzato sulle conseguenze della guerra in Ucraina. Attraverso la collaborazione con agenzie e partner internazionali, si cercherà di identificare la provenienza delle importazioni di grano, con l’obiettivo di “individuare i prodotti ucraini sequestrati illegalmente dalla Russia“. I leader del G7 hanno poi deciso di “mantenere aperti i nostri mercati alimentari e agricoli”, con la richiesta ai partner internazionali di “evitare misure commerciali restrittive ingiustificate“, che vanno ad aumentare la volatilità del mercato e il rischio di insicurezza alimentare: “Ci opporremo a qualsiasi comportamento speculativo”. Sul breve termine, qualsiasi partner – pubblico o privato – “con grandi scorte alimentari” è stato invitato a rendere disponibili gli alimenti “senza distorcere i mercati, anche sostenendo la strategia di acquisto del Programma alimentare mondiale”, così come a “evitare un eccessivo accumulo di scorte, che può portare a ulteriori aumenti dei prezzi”.
    Rimane poi sostanziale il coordinamento con l’Unione Africana per progettare “un piano strategico di investimenti per accelerare lo sviluppo delle catene del valore essenziali” per il continente africano, ricordando che i pacchetti di sanzioni internazionali “non prendono di mira i prodotti alimentari e consentono il libero flusso di prodotti agricoli, anche dalla Russia”. Infine, secondo la proposta del presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, i leader del G7 hanno trovato un’intesa per “aumentare in modo sostenibile la disponibilità di prodotti agricoli”, in particolare “nei Paesi più colpiti”, ma anche di “affrontare la carenza di fertilizzanti sostenendo un uso più efficiente e mirato, aumentando temporaneamente la produzione locale e globale”, è l’impegno delle sette maggiori potenze mondiali.