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    Pronto il piano di Bruxelles per aumentare la capacità di produzione di munizioni con i fondi Ue

    Bruxelles – La Commissione europea è pronta a svelare il piano per aumentare la capacità industriale della difesa dell’Unione europea. Portato a termine un vero e proprio ‘tour della difesa’ in oltre dieci capitali degli Stati membri, il commissario europeo per il Mercato interno, Thierry Breton, presenterà domani (3 maggio) i dettagli della proposta per rafforzare la capacità dell’Ue di produzione di munizioni, portandola ad almeno un milione di munizioni su base annuale.
    “Dobbiamo urgentemente intensificare la produzione, l’approvvigionamento e la consegna di munizioni. Per questo domani la Commissione Ue presenterà il piano a sostegno della produzione di munizioni”, ha confermato in un tweet la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, in visita in Repubblica ceca.

    Glad to meet with @prezidentpavel in Prague.
    I thanked him for Czechia’s staunch support to Ukraine.
    We need to urgently step up production, procurement, delivery of ammunition.
    This is why the @EU_Commission will present the Act in Support of Ammunition Production tomorrow. pic.twitter.com/irJzLKIIog
    — Ursula von der Leyen (@vonderleyen) May 2, 2023

    Nel contesto della guerra di Russia in Ucraina, gli Stati membri Ue hanno invitato la Commissione europea a presentare una proposta per potenziare con urgenza l’aumento della capacità produttiva dell’industria europea della difesa, garantendo le catene di approvvigionamento, agevolando le procedure di appalto e anche ponendo rimedio alle carenze di capacità produttiva e promuovere gli investimenti. L’idea – che dovrebbe essere confermata domani dopo la riunione del collegio dei commissari – è quella di ricorrere anche ai fondi comuni del bilancio comunitario per dare una spinta all’industria comune della difesa. “Questa legge sosterrà l’aumento della produzione di munizioni in Europa”, ha spiegato ancora von der Leyen. A detta della presidente, prevederà una regolamentazione più snella con una procedura di autorizzazione rapida. “La proposta prevede un finanziamento dell’Ue di 500 milioni di euro, che si aggiunge a circa un miliardo di euro in totale, con gli Stati membri che cofinanziano il finanziamento della Commissione europea di 500 milioni di euro”, ha spiegato ancora.

    Dopo i vaccini e il gas, a luglio dello scorso anno la Commissione europea ha proposto al Parlamento europeo e al Consiglio attraverso un regolamento di impegnare 500 milioni di euro dal bilancio europeo (per gli anni 2022-2024) per facilitare l’acquisto congiunto di armi a livello europeo, con il doppio obiettivo di ristabilire il livello di scorte, in parte ridimensionate a causa del sostegno dato all’Ucraina nella guerra provocata dalla Russia, e contribuire alla costruzione di una industria europea della difesa. Parte del piano che sarà svelato nelle prossime ore potrebbe essere finanziato attraverso queste risorse. 
    Nei mesi di marzo e aprile, Breton ha fatto tappa in Bulgaria il 15 marzo, in Francia il 20 marzo, poi ancora in Repubblica ceca e la Slovacchia il 22 marzo, in Polonia il 27 marzo, in Romania il 12 aprile. Il 13 aprile scorso Breton ha visitato anche l’Italia, incontrando il ministro della difesa, Guido Crosetto, e la premier Giorgia Meloni. In Italia Breton ha visitato la sede di Colleferro dell’azienda Simmel Difesa, poi quella di Leonardo a La Spezia. E’ poi stata la volta della Svezia il 19 aprile e Slovenia e Croazia il 20 aprile e infine la Grecia il 28. Il tour europeo di Breton – che dovrebbe concludersi nei prossimi giorni – serve a valutare le esigenze dell’industria della difesa e considerare eventualmente un ulteriore sostegno finanziario, possibilmente anche attraverso fondi dell’Ue, e affrontare possibili colli di bottiglia della catena di approvvigionamento.
    Il problema si è posto da quando è iniziata la guerra in Ucraina e diversi Stati hanno iniziato a inviare munizioni a Kiev per la difesa. A Bruxelles è finora mancata l’idea di una vera e propria industria europea della difesa, che rimane una competenza nazionale. L’obiettivo di aumentare la capacità industriale della difesa è uno dei tre pilastri del piano concordato dai ministri degli Esteri lo scorso 20 marzo per consegnare all’Ucraina nei prossimi dodici mesi almeno un milione di munizioni di armi per difendersi dall’aggressione della Russia cominciata il 24 febbraio di un anno fa.
    Il piano stabilito a marzo dai ministri dell’Ue si articola in tre fasi: un miliardo di euro mobilitato per la consegna immediata di munizioni attraverso le scorte degli Stati membri, un altro miliardo di euro per gli acquisti congiunti di armi e infine un aumento della capacità di produzione bellica a livello europeo. La prima fase del piano prevede di fornire munizioni di emergenza all’Ucraina, che sta affrontando carenze, attingendo alle scorte esistenti degli eserciti europei. Per compensare le risorse militari mobilitate per Kiev, i ministri hanno deciso di mobilitare il miliardo di euro citato da Borrell mobilitando i fondi dello strumento europeo per la pace (European Peace Facility), un fondo fuori dal bilancio europeo e utilizzato dall’inizio della guerra per rifornire di armi l’Ucraina. La svolta storica riguarda però la seconda componente del piano, che prevede di far acquistare agli Stati congiuntamente le munizioni, sul modello degli acquisti di vaccini e ora di riserve di gas. Mentre sul primo pilastro, secondo Borrell, l’Ue sta procedendo spedita e ha consegnato a Kiev “più di mille missili e un numero di munizioni che sta crescendo”, sugli acquisti congiunti e sulla produzione bellica europea le cose procedono a passo meno spedito, anche a causa di qualche attrito tra i Paesi membri.

    Mercoledì il collegio von der Leyen svelerà i piani per aumentare la capacità dell’industria della difesa a livello comunitario. “La legge sosterrà l’aumento della produzione di munizioni in Europa” con regole più snelle. “La proposta prevede un finanziamento dell’Ue di 500 milioni di euro, che si aggiunge a circa un miliardo di euro in totale”, ha anticipato von der Leyen

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    Israele, l’Ue chiede un’indagine trasparente sulla morte del leader palestinese Khader Adnan

    Bruxelles – Fa discutere nell’Ue la morte in un carcere israeliano di Khader Adnan, figura di riferimento del Jihad Islamico Palestinese, dopo 86 giorni di sciopero della fame. Una morte sopraggiunta a seguito del recente deterioramento delle sue condizioni di salute denunciato dalla moglie e da diverse Ong locali e la determinazione con cui Adnan portava avanti il suo quinto sciopero della fame alla decima detenzione nelle prigioni di Israele.
    A poco sono serviti gli appelli della comunità internazionale, tra cui quelli dell’Unione Europea, che secondo quanto riferito dal portavoce del Servizio d’Azione Esterna dell’Ue (Seae), Peter Stano, avrebbe nei giorni scorsi “chiesto conto delle condizioni di salute” del prigioniero palestinese al ministro della Sanità di Tel Aviv, Yoav Ben-Tzur. A poche ore dalla morte, avvenuta nelle prime ore di questa mattina (2 maggio), Bruxelles interviene nuovamente chiedendo che venga aperta “un’indagine trasparente sulla sua morte e sulle circostanze che l’hanno causata”. Una richiesta che il capo della diplomazia Ue, Josep Borrell, potrebbe avanzare al ministro della Difesa israeliano, Eli Cohen, in visita proprio oggi nella capitale europea.
    Gli scioperi della fame di Adnan contro la detenzione amministrativa in Israele
    Khader Adnan aveva 45 anni ed era indicato da tempo come uno dei maggiori dirigenti del Jihad Islamico, formazione politica e militare che è ritenuta da Israele – ma anche da Stati Uniti e Unione Europea- un’organizzazione terroristica. Per la decima volta, lo scorso febbraio, era stato sottoposto a detenzione amministrativa, che permette alle autorità israeliane di imprigionare persone accusate di terrorismo o reati simili senza processo praticamente all’infinito, con rinnovi ogni sei mesi.
    Khader Adnan durante i 54 giorni di sciopero della fame nel 2014 (Photo by AHMAD GHARABLI / AFP)
    Il suo primo sciopero della fame risale al 2004, a cui negli anni ne sono seguiti altri quattro: nel 2012, nel 2014, nel 2021, fino all’ultimo che ne ha causato la morte.
    Già nel corso dei 54 giorni di sciopero del 2012, l’allora Alto rappresentante Ue per gli Affari esteri, Catherine Ashton, aveva chiesto al governo di Israele “di fare tutto il possibile per preservare la salute di Adnan” e aveva ribadito “la preoccupazione di lunga data dell’Ue per l’ampio ricorso alla detenzione amministrativa senza accusa formale”. Secondo l’ong palestinese Addameer, che si occupa della tutela dei diritti dei detenuti politici in Israele, sarebbero però ancora quasi mille attualmente i prigionieri sottoposti a questa forma speciale di custodia cautelare.
    Il trattamento riservato ai prigionieri politici è uno dei motivi che avevano spinto Adnan a iniziare lo sciopero della fame e a rifiutare aiuti medici esterni e le visite dei medici della prigione. Come riportato da Afp, secondo la moglie le autorità israeliane hanno rifiutato  il trasferimento del detenuto dalla clinica della prigione di Nitzan in un ospedale civile, nonostante il grave peggioramento delle condizioni di salute.
    Alla notizia della sua morte, in mattinata dalla Striscia di Gaza sono stati lanciati tre razzi sul territorio israeliano, che non avrebbero provocato danni né causato vittime. Il gruppo fondamentalista di Hamas ha immediatamente fatto sapere che “il popolo palestinese non lascerà che questo crimine passi sotto silenzio, e risponderà adeguatamente”, mentre il Jihad Islamico ha dichiarato in un comunicato che “la sua morte sarà una lezione per generazioni, e non ci fermeremo finché la Palestina rimarrà sotto occupazione”.
    L’Unione Europea ha definito “inaccettabili gli inviti alle rappresaglie” da parte dei gruppi armati palestinesi e il portavoce Peter Stano ha espresso parole di condanna per il lancio di razzi su Israele, lanciando l’ennesimo appello a entrambe le parti a evitare azioni unilaterali che portino a ulteriori escalation, dopo mesi di tensioni fortissime nella regione.

    Il portavoce del Servizio Europeo di Azione Esterna ha dichiarato di aver chiesto conto al ministro della Sanità israeliana delle condizioni di salute di Khader Adnan nei giorni scorsi. Il dirigente del Jihad Islamico Palestinese è morto alle prime luci dell’alba dopo 86 giorni di sciopero della fame

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    Ora a Bruxelles si teme che la crisi in Sudan si propaghi oltre i confini del Paese: “Le conseguenze sarebbero disastrose”

    Bruxelles – Diciassette giorni di combattimenti, tregue che non reggono e la diplomazia internazionale che è fuggita da un Paese travolto dalla guerra civile. E che ora potrebbe innescare una crisi in tutta la regione dell’Africa subsahariana centrale e orientale. Il Sudan rischia di trasformarsi nella miccia per il crollo degli equilibri in Stati vicini “altamente fragili”, è l’avvertimento del commissario europeo per la Gestione delle crisi, Janez Lenarčič: “Il rischio che la crisi si propaghi agli Stati circostanti della regione è reale, le conseguenze sarebbero disastrose, nessuno può volerlo“.
    In un’intervista al quotidiano tedesco Die Welt il commissario Lenarčič ha fatto il punto della situazione a una settimana dall’evacuazione della delegazione Ue in Sudan (e dell’ambasciatore Aidan O’Hara), che non presenta alcun elemento di positività. “La crisi può solo peggiorare”, dal momento in cui “il Paese è in fiamme e manca tutto: acqua pulita, cibo, medicine e carburante“. Quello che era iniziato come uno scontro tra l’esercito regolare e il gruppo paramilitare Rapid Support Forces (Rsf) alla fine si è trasformato in una vera e propria guerra civile, e ha già causato oltre 500 morti e più di quattromila feriti: centinaia di programmi umanitari sono stati sospesi, i magazzini degli operatori umanitari a Khartum e in altre città del Paese sono stati saccheggiati e distrutti, e la maggioranza degli ospedali della capitale è stata costretta a chiudere. Secondo le Nazioni Unite almeno 75 mila persone sarebbero già fuggite all’estero, soprattutto nel vicino Ciad, ma decine di migliaia sarebbero sfollate internamente.
    Da sinistra: il generale Abdel Fattah al-Burhan, presidente del Sudan, e il generale Mohamed Hamdan Dagalo, vicepresidente del Sudan (credits: Afp)
    Ufficialmente in Sudan sarebbe in atto una tregua tra l’esercito guidato dal generale Abdel Fattah al-Burhan (dal 2021 presidente del Paese) e le forze paramilitari del generale Mohamed Hamdan Dagalo vicepresidente del Sudan), dopo il cessate il fuoco negoziato con la mediazione degli Stati Uniti ed esteso per altre 72 ore domenica (30 aprile). Tuttavia i combattimenti non si sono mai effettivamente arrestati, considerato il fatto che il cessate il fuoco non regge in particolare a Khartum e nella regione occidentale del Darfur (già teatro di guerra civile e genocidio tra il 2003 e il 2006, anche se la tensione non è mai scomparsa): l’esercito sta cercando di respingere le Rapid Support Forces dalla capitale con bombardamenti aerei, mentre i paramilitari stanno organizzando una guerriglia urbana, saccheggiando uffici pubblici, sedi di organizzazioni internazionali e abitazioni private.
    In stretta collaborazione con i partner internazionali e regionali, l’Unione Europea sta cercando di pressare le due parti per arrivare a un “cessate il fuoco duraturo e a lungo termine“, è l’esortazione del commissario Lenarčič: “La priorità assoluta deve essere quella di far rinsavire le due parti in guerra, le uniche responsabili” della crisi in Sudan che è “pagata dalla popolazione civile”. Ecco perché la base di un cessate il fuoco effettivo – e non violato continuamente come nell’ultima settimana – deve essere costituita dal “rispetto del diritto internazionale, in modo che gli attori umanitari possano tornare a fare il loro lavoro“, ha messo in chiaro il titolare della Gestione delle crisi per il gabinetto von der Leyen.
    La guerra in Sudan
    Esplosioni nella capitale Khartum (credits: Afp)
    La guerra nella capitale Khartum e nel resto del Sudan è iniziata lo scorso 15 aprile, con lo scontro armato tra l’esercito regolare e le forze paramilitari composte da 100 mila membri. Due anni fa, nell’ottobre del 2021, i generali al-Burhan e Dagalo avevano unito le forze per rovesciare il breve governo democraticamente eletto di Abdalla Hamdok e instaurare una dittatura militare. Lo stesso al-Burhan è stato in precedenza a capo del Consiglio sovrano del Sudan, l’organo che nel 2019 aveva preso il posto del Consiglio militare di transizione dopo la deposizione del dittatore Omar al-Bashir (in carica dal 1993). I due generali avevano promesso di continuare la transizione democratica fino alle elezioni previste per il 2023, governando attraverso il Consiglio Sovrano. L’alleanza è durata fino a dicembre del 2022, quando le pressioni internazionali hanno spinto la giunta militare a restituire il potere a un’amministrazione civile e sciogliere le Rsf per integrarle all’interno dell’esercito regolare. Dagalo si è opposto e gli scontri prima politici si sono trasformati in guerra civile.
    Le Rsf sono la derivazione diretta dei Janjawid, i miliziani di etnia araba che nel corso della guerra del Darfur hanno preso parte al genocidio nell’area occidentale del Paese: in quel momento Dagalo era a capo dei Janjawid ed è stato accusato di crimini contro l’umanità. Anche i vertici dell’esercito regolare, di cui al-Burhan è principale esponente, sono stati accusati di genocidio nel Darfur. Dopo la guerra le Rsf si sono trasformate autonomamente in un esercito di frontiera, senza perdere potere militare e senza mai farsi assorbire nelle strutture statali. La Cnn ha anche riportato di un supporto militare da parte del gruppo mercenario russo Wagner e di finanziamenti reiterati da parte del generale libico Khalifa Haftar nei mesi precedenti allo scoppio della guerra.

    Dopo più di due settimane di combattimenti il commissario per la Gestione delle crisi, Janez Lenarčič, avverte che la situazione “può solo peggiorare”, perché “manca tutto: acqua pulita, cibo, medicine e carburante”. Appello per un cessate il fuoco “duraturo e a lungo termine”

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    Primo (di quattro) via libera in Ue a Di Maio come inviato speciale per il Golfo Persico

    Bruxelles – Primo (di quattro) disco verde per Luigi Di Maio come primo rappresentante speciale dell’Ue per il Golfo Persico. Dopo tante polemiche in Italia, la nomina da parte di Josep Borrell è arrivata la scorsa settimana e ha ricevuto oggi (27 aprile) il parere favorevole da parte del Cops, il Comitato politico e di sicurezza, l’organo del Consiglio responsabile della politica estera e di sicurezza comune dell’Ue. Il punto, come previsto, è stato inserito all’ordine del giorno come punto ‘A’, che non prevede alcuna discussione. 
    Come spiegano fonti europee, la nomina di Di Maio è ormai solo un passaggio formale di un processo quasi  concluso. Il nome dell’ex ministro degli Esteri è stato portato dall’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica sicurezza che lo ha indicato come “il candidato più adatto” all’incarico in una lettera del 21 aprile scorso e indirizzata agli ambasciatori del Comitato politico e di sicurezza degli Stati membri. Borrell propone per il nuovo incarico un mandato di 21 mesi, a partire dal primo giugno 2023 e fino al 28 febbraio 2025. Lo stesso punto procedurale (senza discussione) dovrà ora passare prima sul tavolo del Gruppo dei Consiglieri per le relazioni esterne (Relex), poi in Coreper (Comitato dei rappresentanti permanenti) e, infine in un qualsiasi formato del Consiglio per l’approvazione definitiva. Anche se per la nomina di queste figure speciali a livello procedurale sarebbe richiesta la maggioranza qualificata, nella pratica la figura indicata dall’alto rappresentante Ue viene semplicemente “accolta” dai rappresentanti degli Stati membri, senza un vero e proprio voto.

    I rappresentanti speciali dell’Ue promuovono le politiche e gli interessi dell’UE in regioni e paesi specifici e svolgono un ruolo attivo negli sforzi per consolidare la pace, la stabilità e lo stato di diritto. Attualmente esistono nove figure del genere che sostengono il lavoro dell’alto rappresentante Ue nel mondo: in Bosnia-Erzegovina, in Asia centrale, nel Corno d’Africa, una figura specifica per i diritti umani, una per il Kosovo, una per il processo di pace in Medio Oriente, poi ancora nel Sahel, nel Caucaso meridionale e la crisi in Georgia e infine una per il dialogo Belgrado-Pristina e altre questioni regionali dei Balcani occidentali.
    Il nuovo incarico di inviato speciale per il Golfo è stato pensato soprattutto nell’ottica di rafforzare e approfondire i rapporti energetici con la regione del Golfo, una scelta motiva dalla difficoltà che l’Europa ha incontrato dall’inizio della guerra in Ucraina a diversificare l’approvvigionamento di gas dalla Russia e a cercare nuovi fornitori di idrocarburi. La Commissione aveva affidato la selezione a un panel di tecnici indipendenti che hanno presentato a Borrell una rosa finale di quattro nomi: oltre al nome dell’ex ministro degli Esteri nel governo Conte 2 e poi nell’esecutivo Draghi, in lizza c’erano l’ex inviato dell’Onu in Libia, lo slovacco Jan Kubis, l’ex ministro degli Esteri della Grecia e ex commissario Ue, Dimitris Avramopoulos, e il cipriota Markos Kyprianou. Nella nota consegnata a Borrell, i tecnici avrebbero suggerito il nome di Di Maio per la nomina “sulla base delle prestazioni fornite dai candidati”. La scelta di Borrell è infine ricaduta sull’ex vicepremier, tra le polemiche in Italia.

    Primo via libera dagli ambasciatori Ue al Comitato politico e di sicurezza, senza discussione, all’incarico per l’ex vicepremier e ministro degli Esteri Di Maio. Ora il passaggio al gruppo dei Consiglieri per le relazioni esterne (Relex), poi in Coreper (Comitato dei rappresentanti permanenti) e, infine in un qualsiasi formato del Consiglio per l’approvazione definitiva

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    La commissaria Johansson è in Tunisia per spingere la cooperazione sulla migrazione e le riforme chieste dall’Fmi

    Bruxelles – La Commissione Europea torna in Tunisia, un mese dopo. La titolare per gli Affari interni, Ylva Johansson, è a Tunisi per una serie di incontri con i membri del governo per cercare di rafforzare la cooperazione su due temi principali: migrazione e stabilità socio-economica del Paese, con l’accento posto sul programma di riforme da accettare per sbloccare un finanziamento da 1,9 miliardi di dollari. Ma, a differenza di quanto anticipato a margine dell’ultimo Consiglio Europeo di marzo dalla stessa commissaria Johansson, si tratta di un viaggio in solitaria: nessun membro del governo italiano o di quello francese l’ha accompagnata a Tunisi.
    “La commissaria Johansson è in Tunisia, in una della serie di missioni nel Paese da parte della Commissione”, ha annunciato oggi (26 aprile) nel corso del punto quotidiano con la stampa europea la portavoce responsabile per gli Affari interni, Anitta Hipper, facendo riferimento anche a quella del commissario per l’Economia, Paolo Gentiloni, dello scorso 27 marzo. Interpellata dai giornalisti sull’assenza di ministri italiani e francesi, la portavoce dell’esecutivo comunitario non ha risposto nel merito, sottolineando invece che “la visita rafforzerà il partenariato strategico nell’ambito di un approccio Team Europe”. Da Roma invece i portavoce del ministro per gli Interni, Matteo Piantedosi (il più quotato insieme all’omologo francese, Gérald Darmanin), smentiscono impegni istituzionali del Viminale a Tunisi per oggi: “Non era previsto e non va, la commissaria rappresenta tutti gli Stati membri“, è il commento rilasciato a Eunews, con la precisazione che i contatti bilaterali tra il ministro e la Tunisia “sono costanti”.
    Per quanto riguarda l’agenda della commissaria Johansson, nel corso della visita incontrerà il ministro dell’Interno, Kamel Feki, degli Affari sociali, Malek Ezzah, e degli Affari Esteri, Nabil Ammar, con le discussioni che si concentreranno sulla “lotta congiunta al traffico di migranti per contribuire alla prevenzione della migrazione irregolare, ai rimpatri e alla reintegrazione, garantendo la protezione dei migranti più vulnerabili e la migrazione legale”, rende noto la Commissione Ue. Sul tavolo c’è l’intenzione di definire un partenariato operativo contro il traffico di esseri umani, con l’obiettivo di “prevenire le partenze e le perdite di vite umane e aumentare i rimpatri”, di fronte a un aumento di partenze irregolari – oltre 30 mila dall’inizio dell’anno – dal Paese nord-africano che sta affrontando una situazione economica disastrosa.
    La Tunisia tra crisi politica e prestiti dell’Fmi
    A questo proposito, la questione migratoria si lega strettamente alla crisi politica in Tunisia, legata all’autoritarismo crescente del presidente Kais Saied. Mentre da mesi sono in corso le repressioni delle manifestazioni popolari (che hanno portato pochi giorni fa all’arresto di Rached Ghannouchi, leader del principale partito di opposizione Ennahda, islamista e moderato), il 6 aprile Saied ha respinto le condizioni del Fondo Monetario Internazionale (Fmi) per l’erogazione di un finanziamento da 1,9 miliardi di dollari. “Stiamo aspettando che la Tunisia chiuda l’accordo con l’Fmi per procedere con un potenziale ulteriore pacchetto di assistenza macro-finanziaria da parte dell’Ue“, ha confermato alla stampa la portavoce per i Partenariati internazionali, Ana Pisonero, il contenuto del non-paper fatto circolare tra i Ventisette la settimana scorsa. Il valore del pacchetto non è stato reso noto, ma è stato sottolineato con forza che l’accordo sul programma di riforme economiche e politiche richieste dal Fondo Monetario Internazionale è una “pre-condizione” per qualsiasi altro supporto oltre a quello bilaterale Ue-Tunisia.
    La stessa portavoce della Commissione ha ricordato che per il periodo 2021-2024 l’assistenza bilaterale prevista per Tunisi è di 600 milioni di euro e con tre priorità fondamentali: “Buona governance e Stato di diritto, stimolo alla crescita economica e rafforzamento della coesione sociale”. A oggi è stato già adottato un primo programma dal valore di 50 milioni per l’azione ambientale, un altro per mitigare le conseguenze della pandemia Covid-19 da 100 milioni di euro e infine un ultimo programma di supporto all’educazione e alla sicurezza alimentare.

    La titolare per gli Affari interni dell’esecutivo Ue incontrerà i membri del governo tunisino ma senza la ‘scorta’ italiana o francese (come annunciato). Pronto a un pacchetto di assistenza macro-finanziaria per Tunisi, se accetterà il piano di riforme del Fondo Monetario Internazionale

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    Le mosse dell’Azerbaigian nel Nagorno-Karabakh irritano Bruxelles: “Posti di blocco unilaterali non riducono le tensioni”

    Bruxelles – Mentre l’attenzione internazionale è focalizzata sull’invasione russa in Ucraina e sulle tensioni tra Cina e Taiwan, un altro fronte di conflitto a bassa intensità da un anno è sempre attivo e, nonostante gli intensi sforzi diplomatici da parte delle istituzioni comunitarie, non sembra trovare alcuna via di risoluzione. “Il posto di blocco unilaterale dell’Azerbaigian lungo il corridoio di Lachin è contrario agli appelli dell’Ue a ridurre le tensioni e a risolvere le questioni con il dialogo”, ha denunciato l’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, a proposito delle recenti decisioni sul piano militare di Baku nel Nagorno-Karabakh.
    È dal 12 dicembre dello scorso anno che l’Azerbaigian ha bloccato in modo informale (attraverso la presenza di pseudo-attivisti ambientalisti armati) il corridoio di Lachin, l’unica via di accesso all’Armenia e al mondo esterno per gli oltre 120 mila abitanti dell’autoproclamata Repubblica dell’Artsakh. Da 136 giorni su questa strada sono in atto forti limitazioni del transito di beni essenziali come cibo e farmaci, gas e acqua potabile, e gli unici a poterla percorrere sono i soldati del contingente russo di mantenimento della pace e il Comitato internazionale della Croce Rossa. Ma con la decisione di domenica scorsa (23 aprile) è stata formalizzata la chiusura del collegamento strategico tra l’enclave cristiana nel sud-ovest dell’Azerbaigian (Paese a maggioranza musulmano) e l’Armenia. Baku ha giustificato la creazione del posto di blocco con la volontà di impedire la rotazione dei soldati armeni nel Nagorno-Karabakh, “che continuano a stazionare illegalmente nel territorio dell’Azerbaigian”.
    L’irritazione a Bruxelles è legata al fatto che, nonostante l’impegno a “promuovere la pace e la stabilità nel Caucaso meridionale”, da un anno i due interlocutori – e in particolare l’Azerbaigian – continuano a non mostrare una seria volontà per la de-escalation: “I diritti e la sicurezza degli armeni del Nagorno-Karabakh devono essere garantiti“, ha ribadito senza mezzi termini l’alto rappresentante Ue Borrell. Guardando al quadro più ampio, è dal 1992 che si protrae in quest’area del Caucaso meridionale un conflitto congelato, con scoppi di violenze armate ricorrenti. Il più grave degli ultimi anni è stato quello dell’ottobre del 2020: in sei settimane di conflitto erano morti quasi 7 mila civili, prima del cessate il fuoco che ha imposto all’Armenia la cessione di ampie porzioni di territorio nel Nagorno-Karabakh.
    Cosa sta succedendo tra Azerbaigian e Armenia
    Da sinistra: il presidente dell’Azerbaigian, Ilham Aliyev, il presidente della Francia, Emmanuel Macron, il premier dell’Armenia, Nikol Pashinyan, e il presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, a Praga il 6 ottobre 2022 (credits: Ludovic Marin / Afp)
    Dopo le sparatorie alla frontiera tra i due Paesi di fine maggio dello scorso anno il presidente del Consiglio Ue, Charles Michel, ha reso sempre più frequenti i contatti diretti con il presidente dell’Azerbaigian, Ilham Aliyev, e il premier dell’Armenia, Nikol Pashinyan, ponendo come priorità dei colloqui di alto livello la delimitazione degli oltre mille chilometri di confine. Tuttavia, mentre a Bruxelles si sta provando da allora a trovare una difficilissima soluzione a livello diplomatico, sul terreno non si è mai allentata la tensione. Nel mese di settembre sono riprese le ostilità tra Armenia e Azerbaigian, che si accusano a vicenda di bombardamenti alle infrastrutture militari e sconfinamenti di truppe di terra.
    La mancanza di un monitoraggio diretto della situazione sul campo da parte della Russia – che fino allo scoppio della guerra in Ucraina era il principale mediatore internazionale – ha portato alla decisione di implementare una missione Ue. Dopo il compromesso iniziale con Yerevan e Baku raggiunto il 6 ottobre a Praga in occasione della prima riunione della Comunità Politica Europea, 40 esperti Ue sono stati dispiegati lungo il lato armeno del confine fino al 19 dicembre dello scorso anno. A seguito dell’aggravarsi della situazione nel corridoio di Lachin, il 23 gennaio è arrivata la decisione del Consiglio dell’Ue di istituire la missione civile dell’Unione Europea in Armenia (Euma) nell’ambito della politica di sicurezza e di difesa comune, con l’obiettivo di contribuire alla stabilità nelle zone di confine e garantire un “ambiente favorevole” agli sforzi di normalizzazione dei due Paesi caucasici.

    L’alto rappresentante Josep Borrell ha denunciato la presenza permanente di soldati azeri nel corridoio di Lachin, l’unica via di accesso all’Armenia per gli abitanti dell’autoproclamata Repubblica dell’Artsakh: “È contrario agli appelli dell’Ue a risolvere le questioni con il dialogo”

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    A Bruxelles filtra ottimismo per la telefonata tra Xi Jinping e Zelensky dopo il viaggio di von der Leyen e Macron in Cina

    Bruxelles – Con pazienza, dopo qualche settimana dal viaggio dei presidenti della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, e della Francia, Emmanuel Macron, l’Unione Europea inizia a cogliere i frutti del proprio impegno diplomatico. Il presidente cinese, Xi Jinping, ha telefonato ieri (26 aprile) al leader ucraino, Volodymyr Zelensky, aprendo ufficialmente i canali di comunicazione tra Pechino e Kiev. Potrebbe sembrare semplicemente un caso, ma i fatti sono fatti: in oltre un anno di guerra russa l’assenza di un contatto diplomatico tra Cina e Ucraina è sempre stata il grande elefante nella stanza, mentre dopo sole tre settimane dalle pressioni Ue a Pechino si è concretizzata la tanto attesa conversazione di alto livello tra i due leader.
    Da sinistra: il presidente dell’Ucraina, Volodymyr Zelensky, e il presidente della Cina, Xi Jinping (credits: Afp)
    “È un primo passo importante, atteso da tempo, della Cina nell’esercizio delle sue responsabilità di membro del Consiglio di Sicurezza dell’Onu”, è quanto rendono noto i portavoce della Commissione Europea, commentando la notizia della telefonata tra Xi Jinping e Zelensky, in linea con le richieste di von der Leyen e Macron. Questo passo in avanti da parte del presidente cinese viene considerato come un segnale incoraggiante per mettere pressioni sul Cremlino, dopo i timori suscitati dalla visita all’autocrate russo, Vladimir Putin, a Mosca il mese scorso: “Deve usare la sua influenza per indurre la Russia a porre fine alla guerra di aggressione, a ripristinare l’integrità territoriale dell’Ucraina e a rispettare la sua sovranità, come base per una pace giusta”.
    Funzionari Ue parlano esplicitamente di momento “positivo”, perché ora “i canali di comunicazione sono aperti”. Per Bruxelles il dovere morale di Pechino nel fare pressione su Mosca per mettere fine all’invasione russa deriva sempre dal fatto che la Cina è uno dei cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e “condivide la responsabilità globale di difendere e sostenere la Carta delle Nazioni Unite e i principi del diritto internazionale”. Ecco perché si guarda con ottimismo all’annuncio di Xi Jinping di voler inviare a Kiev un rappresentante speciale per gli affari eurasiatici, che avrà il compito di analizzare come il testo in 12 punti sui principi politici di Pechino possa convergere con il piano di pace di Zelensky per la pace. A questo proposito le fonti ribadiscono che l’Unione continua a sostenere l’iniziativa del presidente ucraino “per una pace giusta basata sul rispetto dell’indipendenza, della sovranità e dell’integrità territoriale” del Paese invaso dal 24 febbraio dello scorso anno: “Spetta all’Ucraina decidere i parametri futuri di ogni potenziale negoziato“.
    C’è poi la questione nucleare, su cui Pechino è particolarmente sensibile: “Non ci sono vincitori in una guerra nucleare“, ha ribadito Xi Jinping nella telefonata di ieri. Un messaggio chiaramente indirizzato a Putin (e all’Occidente), dal momento in cui l’Ucraina non dispone di armamenti di questo tipo dal 1994. Anche nelle istituzioni comunitarie si guarda a questo aspetto della guerra con grande attenzione e le parole del leader cinese non sono passate inosservate: “L’appello ha avuto luogo nel giorno dell’anniversario del disastro di Chernobyl [l’incidente del 26 aprile 1986 alla centrale nucleare ucraina, allora parte dell’Unione Sovietica, ndr], che sottolinea l’importanza della sicurezza nucleare”, fanno notare i funzionari europei. Una questione che è tornata di stretta attualità non solo per le minacce dell’uso dell’arma nucleare da parte di Mosca, ma soprattutto per le continue “attività militari attorno alla centrale nucleare di Zaporizhzhia”.
    Prima e dopo il confronto von der Leyen-Macron-Xi Jinping
    A Bruxelles il dossier Cina è caldissimo, anche ma non solo per la questione della guerra russa in Ucraina. Per le istituzioni comunitarie è diventato cruciale trovare una via per mantenere aperto il dialogo con Pechino, senza però rendersi dipendenti da un partner/competitor con cui esistono evidenti divergenze sul piano del rispetto della democrazia, dei diritti umani e delle relazioni internazionali. Ecco perché lo scorso 30 marzo la presidente della Commissione Ue von der Leyen ha tenuto un discorso programmatico sulle direttrici strategiche per il riorientamento dei rapporti Ue-Cina, considerato soprattutto lo squilibrio commerciale. Una strategia che si baserà sul de-risking nelle aree in cui non è possibile trovare un’intesa di cooperazione – ma che in ogni caso non implica uno sganciamento di Bruxelles da Pechino – e che è stata ribadita il 6 aprile a Pechino su diversi temi: relazioni economiche, guerra russa in Ucraina e tensioni sullo Stretto di Taiwan.
    Proprio il rischio di un’escalation della tensione tra Cina e Taiwan – che rischierebbe di diventare un nuovo scenario di guerra globale dopo quello nell’Europa orientale – è diventato centrale nel dibattito interno all’Unione Europea, dopo le parole del presidente francese Macron di ritorno dal viaggio a Pechino. “La cosa peggiore sarebbe pensare che noi europei dovremmo essere dei seguaci su questo tema e adattarci al ritmo americano e a una reazione eccessiva della Cina“. Il contesto era quello della necessità di raggiungere una vera autonomia strategica europea (non un’equidistanza tra Washington e Pechino), ma anche nel dibattito al Parlamento Ue della settimana scorsa è emerso più uno scontro tra i gruppi politici sulle parole di Macron che un effettivo ragionamento sulla gestione dei rapporti con la Cina sia sul tema della guerra in Ucraina sia nel caso di uno scivolamento delle tensioni diplomatiche tra Pechino e Taipei verso uno scontro armato.
    A tentare di mettere una pezza sono stati la presidente von der Leyen e l’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, che hanno ribadito la necessità di unità contro la “politica di divisione e conquista” cinese e la “ferma opposizione” a qualsiasi cambiamento unilaterale dello status quo nello Stretto di Taiwan, “in particolare attraverso l’uso della forza”. Lo stesso alto rappresentante Ue ha esortato le marine europee a “pattugliare lo Stretto, per dimostrare l’impegno dell’Europa a favore della libertà di navigazione in quest’area assolutamente cruciale per il commercio globale”. Ad agitare nuovamente i rapporti tra Pechino e Bruxelles è stato però l’ambasciatore cinese in Francia, Lu Shaye, che ha messo in discussione la sovranità dei Paesi dell’ex-Unione Sovietica, inclusi quelli oggi parte dell’Ue (Estonia, Lettonia e Lituania). Ecco perché a Bruxelles si stanno iniziando a preparare le discussioni tra i 27 capi di Stato e di governo al Consiglio di giugno, quando si dovrà “rivalutare e ricalibrare la nostra strategia verso Pechino“, ha anticipato il presidente del Consiglio Ue, Charles Michel.

    Fonti Ue precisano che si tratta di “un primo passo importante, atteso da tempo” e che è stato al centro delle discussioni dei due leader europei con il presidente cinese a Pechino: “Deve usare la sua influenza per indurre la Russia a porre fine alla sua guerra di aggressione in Ucraina”

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    Il Kosovo più vicino all’ingresso nel Consiglio d’Europa. Ora manca solo il via libera dell’Assemblea parlamentare

    Bruxelles – Un passo più vicino all’adesione al Consiglio d’Europa per l’ultimo Paese del continente a essere ammesso all’organizzazione internazionale per la promozione di democrazia, diritti umani e identità culturale europea (fatta eccezione per la Bielorussia, a cui è stato negato l’ingresso per mancanza di democrazia). Il Kosovo ha ricevuto oggi (24 aprile) il via libera dal Comitato dei Ministri alla domanda di Pristina di diventare il 47esimo membro del Consiglio d’Europa, affidando all’Assemblea parlamentare il compito di decidere con il voto finale sull’ingresso del Paese balcanico.
    La richiesta di Pristina era arrivata il 12 maggio dello scorso anno, accompagnata dalle parole della ministra per gli Affari esteri e la diaspora, Donika Gërvalla-Schwarz: “Siamo il Paese più democratico e più pro-europeo e più ottimista nella regione, meritiamo di essere parte del Consiglio d’Europa il prima possibile”. A meno di un anno di distanza – e con numerosi eventi politici e diplomatici intercorsi, non per ultima la domanda di adesione all’Unione Europea – il Comitato dei Ministri dei 46 Paesi membri del Consiglio d’Europa ha approvato nel corso di una riunione straordinaria la decisione di permettere all’Assemblea parlamentare di esaminare la richiesta del Kosovo e, se d’accordo, deliberare l’adesione con un voto in sessione plenaria.
    Il via libera è arrivato con più dei due terzi dei voti a favore, più precisamente 33 su 46: sono stati sette i contrari e cinque gli astenuti, oltre all’Armenia che non ha partecipato al voto. Da rilevare la posizione dei cinque Paesi membri Ue che non riconoscono l’indipendenza di Pristina: Grecia e Slovacchia si sono astenute, mentre Cipro, Romania e Spagna hanno votato contro. A questi si aggiunge la posizione controversa dell’Ungheria di Orbán, stretta alleata della Serbia di Vučić, l’unico Paese membro dell’Unione che riconosce la sovranità del Kosovo ma che oggi non ha votato a favore.
    Dopo la visita a Strasburgo della settimana scorsa del ministro degli Esteri serbo, Ivica Dačić, per spingere gli sforzi per impedire l’adesione del Paese balcanico al Consiglio d’Europa, anche Belgrado ha espresso il suo voto contrario alla riunione del Comitato dei Ministri, in violazione del punto 4 dell’accordo di Bruxelles sulla normalizzazione delle relazioni tra i due Paesi firmato sotto l’egida Ue lo scorso 27 febbraio: “La Serbia non si opporrà all’adesione del Kosovo a nessuna organizzazione internazionale“. Nella decisione del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa si legge proprio un riferimento all’accordo di Bruxelles e alla successiva intesa del 18 marzo a Ohrid (Macedonia del Nord) sull’allegato di attuazione, in particolare sulla “importanza che tutte le parti li attuino tempestivamente e in buona fede”.
    La presidente del Kosovo, Vjosa Osmani
    Secondo i calcoli dei politici kosovari le possibilità di riuscita per l’adesione all’organizzazione internazionale sono aumentate dopo l’espulsione della Federazione Russa, arrivata a seguito della decisione del Comitato dei Ministri del 16 marzo dello scorso anno per l’invasione dell’Ucraina da parte dell’esercito del Cremlino. A causa della “continua violazione dei propri doveri internazionali”, il Comitato ha stabilito più di un anno fa la cessazione immediata dei diritti di appartenenza del Paese membro. Mosca è uno degli alleati più stretti della Serbia, in particolare sulla controversia diplomatica con il Kosovo indipendente. Ma grazie all’espulsione della Russia e al forte appoggio dei partner Ue (fatta eccezione per i quattro contrari) è molto vicino il via libera definitivo a Pristina per diventare il 47esimo Paese membro dell’organismo internazionale. Secondo l’articolo 4 dello Statuto, “ogni Stato europeo che sia ritenuto in grado e disposto ad adempiere alle disposizioni dell’articolo 3 [accettare i principi dello Stato di diritto e del godimento dei diritti umani e delle libertà fondamentali, ndr] può essere invitato a diventare membro del Consiglio d’Europa dal Comitato dei Ministri”.

    Thank you to all the countries that voted in favor, abstained or did not vote at all during today’s vote on Kosovo’s application at the Council of Europe:
    Voted on favor:🇦🇱🇦🇩🇦🇹🇧🇪🇧🇬🇭🇷🇨🇿🇩🇰🇪🇪🇫🇮🇫🇷🇩🇪🇮🇸🇮🇪🇮🇹🇱🇻🇱🇮🇱🇹🇱🇺🇲🇹🇲🇨🇲🇪🇳🇱🇲🇰🇳🇴🇵🇱🇵🇹🇸🇲🇸🇮🇸🇪🇨🇭🇹🇷🇬🇧
    Abstained:🇧🇦🇬🇷🇲🇩🇸🇰🇺🇦
    Didn’t vote:🇦🇲
    — Blerim Vela (@Blerim_Vela) April 24, 2023

    Il Comitato dei ministri ha approvato con 33 voti a favore, 7 contrari e 5 astensioni la richiesta di Pristina di diventare il 47esimo membro dell’organizzazione internazionale per la promozione di democrazia, diritti umani e identità culturale europea. Quattro Paesi Ue si sono opposti