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    Iratxe Garcia (S&D): Piena fiducia nelle istituzioni brasiliane e pieno sostegno a Lula

    Bruxelles – La presidente dei Socialisti e Democratici al Parlamento europeo, Iratxe García, ha incontrato l’ex presidente del Brasile e candidato alle elezioni presidenziali Luiz Inácio Lula da Silva, con il quale, spiega una nota ha condiviso le sue preoccupazioni “sulla deriva antidemocratica e autoritaria del presidente Jair Bolsonaro, nonché sulla gestione sconsiderata della pandemia di Covid e sull’aumento della povertà e della disuguaglianza”. García ha anche riaffermato la piena fiducia dei Socialisti e Democratici europei nelle istituzioni democratiche e nel sistema elettorale del Brasile.
    Anche il vicepresidente S&D Pedro Marques, il copresidente di Eurolat Javi López e la coordinatrice S&D di Eurolat Maria Manuel Leitão hanno preso parte a questo incontro, che giunge al termine di una missione S&D di quattro giorni a San Paolo.
    Durante l’incontro, Iratxe García, insieme al presidente del Partito del socialismo europeo, Sergei Stanishev e al presidente del Partido dos Trabalhadores, Gleisi Hoffmann, hanno concordato di firmare un memorandum di cooperazione per rafforzare i legami tra il Gruppo S&D, il PES e il PT e coordinare le posizioni politiche “su questioni globali comuni come democrazia, diritti umani, giustizia sociale, uguaglianza e solidarietà per società giuste, sostenibili e inclusive”.
    “Il Brasile ha bisogno di riportare la speranza in un futuro migliore per la maggioranza dei cittadini, come ha fatto Lula nel suo precedente mandato. Deve anche fermare – ha sottolineato Iratxe Garcia – la strategia populista dell’attuale governo, tesa a indebolire la democrazia e le sue istituzioni”. Secondo la presidente del gruppo S&D “c’è anche molto in gioco per l’Europa con queste elezioni: solo rafforzando i nostri legami e la nostra cooperazione con grandi attori come il Brasile saremo in grado di affrontare le sfide globali condivise, come la pandemia di Covid, la crisi del multilateralismo, l’ascesa del populismo o dell’emergenza ambientale”.
    “Dopo quattro giorni di ascolto dei leader politici brasiliani, della società civile, delle ONG e dei movimenti civici, è molto chiaro per me che il Brasile ha bisogno di un cambiamento- ha concluso Iratxe Garcia -. Tuttavia, siamo molto preoccupati per i tentativi di Bolsonaro di seminare dubbi sul funzionamento e sull’indipendenza della magistratura brasiliana. Ecco perché voglio riaffermare la nostra piena fiducia nelle istituzioni democratiche e nello Stato di diritto in Brasile”.

    La presidente del gruppo dei socialisti e democratici al Parlamento europeo ha incontrato il candidato alle presidenziali: “Il Brasile ha bisogno di riportare la speranza in un futuro migliore, come ha fatto Da Silva nel suo precedente mandato. Deve anche fermare la strategia populista dell’attuale governo”

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    Scholz: “Croazia, Romania e Bulgaria pronte per l’area Schegen”

    Bruxelles – L’area Schengen per la libera circolazione può allargarsi. “Croazia, Romania e Bulgaria soddisfano tutti i requisiti tecnici per l’adesione a pieno titolo”, e per questo motivo “lavorerò perché diventino membri a pieno titolo”. Olaf Scholz dà il proprio benestare all’estensione dei dispositivi dei trattati in materia di spostamento delle persone anche a questi tre Paesi. Il cancelliere tedesco apre le porte a Zagabria, Bucarest e Sofia, e soprattutto rilancia il dibattito politico. Sceglie la cornice dell’università Carolina di Praga per l’annuncio che potrebbe scrivere un nuovo capitolo nella storia del processo di integrazione europea.
    “L’Europa è il nostro futuro”, la sintesi del suo intervento, e in questa sua visione per l’Europa che deve essere c’è anche il passo avanti nell’unione dei popoli. “Schengen è uno dei più grandi successi dell’Unione europea e dovremmo proteggerlo e svilupparlo. Ciò significa, per inciso, colmare le lacune rimanenti”. Queste lacune sono rappresentate da quegli Stati membri che ancora non hanno le carte in regola per garantire che ci si possa spostare senza controlli, senza restrizioni alle frontiere, senza impedimenti di ogni sorta. Croazia, Romania e Bulgaria sono quelle lacune fin qui registrare nel blocco dei Ventisette, che a detta di Berlino non rappresentano più un problema.
    Vivere nell’area Schengen vuol dire poter vivere, studiare, lavorare e andare in pensione ovunque nell’UE. Un qualcosa possibile però non per tutti quanti. I tre Stati membri dell’est sono tagliati fuori da tutto questo, per ragioni tecniche e di tempi necessari ad avere le carte in regola. Dovranno entrare prima o poi, perché eccezione fatta per l’Irlanda che ha negoziato e ottenuto deroghe (opt-out), gli Stati membri devono poter soddisfare le quattro libertà alla base dell’Ue.
    La questione andrà affrontata in sede Ue, dove per procedere all’allargamento Schengen serve il consenso unanime del Consiglio. L’apertura di Scholz può servire da impulso ad un processo rimasto bloccato per troppo tempo. Il Parlamento europeo da anni chiede di ammettere Romania e Bulgaria, senza esito. Adesso la Germania si fa promotrice della riforma.

    Il cancelliere tedesco ritiene che i tre Paesi abbiano le carte in regola per entrare nella zona di libera circolazione. “Lavorerò perché diventino membri a pieno titolo”

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    Lo storico accordo sui documenti d’identità tra Kosovo e Serbia, grazie alla mediazione Ue. Ora tocca alle targhe

    Bruxelles – Bisogna leggere tra le righe dell’intesa tra Pristina e Belgrado per capire quanto si tratti di un accordo storico per la regione balcanica. Il via libera reciproco ai documenti d’identità nazionali alla frontiera è un primo riconoscimento de facto della sovranità del Kosovo da parte della Serbia, nonostante Belgrado si rifiuti per principio di definirlo come tale: mai nei 14 anni d’indipendenza unilaterale di Pristina la polizia di frontiera serba aveva consentito l’ingresso nel Paese a persone che mostravano una carta d’identità rilasciata dalle autorità kosovare (al loro posto venivano rilasciati documenti serbi provvisori).
    L’alto rappresentante UE per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, e il rappresentante speciale per il dialogo Belgrado-Pristina, Miroslav Lajčák, con il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić, e il premier del Kosovo, Albin Kurti, al vertice di Bruxelles del 18 agosto 2022
    “Nell’ambito del dialogo facilitato dall’Unione Europea, la Serbia ha accettato di abolire i documenti di ingresso e uscita per i possessori di documenti d’identità kosovari, mentre il Kosovo ha accettato di non introdurli per i possessori di documenti d’identità serbi“, si legge in una nota dell’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell. Nello stesso accordo tra Pristina e Belgrado è contenuta la precisazione che i serbi del Kosovo “potranno viaggiare liberamente tra il Kosovo e la Serbia utilizzando le proprie carte d’identità”, grazie alle garanzie fornite a Bruxelles dal premier kosovaro, Albin Kurti. “Lieto” di annunciare l’intesa sulla libertà di circolazione raggiunta nella giornata di sabato (27 agosto), l’alto rappresentante Borrell ha sottolineato che il risultato è stato reso possibile grazie all’incontro di alto livello del dialogo Pristina-Belgrado mediato dall’Ue della scorsa settimana e agli “intensi sforzi” continuati nelle due capitali nei giorni seguenti in coordinamento con “i nostri partner statunitensi”.
    Da Bruxelles e da Washington si guarda a questo accordo storico come un segnale incoraggiante di disponibilità al compromesso anche su un’altra questione calda nell’estate 2022. L’alto rappresentante Borrell non ha nascosto che “ci sono alcuni problemi ancora aperti e mi aspetto che entrambi i leader continuino a dare prova di pragmatismo e costruttività per risolvere il problema delle targhe“. Dopo quasi un anno di soluzione provvisoria, a fine luglio erano scoppiate nuove tensioni nel nord del Kosovo sulla questione delle targhe automobilistiche al passaggio della frontiera, a seguito della decisione del governo di Pristina di introdurre l’obbligo su tutto il territorio nazionale di utilizzare quelle kosovare al posto di quelle serbe (molto diffuse tra la minoranza serba nel nord del Paese) a partire dal primo agosto. Prorogata di un mese, la misura identica a quella applicata da Belgrado entrerà in vigore da giovedì primo settembre.

    I am happy that we found a European solution that facilitates travel between #Kosovo and #Serbia, which is in the interest of all citizens of Kosovo and Serbia.
    I thank @predsednikrs and @albinkurti for their leadership, and underline the excellent practical EU – US cooperation pic.twitter.com/kO4UZNenwk
    — Josep Borrell Fontelles (@JosepBorrellF) August 27, 2022

    Anche il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, ha salutato “con favore” l’accordo sulla libera circolazione tra Pristina e Belgrado, ma allo stesso tempo ha esortato il premier kosovaro Kurti e il presidente serbo, Aleksandar Vučić, a “risolvere le questioni in sospeso attraverso il dialogo politico”. In Kosovo è di stanza il più grande contingente dell’Alleanza Atlantica, la cui forza militare internazionale Kosovo Force (Kfor) dispiega circa 3.700 soldati e il cui mandato è quello di “contribuire al mantenimento di un ambiente sicuro e protetto” nella regione e alla “dissuasione di nuove ostilità”. In un tweet lo stesso segretario generale Stoltenberg ha ribadito che “la Nato rimane vigile”. Dalle due capitali sono arrivate reazioni opposte. Il premier Kurti ha sottolineato con entusiasmo che “la reciprocità è lo spirito di una soluzione giusta e di principio“, ricordando che “i cittadini della nostra Repubblica possono ora recarsi in Serbia liberamente e da pari a pari”, mentre Pristina “non introdurrà documenti di ingresso e uscita per i documenti serbi”. Il presidente Vučić ha invece messo in rilievo che “è fondamentale” che i serbi del Kosovo possano entrare e uscire dal Kosovo “liberamente” con documenti rilasciati dalle autorità di Belgrado, ma ribadendo con forza che il compromesso con Pristina è solo per “ragioni pratiche” e che questo “non rappresenta un riconoscimento implicito dell’indipendenza”.
    La posizione non cambia – “in base alla Costituzione serba, il Kosovo è parte integrante della Repubblica di Serbia” – ma è sotto gli occhi di tutti che accettare i documenti d’identità rilasciati da un’autorità che si considera nazionale ha nei fatti delle implicazioni concrete sul riconoscimento della sovranità del Paese stesso. I rapporti tra Pristina e Belgrado rimangono comunque molto tesi, sia per la questione delle targhe sia per la volontà del Kosovo di presentare la richiesta formale di adesione Ue entro la fine dell’anno. Anche per le spinte e nazionaliste in entrambi i Paesi, un accordo finale sembra ancora molto distante e Bruxelles dovrà spingere ancora molto sul dialogo per dare seguito a questo passo storico: al centro della disputa non c’è solo il riconoscimento formale della sovranità del Kosovo da parte della Serbia, ma anche il rispetto da parte di Pristina dell’intesa del 2013 sulla creazione della Comunità delle municipalità serbe nel Paese (ancora non implementata per il timore che nel Paese si crei una Republika Srpska come in Bosnia ed Erzegovina, problematica anche per l’Unione Europea).

    Citizens of our Republic may now travel to Serbia freely as equals. I want to thank HRVP Borrell, EUSR Lajcak, DAS Escobar & Ambasador Hovenier for their contribution. Reciprocity is the spirit of a principled & just solution. 🇽🇰will not introduce entry-exit docs for Serbian IDs.
    — Albin Kurti (@albinkurti) August 27, 2022

    A questo scenario complesso si è aggiunta un’altra controversia, che dimostra quanto la posizione intransigente di Vučić risponda a delicate dinamiche interne al Paese, in particolare in relazione all’elettorato nazionalista su cui ha costruito il proprio successo politico. Conferendo un nuovo mandato di governo alla premier uscente, Ana Brnabić, dopo le elezioni dello scorso 3 aprile (l’esecutivo sarà formato entro i prossimi 20 giorni), il presidente serbo ha annunciato proprio sabato scorso che l’EuroPride in programma tra il 12 e il 18 settembre a Belgrado sarà “annullato o rinviato”. La dichiarazione ha alzato un polverone di polemiche in tutta Europa, ma va rilevato un tecnicismo non irrilevante: Vučić non ha detto “vietato”, perché un’autorità nazionale non ha il potere di cancellare l’evento più atteso dalla comunità LGBTQ+ europea una volta assegnata la città, fatta eccezione per ragioni di sicurezza pubblica motivate dalle forze di polizia. Il numero uno della Serbia ha fatto riferimento a “questioni urgenti” – ovvero la disputa di confine con il Kosovo e la crisi energetica – che nulla c’entrano con lo svolgimento pacifico della manifestazione annuale itinerante.
    Ecco perché questa dichiarazione deve essere letta in ottica puramente politica: nel giorno dell’annuncio di un accordo di compromesso storico con il Kosovo, Vučić ha ritenuto necessario distogliere l’attenzione dei partiti di estrema destra e della Chiesa Ortodossa, concedendo loro un ‘successo’ interno dopo le manifestazioni di agosto nella capitale serba contro l’EuroPride (i vertici religiosi hanno addirittura minacciato “maledizioni contro tutti coloro che organizzano e partecipano a una cosa del genere”). Il governo Brnabić ha appoggiato la decisione del presidente, affermando che non sussistono le condizioni per lo svolgimento dell’EuroPride in sicurezza: “Gruppi estremisti potrebbero approfittare di tale evento per alimentare tensioni e creare instabilità in Serbia“, si legge in una nota. Anche questa posizione si mostra precaria e poco fondata, dal momento in cui la marcia del Pride Month di Belgrado si svolge ininterrottamente da otto anni (dopo un’interruzione per le violenze dell’estrema destra nel 2010) e dal 2017 vi partecipa anche Brnabić, prima premier omosessuale dichiarata nella storia del Paese.
    Gli organizzatori hanno denunciato l’illegalità della decisione e hanno confermato che la marcia dell’EuroPride si terrà in ogni caso il 17 settembre, come da programma: “Lo Stato non può cancellare l’evento, sarebbe una chiara violazione della Costituzione nazionale”, oltre che “degli articoli 11, 13 e 14 della Convenzione europea sui diritti umani, che la Serbia ha ratificato come membro del Consiglio d’Europa”. Nel comunicato viene anche ricordato che dopo l’assegnazione dell’evento a Belgrado nel 2019 la premier serba aveva promesso “pieno appoggio” alla manifestazione e alla protezione dei diritti della comunità LGBTQ+ nel Paese. Immediata la levata di scudi in difesa dell’EuroPride 2022 anche a Bruxelles. “I diritti non siano ostaggio dell’estrema destra“, ha ribadito con forza l’eurodeputata del Partito Democratico, Alessandra Moretti, ribadendo che “l’Europa non fa passi indietro sulle libertà”. Messaggio rinforzato dalla co-presidente dell’intergruppo LGBTQ+ del Parlamento Europeo, Terry Reintke: “Siamo pienamente solidali con il Belgrade Pride, saremo con voi fra tre settimane e marceremo per le strade di Belgrado“.

    The @LGBTIintergroup in the European Parliament stands in full solidarity with @belgradepride 🌈
    We will be there for @EuroPride in 3 weeks and march with you in the streets of Belgrade.
    Freedom of assembly is a fundamental right.
    We stand together to defend our rights.
    💕✨ pic.twitter.com/OHgNqG9Zsv
    — Terry Reintke (@TerryReintke) August 27, 2022

    L’alto rappresentante Ue, Josep Borrell, ha annunciato che i due governi hanno raggiunto l’intesa sull’uso delle rispettive carte d’identità alla frontiera, grazie al dialogo mediato da Bruxelles. È un primo passo per il riconoscimento (de facto) della sovranità di Pristina da parte di Belgrado

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    Il Kosovo è pronto a presentare la domanda di adesione all’Unione Europea entro la fine dell’anno

    Bruxelles – Il Kosovo spinge sempre più forte sull’acceleratore e, dopo la richiesta di adesione al Consiglio d’Europa, è pronta a continuare con estrema determinazione sulla strada della candidatura a Paese membro dell’Unione Europea. È stato lo stesso premier del Kosovo, Albin Kurti, ad anticipare all’agenzia di stampa turca Anadolu la volontà del governo di Pristina di presentare la richiesta formale per ottenere lo status di Paese candidato all’adesione Ue entro la fine dell’anno. La decisione è arrivata ieri (mercoledì 24 agosto) durante l’ultima riunione del governo, con l’adozione della proposta di formare un gruppo di lavoro interistituzionale incaricato di formulare la richiesta formale alla Commissione Europea.
    Il primo ministro del Kosovo, Albin Kurti, e la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen
    Se il Kosovo vuole raggiungere la piena adesione all’Ue, deve però affrontare una serie di difficoltà dentro e fuori la regione dei Balcani Occidentali. Tutto parte dalla dichiarazione di indipendenza unilaterale dalla Serbia del 17 febbraio 2008, mai riconosciuta non solo da Belgrado, ma anche da cinque Paesi membri Ue: Spagna, Grecia, Slovacchia, Cipro e Romania. Questa posizione sta mostrando che impatto possano esercitare i cinque governi europei sulla libertà di manovra di Bruxelles nelle aperture nei confronti di Pristina, a partire dalla questione della liberalizzazione dei visti. Nonostante la Commissione abbia riconosciuto dal 2016 che Pristina ha soddisfatto tutte le richieste, anche al vertice Ue-Balcani Occidentali dello scorso giugno non è stato trovato un accordo tra i Paesi membri Ue per permettere ai cittadini kosovari di viaggiare liberamente sul suolo europeo.
    A questo si somma un rapporto ancora particolarmente teso proprio con Belgrado, all’interno del dialogo mediato dall’Unione Europea a partire dal 2008. Una settimana fa (giovedì 18 agosto) si è svolto a Bruxelles il sesto incontro di alto livello con il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić, e il premier kosovaro Kurti, portati allo stesso tavolo dall’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell. Il vertice non ha prodotto alcun risultato concreto, ma è stato definito “di gestione della crisi” dall’alto rappresentante, a sottolineare quanto fosse necessario che i due leader balcanici si confrontassero. A fine luglio erano scoppiate nuove tensioni nel nord del Kosovo sulla questione delle targhe automobilistiche e dei documenti d’identità al passaggio della frontiera, dopo la decisione del governo di Pristina di introdurre l’obbligo su tutto il territorio nazionale di utilizzare quelle kosovare al posto di quelle serbe (molto diffuse tra la minoranza serba nel nord del Paese) a partire dal primo agosto. Prorogata di un mese, la misura identica a quella applicata da Belgrado entrerà in vigore dal primo settembre, ha confermato oggi lo stesso Kurti.

    Il presidente serbo #Vucic ha reso note le richieste del premier kosovaro #Kurti per l’accordo finale tra 🇽🇰 e 🇷🇸👇
    1/3 https://t.co/X2SGJZfpjQ
    — BarBalcani // BarBalkans (@BarBalcani) August 21, 2022

    Dopo l’incontro tra Vučić e Kurti è stato il presidente serbo a rendere note le condizioni poste dal premier kosovaro per raggiungere l’accordo finale sulla normalizzazione dei rapporti tra i due Paesi. Il primo punto definisce i principi generali delle relazioni bilaterali, come il riconoscimento reciproco e l’ingresso del Kosovo nelle organizzazioni internazionali, il secondo disciplina la risoluzione dei problemi del passato (persone scomparse, restituzione dei manufatti artistici sottratti dalla Serbia, riparazioni di guerra), mentre il terzo si concentra sulla cooperazione futura tra Pristina e Belgrado. Il governo Kurti vuole anche mettere nero su bianco gli uguali diritti dei cittadini di etnia albanese a Bujanovac e Presevo (in Serbia), ma concede aperture sugli accordi già siglati (in particolare la controversa istituzione delle Comunità delle municipalità serbe in Kosovo), per arrivare infine alla stipulazione dell’accordo conclusivo.
    L’alto rappresentante UE per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, e il rappresentante speciale per il dialogo Belgrado-Pristina, Miroslav Lajčák, con il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić, e il premier del Kosovo, Albin Kurti, al vertice di Bruxelles del 18 agosto 2022
    La decisione del governo di Pristina di presentare la domanda di adesione Ue dimostra la volontà del Kosovo di muoversi su diversi binari paralleli e di preparare il terreno a Bruxelles aggiungendo un elemento di pressione sulla Serbia per portare a termine il dialogo tra le due parti. Si attende una risposta da Belgrado, che difficilmente sarà diversa dal recente passato. Già a fine luglio la ministra degli Esteri kosovara, Donika Gërvalla, aveva ventilato la possibilità di porre la fine del 2022 come data ultima per la presentazione della richiesta formale sullo status di Paese candidato all’adesione Ue e il presidente serbo Vučić aveva commentato in modo durissimo: “Il giorno in cui scopriremo che hanno chiesto ufficialmente di aderire a un’organizzazione, la nostra risposta sarà molto più forte di quanto pensino e non sarà solo una dichiarazione ai media“.
    La ministra Gërvalla aveva fatto riferimento al fatto che il Kosovo “ha già attuato la maggior parte dell’Accordo di stabilizzazione e associazione” e che soddisfa “tutti i prerequisiti per ottenere lo status” di Paese candidato all’adesione Ue. Pristina si aspetta anche che il processo che porterà al suo ingresso al Consiglio d’Europa “non richieda tanto tempo come per altri Paesi della regione”, grazie al lavoro fatto su diritti umani, standard democratici e Stato di diritto. In ballo potrebbe esserci anche la candidatura al programma di Partenariato per la pace della Nato, ma in questo caso l’unanimità dei membri dell’Alleanza Atlantica potrebbe diventare un importante ostacolo.
    Il processo di adesione all’Unione Europa
    Ricevuta la proposta formale di candidatura all’adesione, per diventare un Paese membro dell’Ue è necessario superare l’esame dei criteri di Copenaghen. Ottenuto il parere positivo della Commissione, si può arrivare o alla firma dell’Accordo di stabilizzazione e associazione – un accordo bilaterale tra Ue e Paese richiedente, utilizzato in particolare per i Balcani Occidentali, a cui viene offerta la prospettiva di adesione – o direttamente il conferimento dello status di Paese candidato. Segue la raccomandazione della Commissione al Consiglio Ue di avviare i negoziati: solo quando viene dato il via libera all’unanimità dai Paesi membri si possono aprire i capitoli di negoziazione (in numero variabile). Alla fine di questo processo si arriva alla firma del Trattato di adesione.
    Il processo di allargamento UE coinvolge i sei Paesi dei Balcani Occidentali – Albania, Bosnia ed Erzegovina, Kosovo, Macedonia del Nord, Montenegro e Serbia – la Turchia (i cui negoziati sono però cristallizzati dalla politica del presidente Erdoğan), Georgia, Moldova e Ucraina. Le ultime due hanno ricevuto lo status di Paesi candidati il 24 giugno, mentre la Georgia è ancora ferma alla richiesta di adesione (con la “prospettiva europea” per Tbilisi). Serbia e Montenegro stanno portando avanti i negoziati di adesione rispettivamente dal 2014 e dal 2012, mentre il pacchetto Albania-Macedonia del Nord si è sbloccato dopo tre anni di stallo, con l’avvio dei negoziati lo scorso 19 luglio. La Bosnia ed Erzegovina ha fatto domanda di adesione nel 2016, mentre il Kosovo ha solo firmato l’Accordo di stabilizzazione e associazione. Proprio da Pristina si aspettano le prossime novità, ma, per quanto le autorità del Kosovo proveranno a spingere, il cammino verso l’adesione Ue rimarrà tutto in salita.

    Lo ha anticipato il premier kosovaro, Albin Kurti, al termine dell’ultima riunione del governo di Pristina. È stata approvata la proposta per la formazione di un gruppo di lavoro interistituzionale che dovrà formulare la richiesta formale per ottenere lo status di Paese candidato all’adesione

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    Iran, gli Usa rispondono alle proposte di Teheran. UE fa da mediatore per rilanciare l’accordo sul nucleare

    Bruxelles – La resurrezione dell’accordo sul nucleare iraniano del 2015 potrebbe essere vicina. La Commissione europea conferma a Eunews di aver ricevuto ieri la risposta degli Stati Uniti alla proposta di compromesso dell’UE per superare le divergenze tra  Washington e Teheran e salvare l’accordo sul programma nucleare iraniano sottoscritto ormai sette anni fa, e di averla trasmessa a Teheran e agli altri partecipanti dell’accordo JCPOA (‘Joint Comprehensive Plan of Action’), ovvero Gran Bretagna, Cina, Francia, Germania e Russia.
    Si riaccendendo dunque le speranze di un ritorno all’intesa sul programma nucleare di Teheran, che prevedeva una limitazione alla capacità dell’Iran di sviluppare la tecnologia utile alla creazione di armi nucleari, vedendo riconosciuto in cambio un alleggerimento delle sanzioni internazionali imposte all’economia iraniana. Un tentativo di placare il timore di molti Paesi occidentali che il governo di Teheran potesse usare il suo programma nucleare nazionali per lavorare armi nucleari, mettendo potenzialmente in pericolo la sicurezza internazionale. L’intesa è saltata appena tre anni dopo. Nel 2018, l’allora presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, aveva annunciato l’uscita unilaterale dall’accordo e la ripresa di alcune sanzioni economiche da parte di Washington (anche nel settore petrolifero), che hanno spinto Teheran a venire meno agli obblighi dell’accordo circa un anno dopo, superando il tasso di arricchimento dell’uranio autorizzato e arrivando nel 2021 a produrre uranio arricchito (utile per la produzione di energia nucleare) al 60 per cento.
    Dopo oltre un anno di negoziati infruttuosi, i colloqui sono ripresi a inizio agosto e il capo della diplomazia europea, Josep Borrell, aveva presentato alle due parti l’8 agosto scorso una “versione finale” di un accordo che prevedeva la revoca delle sanzioni economiche contro l’Iran, compresa la vendita di petrolio, in cambio di restrizioni al suo programma nucleare. Dopo la risposta degli USA potrebbe volerci ancora un po’ per superare le divergenze che rimangono tra le prima di raggiungere un accordo, ma una soluzione potrebbe essere vicina. 

    Bruxelles conferma di aver ricevuto la risposta di Washington alla bozza di intesa promossa dall’UE per salvare l’accordo del 2015, da cui Trump chiamò fuori gli Stati Uniti nel 2018

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    Ucraina, il Papa: Si scongiuri il disastro nucleare a Zaporizhzhia

    Roma – Intorno alla centrale di Zaporizhzha si continua a combattere. Lo spettro della catastrofe nucleare aleggia sull’Europa e scuote anche Papa Francesco: “Auspico che si intraprendano passi concreti per mettere fine alla guerra e scongiurare il rischio di un disastro”, è l’appello al termine dell’udienza generale. Il Pontefice ricorda i prigionieri, “soprattutto quelli che si trovano in condizioni fragili” e chiede alle autorità responsabili di “adoperarsi per la loro liberazione”.
    Cita l’attentato a Darya Dugina, morta nell’esplosione della propria auto il 20 agosto scorso mentre faceva ritorno a Mosca: “Penso alla povera ragazza volata in aria per una bomba sotto il sedile. Gli innocenti pagano la guerra, gli innocenti”. Riflette sulla “crudeltà”, sui civili che stanno pagando “la pazzia, la pazzia, la pazzia di tutte le parti”, ripete. “Perché la guerra è una pazzia e nessuno che è in guerra può dire ‘No, io non sono pazzo’”, avverte.
    In attesa di una ispezione dell’Aiea, l’Agenzia internazionale per l’energia atomica (che sarà “imminente”, assicura il direttore generale Rafael Mariano Grossi), nel Consiglio di Sicurezza di ieri Mosca e Kiev si sono nuovamente accusate a vicenda di aver messo in pericolo la centrale. “Le forze armate ucraine continuano a bombardare il territorio quasi ogni giorno, creando un rischio reale di incidente radioattivo con conseguenze catastrofiche per l’intero continente europeo”, denuncia l’ambasciatore russo Vasily Nebenzia. E invita l’Occidente a “smettere di coprire il loro protetto ucraino”: “Abbiamo l’impressione che i nostri colleghi stiano vivendo in una realtà parallela in cui l’esercito russo sta bombardando il sito che sta proteggendo”, dichiara. “Nessuno può immaginare che l’Ucraina prenda di mira una centrale nucleare e crei un enorme rischio di disastro nucleare sul proprio territorio”, la risposta dell’ambasciatore ucraino Sergiy Kyslytsya, che bolla i comportamenti russi come “provocazioni e azioni terroristiche”.
    Dal palco del Meeting di Rimini, il presidente del Consiglio Mario Draghi cita Papa Francesco: “Non posso che associarmi alle parole del Santo Padre perché si eviti un disastro nucleare”. “Speravo fino a ieri che la decisione di permettere l’accesso della centrale nucleare di Zaporizhzhia a ispettori dell’Onu fosse un segno” di dialogo tra le parti, confessa. “Purtroppo stanotte missili russi hanno bombardato la zona intorno alla centrale. In ogni caso – assicura -, in questa ricerca della pace è essenziale che le promesse siano sincere, che siano seguite da azioni concrete e che, soprattutto, sia l’Ucraina a decidere quali termini di pace siano accettabili“.
    Nella ricorrenza della Festa Nazionale ucraina, Sergio Mattarella scrive a Volodomyr Zelensky per esprimere la sua solidarietà: “Desidero rinnovare, in quest’ora così drammatica, a lei e a tutti i suoi concittadini l’espressione più convinta di vicinanza e sostegno della Repubblica Italiana”, si legge nel messaggio. Il Capo dello Stato classifica l’aggressione russa come “brutale e ingiustificata”. “L’Italia sostiene fermamente l’integrità territoriale, la sovranità, l’indipendenza e la libertà del suo Paese – garantisce – e ribadisce il suo impegno ad assistere il popolo ucraino anche sotto il profilo umanitario e della ricostruzione”. Il cessate il fuoco è necessario e dev’essere immediato. Solo così, insiste Mattarella, si potrà avviare “un processo negoziale in vista di una soluzione pacifica, giusta, equa e sostenibile per l’Ucraina”.

    Continuano i bombardamenti intorno alla centrale. Alle parole del Pontefice si associa l’appello del premier italiano Mario Draghi. Mattarella scrive a Zelensky. Attesa la visita di ispezione dell’Aiea

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    L’Ue celebra il Giorno dell’Indipendenza dell’Ucraina e della “lotta per difendere i valori e principi europei”

    Bruxelles – Una bandiera di 30 metri giallo-blu, per unire Kiev all’Unione Europea nel Giorno dell’Indipendenza dell’Ucraina. A presenziare alla cerimonia alla Grand-Place di Bruxelles, la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, vestita con la camicia blu e la giacca gialla – i colori nazionali ucraini – che già aveva indossato in occasione dell’annuncio sul parere favorevole per la concessione dello status di Paese candidato all’adesione Ue. In occasione del 24 agosto, festività nazionale ucraina che commemora la dichiarazione di indipendenza dall’Unione Sovietica del 1991, le istituzioni comunitarie hanno fatto sentire la propria vicinanza a Kiev, impegnata in una nuova lotta per la sovranità contro la Russia – questa volta non sovietica, ma del regime di Putin.
    La sede della Commissione Europea a Bruxelles illuminata con i colori della bandiera dell’Ucraina
    “State combattendo per difendere la vostra sovranità e per proteggere la vostra libertà di fronte a un’aggressione, noi non potremo mai eguagliare i sacrifici che fate ogni giorno, ma possiamo e saremo al vostro fianco“, è stato il messaggio inviato dalla stessa presidente von der Leyen al popolo ucraino prima della sua partecipazione alla manifestazione. L’Ue ha dimostrato questo impegno “fin dall’inizio” attraverso sostegno economico, militare e umanitario: “Sosteniamo i vostri coraggiosi soldati in prima linea, i vostri funzionari e la società civile sul fronte interno”, ma anche attraverso l’accoglienza delle famiglie “che hanno cercato rifugio” nell’Unione e degli “oltre 3 milioni di bambini ucraini” nelle scuole europee. La promessa – che ricalca quella fatta a maggio al Parlamento Ue e all’impegno in sede G7 della Germania di Olaf Scholz annunciato ieri (martedì 23 agosto) al summit della Piattaforma per la Crimea – è di “ricostruire le vostre città, mattone dopo mattone, e ripiantare i vostri campi, seme per seme“, all’interno di una prospettiva che vede Ucraina e Unione Europea “insieme”.
    Tutte le istituzioni comunitarie si sono illuminate di giallo e blu per il Giorno dell’Indipendenza dell’Ucraina e un messaggio di sostegno è arrivato da ciascun presidente. “State combattendo per difendere la vostra patria e il futuro del vostro Paese, ma anche per difendere i nostri valori e i principi europei“, ha dichiarato il numero uno del Consiglio Ue, Charles Michel. È per questo motivo che “il vostro futuro è il nostro futuro comune” e l’Unione è pronta a “sostenervi il più possibile per proteggere la vostra indipendenza, la vostra sovranità e la vostra integrità territoriale”. La presidente del Parlamento Ue, Roberta Metsola, ha sottolineato che “il significato del Giorno dell’Indipendenza di quest’anno è più che mai convincente”, perché i cittadini dell’Ucraina “combattono per le loro vite, le loro famiglie, il loro Paese, i loro valori, le loro scelte e la loro libertà. Per la loro indipendenza”. Con l’hashtag #StandWithUkraine, lanciato dall’Eurocamera e dalla Verkhovna Rada (il Parlamento ucraino), la presidente Metsola ha assicurato che “il nostro sostegno non si fermerà qui” e andrà avanti “per tutto il tempo necessario”, come le ha fatto eco Michel.

    The significance of this year’s 🇺🇦 Independence Day is more compelling than ever before.
    Strong & brave Ukrainians fighting for their lives, families, country, values, choices & freedom.
    For their independence.
    🇪🇺 will always #StandWithUkraine. Our support will not stop here. pic.twitter.com/QLy2H44s1H
    — Roberta Metsola (@EP_President) August 24, 2022

    In occasione del 24 agosto le istituzioni comunitarie hanno inviato un messaggio di supporto alla difesa di Kiev dall’invasione russa. La presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, presente alla cerimonia alla Grand-Place di Bruxelles con una bandiera giallo-blu di 30 metri

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    Borrell contro il divieto di rilascio dei visti ai cittadini russi. Il tema arriva sul tavolo dei ministri degli esteri Ue

    Bruxelles – Vietare a tutti i russi di entrare in Europa in ogni circostanza con i visti non è una buona idea. “Ci sono tanti cittadini russi che vogliono fuggire dal regime di Putin e le nostre porte non possono essere chiuse a loro”. Se pur riconoscendo la necessità di avere una politica “più selettiva” nel contesto drammatico dell’invasione dell’Ucraina , il capo della diplomazia europea Josep Borrell sembra chiudere all’idea promossa da un gruppo di Paesi vicini geograficamente alla Russia – i baltici in primis (Estonia, Lettonia, Lituania), poi anche Polonia e Finlandia – di impedire con un approccio coordinato a livello europeo ai turisti russi di entrare nell’area di libera circolazione Schengen, per rafforzare l’effetto sanzionatorio contro Mosca.

    Banning all Russians from entering Europe in all circumstances is not a good idea.
    There are many Russians who want to flee from the Putin regime and our doors cannot be closed to them.
    — European External Action Service – EEAS 🇪🇺 (@eu_eeas) August 22, 2022

    Borrell chiude anche se non sarà così semplice scoraggiare l’idea. Di propria iniziativa la scorsa settimana l’Estonia ha chiuso il suo confine a oltre 500mila cittadini russi con visti già rilasciati dall’Ue e ha intenzione di trascinare il tema la prossima settimana nella riunione dei ministri degli esteri dell’UE, riuniti nell’informale formato Gymnich (il 31 agosto), come confermato oggi dalla portavoce dell’Esecutivo comunitario Dana Spinant nel corso del briefing quotidiano con la stampa.
    Al momento tutti i cittadini russi che non sono soggetti alle sanzioni internazionali possono attraversare la frontiera con in mano un visto (valido per 90 giorni) rilasciato da un qualsiasi Paese dell’area Schengen, che conta in tutto 26 Paesi: 22 dell’Unione europea (Belgio, Repubblica ceca, Danimarca, Germania, Estonia, Grecia, Spagna, Francia, Italia, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Ungheria, Malta, Paesi Bassi, Austria, Polonia, Portogallo, Slovenia, Slovacchia, Finlandia e Svezia) a cui si aggiungono quattro Paesi extra Ue, Islanda, Liechtenstein, Norvegia e Svizzera.
    Nel corso del briefing quotidiano con la stampa la portavoce per gli Affari interni Anitta Hipper ha ricordato che sono gli Stati a rilasciare i “propri visti sulla base di norme nazionali e ci sono sempre casi in cui possono essere rilasciati, come a dissidenti politici, giornalisti e per questioni umanitarie”. Ad opporsi all’introduzione del divieto a livello europeo anche il cancelliere tedesco Olaf Scholz affermando che i russi dovrebbero essere in grado di fuggire dal loro paese d’origine se non sono d’accordo con la politica del Cremlino.

    I Paesi Baltici, la Polonia e la Finlandia chiedono un approccio coordinato Ue per impedire l’ingresso per lavoro o turismo a tutti i cittadini russi, ma il capo della diplomazia europea frena. La questione sarà affrontata dai ministri degli esteri nella riunione informale di Gymnich che si terrà la prossima settimana