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    I diamanti russi inclusi nell’ottavo pacchetto di sanzioni. Ormai insostenibile la posizione contraria del Belgio

    Bruxelles – All’ottavo pacchetto di sanzioni l’assente eccellente ha fatto la sua comparsa. Come rendono noto a Eunews fonti europee, anche il commercio di diamanti grezzi dalla Russia è finito nella lista delle misure restrittive dell’Unione Europea attualmente in fase di approvazione al Coreper (il Comitato dei rappresentanti permanenti del Consiglio). Dunque certezze definitive ancora non ci sono. Nell’ulteriore stretta annunciata mercoledì scorso (28 settembre) dalla presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, altre fonti qualificate riportano che dovrebbero essere incluse anche tecnologie critiche per l’industria russa, prodotti chimici, farmaceutici, lignite, lavorati d’acciaio (dal valore di 3 miliardi di euro), armi a uso civile, pietre e metalli preziosi (dopo l’embargo all’oro di luglio). E, oltre ai diamanti grezzi, nella lista delle entità sanzionate dovrebbe comparire anche la più grande azienda russa di estrazione, Alrosa.
    Il commercio globale di diamanti grezzi della Russia è stimato dal Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti attorno ai 4,5 miliardi di euro nel 2021 (una delle prime dieci esportazioni non energetiche di Mosca, il 30 per cento in tutto il mondo) e finora l’assenza di questo prodotto nella lista delle sanzioni Ue è stata determinata dal ruolo di primo piano del Belgio nell’industria mondiale della lavorazione dei diamanti, in particolare Anversa. Nella città portuale fiamminga un embargo totale ai diamanti grezzi dalla Russia potrebbe costare 10 mila posti di lavoro – avverte l’associazione di categoria Antwerp World Diamond Centre – ma l’escalation della guerra in Ucraina ha reso sempre più insostenibile la posizione contraria del governo belga.
    Se pubblicamente il Paese ha mostrato aperture alle richieste di Polonia, Paesi Bassi e Baltici, i diplomatici belgi dietro alle quinte hanno cercato di non cedere alle pressioni, forti del timore che questa misura restrittiva possa colpire più l’economia e l’occupazione europea – o piuttosto nazionale – rispetto a quelle di Mosca. Lo stesso premier, Alexander De Croo, in una conferenza ad Anversa ha sostenuto la tesi dell’auto-danneggiamento, sottolineando allo stesso tempo che “per sei secoli questa città ha dimostrato di riuscire a rimanere resistente e innovativa in tempi turbolenti”. Dall’altra parte dell’Atlantico, gli Stati Uniti hanno bloccato l’importazione di diamanti grezzi dalla Russia a poche settimane dall’invasione dell’Ucraina, sanzionando anche l’amministratore delegato di Alrosa, Sergei Sergeevich Ivanov.

    Fonti europee confermano a Eunews che nell’ultima proposta della Commissione Ue compare il divieto al commercio di diamanti grezzi con Mosca, stimato sui 4,5 miliardi di euro nel 2021. Il governo di Bruxelles ha cercato fino all’ultimo di salvare l’industria della lavorazione di Anversa

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    Tra separatismo, rinnovamento e polemiche in Bosnia ed Erzegovina. Chi ha vinto le elezioni più complicate del mondo

    Bruxelles – Si sono svolte ieri (domenica 2 ottobre) in Bosnia ed Erzegovina quelle che sono considerate dall’opinione pubblica internazionale le elezioni più complicate tra i sistemi politici di tutto il mondo. In linea generale ha vinto il rinnovamento tra le etnie croata e musulmana, ma allo stesso tempo non si è nemmeno arrestato il separatismo della componente serba, rendendo ancora più intricata l’analisi del voto politico nel Paese balcanico, che si è appesantita con la decisione dell’alto rappresentante per la Bosnia ed Erzegovina (Ohr), Christian Schmidt, di usare i cosiddetti ‘poteri di Bonn’ per imporre modifiche alla legge elettorale e alla Costituzione proprio nel giorno del voto.
    Per capire l’esito delle elezioni, bisogna analizzare il sistema di governo in vigore in Bosnia ed Erzegovina. Il Paese è diviso in due entità, la Federazione di Bosnia ed Erzegovina e la Republika Srpska: ciascuna ha un Parlamento bicamerale e, a seconda dell’entità in cui vivono, i cittadini eleggono anche un presidente (Republika Srpska) o la rappresentanza politica cantonale (Federazione di Bosnia ed Erzegovina, divisa in 10 cantoni). A livello statale, c’è una presidenza tripartita (composta dai rappresentanti delle etnie croata, musulmana e serba) un Consiglio dei ministri e un Parlamento bicamerale statale: di quest’ultimo è importante la Camera dei popoli – di 15 membri, cinque per ciascuna etnia – che ha il compito di tutelare i rispettivi interessi etnici con un potere di veto sulle leggi approvate dalla Camera dei rappresentanti. Nella pratica, nel giorno delle elezioni in Bosnia ed Erzegovina si vota per cose diverse a seconda della propria entità politica di riferimento e della propria etnia (chi non si identifica in nessuna delle tre maggiori è escluso da alcune votazioni). Chi risiede nella Federazione di Bosnia ed Erzegovina vota per i membri bosgnacco – cioè bosniaco musulmano – e croato della presidenza tripartita, per il Parlamento statale, per il Parlamento della Federazione e per l’Assemblea cantonale. Chi risiede nella Republika Srpska vota per il membro serbo della presidenza tripartita, per il Parlamento statale, per il presidente e per il Parlamento dell’entità serba.
    Su una popolazione di 3,8 milioni di persone, sono stati oltre 7 mila i cittadini che si sono candidati a una qualche carica di rappresentanza nel Paese il 2 ottobre 2022. In palio c’erano tre seggi per la presidenza tripartita, 42 per il Parlamento statale, 98 per l’Assemblea della Federazione, 83 per l’Assemblea e tre per il presidente e i vicepresidenti della Republika Srpska, oltre a tutti quelli delle 10 Assemblee cantonali. Secondo quanto riporta la Commissione elettorale centrale, solo il 50 per cento dei bosniaci ha votato nei 5.904 seggi aperti, confermando il clima di generale sfiducia nel sistema politico nazionale e di estrema complessità di quello elettorale, che è alla base dell’astensionismo cronico dalle prime elezioni dopo la fine della guerra in Bosnia nel 1996.
    Con l’85 per cento delle schede spogliate, per quanto riguarda la presidenza tripartita va segnalato il doppio risultato della socialdemocrazia nella Federazione. Il membro croato uscente, Željko Komšić (Fronte Democratico), si è imposto sulla candidata nazionalista dell’Unione Democratica Croata (Hdz), Borjana Krišto, spingendo verso la visione di uno Stato che si smarchi dalle divisioni etniche, come sostenuto anche dal futuro membro bosgnacco, Denis Bećirović (Partito Socialdemocratico), che ha sconfitto il Partito d’Azione Democratica (Sda), guidato dall’uscente Bakir Izetbegović (in carica dal 2010 a oggi e figlio del primo presidente bosniaco, Alija Izetbegović). L’asse di centro-sinistra moderato che proverà a spingere Sarajevo su una strada meno etno-centrica a riformista è frenato però dall’elezione della serbo-bosniaca Željka Cvijanović (la prima rappresentante donna di sempre in questo ruolo): presidente uscente della Republika Srpska, anche lei sarebbe una socialdemocratica, ma nell’entità a maggioranza serba questo significa che continuerà con ancora più forza il progetto secessionista iniziato dal predecessore, Milorad Dodik.

    This is the new BiH Presidency.
    Bećirović and Komšić are social democrats who will continue advocating for a civic BiH.
    Cvijanović, a Serb nationalist, will keep pushing for the secession of the RS.
    The people of BiH have sent a clear message: We want to live in a civic state. pic.twitter.com/0397EUsRdZ
    — Samir Beharić 🇺🇦 (@SamBeharic) October 3, 2022

    A proposito di Dodik, in Republika Srpska c’è un giallo sulle elezioni del nuovo presidente dell’entità. Dopo la chiusura delle urne, la candidata del Partito del Progresso Democratico (Pdp), Jelena Trivić, ha rivendicato la vittoria, sostenendo di essere sopra di oltre 11 mila voti rispetto al candidato dell’Alleanza dei Socialdemocratici Indipendenti. La Commissione elettorale centrale, invece, ha confermato che è Dodik il più vicino a essere eletto per la terza volta (dopo il doppio mandato tra il 2010 e il 2018) a presidente della Republika Sprska, con uno scarto di circa 30 mila preferenze: gli avversari stanno denunciando brogli elettorali per cui dovrebbe essere invalidato il risultato delle urne. In ogni caso, entrambi i leader serbo-bosniaci spingono sulla strada del secessionismo dell’entità, e nessuno dei due scenari sembra essere più rassicurante per la stabilità del Paese e il rispetto degli impegni sulle riforme istituzionali previsti dal cammino di adesione all’Unione Europea.
    L’alto rappresentante per la Bosnia ed Erzegovina (Ohr), Christian Schmidt (2 ottobre 2022)
    In attesa dell’esito del voto per la composizione delle 13 Assemblee parlamentari – locali, statali e delle entità – che potrebbe confermare queste le tendenze generali verso il riformismo nella Federazione e il separatismo nella Republika Srpska, è arrivata con un tempismo alquanto discutibile la decisione dell’alto rappresentante per la Bosnia ed Erzegovina di imporre modifiche alla legge elettorale e alla Costituzione, nel pieno del processo di voto. Questa possibilità deriva dai ‘poteri di Bonn’ – previsti dagli Accordi di Dayton del 1995, che misero fine alla guerra in Bosnia iniziata tre anni prima – che consentono all’alto rappresentante di imporre misure legislative o licenziare funzionari che si oppongono all’attuazione degli stessi accordi di pace sulle modifiche alla Costituzione e alla legge elettorale.
    Le misure contenute nel ‘Pacchetto di funzionalità‘ dovrebbero snellire il processo legislativo con l’obbligo di cooperazione per le due Camere del Parlamento statale, aumentare il numero di rappresentanti nella Camera dei popoli e modificare le modalità con cui vengono eletti, oltre a definire scadenze più strette per la formazione del governo dopo le elezioni. Nonostante le dure critiche da parte dei maggiori esperti e analisti della politica bosniaca e di alcuni eurodeputati, la misura è stata sostenuta sia dall’ambasciata statunitense in Bosnia, sia da quella britannica. Più attendista è invece la Commissione Europea, che attraverso la portavoce per la Politica di vicinato e l’allargamento, Ana Pisonero, ha fatto sapere che “è una decisione dell’alto rappresentante” e ha ricordato che “i poteri di Bonn devono essere usati solo come ultimo mezzo disponibile”, esortando allo stesso tempo i leader bosniaci a “rafforzare gli impegni sanciti a giugno a Bruxelles“. Nella nota della delegazione Ue in Bosnia ed Erzegovina si legge invece che Bruxelles “prende atto” di quanto deciso da Schmidt, senza dare alcun indizio se si respiri ottimismo o irritazione per le modifiche alla Costituzione e alla legge elettorale del Paese nel giorno stesso delle elezioni.

    These results were however overshadowed by the use of the Bonn Powers by the @OHR_BiH to impose a new election law that caters the interests of the ethno-nationalistic HDZ party and its sister party in Zagreb. By doing so, Mr. Schmidt has severely complicated the reform process.
    — Tineke Strik (@Tineke_Strik) October 3, 2022

    “Con questa missione elettorale si rende ancor più evidente l’interesse e l’attenzione dell’Unione Europea, che resta convintamente al fianco del Paese nel suo cammino verso una piena integrazione europea”, scrive in una nota l’eurodeputato del Movimento 5 Stelle e unico italiano tra gli osservatori elettorali del Parlamento, Fabio Massimo Castaldo, che sottolinea anche “lo speciale legame culturale, storico e commerciale dell’Italia con la Bosnia e con l’intera regione dei Balcani Occidentali”. L’auspicio dell’eurodeputato italiano è che “il nuovo Parlamento possa superare i veti e le tensioni degli ultimi anni e proseguire nel cammino delle riforme” verso l’adesione all’Unione.
    Anche i Socialisti e Democratici (S&D) all’Eurocamera esortano i nuovi leader “a superare le divisioni etniche e a concentrarsi sulle riforme necessarie verso un futuro prospero, democratico ed europeo”. Il nuovo governo, afferma una nota, “deve attuare tutti gli impegni e le riforme, comprese le sentenze dei tribunali nazionali e internazionali, per trasformare la Bosnia ed Erzegovina in uno Stato pienamente funzionante”. Il gruppo S&D è deluso dal fatto che “le campagne elettorali siano state oscurate dalla retorica etnica divisiva dei partiti politici invece di concentrarsi su argomenti riguardanti il benessere dei cittadini come la disoccupazione, la disuguaglianza sociale, la corruzione, l’elevata inflazione e la crisi energetica”.

    Le urne hanno rinnovato la presidenza tripartita, il Parlamento statale, quelli delle due entità e il presidente della Republika Srpska. Si delineano la linea moderata di croati e bosgnacchi e quella separatista serba, mentre l’alto rappresentante impone modifiche alla legge elettorale

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    Dopo gli attacchi ai gasdotti Nord Stream, allarme per la sicurezza infrastrutture europee (compresi cavi sottomarini)

    Bruxelles – Le infrastrutture critiche europee sotto attacco, con il sabotaggio ai gasdotti Nord Stream 1 e Nord Stream 2 che potrebbe costituire solo il primo episodio di un conflitto ibrido sul piano energetico e tecnologico. “Dobbiamo valutare tutte le caratteristiche fisiche delle infrastrutture critiche per l’Ue, per capire quanto sono resistenti“, confessano i portavoce della Commissione Europea. Perché ora è la sicurezza europea sotto minaccia russa, anche se – in assenza di prove inconfutabili – le accuse al Cremlino non possono essere ancora esplicite. Dai gasdotti ai cavi sottomarini, i Ventisette non possono permettersi però esitazioni e alzano l’allerta sulla protezione dei punti più vulnerabili per gli approvvigionamenti energetici e le connessioni digitali.
    I Paesi membri Ue dovranno condurre quanto prima “stress test” in coordinazione con Bruxelles, “con una metodologia comune e un calendario specifico” coordinato dalla commissaria per gli Affari interni, Ylva Johansson. La portavoce dell’esecutivo comunitario responsabile per la Sicurezza interna, Anitta Hipper, precisa che questi stress test “devono coinvolgere anche operazioni umane, come sabotaggi e attacchi terroristici o ibridi“, in particolare alla luce di una “situazione eccezionale e senza precedenti” rappresentata dal sabotaggio ai gasdotti Nord Stream 1 e Nord Stream 2 di martedì (27 settembre): “Dobbiamo essere consapevoli dei rischi che affrontiamo, non facciamo stress test ogni giorno”.
    L’esplosione dei gasdotti russi in quattro punti distinti nel Baltico ha senz’ombra di dubbio un colpevole e l’Unione guarda a est, verso Mosca. “È altamente probabile che sia stato un attacco deliberato, e non un incidente, ed è molto improbabile che non sia responsabilità di uno Stato“, ha alluso a una responsabilità del Cremlino il ministro svedese dell’Energia e dello sviluppo digitale, Khashayar Farmanbar, facendo ingresso oggi (venerdì 30 settembre) al Consiglio Energia straordinario. Lo stesso ministro svedese al momento non vuole speculare “su chi e quale è stata la ragione dell’esplosione dei gasdotti”, confermando comunque che “diverse autorità governative stanno investigando sulla sicurezza” delle infrastrutture critiche. Come evidenziano diversi analisti militari, la Russia tutti gli interessi nel sabotare i gasdotti, dal momento in cui – dopo l’interruzione totale dei flussi sul Nord Stream 1 con la scusa di un guasto – i contratti con l’Ue prevederebbero forti penali per la mancata fornitura del servizio: ma con le infrastrutture sono danneggiate, il colosso energetico russo Gazprom può rivendicare la non-colpevolezza per la mancata erogazione del gas.
    Si attende la conferenza stampa del segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, per capire quale livello di tensione è stato raggiunto a proposito di un possibile salto di livello della guerra del Cremlino. Ma non sono solo i gasdotti al centro delle preoccupazioni europee. I cavi sottomarini potrebbero diventare il prossimo bersaglio di una guerra ibrida da parte della Russia, per tagliare connessioni vitali dal punto di vista digitale ed economico ai Paesi europei (dalle ‘autostrade sottomarine’ passano anche le transazioni sui mercati finanziari). I cavi sottomarini sono i vettori del traffico Internet globale, oltre 400 tubi in fibra ottica che si estendono per 1,3 milioni di chilometri e che sono gestiti quasi esclusivamente da aziende private come Google, Microsoft, Alcatel Submarine Networks e Huawei Marine Networks. La vulnerabilità di questi obiettivi non-militari è determinata dal posizionamento in acque internazionali, dove per aziende e governi è più complessa la protezione, e in aree facilmente accessibili a sottomarini senza equipaggio, che possono piazzare esplosivi nei punti critici della rete.
    A oggi non ci sono casi confermati di governi che hanno danneggiato deliberatamente queste infrastrutture critiche per motivi geopolitici, ma il rischio non è nuovo e il segretario generale della Nato Stoltenberg già due anni fa avvertiva che i cavi sottomarini sono un elemento di “cruciale importanza” sia per scopi civili sia militari, anche se in caso di danneggiamento le forze armate occidentali possono passare rapidamente alle comunicazioni satellitari. Gli hub cruciali in Europa si trovano nel Mar Mediterraneo, dove si snodano i collegamenti con l’Asia oltre il Canale di Suez, e le coste occidentali del Regno Unito e della penisola iberica, dove arrivano le reti translatlantiche. Se il Cremlino volesse portare avanti questo tipo di attacco, è probabile possa concentrarsi sulla rete regionale nel Baltico, dal momento in cui un’offensiva ibrida su una rete trans-continentale potrebbe essere più facilmente individuabile dalle agenzie di sicurezza dei governi europei.

    Le esplosioni che hanno colpito le infrastrutture di traporto del gas potrebbero indicare che la Russia è pronta a portare il conflitto a un nuovo livello, coinvolgendo l’Europa in un confronto ibrido e tecnologico. Anche se al momento non ci sono prove inconfutabili contro il Cremlino

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    Ue contro Lukashenko sulla visita ai separatisti dell’Abhkazia: “Viola sovranità della Georgia e diritto internazionale”

    Bruxelles – Il silenzio dell’autoproclamato presidente della Bielorussia, Alexander Lukashenko, sulla scena internazionale è tornato a rompersi e le provocazioni fanno un rumore assordante. “L’Unione Europea condanna duramente la visita di Lukashenko in Abhkazia, viola la sovranità della Georgia e il diritto internazionale”, ha attaccato il portavoce del Servizio europeo per l’azione esterna (Seae), Peter Stano, parlando oggi (giovedì 29 settembre) con la stampa europea e ribadendo che “ha comunque perso da tempo qualsiasi legittimità anche in Bielorussia”.
    Le accuse da Bruxelles hanno rinforzato quelle di Tbilisi, dopo il volo dell’autocrate bielorusso nell’autoproclamata Repubblica Autonoma di Abkhazia per incontrare le autorità di Sokhumi. “Si tratta di una violazione inaccettabile della legge georgiana sui territori occupati, dei principi delle nostre relazioni bilaterali e del diritto internazionale”, ha denunciato su Twitter la presidente della Georgia, Salomé Zourabichvili. Il governo georgiano ha esortato Minsk a rispettare la sovranità e l’integrità territoriale del Paese caucasico all’interno dei suoi confini riconosciuti a livello internazionale e di non intraprendere azioni che contraddicano i principi fondamentali del diritto internazionale.
    Nell’agosto del 1992 era scoppiato un conflitto tra l’esercito georgiano e i separatisti abkhazi (sostenuti dalla Russia), durato oltre un anno. Sedici anni dopo, sempre nel mese di agosto l’esercito di Vladimir Putin aveva invaso per cinque giorni il territorio della Georgia. Da allora Tbilisi ha di fatto perso il controllo non solo dell’Abkhazia, ma anche dell’Ossezia del Sud, che sono state riconosciute come Stati indipendenti dalla Russia, con il dispiegamento di migliaia di soldati nell’area per aumentare la propria influenza nella regione della Ciscaucasia (dove è stato represso nel sangue l’indipendentismo ceceno con due guerre tra il 1994 e il 2009). Nessuna delle due autoproclamate Repubbliche è riconosciuta come indipendente e sovrana dalla comunità internazionale.

    I strongly condemn Aleksandr Lukashenko’s visit to occupied Abkhazia. This is an unacceptable violation of Georgia’s Law on Occupied Territories and of the principles of our bilateral relations and international law.
    — Salome Zourabichvili (@Zourabichvili_S) September 28, 2022

    Ma non è solo la questione georgiana a sollevare preoccupazioni per l’atteggiamento di Lukashenko. Come riportano le fonti del Presidium del Consiglio di coordinamento dell’opposizione bielorussa, Minsk sarebbe pronta a ospitare oltre 120 mila soldati russi nella campagna militare invernale in Ucraina tra novembre e febbraio, in particolare tra i 300 mila riservisti richiamati alle armi da Putin la settimana scorsa. In aggiunta, l’autoproclamato presidente bielorusso potrebbe anche impegnarsi a fornire 100 mila soldati per una nuova offensiva “su larga scala”, dopo sette mesi di invasione che non stanno dando i risultati sperati dal Cremlino. “Ogni soldato russo deve lasciare la Bielorussia, non possiamo permettere che la Russia continui a usare il nostro Paese come base per gli attacchi contro l’Ucraina“, ha denunciato la presidente ad interim della Bielorussia riconosciuta dall’Unione Europea, Sviatlana Tsikhanouskaya: “Se le forze armate russe invieranno truppe mobilitate e ulteriori attrezzature sul nostro territorio, i bielorussi faranno tutto il possibile per sabotare la loro macchina da guerra”.

    Every Russian soldier must leave Belarus. We can’t allow 🇷🇺 to continue using our country as a staging ground for attacks on 🇺🇦. If the 🇷🇺 armed forces send mobilized troops & more equipment to our territory, Belarusians will do everything possible to sabotage their war machine. pic.twitter.com/ZGo4j4On8C
    — Sviatlana Tsikhanouskaya (@Tsihanouskaya) September 29, 2022

    Il portavoce del Servizio europeo per l’azione esterna, Peter Stano, ha attaccato l’autoproclamato presidente bielorusso, volato nel territorio separatista riconosciuto da Mosca e pronto a ospitare oltre 120 mila riservisti russi nella campagna militare invernale in Ucraina

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    “Stati Uniti necessari ma non sufficienti, servono coalizioni più ampie”. Gentiloni rispolvera la Commissione geopolitica

    Bruxelles – Stati Uniti sì, ma non solo. Paolo Gentiloni rompe la logica della dipendenza geo-politica con Washington per uscire da schemi considerati ormai superati dalla mutata realtà e rilanciare le aspirazioni dell’Unione europea sullo scacchiere internazionale, riproponendo le ambizioni di Commissione geopolitica che il team von der Leyen aveva cullato a inizio mandato. Certo, il passaggio dall’amministrazione Trump all’amministrazione Biden “ha segnato un miglioramento nella qualità delle relazioni” tra le due parti, riconosce il commissario per l’Economia. Ma “per affrontare le sfide che il mondo sta affrontando la cooperazione transatlantica è una condizione necessaria ma non sufficiente“. Per questo, continua, “abbiamo bisogno di radunare coalizioni molto più ampie“.
    La presenza di Gentiloni al Frankfurt forum sulla geo-economia Europa-Stati Uniti è l’occasione per riprendere in mano il progetto di commissione geo-politica interrottosi bruscamente un anno fa, dopo gli annunci e le intenzioni del nuovo esecutivo comunitario. Sia chiaro, gli USA restano un partner chiave e imprescindibile, ma l’UE ha anche la necessità di non dover più dipendere così tanto politicamente da un alleato di lungo corso.
    Gentiloni ricorda che ci sono 35 paesi, inclusi tre membri del G20 [Cina, India e Sud Africa], che “hanno deciso di astenersi nella risoluzione delle Nazioni Unite che condanna l’invasione russa dell’Ucraina“. Una situazione che ricorda l’importanza di non dare niente per scontato, e di lavorare per evitare brutte sorprese. “Per aumentare la nostra influenza in altre parti del mondo, dobbiamo investire in esse”, l’appello di Gentiloni, che rilancia la strategia Global Gateway per relazioni sostenibili e affidabili con popoli e governi a beneficio di tutti. E rilancia pure quella Commissione geopolitica che doveva imprimere una volta non ancora avvenuta ma che oggi più che mai a Bruxelles si avverte come necessaria.

    Il commissario per l’Economia invita a lavorare attivamente in poltica estera. “Per aumentare la nostra influenza in altre parti del mondo, dobbiamo investire in esse”

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    L’Ue reagisce all’escalation in Ucraina con l’ottavo pacchetto di sanzioni: price cap a petrolio e stop a europei nei Cda russi

    Bruxelles – Dal sesto all’ottavo pacchetto di sanzioni, passando dal maintenance and alignement (aggiornamento e allineamento, un sorta di ‘sesto e mezzo’), per colpire il Cremlino immediatamente dopo la nuova escalation in Ucraina, caratterizzata dai referendum farsa di annessione dei territori occupati dalla Russia, l’arruolamento di 300 mila riservisti, le minacce di uso dell’arma nucleare e il sabotaggio ai gasdotti Nord Stream. “La Russia ha portato l’invasione dell’Ucraina a un nuovo livello, siamo determinati a far pagare al Cremlino questa ulteriore escalation“, ha attaccato senza troppi giri di parole la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen.
    Il cuore del nuovo pacchetto di sanzioni contro la Russia è un’ulteriore limitazione degli scambi commerciali, che “costerà al Cremlino altri 7 miliardi di euro in entrate“. Le proposte dettagliate ancora non sono state rese note, ma dal discorso della numero uno della Commissione e dell’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, si iniziano a intravedere le direttrici dell’intervento. Prima di tutto un isolamento ulteriore dell’economia russa, per privare il complesso militare del Cremlino di tecnologie-chiave: “Si tratta di ulteriori prodotti per l’aviazione, componenti elettronici e sostanze chimiche specifiche”, ha anticipato von der Leyen. Ma soprattutto, nel pacchetto sarà introdotto un “tetto massimo di prezzo del petrolio russo per i Paesi terzi”, per annullare i profitti del Cremlino derivanti dalla vendita di combustibili fossili. “Abbiamo già deciso di vietare il trasporto di greggio russo via mare nell’Unione Europea a partire dal 5 dicembre”, ha ricordato von der Leyen – fornendo per la prima volta una data precisa alla decisione sul sesto pacchetto approvato a giugno. “Stiamo gettando le basi legali per questo tetto al prezzo del petrolio”, è l’annuncio che però ancora rimane molto vago.
    Sarà poi vietato ai cittadini europei di fornire servizi e sedere negli organi direttivi delle imprese statali russe, perché Mosca “non dovrebbe beneficiare delle conoscenze e delle competenze europee”, e saranno anche intensificati gli sforzi per reprimere l’elusione delle misure restrittive: “Stiamo aggiungendo una nuova categoria, con cui saremo in grado di schedare le persone che aggirano le nostre sanzioni“, per esempio chi acquista beni nell’Ue e li porta in Russia passando da Paesi terzi. “Credo che avrà un grande effetto deterrente, rendendo a Putin ancora più difficile sostenere la guerra”, ha concluso la presidente della Commissione.
    “Il Cremlino sta seguendo lo stesso schema che abbiamo già visto in Georgia nel 2008 e in Crimea nel 2014“, ha messo in chiaro l’alto rappresentante Borrell: “Sono sicuro di poter parlare a nome degli Stati membri dell’Unione Europea, che nessuno di loro riconoscerà il risultato falsificato dei referendum farsa” nelle province ucraine occupate di Donetsk, Luhansk, Kherson e Zaporizhzhia. Ribadendo che “le nostre sanzioni stanno funzionando”, Borrell ha illustrato l’aggiornamento dell’elenco dei sanzionati, che “già ora conta più di 1.300 tra individui ed entità“. Saranno colpiti dalle sanzioni “tutti coloro che sono coinvolti nell’occupazione e nell’annessione illegale di aree dell’Ucraina da parte della Russia”, vale a dire le autorità russe per procura a Donetsk, Luhansk, Kherson e Zaporizhzhia e i responsabili dell’organizzazione dei referendum farsa. Saranno poi inclusi i funzionari di alto livello del ministero della Difesa russo e “coloro che sostengono le forze armate russe fornendo attrezzature e armi dell’esercito, compresi missili e aerei da combattimento”, o che “partecipano al reclutamento” dei riservisti. Infine sarà prevista una nuova stretta sulla propaganda e la disinformazione di regime e ai donatori nelle aree occupate.
    A completare il quadro sulle sanzioni contro la Russia, il commissario europeo per l’Economia, Paolo Gentiloni, ha elencato i dati del crollo dell’economia del Cremlino: “Le importazioni dall’Ue sono diminuite di circa il 50 per cento nel periodo marzo-giugno, rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso, la nostra quota di importazioni di gas dalla Russia è diminuita dal 45 per cento prima della guerra al 14 di oggi“. Ancora più impressionante è quanto riporta il commissario italiano sull’industria civile di Mosca: “Le poche auto oggi prodotte sono prive di airbag, Abs e marmitte catalitiche, mentre i dati dell’estate indicavano un calo delle vendite di oltre il 70 per cento rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso a causa del crollo della produzione”. Un chiaro segno che “la nostra risposta comune sta funzionando”, come dimostrano anche le recenti mosse di Putin, “dall’interruzione delle consegne di gas attraverso Nord Stream 1, fino alla mobilitazione dei riservisti e ai falsi referendum nei territori occupati”, ha ribadito Gentiloni.

    La Commissione ha annunciato nuove misure restrittive contro “tutti coloro che sono coinvolti nell’aggressione armata e nell’annessione illegale di territori ucraini”. La presidente von der Leyen ha annunciato che la nuova stretta alle importazioni “costerà al Cremlino altri 7 miliardi di euro”

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    I referendum farsa nelle regioni occupate dell’Ucraina sono state un plebiscito (forzato) per l’annessione alla Russia

    Bruxelles – Donetsk, Luhansk, Kherson e Zaporizhzhia. Si sono concluse ieri sera (martedì 27 settembre) le operazioni di voto nelle quattro province occupate dall’esercito russo in Ucraina e l’esito del referendum è stato un plebiscito: il 99 per cento dei votanti si è espressa a favore dell’annessione alla Russia. Questa è la versione di Mosca, ma il filtro è quello degli occupanti, in un Paese invaso da ormai più di cinque mesi. La realtà dei fatti è che quanto messo in piedi dal Cremlino nelle quattro regioni orientali e meridionali dell’Ucraina sono dei referendum farsa, organizzati in maniera illegale e a cui, dati alla mano, ha partecipato una quota quasi irrisoria di cittadini ucraini, senza contare le minacce armate dei soldati russi sulla popolazione al momento del voto.
    L’esito non era minimamente in discussione, ma ora si apre una fase nuova per la guerra in Ucraina. Perché l’autocrate russo, Vladimir Putin, utilizzerà il risultato di questi referendum illegali per dichiarare l’annessione delle quattro regioni dell’Ucraina occupata alla Russia: in altre parole – nella visione propagandistica del Cremlino – il conflitto si trasformerà da una “operazione speciale” offensiva a una guerra di difesa dei nuovi territori inglobati e, allo stesso tempo, la controffensiva dell’esercito ucraino sarà considerata un attacco alla sovranità russa. Non è la prima volta che Mosca ribalta a 360 gradi causa ed effetto degli eventi (basti ricordare le motivazioni dell’attacco armato a un Paese sovrano, ‘giustificate’ dalla legittima richiesta dell’Ucraina di aderire all’Unione Europea e alla Nato), ma questo momento rappresenta senza dubbio un punto di svolta per lo scenario bellico sul continente europeo. Anche perché nel frattempo sono iniziate le operazioni di arruolamento dei 300 mila riservisti russi, nonostante l’ondata di proteste e la fuga di decine di migliaia di persone dal Paese.
    Per la conferma basterà aspettare venerdì (30 settembre) quando, secondo quanto riportano le fonti d’intelligence britanniche, Putin terrà un discorso in entrambe le Camere del Parlamento (l’Assemblea Federale e la Duma di Stato), con la “realistica possibilità” che annunci formalmente l’annessione delle regioni occupate come “rivendicazione” dei successi della “operazione militare speciale”. In questo scenario, l’annessione dovrebbe avvenire già il giorno seguente, consentendo a Mosca la coscrizione forzata di civili ucraini per combattere contro il loro stesso Paese. Putin si sente forte del plebiscito dei risultati del referendum-farsa nelle quattro regioni che rappresentano circa il 15 per cento del territorio dell’Ucraina, ma sono impietosi i dati sul numero di cittadini che – in modo forzato e pilotato – hanno partecipato al voto. Nella regione di Zaporizhzhia hanno votato in totale in 39.367 su una popolazione complessiva di 1.666.515 persone, ovvero il 2,3 per cento. Nell’Oblast di Donetsk – solo parzialmente controllato dall’esercito russo – avrebbe votato il 97 per cento degli aventi diritto al voto, secondo quanto riporta l’agenzia di stampa statale Ria Novosti, ma non coincidono dati sulla popolazione: per il Cremlino sarebbero poco più di due milioni, ma al gennaio 2022 Kiev ne contava oltre quattro milioni. Tutto ciò accompagnato dai soldati russi che tra il 23 e il 27 settembre si recavano casa per casa per costringere i cittadini ucraini a votare e lo scrutinio effettuato con modalità del tutto illecite.
    Rimane alta l’attenzione anche a Bruxelles sulla situazione nell’est dell’Ucraina, con le condanne a pioggia per i “referendum illegali” di annessione alla Russia, sulla falsariga di quello in Crimea nel 2014. “L’Ue denuncia lo svolgimento di referendum illegali e il loro esito falsificato, si tratta di un’altra violazione della sovranità e dell’integrità territoriale dell’Ucraina, in mezzo a sistematici abusi dei diritti umani”, è l’attacco dell’alto rappresentante per gli Affari esteri e la politica sicurezza, Josep Borrell: “Lodiamo il coraggio degli ucraini, che continuano a opporsi e a resistere all’invasione russa”. Senza troppi giri di parole la condanna del presidente del Consiglio Ue, Charles Michel: “Referendum fasulli, risultati fasulli. Non riconosciamo nessuno dei due”. Le istituzioni comunitarie si preparano a varare un nuovo pacchetto di misure restrittive contro i responsabili dei referendum farsa nelle regioni occupate dell’Ucraina e il portavoce del Servizio europeo per l’azione esterna (Seae), Peter Stano, avverte che la Commissione ritiene “certamente un’opzione” imporre sanzioni individuali anche ai cittadini europei che sostengono quest’azione illegale di Mosca: “Tutto dipenderà dal livello di partecipazione, la responsabilità di capire se vanno adottate misure caso per caso è degli Stati membri”.

    Sham referenda.
    Sham results.
    We recognize neither.
    — Charles Michel (@CharlesMichel) September 27, 2022

    Nelle operazioni di voto “illegali” e truccate dal Cremlino negli Oblast di Donetsk, Luhansk, Kherson e Zaporizhzhia, il “sì” avrebbe vinto con il 99 per cento: Putin potrebbe dichiarare il 30 settembre l’ampliamento del territorio nazionale. Dura condanna Ue: “Altra violazione della sovranità di Kiev”

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    Le previsioni dell’Ue sull’impatto delle sanzioni sulla Russia: “Il Pil crollerà dell’11 per cento, peggio della caduta dell’Urss”

    Bruxelles – Peggio della caduta dell’Unione Sovietica. Le sanzioni internazionali stanno colpendo la Russia con una violenza mai vista prima nella storia, dopo anni in cui Mosca affronta una recessione economica. La conferma arriva dal vicedirettore generale per l’Europa orientale e l’Asia centrale del Servizio europeo per l’azione esterna (Seae), Luc Pierre Devigne, nel corso di un’audizione alla sessione congiunta della commissione Affari esteri (Afet) e della sottocommissione per la Sicurezza e la difesa (Sede) del Parlamento Ue. “Le nostre sanzioni funzionano, la Russia affronta una recessione dagli anni Novanta e ora ci aspettiamo un crollo del Pil nazionale dell’11 per cento, ancora maggiore rispetto a quello della caduta dell’Urss“.
    Nel corso dell’audizione parlamentare Devigne si è soffermato sulle motivazioni per cui è necessario un nuovo round di misure restrittive internazionali contro il Cremlino, ormai in difficoltà evidente sia sul fronte economico, sia su quello militare: “La Russia è sempre più isolata, partner importanti come Cina e India hanno dichiarato che questi non possono essere tempi di guerra e il presidente turco, Recep Tayyip Erdoğan, ha annunciato che i territori strappati all’Ucraina non saranno riconosciuti”. Come già ha spiegato recentemente anche il premier italiano dimissionario, Mario Draghi, e ancor prima il ministro dell’Economia francese, Bruno Le Maire, “dobbiamo essere ancora più risoluti e continuare sulla strada delle sanzioni contro la Russia, che si stanno dimostrando efficaci”, ha ribadito con forza Devigne, precisando agli eurodeputati che “non posso rivelarne il contenuto per non mettere a repentaglio la loro efficacia e per non impattare sul costo di ciò che potrebbe essere sanzionato”.
    A determinare decisione di un nuovo round di misure restrittive (arrivate a sei pacchetti e un ultimo a luglio definito maintenance and alignement, aggiornamento e allineamento) è l’ulteriore escalation militare in Ucraina, con i referendum-farsa nelle autoproclamate Repubbliche filo-russe e la mobilitazione parziale dei riservisti dichiarata da Vladimir Putin, con annesse minacce nucleari all’Occidente. “Qualsiasi riferimento all’uso di armi nucleari o di azioni contro gli impianti nucleari in Ucraina pone la Russia ai margini della civiltà”, ha attaccato il vicedirettore generale del Seae. Minacce che in ogni caso “non indeboliranno la nostra decisione di continuare sulla strada delle sanzioni” e che, al contrario, stanno portando l’esecutivo comunitario a valutare la proposta di una nuova tranche di aiuti militari a Kiev attraverso lo strumento dell’European Peace Facility, rende noto Devigne.
    Il momento è cruciale per la guerra in Ucraina perché, “senza successi militari, Putin continua sulla strada dell’escalation, cercando di intimidire l’Ucraina e i Paesi che la supportano”. Le contraddizioni sono evidenti, considerato il fatto che si parla di circa 300 mila coscritti, “anche se il Cremlino riporta di aver perso solo seimila soldati e parte del decreto di mobilitazione è secretata”. La stessa mobilitazione “parziale” potrebbe essere un modo per “non far capire al popolo russo quanto la situazione sia grave”, ma nonostante questo è già iniziata l’ondata di proteste: “Più di duemila persone sono state arrestate, ma molte di più se ne vanno dal Paese”, ha ricordato Devigne, facendo riferimento alle “file chilometriche di auto ai confini e i voli aerei andati esauriti”. Mentre l’esercito ucraino continua nella propria avanzata nella controffensiva a est, “l’escalation di Putin dimostra che la Russia sta attraversando una crisi, o quantomeno un momento critico, visto che sono state anche rafforzate le sanzioni per chi si arrende o rifiuta di arruolarsi”, ha concluso il proprio intervento il vicepresidente del Seae.

    Il vicedirettore generale per l’Europa orientale e l’Asia centrale del Servizio europeo per l’azione esterna, Luc Pierre Devigne, ribadisce che “le misure restrittive funzionano”, perché colpiscono un Paese che “affronta una recessione dagli anni Novanta e ora viene abbandonato da Cina e India”