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    L’Ue estende la protezione temporanea ai rifugiati ucraini fino a marzo 2024. Lanciata una piattaforma per l’impiego

    Bruxelles – Nel giorno dei nuovi bombardamenti su Kiev e altri maggiori centri dell’Ucraina da parte della Russia di Putin, Bruxelles lancia subito un messaggio chiaro: oltre al sostegno armato e finanziario per la resistenza all’invasione del Cremlino, le porte dell’Unione sono sempre aperte per i rifugiati ucraini in fuga dalla guerra. Lo ha spiegato senza giri di parole la commissaria europea per gli Affari interni, Ylva Johansson, in un punto con la stampa a Bruxelles: “La direttiva sulla protezione temporanea continuerà a essere in vigore almeno fino a marzo 2024, quello che abbiamo visto questa mattina dà un segnale molto chiaro che dobbiamo continuare ad accoglierli”.
    L’anticipazione è arrivata nel corso della presentazione della nuova piattaforma online per la ricerca di lavoro lanciata oggi (lunedì 10 ottobre), che aiuterà i rifugiati ucraini a trovare un impiego sul territorio dell’Unione Europea. L’annuncio della commissaria Johansson ha stupito per il tempismo, dal momento in cui la direttiva sulla protezione temporanea applicata a inizio marzo scorso sarà in vigore fino a marzo 2023 e solo allora si dovrebbe decidere se estenderla con rinnovi semestrali per un altro anno (arrivando, appunto, al marzo 2024). Se poi le condizioni dovessero rimanere critiche, il Consiglio potrà decidere a maggioranza qualificata l’estensione per un terzo anno, su proposta della Commissione. “Il nostro obiettivo è garantire che gli ucraini possano continuare a beneficiare della direttiva sulla protezione temporanea, ma siamo anche pronti a sostenere coloro che decidono di tornare in Ucraina“, ha precisato Johansson.
    A proposito delle possibilità di lavoro per i rifugiati ucraini nei 27 Stati membri, il nuovo strumento online permette di caricare il curriculum vitae dopo la registrazione alla piattaforma EU Talent Pool per sfogliare oltre 3 milioni di offerte di lavoro e per farsi conoscere da più di 4 mila tra datori di lavoro, servizi pubblici nazionali e agenzie private per l’impiego in tutta l’Unione. La proposta era arrivata a fine aprile e da oggi è disponibile in inglese, ucraino e russo sul portale Eures (gestito dall’Autorità europea del lavoro), per tutte le persone che beneficiano della protezione temporanea. “È una tragedia che milioni di persone siano state costrette a fuggire dalle loro case, è nostro dovere collettivo fornire tutto il sostegno possibile per aiutarli a costruirsi una vita nell’Ue”, ha spiegato il commissario per l’Occupazione e i diritti sociali, Nicolas Schmit.

    La commissaria europea per gli Affari interni, Ylva Johansson, ha annunciato l’estensione della prima scadenza della direttiva per la solidarietà tra Paesi membri nell’accoglienza e le facilitazioni di ingresso per chi fugge dalla guerra

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    Il commissario Ue Reynders a Kiev nel giorno dell’attacco missilistico russo sulla capitale: “Siamo corsi nei rifugi”

    Bruxelles – Dopo qualche mese di ritorno a una pseudo-normalità, Kiev è di nuovo sotto assedio, con i bombardamenti che hanno scosso la città nelle prime ore della mattinata di oggi (lunedì 10 ottobre). Una decina di esplosioni si sono registrate a Kiev (ma anche a Leopoli, Mykolaiv e altre città principali del Paese), con l’obiettivo di distruggere infrastrutture critiche, ma anche abitazioni civili, università, uffici governativi ed edifici non militari. A testimoniare il livello di gravità della situazione dopo il bombardamento è stato il commissario europeo per la Giustizia, Didier Reynders, che proprio questa mattina si trovava a Kiev: “È suonato il primo allarme alle 6 del mattino, le prime esplosioni sono arrivate un po’ più tardi. Alle 8 i servizi di sicurezza ci hanno chiesto di scendere al terzo piano interrato dell’hotel, dove siamo corsi con gli ospiti e il personale dell’hotel”.
    Su Twitter è stato lo stesso commissario Reynders a far sapere di essere “al sicuro”, dopo essere stato “rapidamente trasferito nel rifugio dell’hotel” insieme al suo team: “Siamo in attesa di aggiornamenti“. Raggiunto al telefono da LesNews24, il titolare della Giustizia nel gabinetto von der Leyen ha testimoniato che “da quello che mi è stato detto dal personale, sono ormai tre mesi che non ci sono più fughe nei rifugi, perché non si è mai verificata nessuna esplosione dopo gli allarmi”. Tuttavia, “siamo di fronte a un attacco diretto, la situazione è peggiorata negli ultimi giorni soprattutto dopo l’attacco al ponte in Crimea” nella notte tra venerdì 7 e sabato 8 ottobre.
    Nonostante la nuova escalation di violenza russa, “dobbiamo continuare a sostenere gli ucraini attraverso tutti i canali che abbiamo utilizzato fin dall’inizio, siano essi militari, umanitari o finanziari, ma anche nel campo della corretta applicazione delle sanzioni e della ricerca dei responsabili dei crimini di guerra”, ha assicurato Reynders. Il commissario europeo si trova in Ucraina proprio per sostenere gli sforzi delle autorità nazionali nel ricercare prove durante le indagini sui criminali di guerra nel corso dell’invasione del Paese da parte dell’esercito russo.

    A series of explosions in downtown #Kyiv this morning. Thanks to the quick reaction of the security staff, my team and I were rapidly transferred to the hotel shelter. We are safe and waiting for updates. #UkraineRussianWar pic.twitter.com/QtWwCwCqr6
    — Didier Reynders (@dreynders) October 10, 2022

    Durissima la condanna da Bruxelles per il bombardamento russo a Kiev. “Bombe su quartieri, palazzi, giardini pubblici. Solidarietà con Kiev, sostegno all’Ucraina”, ha commentato in un tweet il commissario per l’Economia, Paolo Gentiloni. Si dice “profondamente scioccato” dagli attacchi contro i civili l’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell: “Tali atti non hanno posto nel ventunesimo secolo, li condanno con la massima fermezza”. Per la presidente del Parlamento Europeo, Roberta Metsola, “quello che sta accadendo ora a Kiev è nauseante”, ha attaccato su Twitter, con un affondo a Mosca: “Mostra al mondo, ancora una volta, il regime che abbiamo di fronte, un regime che prende di mira indiscriminatamente, un regime che fa piovere terrore e morte sui bambini”, con riferimento al cratere di un missile in corrispondenza di un parco giochi nella capitale ucraina.

    What is happening now in #Kyiv is sickening.
    It shows the world, again, the regime we are faced with: One that targets indiscriminately. One that rains terror & death down on children.
    This is criminal. They will be held to account. Ukraine will win. Europe will not look away. pic.twitter.com/0I594UlCMg
    — Roberta Metsola (@EP_President) October 10, 2022

    Il titolare della Giustizia nel gabinetto von der Leyen si trovava in Ucraina per sostenere le autorità nazionali nelle indagini sui crimini di guerra durante l’invasione dell’esercito del Cremlino: “La situazione è peggiorata negli ultimi giorni, soprattutto dopo l’attacco al ponte in Crimea”

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    Riusciremo a passare l’inverno senza razionamenti del gas?

    C’è veramente il rischio di incorrere quest’inverno in razionamenti del gas?
    La situazione negli ultimi giorni si è ulteriormente complicata.
    Anche l’Italia, che dal Tarvisio riusciva a importare ancora un po’ di gas dalla Russia (circa il 40% di ciò che storicamente entrava, 55 milioni di mc/giorno contro i 155-160 di prima della guerra) si è ritrovata a secco.
    Le ragioni apparentemente sembrano commerciali e non geopolitiche.
    Vi è stato un cambio dell’operatore austriaco dei tubi e il nuovo operatore ha modificato le regole di prenotazione e pagamento del servizio rendendole più rigide e conformi alle sanzioni europee, e sembra che Gazprom, l’operatore russo che il gas lo vende, non riesca più a rilasciare le fideiussioni e a fare i pagamenti dovuti. Eni e altri operatori hanno provato a trovare soluzioni pratiche tipo comprare il gas in Slovacchia da Gazprom e poi importare in Austria regolando direttamente, tra europei, i rapporti con l’operatore logistico austriaco, ma dopo un primo consenso dei tecnici russi sulla soluzione proposta questa è stata bloccata dall’alto delle gerarchie russe. E qui la geopolitica sembra di nuovo fare capolino anche se nelle ultime ore forse la questione si sta sbloccando.
    È evidente che il permanere di una fornitura di gas dalla Russia, sia pure ridotta rispetto ai contratti, è fondamentale ai fini degli equilibri complessivi dell’approvvigionamento italiano del prossimo inverno.
    La preoccupazione, nonostante l’annunciato sblocco del Tarvisio, però rimane.
    Ogni volta che c’è la possibilità di utilizzare un ostacolo o un pretesto per non rispettare gli obblighi di fornitura contenuti nei contratti stipulati da Gazprom con controparti europee, il gigante russo del gas se ne avvale. È stato così per la storia dei pagamenti in rubli, poi c’è stata la vicenda delle manutenzioni, poi quella delle turbine che non funzionavano, e ora le nuove regole dell’operatore logistico austriaco.
    Ogni scusa è buona per non rispettare gli impegni contrattuali e mettere in difficoltà l’Europa e la sua economia. Gazprom però non dichiara mai apertamente che così si comporta perché si è in guerra, forse per evitare gigantesche richieste di danni.
    Fino ad oggi, sia pure con uno sforzo economico notevole, gli stoccaggi sono stati riempiti oltre il 90%, e con la minima fornitura proveniente dal Tarvisio e con l’aumento di forniture dall’Algeria si contava di passare indenni l’inverno con l’adozione di semplici misure di risparmio energetico (il grado in meno della temperatura dei riscaldamenti domestici e degli uffici pubblici, la riduzione dell’illuminazione pubblica e poco altro).
    Se lo scenario cambia, e se vi fosse un blocco totale degli arrivi dalla Russia contemporaneamente a condizioni meteo e climatiche avverse, in particolare temperature dell’inverno molto basse, il rischio di razionamento c’è e sarebbe giusto incominciare a parlarne e preparare l’opinione pubblica.
    Con un approccio prudente, che si addice a momenti così incerti, i settori industriali hanno lavorato tutto il mese di agosto con Snam per fornire tutti i dati di quantità e di modalità di consumo del gas utili alla predisposizione di un piano di emergenza ma a tutt’oggi non è dato sapere:

    se ci saranno misure di riduzione dei consumi volontarie e incentivate sia con riferimento ai volumi sia con riferimento al servizio di interrompibilità, così come d’altro canto previsto dalla direttiva europea ‘Save winter gas’;
    in caso di riduzione forzata quali settori saranno chiamati, e in che termini, a ridurre i consumi.

    Un quadro chiaro dei piani di emergenza è fondamentale per consentire alle imprese industriali di programmare i prossimi mesi e per far ripartire il mercato del gas che per molti operatori industriali, specie quelli di piccole e medie dimensioni, è bloccato a causa delle ingenti garanzie richieste per la stipula dei contratti annuali da parte dei fornitori di gas.
    In assenza di una risposta unitaria europea che sembra tardare per le divergenze di interessi che dividono gli stati membri e per la solita resistenza a fare debito comune, così come fu all’inizio nel caso del Covid, la riduzione dei consumi è l’unica arma possibile per cercare di mitigare gli effetti del ricatto russo e della speculazione finanziaria che su di esso si è innestata.
    Una riduzione programmata delle attività industriali con l’attribuzione di un minimo di indennizzo, così da ridurre il consumo di gas e proteggere dal razionamento i servizi essenziali e il minimo standard di confort per le famiglie (magari mettersi un maglione in più ma continuare a fare la doccia calda), potrebbe essere coerente con un quadro macroeconomico in rallentamento e quindi con una domanda calante in molti settori manifatturieri.
    Il momento delle scelte e delle decisioni è arrivato e vedremo come si comporterà il nuovo governo.
    Un’inquietudine ulteriore colpisce tutti noi. La vicenda dei sabotaggi ai tubi del North Stream si staglia inquietante sullo sfondo. Chi ha fatto saltare le condutture?
    I servizi tedeschi sembrano avere pochi dubbi sul fatto che si tratti di un avvertimento russo alla Germania. Pochi giorni prima delle esplosioni l’ambasciatore russo a Berlino Sergey Razov aveva detto: “Nel sostegno militare all’Ucraina la Germania sta oltrepassando la linea rossa”. Una rivendicazione preventiva? Forse qualcosa di più di una coincidenza.
    Se la strategia di Putin è quella di ostacolare la diversificazione delle fonti di approvvigionamento che renderebbero l’Europa libera dal ricatto russo, allora i gasdotti alternativi Transmed, che porta il gas dall’Algeria, Blue Stream che lo porta dalla Libia, TAP che lo porta dall’Azerbaigian devono essere monitorati continuamente e protetti da misteriosi sabotaggi che potrebbero verificarsi. Non è così assurdo che il Cremlino pensi di colpire le infrastrutture che quella diversificazione e quella indipendenza consentono.
    Quanto sia strategico il ruolo dell’Italia nel Mediterraneo e quanto importante sia il ruolo della Marina Militare Italiana per la difesa dei nostri interessi e della nostra indipendenza è evidente a tutti.
    Navi e sommergibili italiani sono impiegati in questo momento per monitorare senza sosta passaggi e manovre di mezzi militari non dell’Alleanza atlantica. Così come fanno anche altri mezzi, droni e aerei, della nostra Aeronautica militare.
    Da quando la Russia ha riattivato la base di Tartus in Siria, l’unica base militare russa fuori dai confini dell’ex Unione Sovietica, molte navi della Marina russa sono tornate ad operare con continuità nel Mediterraneo. Oggi se ne contano almeno 11 senza considerare i sommergibili che, numerosi, solcano le profondità del nostro mare.

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    Il Parlamento Ue ai leader: “Preparare risposta a eventuale attacco nucleare russo”

    dall’inviato a Strasburgo – Sostegno per la difesa dell’Ucraina, ancora di più. L’imperativo è “aumentare massicciamente l’assistenza militare, in particolare nelle aree richieste dal governo” di Volodymyr Zelenskyy ucraino. L’Aula del Parlamento europeo vuole dai Ventisette una risposta ancora più ferma e decisa, e nella risoluzione approvata a larghissima maggioranza (504 voti a favore, 26 contrari e 36 astensioni) si invita anche ad andare oltre l’ottavo pacchetto di sanzioni. Paesi UE e i partner internazionali sono invitati a “preparare una risposta rapida e decisiva nel caso in cui la Russia dovesse condurre un attacco nucleare” contro l’Ucraina.
    E’ forse questo il messaggio politico più forte del testo licenziato a Strasburgo, da dove arriva comunque la richiesta ad “adottare ulteriori severe sanzioni” quale risposta ai referendum indetti da Putin per annettere gli oblast di Donetsk, Kherson, Luhansk e Zaporizhzhia. Un modo per dimostrare unità di intenti con Commissione e Consiglio sull’ottavo pacchetto di misure sanzionatorie e magari inasprirlo ancora di più. Ma di fronte alle ” irresponsabili e pericolose”  minacce russe di ricorrere all’utilizzo di armi nucleari si avverte la necessità di lavorare già a contromisure adeguate, con l’auspicio di non dovervi mai ricorrere.
    In parallelo, continuare nell’assistenza militare. “E’ chiaro che la fine della guerra dipende esclusivamente da quante armi l’Occidente saprà dare all’Ucraina“, scandisce Siegfried Muresan, vice presidente del gruppo dei popolari (Ppe), che insiste lungo il solco tracciato ormai da mesi. L’impegno dell’Ue a rifornire quanto più possibile Kiev è stato assunto da mesi, e ora si intende andare avanti. C’è la sensazione che l’avanzata russa abbia perso di slancio, e che questo sia il momento di insistere. Mosse delicate ma obbligate dalla situazione. “Un attacco nucleare non dissuaderà l’Unione Europea dal fornire ulteriore assistenza all’autodifesa dell’Ucraina”, il messaggio che arriva da Strasburgo.

    La richiesta nella risoluzione approvata a larga maggioranza. Si invita anche a intensificare il rifornimento di armi all’Ucraina, e di essere pronti a nuove sanzioni

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    Velo islamico, Parlamento Ue chiede sanzioni per il regime iraniano. Il gruppo ID critica l’Aula

    dall’inviato a Strasburgo – Sanzionare i funzionari iraniani coinvolti nella morte di Mahsa Amini e nelle violenze contro i manifestanti. Il Parlamento europeo si rivolge ai capi di Stato e di governo dell’Ue, riuniti a Praga e pronti a ritrovarsi a Bruxelles per il vertice di fine mese, per chiedere provvedimenti immediati contro il regime degli Ayatollah nell’ambito del regime globale di sanzioni dell’UE in materia di diritti umani. L’Aula approva, per alzata di mano, il testo di condanna per la morte della 22enne lo scorso 16 settembre in carcere a Teheran dopo essere stata arrestata dalla polizia religiosa per non aver indossato correttamente l’hijab, il velo islamico imposto alle donne. Gli europarlamentari chiedono “un’indagine imparziale, efficace e soprattutto indipendente” sulle accuse di tortura e maltrattamento. Un invito rivolto a Nazioni Unite, e in particolare al Consiglio per i diritti umani. Per le autorità iraniane, invece, l’invito a rilasciare i manifestanti e ritirare ogni accusa nei loro confronti.
    Nel giorno in cui il Parlamento Ue si schiera con la società civile e con le donne dell’Iran, si consuma lo strappo con le forze sovraniste. Al termine della sessione di voto il gruppo Identità e democrazia (Id), dove siede la Lega, denuncia e condanna l’atteggiamento degli altri gruppi, rei di aver compiuto “atti antidemocratici”. Quello che è accaduto, la denuncia del gruppo, è l’”averci impedito di firmare e sostenere la risoluzione comune” sulla morte di Mahsa Amini e la repressione delle donne manifestanti per i diritti in Iran. Per gli europarlamentari di Identità e democrazia si tratta di “un ultimo tentativo di mantenere il cordone sanitario attorno al gruppo ID” anche su una questione come quella del velo islamico e l’Iran, e la che bollano come “una vergogna”.
    Intanto il Parlamento lancia un messaggio ai capi di governo. Sulla proposta di sanzioni e condanna dovrà esprimersi a breve il nuovo esecutivo tricolore. Gli italiani del gruppo Id avranno modo di esprimersi in quell’occasione, in forza della coalizione con Forza Italia e Fratelli d’Italia.

    L’Eurocamera chiede indagini Onu sulla morte di Mahsa Amini, i sovranisti denunciano la negata possibilità di sottoscrivere la risoluzione. “Vergogna”.

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    Dai russi in fuga dalla mobilitazione agli scontri Azerbaigian-Armenia. L’Asia centrale rischia di diventare una polveriera

    Bruxelles – Ora l’Ue deve guardare sempre più a Est, anche oltre il conflitto russo sul territorio dell’Ucraina. Perché se l’Asia centrale e il Caucaso da anni sono teatro di un’instabilità cronica, gli sconvolgimenti dell’equilibrio e dell’ordine internazionale degli ultimi sette mesi di guerra in Europa potrebbero rendere le due regioni delle polveriere pronte a scoppiare. Dalla Georgia al Kazakistan, dall’Armenia all’Azerbaigian, le tensioni militari e le pressioni migratorie determinate dalla mobilitazione dei riservisti dell’esercito russo rischiano di aumentare le tensioni anche nei Paesi più vicini politicamente all’Unione Europea.
    Uno dei potenziali detonatori dell’instabilità nel Caucaso e nell’Asia centrale è la decisione del 21 settembre dell’autocrate russo, Vladimir Putin, di richiamare alle armi 300 mila riservisti per proseguire una guerra in Ucraina che sta fallendo su quasi tutti gli obiettivi per cui è stata scatenata. Nemmeno la reazione della popolazione russa è stata in linea con quanto prospettato dal Cremlino, con le prime crepe di dissenso che si sono aperte in reazione alla mobilitazione parziale: oltre alle proteste in piazza soffocate dalle autorità, è iniziato un piccolo esodo (non per le dimensioni in sé, ma in rapporto ai 144 milioni di abitanti della Federazione Russa) di cittadini fuori dalle frontiere nazionali, per evitare di essere arruolati e finire sul fronte in Ucraina. Mettendo insieme le cifre riportate dai Paesi confinanti, si arriva a contare oltre 370 mila persone fuggite oltreconfine, più del numero dei riservisti richiamati alle armi.
    In Kazakistan sono già arrivati più di 200 mila russi, in Georgia oltre 90 mila, in Mongolia circa 15 mila e 66 mila nell’Unione Europea – di cui 53 mila solo nell’ultima settimana, come riporta Frontex (l’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera) – in particolare nei valichi di frontiera di Finlandia, Estonia e Lettonia, ma anche di Polonia e Lituania dall’exclave russa di Kaliningrad. Le nuove politiche restrittive di Bruxelles per la concessione di visti ai cittadini della Federazione Russa rischiano ora di creare ulteriore pressione sui Paesi dell’Asia centrale e del Caucaso che contano pochi milioni di abitanti (fatta eccezione per il Kazakistan, con 18 milioni). In Georgia fanno ingresso quasi 10 mila russi al giorno, creando difficoltà nella gestione della solidarietà sul territorio di uno Stato da 3,7 milioni di abitanti (la migrazione russa rappresenta già il 2,5 per cento della popolazione), che guarda verso l’adesione all’Unione Europea ma che nel frattempo si trova ad affrontare una secessione di due autoproclamate Repubbliche – l’Ossezia del Sud e l’Abkhazia – sostenute da migliaia di soldati di Mosca dopo l’operazione militare del 2008.
    Una pressione migratoria avvertita non solo nel Caucaso, ma anche in Asia centrale. Il Kirghizistan (6,6 milioni di abitanti, non confinante con la Russia) ha accolto oltre 30 mila cittadini russi – più i lavoratori kirghisi di ritorno – dall’inizio dell’invasione dell’Ucraina e con la mobilitazione militare di Putin il numero è destinato ad aumentare ulteriormente. Per quanto riguarda il Kazakistan, invece, si rischia una nuova destabilizzazione dopo le proteste di inizio gennaio contro il regime del presidente Kassym-Jomart Tokayev, represse con l’intervento proprio di Mosca attraverso l’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (alleanza militare composta da Russia, Armenia, Bielorussia, Kazakistan, Kirghizistan e Tagikistan). La questione è legata soprattutto alle richieste che oggi il Cremlino potrebbe fare agli alleati ex-sovietici e il loro impatto sulle società dell’Asia centrale: temendo ripercussioni sulla stabilità, al momento non è stato chiesto loro di riconoscere l’annessione delle quattro regioni occupate in Ucraina né di sostenere la guerra. Ma la mobilitazione parziale rischia di stracciare l’equilibrio di neutralità mantenuto per sette mesi, dal momento in cui anche i kazaki, uzbeki, tagiki o kirghisi con un passaporto russo potrebbero essere arruolati dal Cremlino, ma in patria andrebbero incontro alla giustizia penale (combattere per un Paese straniero è un reato). Un’altra fonte di preoccupazione è dettata dal fatto che non sembra più inverosimile che Putin decida di scatenare altre guerre per ‘proteggere’ la componente etnica russa negli Stati confinanti in cui si sono rifugiati i renitenti alla leva.
    Dall’Asia centrale al Caucaso, a rendere ancora più tesa la situazione geopolitica ai confini meridionali della Russia c’è la nuova ripresa delle ostilità tra Armenia e Azerbaigian, che prosegue ininterrottamente dal 13 settembre scorso, quando Erevan e Baku si sono accusate a vicenda di bombardamenti alle postazioni e alle infrastrutture militari. Dopo le sparatorie alla frontiera tra i due Paesi di fine maggio, si tratta della prima vera violazione cessate il fuoco negoziato nel novembre del 2020. I nuovi combattimenti tra i due Paesi caucasici rappresentano un grosso problema anche per i tentativi di mediazione di Bruxelles. Dallo scorso 22 maggio sono iniziati i contatti di alto livello tra il numero uno del Consiglio Ue, Charles Michel, il presidente dell’Azerbaigian, Ilham Aliyev, e il premier dell’Armenia, Nikol Pashinyan, che oggi (giovedì 6 ottobre) si incontreranno a Praga nel corso della prima riunione della Comunità Politica Europea.
    Le tregue temporanee finora negoziate non sono riuscite a porre fine a un conflitto congelato che si protrae dal 1992, con scoppi di violenze armate come quello dell’ottobre del 2020. In sei settimane di conflitto erano morti quasi 7 mila civili, prima del cessate il fuoco che ha imposto all’Armenia la cessione di ampie porzioni di territorio nell’enclave a maggioranza cristiana nel sud-ovest dell’Azerbaigian (che invece è a maggioranza musulmana). Da quest’anno l’Ue è subentrata alla Russia come mediatrice tra le due parti, ponendo come priorità dei colloqui di alto livello la delimitazione degli oltre mille chilometri di confine tra i due Paesi. Ma nelle ultime settimane, mentre l’Ue ha stretto accordi strategici con l’Azerbaigian per affrontare le conseguenze energetiche della guerra in Ucraina, l’Armenia si è appellata alla Russia per affrontare l’aggravarsi della crisi armata, in virtù del Trattato di amicizia, cooperazione e mutua assistenza tra i due Paesi.

    Alla vigilia della prima riunione della Comunità Politica Europea a Praga (a cui parteciperanno anche Armenia, Azerbaigian e Georgia), l’Ue deve fare attenzione alla situazione incandescente nella regione asiatica determinata dalle pressioni migratorie e militari

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    Le lobby belghe dei diamanti vincono la loro battaglia: niente bando sui preziosi russi

    Bruxelles – In extremis, con un colpo di coda quasi inatteso, l’Ue ha rinunciato a includere una misura da diversi miliardi di euro nell’ottavo pacchetto di misure restrittive contro Mosca. Il commercio di diamanti grezzi con la Russia non è entrato alla fine nell’ultima tornata di sanzioni di Bruxelles, con il gigante russo dell’estrazione Alrosa risparmiato dalla lista delle entità colpite. Un’ennesima concessione, nei fatti, alle lobby della lavorazione dei diamanti belghe, che nella città portuale di Anversa hanno sede e da dove hanno continuato a picconare la proposta della Commissione Europea.
    A spingere per l’esclusione di Alrosa dall’ottavo pacchetto di sanzioni è stata in particolare l’associazione di categoria Antwerp World Diamond Centre, che ha denunciato che un embargo totale ai diamanti grezzi dalla Russia potrebbe costare 10 mila posti di lavoro nella città fiamminga, centro dell’industria mondiale della lavorazione di questo prodotto. Se nelle precedenti tornate di sanzioni il governo belga è sempre riuscito a tutelare il comparto economico cruciale a livello nazionale, l’escalation della guerra in Ucraina ha reso sempre più insostenibile la posizione contraria di Bruxelles. Il commercio globale di diamanti grezzi della Russia è stimato dal Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti attorno ai 4,5 miliardi di euro nel 2021 (una delle prime dieci esportazioni non energetiche di Mosca, il 30 per cento in tutto il mondo) e la necessità di tagliare ogni ulteriore forma di finanziamento della macchina bellica del Cremlino ha fatto sì che la Commissione includesse anche il commercio dei diamanti grezzi nella proposta di ottavo pacchetto di sanzioni.
    Nel corso delle trattative al Coreper (il Comitato dei rappresentanti permanenti del Consiglio), è passata invece la linea morbida del Belgio, che ha spinto per non sganciarsi dal gigante russo dell’estrazione di diamanti e facendo leva sul timore che una misura restrittiva contro Alrosa possa colpire più l’economia e l’occupazione europea rispetto a quelle di Mosca. La marcia indietro segna una sconfitta in particolare per Stati baltici e Polonia, che avevano appoggiato un embargo totale sui diamanti, per cedere poi solo su un divieto per quelli non-industriali, ma – come riportano fonti diplomatiche – gli altri Paesi membri non hanno levato voci contrarie alla posizione del Belgio. Questa mattina è arrivata l’approvazione politica dell’ottavo pacchetto da parte degli ambasciatori dei 27 Paesi membri e ora, dopo la traduzione nelle lingue dell’Unione e la conclusione della procedura scritta, si attende per domani (giovedì 6 ottobre) la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale e l’entrata in vigore delle misure restrittive.

    Ribaltata in extremis la proposta della Commissione Ue. Il gigante estrattivo Alrosa (che garantisce enormi entrate economiche al Cremlino) è stata esclusa durante le discussioni degli ambasciatori dei Ventisette dalla lista delle entità colpita dalle misure restrittive europee

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    Aumenta la tensione tra Bruxelles e Ankara per l’intesa sugli idrocarburi Turchia-Libia (che impatta su confini greci)

    Bruxelles – Dopo tre anni si riaccende lo scontro tra l’Ue e la Turchia sull’intesa bilaterale di Ankara con la Libia per tracciare nuove frontiere marittime nel Mar Mediterraneo, e ora l’energia si ritaglia un ruolo centrale nella contesa. Lunedì (3 ottobre) il governo libico di Tripoli e quello turco hanno siglato un nuovo accordo preliminare sull’esplorazione energetica all’interno del memorandum d’intesa del 2019, scatenando la reazione sdegnata di Grecia, Egitto e Bruxelles.
    “La posizione dell’Ue rimane invariata: il memorandum d’intesa Turchia-Libia del 2019 viola i diritti sovrani di Stati terzi, non è conforme al diritto del mare e non può produrre alcuna conseguenza giuridica”, denuncia in una nota il portavoce del Servizio europeo per l’azione esterna (Seae), Peter Stano, a proposito del nuovo accordo che – nonostante non sia ancora stato reso pubblico – non deve comportare “azioni che possano minare la stabilità regionale”. Dura la risposta del governo turco alle dichiarazioni arrivate da Bruxelles: “Non hanno alcun significato e valore per il nostro Paese“, ha attaccato il portavoce del ministero degli Esteri, Tanju Bilgiç: “Opporsi a questo accordo di cooperazione tra due Stati sovrani è contrario al diritto internazionale e ai principi fondamentali dell’Onu”. L’affondo è sia alla Grecia – “tenta di usurpare i diritti legittimi non solo della Turchia ma anche della Libia attraverso le sue richieste massimaliste di aree di giurisdizione marittima” – sia all’Ue: “Non è un organo giudiziario internazionale che può commentare o giudicare accordi tra Paesi terzi sovrani“.
    La tensione è altissima, proprio alla vigilia della prima riunione della Comunità Politica Europea (Cpe), il nuovo format di confronto tra 44 capi di Stato e di governo Ue e non-Ue sulla sicurezza e le questioni di interesse comune – che vedrà la partecipazione anche del presidente turco, Recep Tayyip Erdoğan. Il nuovo accordo sull’esplorazione di idrocarburi in mare riaccende lo scontro sulla delimitazione delle aree marittime nel Mediterraneo, con Ankara che continua a mettere in discussione i confini greci e, di conseguenza, le frontiere esterne dell’Unione a sud dell’isola di Creta. L’Ue segue da vicino la vicenda, perché non può permettersi di dover gestire un altro fronte di instabilità geopolitica dopo l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia. Erdoğan e il premier greco, Kyriakos Mītsotakīs, si incroceranno domani (giovedì 6 ottobre) a Praga, ma al momento non sono previsti incontri bilaterali (anche se fonti europee ribadiscono che questo tipo di scambi non saranno inclusi formalmente nell’agenda  del vertice).

    L’accordo preliminare tra il governo turco e quello di unità nazionale di Tripoli sull’esplorazione energetica nel Mediterraneo si inserisce nel quadro del memorandum d’intesa del 2019 e avrebbe implicazioni sulla delimitazione della giurisdizione nelle aree del Mediterraneo