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    Ue-Asean, il sud-est asiatico contro le annessioni russe in Ucraina

    Bruxelles – Da astenuti a contrari ciò che hanno prodotto le manovre militari della Russia in Ucraina, vale a dire le annessioni delle provincie sud-orientali. Gli Stati membri dell’Associazione delle Nazioni del sud-est asiatico (Asean) prendono le distanze da Mosca in modo molto più chiaro da quanto fatto in occasione delle votazioni in sede Onu. Il blocco dei 10 Paesi si è diviso, con quattro voti a favore delle spese di riparazione per l’Ucraina (Brunei, Filippine, Myanmar e Singapore) e gli altri sei astenuti (Cambogia, Indonesia, Laos, Malesia, Thailandia e Vietnam). Il primo summit Ue-Asean di alto livello vede tutti i partecipanti riaffermare, come per tutte le nazioni, la necessità di rispettare la sovranità, l’indipendenza politica e l’integrità territoriale dell’Ucraina“.

    Un passaggio, quello sulla Russia, che non viene menzionata direttamente, tra le parti più delicate su cui le due parti hanno dovuto lavorare al fine di poter chiudere la dichiarazione congiunta. Qui si ricorda come “la maggior parte” dei governi della comunità internazionale abbia “condannato fermamente” l’aggressione dell’Ucraina, così come si ricorda, allo stesso tempo, che “ci sono stati altri punti di vista e diverse valutazioni della situazione e delle sanzioni”. Una formulazione, quest’ultima, volta a tutelare le posizioni già espresse dai membri dell’Asean, che comunque come blocco, nel pretendere la difesa dell’integrità territoriale dell’Ucraina, sconfessano i territori annessi fin qui da Mosca e, implicitamente, le operazioni che hanno prodotto tutto ciò.
    I due blocchi siglano quindi l’alleanza per rispondere a quella che viene vista con particolare preoccupazione tra gli effetti collaterali del conflitto russo-ucraino. “Continueremo a sostenere gli sforzi per combattere l’attuale crisi alimentare globale e coopereremo strettamente su questo tema”, promettono i leader nella dichiarazione finale, contenente anche la chiamata a raccolta della comunità internazionale tutta. Di fronte alle ripercussioni del conflitto russo-ucraino, “esortiamo tutti i paesi a mantenere aperti i mercati alimentari e agricoli per garantire il flusso globale di beni e input agricoli essenziali, compresi i fertilizzanti”.

    La dichiarazione congiunta finale difende l’integrità territoriale del Paese. In precedenza sei Paesi Asean si erano astenuti nei confronti di Mosca

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    Energia e informazione in tempo di guerra. Il Comitato Economico e Sociale getta luce sulla situazione in Ucraina

    Bruxelles – Il Comitato Economico e Sociale Europeo (Cese) chiude un anno di impegno eccezionale a sostegno dell’Ucraina, con un focus sull’energia e l’informazione in tempo guerra proprio in occasione dell’ultima sessione plenaria (14-15 dicembre). “Gli ucraini hanno pagato un grande prezzo per la pace, per la ricostruzione del Paese dobbiamo lavorare con i gruppi della società civile, perché si possa costruire un futuro di pace”, ha esordito la presidente del Cese, Christa Schweng, aprendo oggi (mercoledì 14 dicembre) il seminario per i giornalisti ‘Energy and Media as Weapons in the wartime‘, accompagnato dall’esposizione di fotografie dal titolo ‘Children in war‘: “Spesso dimentichiamo che dietro a tutto questo c’è l’aspetto umano, e questa mostra fotografica è qui a ricordarcelo”, ha aggiunto il vicepresidente Cillian Lohan.
    L’esposizione fotografica ‘Children in war’ alla sede del Comitato Economico e Sociale Europeo (Cese)
    A proposito dell’arma dell’informazione, l’intervento della giornalista ucraina di Inter Tv-channel Olena Abramovych si è focalizzato sul fatto che nei primissimi giorni di guerra i media ucraini si sono dovuti anche occupare del contrasto alla propaganda russa: “Eravamo pronti allo scenario di una guerra-lampo, con disinformazione come quella secondo cui il presidente Zelensky era fuggito da Kiev, che puntava a creare caos”. Tra i maggiori problemi registrati ci sono stati i bombardamenti alle stazioni televisive, “per oscurare i media e non permettere di diffondere le informazioni” e anche la fuga di giornalisti dall’est del Paese: “Ma molti altri hanno iniziato dal secondo giorno con le maratone giornalistiche, con una condivisione delle riprese nei diversi canali”, ha ricordato Abramovych.
    A tracciare una panoramica aldilà del confine è il giornalista russo Tikhon Dzyadko, direttore del media indipendente Dozhd Tv che continua a operare in esilio: “Più di 500 colleghi hanno lasciato il Paese, dove c’è una dittatura militare e dove non si parla mai di guerra, ma sempre di operazione militare speciale”. Mentre “tutti i media indipendenti lavorano all’estero”,  in Russia “la propaganda di regime dipinge una realtà parallela, per cui l’86 per cento dei cittadini supporta la guerra“, ha spiegato Dzyadko, che ha messo in guardia da un errore che viene spesso commesso dagli organi di informazione occidentali: “Gli europei riportano questi dati perché non conoscono la realtà sul campo”. La lituana Tatjana Babrauskienė (membro del gruppo Lavoratori del Cese) ha sottolineato che “i media indipendenti, anche in Bielorussia, vanno sostenuti molto più di quanto non si faccia ora e non solo finanziariamente”, mentre il collega polacco Tomasz Wróblewski (membro del gruppo Datori di lavoro del Cese) si è soffermato sul fatto che “in Ucraina e in Russia l’informazione stessa è parte della guerra e la disinformazione fa parte del processo per destabilizzare l’altra parte”.
    Il Cese sull’arma energetica
    L’esposizione fotografica ‘Children in war’ alla sede del Comitato Economico e Sociale Europeo (Cese)
    “La società civile ha avvisato del problema della dipendenza energetica dalla Russia, ne abbiamo parlato per molto tempo, ma la politica è stata cieca”, ha attaccato la ceca Alena Mastantuono (membro del gruppo Datori di lavoro del Cese), trattando del tema energetico: “Nell’ultimo anno abbiamo visto crescere i prezzi dell’energia, un problema per le imprese e per i consumatori, i rincari stanno spingendo l’inflazione e dobbiamo stare attenti all’evoluzione della situazione“. In particolare il prossimo anno potrebbe rappresentare un rischio: “Abbiamo messo al sicuro questo inverno con il 92 per cento degli stoccaggi pieni, ma il prossimo inverno non sarà possibile”, ha avvertito Mastantuono, ricordando che “la sicurezza delle forniture di energia deve essere la priorità numero uno per l’Europa”.
    La soluzione su cui spinge più il Cese è l’implementazione delle risorse rinnovabili, per “ridurre la nostra dipendenza dall’importazione di energia, dal momento in cui può essere usata come un’arma”, ha messo in chiaro il tedesco Lutz Ribbe (membro del gruppo Società civile). “Se importiamo energia, esportiamo soldi, mentre noi possiamo produrre energia meglio in maggiori quantità e a un prezzo più basso”, ha aggiunto Ribbe, chiarendo che i Paesi membri Ue dovrebbero essere “numeri uno al mondo nella produzione di energia rinnovabile”. A proposito di rinnovabili, “se vogliamo evitare di esportare denaro verso altre aree economiche dobbiamo cambiare l’industria”, ha puntualizzato il collega tedesco Thomas Kattnig (membro del gruppo Lavoratori): “Abbiamo un’opportunità sulla produzione di pannelli solari e batterie, negli ultimi 20 anni non ci sono stati abbastanza investimenti a causa dell’austerità”. Anche per Mastantuono è necessario “portare l’industria in Europa per aumentare i posti di lavoro”, senza dimenticare di “guardare anche all’idrogeno”.

    Un seminario per i giornalisti in occasione della sessione plenaria del Cese a Bruxelles, per fare luce sull’utilizzo della disinformazione e il gas come armi. La presidente, Christa Schweng: “Gli ucraini hanno pagato un grande prezzo per la pace, ora dobbiamo lavorare con la società civile”

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    L’Ue rischia di avere un problema con il Montenegro nel processo di allargamento nei Balcani Occidentali

    Bruxelles – L’appellativo di ‘Paese più avanzato sulla strada di adesione all’Ue’ rischia di diventare un lontano ricordo per il Montenegro, considerati gli sviluppi politici dell’ultimo mese. Violente proteste sono scoppiate nella capitale Podgorica lunedì (12 dicembre) davanti alla sede dell’Assemblea nazionale, mentre una maggioranza risicatissima di forze filo-serbe ha dato il via libera a una contestata legge sui poteri presidenziali, che ha diversi tratti di potenziale incostituzionalità.
    La presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, e il presidente del Montenegro, Milo Đukanović
    La gravità della crisi politico-istituzionale nel Paese balcanico ha raggiunto livelli allarmanti, anche considerato il fatto che manca ancora la nomina di tutti i membri della Corte Costituzionale. Senza la piena operatività dell’unico organismo che può valutare la legge sui poteri di nomina dell’esecutivo, lo stesso voto dell’Assemblea nazionale viene considerato dalle istituzioni internazionali non in linea con la raccomandazione della Commissione di Venezia (organo consultivo del Consiglio d’Europa, che ha un ruolo-chiave nell’adozione di Costituzioni conformi agli standard europei). “La nomina dei membri della Corte Costituzionale è necessaria per salvaguardare i diritti fondamentali dei cittadini”, ha messo in chiaro il commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi. Per Bruxelles “tutte le parti politiche interessate devono agire con urgenza per garantire la funzionalità operativa” della Corte, ha aggiunto il commissario, ribandendo che “per proseguire il percorso europeo, è necessario anche rispettare la decisione della Commissione di Venezia“.
    A scatenare le dure reazioni dei manifestanti montenegrini e le critiche internazionali è il via libera con una maggioranza risicatissima di 41 deputati (su 81) agli emendamenti alla legge sui poteri presidenziali da parte dell’Assemblea nazionale. Già lo scorso primo novembre, con la stessa maggioranza, era arrivata la prima approvazione al disegno di legge che permetterà agli stessi parlamentari di firmare una petizione per la designazione di un primo ministro (con il supporto della maggioranza assoluta, cioè 41), nel caso in cui il presidente si rifiutasse di proporre un candidato. In caso di assenza della maggioranza, lo stesso presidente avrà l’obbligo di organizzare un secondo giro di consultazioni con i partiti e proporre un candidato.
    Il premier dimissionario del Montenegro, Dritan Abazović
    Secondo la Costituzione del Montenegro il presidente deve organizzare le consultazioni e proporre un premier designato con il sostegno firmato di almeno 41 parlamentari entro 30 giorni. Tuttavia, lo scorso 20 settembre il numero uno del Paese, Milo Đukanović, ha proposto di tornare alle urne – a due anni dalle ultime elezioni parlamentari – dopo essersi rifiutato di confermare il leader dell’Alleanza Democratica (Demos), Miodrag Lekić, come nuovo primo ministro, a causa del ritardo nella presentazione delle 41 firme a suo sostegno. Il premier dimissionario, Dritan Abazović, ha scaricato le responsabilità della fragilità istituzionale sui presunti abusi dei diritti costituzionali da parte di Đukanović, mentre il Partito Democratico dei Socialisti (Dps) del leader montenegrino ha definito l’approvazione della legge un “colpo di stato costituzionale”.
    “Tutti gli attori politici in Montenegro devono agire con urgenza per garantire la funzionalità operativa della Corte Costituzionale e revocare gli emendamenti alla legge sui poteri del presidente, è fondamentale che tutti esercitino la massima moderazione e si astengano da ulteriori atti provocatori”, ha attaccato la portavoce della Commissione Ue per la Politica di vicinato e l’allargamento, Ana Pisonero. Il Montenegro “ha perso un’altra occasione per porre fine alla lunga crisi istituzionale”, dal momento in cui una Corte Costituzionale “pienamente funzionante e composta da membri competenti è fondamentale per salvaguardare i diritti fondamentali dei cittadini e progredire nel suo percorso europeo“, ha aggiunto la portavoce, chiedendo a Podgorica di “portare avanti senza indugio un processo di selezione adeguato e inclusivo”.
    L’instabilità del Montenegro
    Con le elezioni del 30 agosto 2020 in Montenegro erano cambiati gli equilibri politici, dopo 30 anni di governo ininterrotto del Partito Democratico dei Socialisti (Dps) del presidente Đukanović. Al potere era andata per poco più di un anno una colazione formata dai filo-serbi di ‘Per il futuro del Montenegro’ (dell’allora premier, Zdravko Krivokapić), dai moderati di ‘La pace è la nostra nazione’ (dell’ex-presidente del Parlamento, Aleksa Bečić) e dalla piattaforma civica ‘Nero su bianco’, dominata dal Movimento Civico Azione Riformista Unita (Ura) di Abazović. Lo scorso 4 febbraio era stata proprio la piattaforma civica ‘Nero su bianco’ a togliere l’appoggio al governo Krivokapić, appoggiando una mozione di sfiducia dell’opposizione e aprendo la strada a un governo di minoranza guidato da Abazović. L’obiettivo dichiarato dell’esecutivo inaugurato a fine aprile era quello di preparare le elezioni nella primavera 2023.
    Il premier dimissionario del Montenegro, Dritan Abazović, e il il commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi
    Lo stesso governo Abazović è crollato però il 19 agosto (il più breve della storia del Paese) con la mozione di sfiducia dei nuovi alleati del Dps di Đukanović, a causa del cosiddetto ‘accordo fondamentale’ con la Chiesa ortodossa serba. L’intesa per regolare i rapporti reciproci – con il riconoscimento della presenza e della continuità della Chiesa ortodossa serba in Montenegro dal 1219 – è stato appoggiato dai partiti filo-serbi, mentre tutti gli altri l’hanno rigettato, perché considerato un’ingerenza di Belgrado nel Paese e un ostacolo per la strada verso l’adesione all’Unione Europea. Da allora a Podgorica si è aggravata l’instabilità politica e istituzionale, con tentativi di ricreare l’iniziale maggioranza Krivokapić e appelli al ritorno alle urne.
    Dopo gli sviluppi del primo novembre all’Assemblea nazionale la tensione è aumentata esponenzialmente, fino al voto risicatissimo del 12 dicembre. Rimane evidente che né la maggioranza né l’opposizione sembrano in grado di formare un governo stabile e il voto sembrerebbe la soluzione più efficace, per permettere agli elettori di esprimersi su quale indirizzo dovrà prendere il Paese. In questo scenario va fatta attenzione a Europe Now, nuovo movimento europeista non rappresentato in Parlamento, che ha fatto registrare un notevole exploit alle amministrative di ottobre nella capitale montenegrina. La priorità rimane però la nomina di tutti i membri della Corte Costituzionale, mentre quello che fino a oggi poteva fregiarsi del titolo di ‘Paese più avanzato sulla strada di adesione all’Ue’ sta rischiando di scivolare verso il caos istituzionale.

    Diventano sempre più violente le proteste a Podgorica contro l’adozione della legge sui poteri presidenziali da parte dell’Assemblea nazionale, che violerebbe la Costituzione. L’Ue denuncia anche la mancata nomina dei membri della Corte Costituzionale, perché abbia pieni poteri

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    Il Kosovo ha presentato la richiesta formale per ottenere lo status di Paese candidato all’adesione all’Unione Europea

    Bruxelles – Era una questione di giorni, se non di ore, dopo le anticipazioni dalla presidente Vjosa Osmani al vertice Ue-Balcani Occidentali di Tirana martedì scorso (6 dicembre). Nella tarda mattinata di oggi (mercoledì 14 novembre) il Kosovo ha presentato la richiesta formale per ottenere lo status di Paese candidato all’adesione all’Unione Europea. A partire da oggi tutti gli Stati extra-Ue interessati dal processo di allargamento dell’Unione si trovano almeno nella casella di partenza della richiesta di adesione, in un anno che ha visto il più grande sconvolgimento per le prospettive di espansione dei Ventisette a nuovi membri sul continente.
    Da sinistra: il presidente dell’Assemblea del Kosovo, Glauk Konjufca, la presidente della Repubblica, Vjosa Osmani, e il primo ministro, Albin Kurti (Pristina, 14 dicembre 2022)
    “Un momento storico per Kosovo e Unione Europea“, è il commento entusiasta della presidente Osmani al termine della cerimonia di firma della domanda di adesione all’Ue con il premier Albin Kurti e il presidente dell’Assemblea nazionale, Glauk Konjufca. Secondo la leader kosovara si tratta di “un passo più vicino alla realizzazione del sogno di coloro che hanno sacrificato le loro vite per la libertà, l’indipendenza e la democrazia”, ma anche alla “realizzazione della nostra comune e incrollabile ambizione di entrare nell’Unione Europea“. Per il Paese “non c’è mai stata un’alternativa, ma i sogni diventano realtà solo quando si lavora per realizzarli”, come ha dimostrato l’ultima relazione sui progressi di Pristina nel Pacchetto Allargamento 2022 della Commissione Ue.
    “I progressi dipenderanno dal nostro impegno per riforme profonde, che facciano progredire la democrazia, rafforzino lo Stato di diritto e sviluppino la nostra economia”, ha dichiarato in conferenza stampa il premier Kurti, precisando che la lettera sarà presentata nei prossimi giorni alla Commissione e alla presidenza di turno ceca del Consiglio dell’Ue (che terminerà il proprio semestre il prossimo 31 dicembre). Il Kosovo dovrà però affrontare una doppia sfida, che al momento blocca la strada verso l’ottenimento dello status di Paese candidato all’adesione Ue: cinque Stati membri non ne riconoscono l’indipendenza (Cipro, Grecia, Romania, Spagna e Slovacchia) e la finalizzazione di un accordo giuridicamente vincolante sulla normalizzazione delle relazioni con la Serbia (da cui Pristina ha dichiarato unilateralmente l’indipendenza nel 2008). Nonostante le aspre tensioni tra i due Paesi nel nord del Kosovo, a Bruxelles il 2023 è considerato l’anno decisivo per portare a termine un dialogo mediato dall’Ue ormai più che decennale.

    A historic moment. 🇽🇰 🇪🇺
    A step closer to fulfilling the dream of those who sacrificed their lives for freedom, independence & democracy, as well as, fulfilling our common and unwavering ambition of joining the European Union. pic.twitter.com/TX9Ygwl2MJ
    — Vjosa Osmani (@VjosaOsmaniPRKS) December 14, 2022

    Tra Kosovo e allargamento Ue
    Il processo di allargamento Ue coinvolge i sei Paesi dei Balcani Occidentali (Albania, Bosnia ed Erzegovina, Kosovo, Macedonia del Nord, Montenegro e Serbia), la Turchia – i cui negoziati sono però cristallizzati dalla politica del presidente Erdoğan – Ucraina e Moldova – a cui è stato concesso al vertice dei leader Ue di giugno lo status di Paesi candidati – e Georgia, a cui è stata riconosciuta la prospettiva europea. Serbia e Montenegro stanno portando avanti i negoziati di adesione rispettivamente dal 2014 e dal 2012, mentre il pacchetto Albania-Macedonia del Nord si è sbloccato a metà luglio dopo quasi tre anni di stallo (prima per il veto di Francia-Paesi Bassi-Danimarca ai danni di Tirana e poi per quello della Bulgaria contro Skopje). Dopo sei anni dalla richiesta di adesione per la Bosnia ed Erzegovina è quasi arrivato il momento della concessione dello status di Paese candidato, mente il Kosovo ha firmato l’Accordo di stabilizzazione e associazione nel 2016 e da oggi ha completato il quadro degli Stati balcanici che si trovano formalmente sulla strada di adesione all’Unione.
    Ricevuta la proposta formale di candidatura all’adesione, per diventare un Paese membro dell’Ue è necessario superare l’esame dei criteri di Copenaghen: per i Balcani Occidentali è compresa la firma dell’Accordo di stabilizzazione e associazione, un accordo bilaterale tra l’Unione e il Paese richiedente, a cui viene offerta la prospettiva di adesione. Ottenuto il parere positivo della Commissione, si arriva al conferimento dello status di Paese candidato. Segue la raccomandazione della Commissione al Consiglio Ue di avviare i negoziati: solo quando viene dato il via libera all’unanimità dai Paesi membri, si possono aprire i capitoli di negoziazione (in numero variabile). Alla fine di questo processo si arriva alla firma del Trattato di adesione.

    La lettera è stata firmata dalla presidente Vjosa Osmani, dal premier Albin Kurti e dal leader dell’Assemblea nazionale Glauk Konjufca: “Un passo più vicino alla realizzazione della nostra comune e incrollabile ambizione di entrare nell’Ue”. Ma prima l’accordo sui rapporti con la Serbia

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    La Bosnia ed Erzegovina è pronta a diventare un nuovo Paese candidato all’adesione Ue. L’ufficialità al prossimo Consiglio

    Bruxelles – Ora la strada per la Bosnia ed Erzegovina è tutta in discesa, facendo attenzione a – improbabili, ma mai da escludere – ostacoli sulla linea del traguardo. Il Consiglio Affari Generali riunitosi oggi (martedì 13 dicembre) a Bruxelles ha dato il proprio parere positivo alla possibilità di concedere lo status di Paese candidato all’adesione Ue per la Bosnia ed Erzegovina, con la raccomandazione ai leader dei 27 Stati membri di confermare la decisione al prossimo Consiglio Europeo di giovedì (15 dicembre).
    Approvando le conclusioni sull’allargamento e sul processo di stabilizzazione e associazione – che valutano la situazione in ciascuno dei Paesi candidati all’adesione e dei partner dell’Unione – i 27 ministri Ue hanno tenuto in particolare considerazione le riforme fondamentali nei settori dello Stato di diritto, dei diritti fondamentali, dello sviluppo economico e della competitività, ma anche il rafforzamento delle istituzioni democratiche e della pubblica amministrazione, con attenzione agli sviluppi post-voto in Bosnia ed Erzegovina dopo la complessa tornata elettorale dello scorso 2 ottobre. La valutazione parte dalle conclusioni del vertice del 23 giugno, quando i capi di Stato e di governo dell’Ue si erano detti “pronti” a riconoscere lo status a Sarajevo, ma a condizione che la Commissione riferisse “senza indugio” sull’attuazione delle 14 priorità-chiave per il Paese balcanico: l’obiettivo dichiarato era quello di permettere ai leader Ue di “tornare a decidere nel merito” quanto prima.
    Scenario che si è reso concreto nel corso dei mesi successivi e culminato con la decisione dell’esecutivo comunitario di raccomandare al Consiglio la concessione dello status di Paese candidato alla Bosnia ed Erzegovina: “Quella che stiamo offrendo è una grande opportunità, che arriva una volta nella vita e che i cittadini meritano“, aveva sottolineato il commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi. A due mesi da quel momento-chiave per le prospettive di Sarajevo è arrivato il primo semaforo verde anche dal Consiglio dell’Ue, in attesa di quello definitivo di giovedì, che comunque non sarà privo di condizioni: “Dovranno essere adottate le misure specificate nella raccomandazione della Commissione, al fine di rafforzare lo Stato di diritto, la lotta alla corruzione e alla criminalità organizzata, la gestione della migrazione e i diritti fondamentali”, è l’appunto dei 27 ministri.
    “La politica di allargamento dell’Ue è una forte ancora per la pace, la democrazia, la prosperità, la sicurezza e la stabilità nel nostro continente”, ha sottolineato il ministro ceco per gli Affari europei e presidente di turno del Consiglio dell’Ue, Mikuláš Bek, mettendo in chiaro che quello di oggi è “un forte messaggio di impegno nei confronti dell’allargamento”. L’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, ha definito “una buona notizia” la raccomandazione del Consiglio Affari Generali sullo status di candidato per la Bosnia ed Erzegovina: “È un messaggio per tutti i cittadini, il loro futuro è nell’Unione Europea“. Anche il gabinetto von der Leyen rimane ora in attesa dell’approvazione finale del Consiglio Europeo, con l’alto rappresentante Borrell che ricorda la necessità di un “costante progresso sulle riforme per portare avanti questa prospettiva” europea di Sarajevo.
    Il supporto alla Bosnia ed Erzegovina da Strasburgo
    Proprio nel giorno del Consiglio Affari Generali che ha dato il via libera alla concessione alla Bosnia ed Erzegovina dello status di Paese candidato all’adesione Ue (in attesa della conferma dei 27 leader), dall’emiciclo del Parlamento Europeo a Strasburgo sono arrivati due endorsement di peso al cammino di Sarajevo verso l’ingresso nell’Unione. “Con Ucraina e Moldova abbiamo visto quale messaggio potente può dare l’Unione Europea concedendo lo status di Paese candidato all’adesione”, ha sottolineato con forza la presidente dell’Eurocamera, Roberta Metsola, che si è esposta senza esitazioni: “Vogliamo infondere questo coraggio anche ai nostri amici in Bosnia ed Erzegovina“.
    La presidente del Parlamento Europeo, Roberta Metsola, e il primo ministro della Slovenia, Robert Golob (Strasburgo, 13 dicembre 2022)
    Un messaggio rafforzato anche dall’intervento del primo ministro sloveno, Robert Golob, arrivato a Strasburgo per partecipare al consueto appuntamento ‘This is Europe’ tra gli eurodeputati e un leader Ue a rotazione in sessione plenaria: “La Slovenia sostiene il processo di adesione Ue della Bosnia ed Erzegovina, siamo uno Stato membro giovane, ma ricordiamo bene la speranza che nutrivamo in questo percorso”, ha ricordato il premier del Paese entrato nell’Unione 18 anni fa. “È per questo che sappiamo quanto sia importante la prospettiva di adesione” non solo per la Bosnia ed Erzegovina, “ma per tutti i Balcani Occidentali” che “sono in sala d’attesa da ormai vent’anni”, ha ammonito Golob.
    Come già ricordato dalla presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, nel corso della sua visita a fine ottobre a Sarajevo, anche il primo ministro sloveno ha puntualizzato il fatto che – come l’Ucraina – anche “la Bosnia è uno dei Paesi europei che ha subito aggressioni armate nel recente passato e noi dobbiamo rendere chiaro che non abbiamo abbandonato i cittadini bosniaci, mentre guardavamo a Kiev“. Di qui la necessità di “accelerare il processo di allargamento, anche se non è sempre semplice, perché è uno strumento essenziale per l’Unione Europea”, ha concluso il suo intervento il premier della sinistra verde e liberale slovena, eletto lo scorso 24 aprile.
    Il punto sull’allargamento dell’Ue
    Il processo di allargamento Ue coinvolge i sei Paesi dei Balcani Occidentali (Albania, Bosnia ed Erzegovina, Kosovo, Macedonia del Nord, Montenegro e Serbia), la Turchia – i cui negoziati sono però cristallizzati dalla politica del presidente Erdoğan – Ucraina e Moldova – a cui è stato concesso al vertice dei leader Ue di giugno lo status di Paesi candidati – e Georgia, a cui è stata riconosciuta la prospettiva europea. Serbia e Montenegro stanno portando avanti i negoziati di adesione rispettivamente dal 2014 e dal 2012, mentre il pacchetto Albania-Macedonia del Nord si è sbloccato a metà luglio dopo quasi tre anni di stallo (prima per il veto di Francia-Paesi Bassi-Danimarca ai danni di Tirana e poi per quello della Bulgaria contro Skopje). La Bosnia ed Erzegovina ha fatto domanda di adesione nel 2016 e dopo sei anni è quasi arrivato il momento della concessione dello status di Paese candidato. Il Kosovo ha solo firmato l’Accordo di stabilizzazione e associazione, ma entro la prossima settimana è attesa la richiesta di adesione all’Unione, come reso noto dalla presidente Vjosa Osmani al vertice Ue-Balcani Occidentali di Tirana martedì scorso (6 dicembre).
    Ricevuta la proposta formale di candidatura all’adesione, per diventare un Paese membro dell’Ue è necessario superare l’esame dei criteri di Copenaghen. Ottenuto il parere positivo della Commissione, si può arrivare o alla firma dell’Accordo di stabilizzazione e associazione – un accordo bilaterale tra l’Unione e il Paese richiedente, utilizzato in particolare per i Balcani Occidentali, a cui viene offerta la prospettiva di adesione – o direttamente il conferimento dello status di Paese candidato. Segue la raccomandazione della Commissione al Consiglio Ue di avviare i negoziati: solo quando viene dato il via libera all’unanimità dai Paesi membri, si possono aprire i capitoli di negoziazione (in numero variabile). Alla fine di questo processo si arriva alla firma del Trattato di adesione.

    Il Consiglio Affari Generali ha raccomandato ai leader dei 27 Stati Ue di riconoscere a Sarajevo lo status di candidato, a sei anni dalla richiesta. Sostegno dalla Commissione, dal Parlamento Ue e dal premier sloveno, Robert Golob, a Strasburgo: “Non abbiamo abbandonato i cittadini bosniaci”

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    Il primo summit di alto livello Ue-Asean tra Russia, energia, sicurezza e sostenibilità

    Bruxelles – Sicurezza e stabilità, a livello mondiale e regionale. Senza trascurare il commercio, la questione energetica e la transizione sostenibile. Unione europea e Asean (blocco che racchiude Brunei, Cambogia, Filippine, Indonesia, Laos, Malesia, Myanmar, Singapore, Thailandia e Vietnam) discutono di tutto questo nel primo summit di alto livello di sempre, a livello di capi di Stato e di governo, organizzato in occasione dei 45 anni di relazioni diplomatiche. “L’occasione di ribadire la vicinanza e la cooperazione tra i due blocchi in un momento di turbolenza”, caratterizzato dal conflitto russo-ucraino e le sue conseguenze, ma non solo, si sottolinea a Bruxelles.
    Le tensioni nel mar cinese del sud, con la rinnovata contrapposizione tra Cina e Taiwan, il colpo di Stato militare in Myanmar, membro Asean, e il cui leader non è stato invitato al summit, i cambiamenti in Afghanistan, sono tutti elementi di un’agenda ricca di sfide che i due blocchi sono decisi ad affrontare insieme. Si intende rilanciare relazioni costruite nel tempo e che i tempi moderni necessitano di aggiornare. Quello Ue-Asean è “un partenariato bilaterale strategico” che si intende rendere ancor più fondamentale, ammettono addetti ai lavori. Sul fronte comunitario le aspettative sono altre. Si guarda quanto fatto in passato e cosa fare per il futuro, incluso transizione sostenibile.
    A tal proposito la questione della cooperazione industriale ed economica intende permettere di allineare i Paesi del sud-est asiatico all’agenda verde dell’Unione. Gli Stati asiatici sono ancora fortemente dipendenti dal carbone, ma “pieni di potenziale pulito”, riconoscono a Bruxelles. Sarà fondamentale dunque investire qui, e la Commissione europea metterà sul tavolo il primo pacchetto di investimento per l’Asean da 10 miliardi di euro. Servirà per sostenere, innanzitutto con fondi pubblici, competenze, digitale, sostenibilità. Con l’obiettivo di mobilitare anche capitale privato.
    Il capitolo relativo alle relazioni economico-commerciali sarà un tema portante del summit Ue-Asean. A riprova di ciò è prevista, a margine del vertice, la firma di due partenariati con Thailandia e Malesia, nonché l’accordo comprensivo sui trasporti. Dati alla mano, l’Asean è il terzo partner commerciale dell’Ue al di fuori dell’Europa, dopo Stati Uniti e Cina. Mentre nel 2021 l’Ue è stata il secondo maggiore fornitore di investimenti diretti esteri esteri nell’area Asean. “Le relazioni commerciali sono importanti” e si intende rafforzarle. “Si promuove multilateralismo”, si sottolinea nella capitale dell’Ue. Un messaggio rivolto a chi, sullo scacchiere internazionale, preferisce protezionismi.
    Il tema più delicato è quello relativo alla Russia. La dichiarazione finale del summit prevede un passaggio sull’aggressione in Ucraina, e servirà un lavoro attento a parole e toni per trovare una formula che metta d’accordo entrambe le parti. Nulla di impossibile. A Bruxelles si dicono “certi che si troverà il linguaggio appropriato, e che mandi un messaggio chiaro e inequivocabile”.
    Nel più ampio spettro di politica estera dei Ventisette, si intende cercare quanto più possibile di attuare i principi della strategia indo-pacifica all’area del sud-est asiatico. Vuol dire lavorare assieme ai 10 Paesi dell’area per uno sviluppo sostenibile, attento al fenomeno dei cambiamenti climatici e di risposta ai disastri naturali che ne derivano. La base di partenza, qui, è il piano d’azione Ue-Asean 2023-2027, che intende sviluppare una risposta comune a queste problematica, inclusa la ripresa post-pandemica e una cooperazione nel campo della salute.
    Altro tema di quest’agenda quadriennale è la lotta allo sfruttamento del lavoro e la promozione di condizioni occupazionali rispettosi della dignità. Un aspetto, quest’ultimo, non indifferente sia per la questione dei diritti umani sia perché l’Ue tocca l’aspetto economico-commerciale. L’Ue ha deciso di non far entrare nel mercato unico prodotti frutto del lavoro forzato, e altrettanto ha deciso per tutti i ‘made in’ extra-Ue frutto del lavoro minorile. Il primo summit di alto livello Ue-Asean non è solo una passerella per i leader.

    Dopo 45 anni di relazioni diplomatiche a Bruxelles il vertice a livello di blocchi per rendere ancora più strategica un’alleanza vista come irrunciabile

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    Il Consiglio dell’Ue supera il veto ungherese e dà il via libera al piano da 18 miliardi di euro a sostegno dell’Ucraina

    Bruxelles – È arrivato il via libera del Consiglio dell’Unione Europea al pacchetto di sostegno da 18 miliardi di euro all’Ucraina per il 2023 in prestiti altamente agevolati, da erogare in rate trimestrali e secondo un memorandum d’intesa con Kiev sulle riforme per garantire l’esborso dell’assistenza macro-finanziaria. Per superare il veto ungherese e non andare allo scontro in Consiglio Ue giovedì (15 dicembre), si procederà con una soluzione a 26 Stati membri sulla copertura dei tassi d’interesse, stimati sui 600 milioni di euro all’anno a partire dal 2024.
    Da sinistra: il vicepresidente della Commissione per l’Economia, Valdis Dombrovskis, e il commissario europeo per il Bilancio, Johannes Hahn (9 novembre 2022)
    “Continueremo a sostenere l’Ucraina anche finanziariamente per tutto il tempo necessario”, ha sottolineato il ministro delle Finanze ceco e presidente di turno del Consiglio dell’Ue, Zbyněk Stanjura, dopo l’approvazione della proposta della Commissione Ue in forma scritta sabato scorso (10 dicembre): “Significa che l’Ucraina può contare su un aiuto finanziario regolare da parte dell’Ue per tutto il 2023”. L’obiettivo è quello di fornire un sostegno a breve termine per i bisogni immediati di Kiev: la riabilitazione delle infrastrutture critiche, i servizi di base, gli stipendi dell’amministrazione pubblica e i primi sforzi di ricostruzione. Il nuovo strumento di assistenza macrofinanziaria Amf+ prevede che i fondi saranno convogliati attraverso il bilancio dell’Ue con un esborso trimestrale di 4,5 miliardi (per una media mensile di 1,5 miliardi di euro) e consentirà all’Ucraina di rimborsare i prestiti in un periodo massimo di 35 anni, a partire dal 2033.
    Per garantire la nuova assistenza macrofinanziaria all’Ucraina si potrà utilizzare il margine di manovra del bilancio comunitario 2021-2027 (la differenza tra il massimale delle risorse proprie e i fondi effettivamente necessari per coprire le spese previste dal bilancio) in modo mirato per l’Ucraina e limitato nel tempo. Lo spazio di manovra è già utilizzato per garantire i prestiti per i programmi di assistenza finanziaria agli Stati membri ed è pensato per garantire agli investitori obbligazionari che gli importi prestati all’Ue per finanziare i prestiti ucraini saranno rimborsati in ogni circostanza. Davanti all’opposizione di Budapest nel corso del Consiglio Economia e Finanze di martedì scorso (6 dicembre), la soluzione messa in campo dalla presidenza di turno ceca si è concentrata su un’intesa tra gli altri 26 Paesi membri, che garantirà la copertura dei tassi d’interesse lasciando fuori l’Ungheria (anche se al momento non si conoscono i dettagli).
    L’assistenza all’Ucraina nel 2022

    Da sinistra: la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, il primo ministro ucraina, Denys Shmyhal, e il cancelliere tedesco, Olaf Scholz (Berlino, 25 ottobre 2022)
    Per quanto riguarda il sostegno già fornito nel corso di quest’anno, ancora prima dello scoppio della guerra in Ucraina l’Ue aveva stanziato un pacchetto da 1,2 miliardi, proprio considerato il rischio di invasione russa. Al Consiglio Europeo di fine maggio era stata presa la decisione di stanziare un pacchetto di assistenza macro-finanziaria complessivo da 9 miliardi. La prima tranche da un miliardo è stata erogata a inizio agosto, mentre il via libera ad altri 5 miliardi è arrivato a metà settembre: di questi ne sono già stati sborsati quattro e mezzo, mentre il rimanente mezzo miliardo dovrebbe arrivare “entro la fine dicembre“, aveva spiegato il vicepresidente della Commissione Ue responsabile per l’Economia, Valdis Dombrovskis. Del pacchetto complessivo da 9 miliardi manca però ancora una terza tranche da 3 miliardi, su cui la Commissione per il momento non ha fornito ulteriori informazioni.
    Dal 24 febbraio sono arrivati anche aiuti umanitari (pari a 485 milioni), per aiutare i civili ucraini colpiti dalla guerra, e finanziamenti militari (3,1 miliardi) attraverso l’European Peace Facility, lo strumento fuori bilancio per la prevenzione dei conflitti, la costruzione della pace e il rafforzamento della sicurezza internazionale, attraverso il finanziamento di azioni operative nell’ambito della politica estera e di sicurezza comune (Pesc) che hanno implicazioni nel settore militare o della difesa.

    I Ventisette approvano il nuovo strumento di assistenza macrofinanziaria Amf+, che permetterà a Kiev di rimborsare i prestiti in 35 anni a partire dal 2033. Gli Stati membri Ue copriranno i tassi d’interesse, ma dopo il veto ungherese si procederà a una soluzione a 26 capitali

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    Il Consiglio Ue porta a 2 miliardi di euro nel 2023 il finanziamento per lo strumento Ue della pace

    Bruxelles – Portare le risorse dell’European Peace Facility (lo Strumento europeo per la pace) a un totale di 2 miliardi di euro (a prezzi 2018) nel 2023, con la possibilità di un ulteriore aumento in una fase successiva. I ministri Ue degli Affari Esteri riuniti a Bruxelles hanno trovato oggi (12 dicembre) un accordo politico per aumentare le risorse dello strumento europeo per la pace per il prossimo anno, portando il massimale finanziario complessivo dell’EPF fino al 2027 a 5,5 miliardi di euro.
    Lo strumento europeo per la pace è nato a marzo 2021 ed è fuori bilancio, pensato per migliorare la capacità dell’Unione di prevenire i conflitti, costruire la pace e rafforzare la sicurezza internazionale, consentendo il finanziamento di azioni operative nell’ambito della politica estera e di sicurezza comune (PESC) che hanno implicazioni militari o di difesa. L’EPF ha un tetto finanziario di 5,692 miliardi di euro a prezzi correnti (5 miliardi di euro a prezzi 2018) per il periodo 2021-2027, con un tetto annuo che va da 420 milioni di euro nel 2021, a 1,132 miliardi di euro nel 2027 . I contributi saranno determinati sulla base di una chiave di distribuzione del reddito nazionale lordo (RNL).
    E attraverso lo strumento che l’Ue ha potuto finanziare il trasferimento di armi e materiale militare in Ucraina per difendersi dall’aggressione della Russia iniziata lo scorso 24 febbraio. “La decisione odierna ci garantirà i finanziamenti per continuare a fornire un sostegno militare concreto alle forze armate dei nostri partner. In meno di due anni, lo strumento europeo per la pace ha dimostrato il suo valore e ha cambiato completamente il modo in cui sosteniamo i nostri partner in materia di difesa”, ha commentato l’alto rappresentante Ue per la politica estera e di sicurezza, Josep Borrell, che presiede la riunione. L’accordo sarà formalizzato all’inizio del 2023, quando l’alto rappresentante presenterà una proposta formale di modifica della decisione (PESC) 2021/509 del Consiglio.
    In un tweet il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, ha sottolineato di accogliere con favore la decisione dei ministri di portare la quota di finanziamento a 2 miliardi di euro per il prossimo anno. “L’EPF ha dimostrato di essere un agile strumento di difesa europea e con questo potenziamento l’UE continuerà a sostenere le forze armate ucraine”.

    I welcome the decision to top up the #EuropeanPeaceFacility by €2 bn in 2023 & to further strengthen the EPF to respond to challenges in real time. EPF has proved to be an agile European defense instrument & with this top up, EU will continue to support Ukraine’s armed forces. https://t.co/SPeJ2dDz6f
    — Charles Michel (@CharlesMichel) December 12, 2022

    L’accordo tra i ministri Ue degli Esteri riuniti a Bruxelles che porta il massimale finanziario complessivo dell’European Peace Facility fino al 2027 a 5,5 miliardi di euro. L’accordo sarà formalizzato a inizio 2023