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    La denuncia della leader delle forze democratiche bielorusse Tsikhanouskaya: “Stanziamento permanente truppe russe”

    Bruxelles – L’attacco è diretto e durissimo, perché ormai “l’esistenza stessa della Bielorussia è in gioco”. Nel suo intervento davanti agli eurodeputati della commissione Affari esteri (Afet) di questa mattina (giovedì 13 ottobre), la presidente ad interim riconosciuta dall’Ue e leader delle forze democratiche bielorusse, Sviatlana Tsikhanouskaya, non usa giri di parole per denunciare quello che l’autoproclamato presidente, Alexander Lukashenko, sta facendo del Paese: “Sta cercando di legalizzare lo stanziamento permanente di truppe russe sul nostro territorio nazionale, ma questa noi la chiamiamo occupazione”.
    La presidente ad interim riconosciuta dall’Ue e leader delle forze democratiche bielorusse, Sviatlana Tsikhanouskaya, con il presidente della commissione Affari esteri del Parlamento Ue, David McAllister (13 ottobre 2022)
    La situazione interna nel Paese è particolarmente preoccupante, con il numero di prigionieri “in condizioni di detenzione disumane” che “aumenta ogni giorno ed è arrivato oggi a 1350 cittadini”, oltre a “più di 50 mila persone arrestate e torturate dal Kgb e centinaia di migliaia scappati prima verso l’Ucraina e poi dalla guerra russa” contro Kiev. La leader delle forze democratiche in Bielorussia ha ricordato che “negli ultimi due anni la tragedia nazionale è rimasta davanti ai nostri occhi, avvelenando la regione fino a una guerra sanguinosa” in Ucraina, la cui responsabilità è “tutta dell’imperialismo russo”. Oggi l’Europa e la Bielorussia pagano “il prezzo della nostra miopia” – come aveva già avvertito nell’intervento alla sessione plenaria dell’Eurocamera nel novembre dello scorso anno – perché nel frattempo “con gli accordi con Putin, Lukashenko ha venduto la nostra sovranità e distrutto la società civile e ogni collegamento con l’Unione Europea“. In altre parole, “ha svenduto l’anima della nostra nazione”, ha attaccato in mezzo agli applausi di sostegno degli eurodeputati in aula.
    Dopo l’annuncio del dispiegamento congiunto di parte dell’esercito bielorusso con le forze russe lungo il confine meridionale con l’Ucraina, l’autocrate bielorusso “vuole trasformare il Paese in una piattaforma per terrorizzare la Polonia e l’est Europa e minacciare la Nato“, ed è stata definita una “vergogna” il via libera al lancio dei missili sull’Ucraina e i colloqui Minsk-Mosca per “stanziare armamenti nucleari in Bielorussia” (a partire dalla decisione di abbandonare lo status di Paese non-nucleare sancito dalla Costituzione nazionale a pochi giorni dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina). Tsikhanouskaya ha messo in chiaro che sono tre le azioni che devono essere prese “immediatamente”: l’uscita di Minsk dal conflitto nella regione, la cacciata di “ogni soldato russo” dalla Bielorussia e l’imputazione di “tutti coloro che sono coinvolti negli attacchi all’Ucraina”, bielorussi compresi.
    A proposito di quest’ultimo punto, la leader bielorussa ha esortato le istituzioni comunitarie ad agire contro il regime Lukashenko, “anche lui un criminale di guerra”, e privarlo “di ogni scappatoia per evadere le sanzioni” internazionali, che hanno colpito anche Minsk: “Dobbiamo rimanere fermi e uniti, perché i dittatori cercano di dividerci”, ha messo in guardia Tsikhanouskaya. Chiamando Lukashenko “il fantoccio di Putin”, un altro avvertimento è quello di “non seguire il suo gioco di scambiare oppositori politici in cambio di un alleggerimento delle sanzioni, perché poi si terrebbe i soldi e ne metterebbe altri in prigione”. Un passaggio particolarmente delicato per la presidente ad interim riconosciuta dall’Ue, considerato il fatto che nei centri di detenzione del regime bielorusso c’è anche il marito Siarhei Tsikhanouski, condannato nel dicembre dello scorso anno a 18 anni di detenzione.
    L’ultimo appello di Tsikhanouskaya agli eurodeputati ha riguardato la ricostruzione di una Bielorussia “libera e democratica”. Per farlo, “chiedo al Parlamento Europeo di seguire l’esempio del Consiglio d’Europa, che per la prima volta ha deciso di non lavorare con il governo bielorusso ma con il nostro movimento democratico”. Ricordando l’invito al presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, a costruire un’alleanza tra Kiev e il movimento democratico a livello politico e diplomatico – “perché il destino delle nostre nazioni è intrecciato” – Tsikhanouskaya ha incalzato i membri della commissione Afet sul fatto che “una Bielorussia libera sarà lo strumento migliore contro Putin, un confine di mille chilometri sicuro e non più una minaccia per l’Europa”.

    I addressed President Zelenskyy today & proposed to build an alliance between Ukraine & democratic Belarus. To establish political & diplomatic relations. Because the fates of our nations are intertwined. We are ready for cooperation & we #StandWithUkraine🇺🇦 pic.twitter.com/LVjX2VK0Uo
    — Sviatlana Tsikhanouskaya (@Tsihanouskaya) October 11, 2022

    La presidente legittima riconosciuta dall’Ue si è rivolta agli eurodeputati della commissione Affari esteri per chiedere di “rimanere fermi sulle sanzioni” contro Alexander Lukashenko, “il fantoccio di Putin” che sta “vendendo l’anima del Paese consentendo al Cremlino attacchi all’Ucraina”

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    Per von der Leyen è tempo di sanzioni Ue contro Teheran per la repressione delle donne iraniane

    Bruxelles – Difendere i valori in cui l’Europa crede e difendere chi si batte per proteggerli anche fuori dall’Europa. Come “le coraggiose” donne iraniane che attraverso settimane di proteste e manifestazioni “chiedono libertà e uguaglianza”. Per Ursula von der Leyen è arrivato il momento di sanzionare i responsabili della repressione delle donne iraniane.
    E’ durante il discorso alla Conferenza degli ambasciatori Ue, che la presidente della Commissione europea ha condannato la repressione di “migliaia di manifestanti pacifici che vengono picchiati e detenuti: uomini e donne, avvocati e giornalisti, attivisti e cittadini comuni” che protestano da settimane per la morte della 22enne Mahsa Amini, uccisa lo scorso 16 settembre in carcere a Teheran dopo essere stata arrestata dalla polizia religiosa (la cosiddetta polizia della moralità) per non aver indossato correttamente l’hijab.
    “Questo è un grido per l’uguaglianza, è un grido per i diritti delle donne”, ha detto la presidente, precisando che il messaggio dell’Unione europea di fronte alla repressione deve essere dobbiamo chiedere che la violenza si fermi. Le donne devono avere la possibilità di scegliere. E dobbiamo ritenere responsabili coloro che sono responsabili della repressione delle donne”. Per questo, è arrivato il momento di sanzionare le persone che sono responsabili. “La scioccante violenza inflitta al popolo iraniano non può rimanere senza risposta e dobbiamo lavorare insieme sulle sanzioni”, ha dichiarato, aprendo di fatto all’idea che l’Ue possa imporre sanzioni contro i funzionari iraniani coinvolti nella repressione. Secondo quanto riportano fonti Ue a Bloomberg, il pacchetto di misure restrittive dovrebbe coinvolgere 15 tra persone ed entità iraniane legate alla morte di Amini e potrebbe essere adottato già la prossima settimana, se sarà raggiunto un accordo unanime tra i Ventisette.
    Un’idea che l’Europarlamento, per primo, ha sostenuto approvando lo scorso 6 ottobre a Strasburgo un atto di indirizzo per chiedere provvedimenti immediati contro il regime degli Ayatollah nell’ambito del regime globale di sanzioni dell’UE in materia di diritti umani. Gli europarlamentari hanno chiesto “un’indagine imparziale, efficace e soprattutto indipendente” sulle accuse di tortura e maltrattamento. Un invito rivolto a Nazioni Unite, e in particolare al Consiglio per i diritti umani. Per le autorità iraniane, invece, l’invito a rilasciare i manifestanti e ritirare ogni accusa nei loro confronti.

    Durante il discorso alla Conferenza degli ambasciatori Ue, la presidente della Commissione europea condanna la repressione di “migliaia di manifestanti pacifici” che vengono picchiati e detenuti in Iran per la morte della 22enne Mahsa Amini, uccisa lo scorso 16 settembre in carcere a Teheran dopo essere stata arrestata dalla polizia religiosa per non aver indossato correttamente l’hijab

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    Gli eurodeputati del Pd manifestano a sostegno delle donne iraniane con il taglio di una ciocca di capelli

    Bruxelles – Gli eurodeputati del Partito Democratico prendono una posizione netta e con un gesto simbolico ma tangibile a sostegno delle donne iraniane, dopo quasi un mese di proteste contro il regime teocratico provocate dall’omicidio di Mahsa Amini, 22enne morta lo scorso 16 settembre in carcere a Teheran dopo essere stata arrestata dalla polizia religiosa per non aver indossato correttamente l’hijab.
    Il taglio delle ciocche di capelli dei sei eurodeputati del Partito Democratico in solidarietà con le proteste delle donne iraniane (13 ottobre 2022)
    “Donna, vita, libertà”, hanno intonato Alessandra Moretti, Camilla Laureti, Elisabetta Gualmini, Patrizia Toia, Pietro Bartolo, Giuliano Pisapia e Pierfrancesco Majorino di fronte alla sede del Parlamento Europeo a Bruxelles oggi (giovedì 13 ottobre), in concomitanza con la manifestazione indetta a Roma dal segretario del Pd, Enrico Letta, davanti all’ambasciata iraniana. Dopo aver spiegato di voler “manifestare la solidarietà, fratellanza e sorellanza alle donne e al popolo iraniano per la loro libertà”, i sette eurodeputati si sono tagliati una ciocca di capelli ciascuno, emulando uno dei gesti più estremi mostrati dalle manifestanti durante le proteste di piazza a Teheran e in altre decine di città in Iran, oltre ai falò di hijab. Le ciocche sono state poi raccolte in una busta, che sarà spedita all’ambasciata iraniana a Bruxelles.
    I sette eurodeputati del Pd sono stati anche tra i firmatari dell’interrogazione parlamentare della settimana scorso all’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, sull’attivazione dei canali diplomatici europei per liberare la travel blogger romana Alessia Piperno – insieme ad altri otto cittadini Ue – arrestata lo scorso 28 settembre a Teheran e di cui si hanno pochissime notizie, se non che è detenuta nel carcere di Evin nella capitale iraniana. Piperno non sarebbe stata l’obiettivo della retata della polizia, ma si sarebbe trovata nello stesso ostello frequentato da alcuni “sobillatori” – come li definiscono le autorità della Repubblica Islamica – delle proteste delle donne iraniane contro il regime teocratico.
    A proposito delle manifestazioni nel Paese mediorientale, la dura repressione da parte della polizia – che lancia lacrimogeni e spara ad altezza uomo durante le manifestazioni – ha già causato la morte di 201 persone (di cui 23 bambini), denuncia l’organizzazione non-governativa Iran Human Rights. Ecco perché la Commissione Europea è sempre più decisa a imporre nuove sanzioni all’Iran, per far pagare il prezzo economico dell’uso della violenza sistematica contro le donne e i giovani manifestanti pacifici. Secondo quanto riportano fonti Ue a Bloomberg, il pacchetto di misure restrittive dovrebbe coinvolgere 15 tra persone ed entità iraniane legate alla morte di Amini e potrebbe essere adottato già la prossima settimana, se sarà raggiunto un accordo unanime tra i Ventisette. “Credo che sia giunto il momento di sanzionare i responsabili della repressione contro le donne iraniane, la scioccante violenza inflitta non può rimanere senza risposta”, ha attaccato la presidente dell’esecutivo comunitario, Ursula von der Leyen, nel suo intervento di ieri (mercoledì 12 ottobre) alla Conferenza degli ambasciatori.

    Sette membri della delegazione del Partito Democratico hanno mostrato solidarietà verso le rivendicazioni del popolo in Iran contro il regime teocratico, condividendo il gesto che sta animando le proteste di piazza nel Paese da quasi un mese dopo la morte di Mahsa Amini

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    Cronache da Algeri: il gas sarà insostituibile nei prossimi anni. La forza dell’Algeria, le incertezze e le ambiguità dell’Europa

    Bruxelles – Ho avuto l’onore di essere invitato, unico imprenditore italiano, come relatore all’Energy Business Forum Algeria-Unione Europea, tenutosi ad Algeri l’11 e il 12 ottobre.
    Alla presenza del Primo Ministro algerino Aymen Benabderrahmane, della Ministra per l’Ambiente e l’Energia Samia Moulafi, e della Commissaria europea all’Energia Kadri Simson si è discusso a lungo tra algerini ed europei sulla promozione di investimenti e partnership nel settore energetico in Algeria al fine di sostenere il mercato dell’energia europeo. Si è discusso anche del ruolo del gas, fondamentale per un futuro sostenibile e per la sicurezza degli approvvigionamenti, di energie rinnovabili e di efficienza energetica.
    Il messaggio che è emerso da parte algerina è molto forte e chiaro, e vedremo come nei prossimi giorni reagiranno i mercati.
    Nonostante la tradizionale amicizia con la Russia, l’Algeria, attraverso le parole del suo Premier, ha confermato di voler sostenere l’Europa nel suo sforzo di diversificazione delle fonti di approvvigionamento e di indipendenza dal ricatto di Mosca. E per fare ciò ha già aumentato le forniture di gas ai Paesi dell’Unione, primo fra tutti l’Italia, e le aumenterà ancor di più nel prossimo futuro.
    Fino ad oggi c’è sempre stato scetticismo sulla reale capacità dell’Algeria di aumentare le sue forniture di gas all’Europa in questo momento così difficile. Ma la grande novità del Forum è che gli uomini di Sonatrach (la grande compagnia dell’energia di proprietà dello Stato algerino) per la prima volta hanno mostrato nel dettaglio i piani di investimenti in corso e da realizzarsi nell’immediato futuro.
    Questi investimenti, che supereranno i 40 miliardi di dollari, permetteranno nel giro di pochi anni (2022-2026) di aumentare la produzione di gas algerino dai 120 miliardi di metri cubi/anno attuali a 150 miliardi. 3 miliardi in più sono già stati messi a disposizione nel 2022 e altri 5 lo saranno nel 2023.
    Gli algerini però pongono una condizione: gli europei devono coinvestire con loro in Algeria nelle energie rinnovabili, nella produzione di idrogeno verde rispetto alla quale il Paese aspira a diventare il primo player mondiale, nella ricerca e sviluppo di nuove sorgenti di gas anche non convenzionali. Il modello è quello del dialogo e della cooperazione e il riferimento a Enrico Mattei e all’Eni è risuonato più volte durante il convegno.
    Noi italiani chiamiamo ‘Transmed’ il tubo che porta il gas dall’Algeria all’Italia; gli algerini lo chiamano ‘Gasdotto Enrico Mattei’ e ciò la dice lunga sul segno lasciato in quel Paese.
    Il piano presentato dagli algerini è un piano di alto valore.
    Si tratta di un programma chiaro e strutturato, di un Paese che ha trovato negli ultimi anni una sua stabilità, che dispone della forza tecnica e finanziaria di Sonatrach, ed è capace di interloquire alla pari con i grandi dell’energia a livello mondiale.
    Un programma che trova nel mix equilibrato tra utilizzo del gas e delle tecnologie che lo rendono carbon neutral, in particolare le CCUS (carbon capture utilization and storage, e cioè quelle tecnologie che catturano e utilizzano le CO2 le e infilano nei giacimenti vuoti di gas), le energie rinnovabili e l’idrogeno una razionale prospettiva di transizione energetica sostenibile e sicura dal punto di vista degli approvvigionamenti.
    Un programma che gli industriali europei, preoccupati per le conseguenze sulle loro attività di un approccio estremista alla transizione, vorrebbero vedere applicato in Europa.
    L’idea che l’Algeria ha dato in questi due giorni è di forza e di autonomia e l’atmosfera che si è respirata al Forum è quella tipica dell’entusiasmo per lo sviluppo colmo di opportunità.
    In un Paese di tradizione socialisteggiante, in cui c’è stata una atavica diffidenza verso gli imprenditori e le imprese private, sta nascendo una classe imprenditoriale dinamica e impegnata nella nascita e nel lancio di moltissime attività, una classe imprenditoriale che avrà un’importanza determinante nel cambiamento della cultura e della mentalità prevalenti e nella spinta alla crescita.
    A fronte di un contesto così positivo e ricco di prospettive l’Europa ha ancora una volta ha dato un esempio plastico della sua crisi di idee e di leadership.

    L’incontro era stato richiesto dalla Commissione Europea, che però si è presentata senza chiare proposte di partnership, limitandosi a chiedere gas e ripetendo stancamente la litania del ‘Fit for 55’.
    La gravissima crisi in corso sembra non aver ancora fatto rinsavire l’Europa dal suo estremismo ambientalista privo di razionalità ed equilibrio.
    Opportunismo, stato di necessità e ideologismo si mischiano nella confusione della posizione comunitaria, stretta tra conflitti insanabili tra i paesi membri, incapace di esprimere una vera solidarietà, e piena di inutile retorica verso un piano al 2055, data alla quale l’Europa rischia di arrivare povera e senza attività industriali di base.
    Da un lato si chiede aiuto all’Algeria e al suo gas per far fronte alla crisi energetica, ma si ha quasi vergogna a farlo. Kadri Simson, la Commissaria Europea all’energia, afferma in conferenza che “il gas è la fonte energetica essenziale della transizione energetica” ma fa finta di dimenticare che nella durissima discussione europea sulla cosidetta ‘tassonomia’ (l’elenco delle tecnologie ammissibili ai finanziamenti europei) proprio il tema del gas è stato al centro dello scontro, e la maggioranza degli europei ha rifiutato il concetto di gas come energia della transizione bandendolo dal futuro energetico dell’Unione e prevedendo nei prossimi anni una forte riduzione del suo utilizzo.
    Dall’altro lato Cristina Lobillo Borrero, direttrice della DG Energia dell’Unione Europea, nel suo intervento ha riaffermato lo schematismo del ‘Fit for 55’ e ha risposto con imbarazzo a chi le ha fatto notare che non ha senso chiedere gas per l’emergenza e poi prevedere una drastica riduzione del suo utilizzo nei prossimi anni anche quando ci sarebbero le tecnologie per renderlo neutrale dal punto di vista carbonico.
    Il nodo è proprio qui.
    Il Mediterraneo è un’area ricchissima di gas che, tra tutti gli idrocarburi, è quello che certamente ha il minor impatto ambientale e il più facile da decarbonizzare.
    L’industria, gli ospedali, le scuole hanno bisogno di energia sempre. Le rinnovabili non bastano perché sono disponibili soltanto in un numero limitato di ore annue. Occorre, per complementare le rinnovabili, dell’energia di base decarbonizzata. Le uniche due fonti possibili sono le centrali a gas a ciclo combinato con l’applicazione delle tecnologie che azzerano le emissioni di CO2 e il nucleare di quarta generazione.
    Macron e la Francia sono riusciti a far accettare il concetto del nucleare di nuova generazione. L’Italia, che è un naturale e straordinario hub del gas nel Mediterraneo, deve fare altrettanto con il gas. L’Algeria è pronta ad aiutarci.

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    La Commissione ha raccomandato la concessione dello status di candidato all’adesione Ue alla Bosnia ed Erzegovina

    Bruxelles – Il nuovo Pacchetto Allargamento della Commissione Europea presenta una novità particolarmente attesa in Bosnia ed Erzegovina, in particolare dopo le delusioni del vertice Ue-Balcani Occidentali di giugno. A sei anni dalla richiesta di adesione all’Unione Europea da parte di Sarajevo, la Commissione Ue ha raccomandato al Consiglio di concedere alla Bosnia lo status di Paese candidato all’adesione all’Unione. Lo ha reso noto il commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi, in audizione alla commissione Affari esteri (Afet) del Parlamento Ue, presentando il Pacchetto Allargamento 2022: “Rispetto all’anno scorso il nostro compito è cambiato, c’è stata un’enorme evoluzione nella politica di allargamento dopo l’aggressione russa all’Ucraina”.
    L’allargamento dell’Unione nella regione balcanica è “più importante che mai per motivi geopolitici, per garantire la pace e la stabilità sul continente“, come ha dimostrato la “reazione immediata” delle richieste di adesione di Ucraina, Moldova e Georgia a pochi giorni dall’inizio dell’invasione russa. Al vertice dei leader Ue di giugno “c’è stato un chiaro impegno”, con la concessione dello status di candidati a Kiev e Chişinău e la prospettiva europea per Tbilisi: “Dal prossimo nel Pacchetto Allargamento avremo 10 relazioni, ma già entro la fine dell’anno intendiamo presentare una valutazione sulle capacità dei tre nuovi partner di colmare le lacune evidenziate nelle nostre valutazioni”, ha aggiunto il commissario Várhelyi.
    Pensando al presente, però, “tutti i sei Paesi dei Balcani Occidentali devono aderire il prima possibile all’Unione”, ha avvertito il titolare per l’Allargamento nel gabinetto von der Leyen, parlando della raccomandazione del Collegio dei commissari di oggi (mercoledì 12 ottobre) ai Ventisette di concedere lo status di Paese candidato all’adesione Ue anche alla Bosnia ed Erzegovina. La decisione – che “spetterà al Consiglio Europeo, probabilmente al vertice di dicembre” – sarà comunque condizionata sia dal rispetto delle 14 priorità-chiave sia dall’adozione di diverse misure da parte di Sarajevo, elencate in un report tutt’altro che incoraggiante sui progressi fatti nel campo giudiziario, politico e dello Stato di diritto (anche considerate le tensioni nella Republika Srpska).
    Facendo appello alla “responsabilità di tutte le forze politiche” dopo le elezioni dello scorso 2 ottobre, il commissario ha spiegato che in Bosnia dovranno essere approvate “in via prioritaria” la legge sul Consiglio superiore della magistratura, quella sulla prevenzione del conflitto di interessi e misure per rafforzare la prevenzione e la lotta contro la corruzione e la criminalità organizzata. Fondamentale anche il coordinamento “a tutti i livelli” della gestione delle frontiere e del funzionamento del sistema di asilo, l’istituzione di un meccanismo nazionale di prevenzione contro la tortura, ma anche l’adozione di un programma nazionale per l’acquis Ue e la libertà di espressione e la protezione dei giornalisti. “Quella che stiamo offrendo è una grande opportunità per la Bosnia, che arriva una volta nella vita e che i cittadini meritano“, ha sottolineato con forza il commissario Várhelyi. Tutto questo comunque “dovrà essere soddisfatto prima di poter pensare di aprire i negoziati di adesione” all’Unione.

    ❗ BREAK: European Commission to recommend candidate status for Bosnia and Herzegovina 🇧🇦 in the European Parliament this afternoon. An absolute necessity for a geopolitical EU. Member States must now make the right call and support the people of BiH on their European path. pic.twitter.com/Q7V8D0R7WM
    — Thijs Reuten 🇪🇺🌹 (@thijsreuten) October 12, 2022

    Gli altri dossier del Pacchetto Allargamento 2022
    Non c’è solo la Bosnia al centro dell’attenzione di Bruxelles sui progressi dei Paesi candidati (o quasi) all’adesione Ue. Presentando le altre sei relazioni – compresa la Turchia, che “non inverte la rotta e continua ad allontanarsi dalle posizioni Ue sullo Stato di diritto, aumentando le tensioni sul rispetto dei confini nel Mediterraneo Orientale – è soprattutto la Serbia a destare le maggiori preoccupazioni: “Deve essere un partner e alleato sincero, per promuovere la sicurezza sul continente, e deve rivedere le sue posizioni per allinearsi all’Ue e distanziarsi di più dalla Russia“, è l’ennesima esortazione del commissario Várhelyi. In ogni caso, Belgrado è “un importante partner economico, che va aiutato ad affrontare le sfide energetiche” e che allo stesso tempo sta proseguendo sul cammino di avvicinamento agli standard Ue, “come dimostra il referendum sulle riforme costituzionali di gennaio“.
    Tutti gli altri quattro partner balcanici sono “completamenti allineati alla politica estera e di difesa” dell’Unione Europea, in particolare dopo l’inizio dell’invasione russa in Ucraina. Macedonia del Nord e Albania presentano “importanti progressi con risultati concreti” sul piano dell’attuazione delle riforme richieste, spinte anche dallo sblocco dello stallo sull’avvio dei negoziati di adesione lo scorso 19 luglio. Tirana deve però accelerare l’iter sulla libertà di espressione e il diritto di proprietà intellettuale (mentre la riforma della giustizia è “un esempio di serietà nel rafforzamento dello Stato di diritto”), Skopje deve fare passi in avanti sulla riforma dell’amministrazione pubblica ed entrambi i governi devono impegnarsi sulla lotta alla corruzione.
    In una posizione più complessa – anche se sulla carta più avanzata – è il Montenegro, ancora fermo sui capitoli negoziali 23 (potere giudiziario e diritti fondamentali) e 24 (giustizia e affari interni): “La valutazione del 2021 era identica, rimangono una seria preoccupazione“, ha confessato il commissario per l’Allargamento agli eurodeputati. Di fronte a una situazione instabile sul piano politico (che ha recentemente visto in crisi anche il governo di scopo guidato da Dritan Abazović), è necessario “un serio sforzo da parte di tutte le forze partitiche nel settore giudiziario”, così come nella libertà di espressione e dei media, e nella lotta contro la corruzione e la criminalità organizzata. Oltre alla Bosnia, anche il Kosovo è l’unico Paese dei Balcani Occidentali a cui non è ancora stato riconosciuto lo status di Paese candidato (Pristina ha annunciato che entro la fine dell’anno farà richiesta di adesione). “Vorremmo vedere un cammino più rapido sul programma di riforme, ma c’è un rafforzamento dello Stato democratico”, ha confermato Várhelyi. Rinnovata la raccomandazione al Consiglio di liberalizzare il regime dei visti per i cittadini kosovari e chiesto infine un “approccio costruttivo da parte di tutti gli attori” per quanto riguarda il dialogo Pristina-Belgrado.

    A sei anni dalla richiesta di adesione all’Unione Europea, nel Pacchetto Allargamento 2022 l’esecutivo comunitario ha incluso per la prima volta l’esortazione al Consiglio di riconoscere lo status a Sarajevo. La decisione finale spetterà ora ai 27 leader Ue (probabilmente a dicembre)

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    Metsola agli ambasciatori Ue: “L’appeasement non ha mai funzionato e mai funzionerà”

    Bruxelles – Solidarietà e sostegno all’Ucraina contro l’invasione russa e difesa dei valori europei contro la propaganda e la disinformazione. Questi i punti chiave che la presidente del Parlamento europeo, Roberta Metsola, ha voluto ribadire nel suo intervento alla conferenza annuale degli Ambasciatori dei Paesi dell’UE che si è tenuta oggi (11 ottobre). “Solo se l’Ucraina sarà in grado di difendersi potremo raggiungere la pace, una pace reale e non costretta con le minacce. In Europa abbiamo già da tempo imparato e capito che l’appeasement non ha funzionato in passato, non funziona oggi e non funzionerà mai”, ha affermato la Presidente con un chiaro riferimento a quella che fu la politica dell’appeasement che i capi di stato delle potenze europee adottarono con la Germania nazista, facendo a Hitler concessioni politiche e territoriali nel tentativo di evitare un conflitto, e che sfociò invece nello scoppio della seconda guerra mondiale. 
     
    La presidente Metsola ha esortato l’aula a mantenere la solidarietà dimostrata nell’affrontare le sfide drammatiche degli ultimi anni: prima la risposta alla pandemia di Covid-19, ora quella all’invasione russa in Ucraina. 7,2 miliardi di euro per il supporto finanziario, 2 miliardi e mezzo per il sostegno militare e 8 pacchetti di sanzioni contro il Cremlino: questi i risultati ottenuti dalla volontà comune dei Paesi Ue, che la presidente del Parlamento europeo ha voluto ricordare nel suo discorso. “L’Europa ha fatto tanto, ma non è il tempo di compiacersi. Siamo chiamati a fare ancora di più”, ha affermato Metsola alla luce della recente escalation che ha portato ai bombardamenti russi su Kiev e 14 regioni ucraine. 
    Parallelamente allo sforzo economico e militare in supporto all’Ucraina, Metsola ha sottolineato la necessità di difendere la democrazia e i valori europei contro la propaganda e la disinformazione: “Una battaglia tra diverse narrazioni infuria in tutti i continenti, facendo sì che le nostre intenzioni e il nostro ruolo siano spesso travisati. Dobbiamo unire gli sforzi e amplificare il nostro messaggio”, queste le parole della Presidente, che ha concluso invitando gli ambasciatori a trovare intuizioni concretizzabili per permettere all’Unione Europea di affrontare “con rinnovato slancio” questi tempi straordinariamente difficili.

    Nel suo discorso alla conferenza annuale degli ambasciatori dei Paesi UE, la presidente del Parlamento europeo ha richiamato l’aula alla fermezza contro l’espansionismo del Cremlino e alla necessità di difendere i valori europei da propaganda e disinformazione

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    Assange, la moglie al Parlamento Europeo per la candidatura al Premio Sakharov: “Sta pagando per difendere la libertà di stampa”

    Bruxelles – Il giornalista fondatore di Wikileaks Julian Assange potrebbe ricevere, dalla cella nel carcere di massima sicurezza di Belmarsh dove è detenuto da più di tre anni, il premio Sakharov per la libertà di pensiero, riconoscimento assegnato dal Parlamento europeo a chi ha dedicato la propria vita alla difesa dei diritti umani e delle libertà individuali.
    La moglie Stella Moris ha tenuto oggi una conferenza stampa a Bruxelles, accompagnata dall’europarlamentare 5 stelle Sabrina Pignedoli, che ha promosso in prima persona la raccolta firme grazie alla quale è stato possibile inserire Assange tra i possibili vincitori del premio.
    “La candidatura di Julian- ha esordito la Moris- è un riconoscimento al suo lavoro: sta pagando le conseguenze del suo impegno per garantire una reale libertà di stampa, che mostri le violazioni dei diritti umani e che racconti i crimini commessi dai governi. Non è possibile che anche in Occidente governi criminali possano rimanere impuniti e imprigionare i giornalisti”.
    La verità è che il giornalista australiano, che nel 2010 svelò più di 15 mila uccisioni di civili compiute dalle truppe americane in Iraq e Afghanistan, è da 10 anni tra i candidati al premio Nobel per la Pace, che non ha mai vinto a causa del significato politico del suo caso. Dal Parlamento Europeo la moglie si è detta convinta che “un riconoscimento importante come il premio Sakharov potrebbe salvargli la vita”: Assange, processato in base all’Espionage Act e condannato a 175 anni di carcere negli Stati Uniti, ha presentato istanza in ultimo appello all’Alta Corte di Londra contro l’estradizione, autorizzata dall’Inghilterra il 17 giugno scorso. Moris ha espresso forti dubbi sulla possibilità che i tribunali inglesi possano fermare l’estradizione, ed è per questo che “la nomina al Premio Sakharov è cruciale per portare consapevolezza nell’opinione pubblica che questo è un caso politico”.
    Sabato 8 ottobre, proprio nel giorno in cui a Londra si è tenuta una grande manifestazione per chiedere la liberazione del fondatore di Wilkileaks, Assange è risultato positivo al Covid e, dalle notizie riportate da Stella Moris, “è malato e in isolamento 24h al giorno”. A due mesi dalla consegna del premio, prevista per il 10 dicembre, secondo Moris “Julian potrebbe morire in ogni momento: è in un carcere di massima sicurezza senza alcun valido motivo, sottoposto a un trattamento inumano e degradante”.
    L’europarlamentare Sabrina Pignedoli ha concluso la conferenza stampa con un appello chiaro e deciso verso le istituzioni europee: “Credo che se le accuse fossero state mosse da qualsiasi altro Stato, l’Europa si sarebbe sollevata con indignazione; invece, visto che le accuse sono mosse dagli Stati Uniti, c’è il silenzio totale: questo è vergognoso”.

    Stella Moris, moglie del fondatore di Wikileaks, ha tenuto una conferenza stampa assieme all’europarlamentare 5 stelle Sabrina Pignedoli. La deputata italiana è promotrice della sua candidatura al Premio Sakharov per la libertà di pensiero

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    Lukashenko schiera l’esercito al confine con l’Ucraina. L’Ue: “La Bielorussia si astenga da escalation del conflitto”

    Bruxelles – L’escalation del conflitto tra Russia e Ucraina sfonda il fronte settentrionale e rischia di coinvolgere direttamente un nuovo attore: la Bielorussia dell’autoproclamato presidente Alexander Lukashenko. Dopo i sette mesi e mezzo di supporto indiretto e logistico all’esercito russo nell’aggressione armata dell’Ucraina, Minsk è a un passo dall’entrare nella guerra anche sul piano militare, dopo l’annuncio dello stesso Lukashenko della volontà di schierare l’esercito lungo il confine con il Paese invaso dalle forze del Cremlino.
    Da sinistra: gli autocrati bielorusso, Alexander Lukashenko, e russo, Vladimir Putin
    Le giustificazioni per un possibile cambio di rotta sono del tutto pretestuose, con accuse infondate a Kiev e alla Nato di essere pronti a preparare un attacco su larga scala al territorio bielorusso: “Gli attacchi sono già pianificati dall’Ucraina”, riporta l’agenzia di stampa russa Tass, citando le parole dell’autocrate bielorusso, che addirittura ventila l’uso di “armi nucleari” da parte dell’Alleanza Atlantica. “Ci stiamo preparando da decenni, se necessario risponderemo”, ha minacciato Lukashenko, specificando di averne discusso con Putin a San Pietroburgo e di aver accordato il dispiegamento congiunto delle truppe “nella regione”.
    L’esercito della Bielorussia conta approssimativamente 60 mila soldati (oltre a 300 mila riservisti), di cui circa 4.500 sono schierati da fine febbraio in battaglioni-tattici nelle zone di confine, soprattutto con l’Ucraina. Dall’inizio dell’invasione russa, Minsk ha fornito punti di appoggio all’esercito del Cremlino sul fronte ucraino nord-orientale e ha concesso il dispiegamento di armamenti russi sul territorio nazionale. Dopo l’abbattimento parziale del ponte tra Russia e Crimea nella notte tra venerdì 7 e sabato 8 ottobre, il teatro di guerra in Ucraina si è infiammato, con un nuovo coinvolgimento della Bielorussia di Lukashenko. Secondo le accuse dell’esercito ucraino e del presidente Volodymyr Zelensky, la Russia avrebbe lanciato l’attacco di ieri mattina (lunedì 10 ottobre) su Kiev e altri grandi centri urbani utilizzando non solo missili dalla Crimea ma anche droni iraniani dal territorio bielorusso. Una dimostrazione che Lukashenko, con le sue dichiarazioni contro Kiev e la Nato, sta cercando di ribaltare di 360 gradi causa ed effetto dell’aggressione.
    “Abbiamo preso nota delle false accuse del regime di Lukashenko, sono accuse infondate, ridicole, inaccettabili”, ha messo in chiaro il portavoce del Servizio europeo per l’azione esterna (Seae), Peter Stano: “L’Ucraina è la vittima, il regime bielorusso deve astenersi da qualsiasi coinvolgimento dall’escalation” nel conflitto tra Mosca e Kiev. Anche la presidente ad interim riconosciuta dall’Ue, Sviatlana Tsikhanouskaya, ha denunciato che “l’Ucraina non rappresenta una minaccia per la Bielorussia, è una bugia di Lukashenko per giustificare la sua complicità nel terrore” contro Kiev. In un appello sui canali social Tsikhanouskaya ha invitato i militari bielorussi a “non eseguiee gli ordini criminali, rifiutatevi di partecipare alla guerra di Putin contro i nostri vicini”, perché Lukashenko sta anche violando “la nostra sicurezza nazionale”.

    Lukashenka & Putin are dragging Belarus into a full-scale war against Ukraine. Let Lukashenka know that he will face the strongest sanctions & complete political isolation. Both dictators are war criminals & must appear before the tribunal. pic.twitter.com/7xrcxTWh0P
    — Sviatlana Tsikhanouskaya (@Tsihanouskaya) October 10, 2022

    È di oggi la notizia che Tsikhanouskaya avrà a sua disposizione un ufficio offertole dal governo fiammingo (la Regione federale del Nord del Belgio), vicino alle istituzioni europee e al quartier generale della Nato, come annunciato dal ministro-presidente delle Fiandre, Jan Jambon. La presidente ad interim della Bielorussia e il suo team si trasferiranno nell’ufficio domani (mercoledì 12 ottobre), quando Jambon (esponente di N-VA, partito autonomista delle Fiandre) le consegnerà ufficialmente la chiave. In questo modo, il governo locale vuole dimostrare che “le Fiandre sostengono il movimento di opposizione pacifica contro il regime dittatoriale in Bielorussia“.

    L’autoproclamato presidente bielorusso ha annunciato di aver ordinato a parte delle forze armate di schierarsi lungo la frontiera meridionale con le forze russe, in riposta alla “minaccia nucleare della Nato”. Il governo delle Fiandre offre un ufficio alla presidente riconosciuta dall’Ue Sviatlana Tsikhanouskaya