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    L’indipendente Oğan appoggia Erdoğan al ballottaggio. In Turchia è sempre più probabile la rielezione del sultano

    Bruxelles – Le speranze dell’opposizione in Turchia di estromettere dal potere il presidente in carica, Recep Tayyip Erdoğan, sono appese a un filo sempre più sottile. Perché il terzo candidato sconfitto al primo turno delle presidenziali, l’indipendente Sinan Oğan, ha reso finalmente nota la propria indicazione di voto ai sostenitori in vista del ballottaggio del prossimo 28 maggio. E il sostegno non è andato a chi avrebbe avuto più bisogno di quei 5,2 punti percentuali per insidiare da vicino l’uomo forte di Ankara e riaprire la partita elettorale, ovvero lo sfidante Kemal Kılıçdaroğlu. “Chiedo ai miei elettori di appoggiare Erdoğan“, ha annunciato il leader ultra-nazionalista in una conferenza stampa convocata nel tardo pomeriggio di ieri (22 maggio), in cui ha messo in chiaro che il presidente in carica è il candidato che potrà dare più stabilità al Paese.
    Il candidato indipendente sconfitto al primo turno delle elezioni presidenziali in Turchia, Sinan Oğan (credits: Adem Altan / Afp)
    In verità l’annuncio non ha sorpreso gli analisti, considerato il fatto che il partito da cui Oğan proviene, il Partito del Movimento Nazionalista (Mhp), farà parte della nuova maggioranza di 323 deputati che in Parlamento sosterrà l’esecutivo a trazione Akp (il Partito della Giustizia e dello Sviluppo del presidente Erdoğan). L’Alleanza Ata che ha sostenuto Oğan – formata da piccoli partiti di destra nazionalista e ultranazionalista – si è già sciolta, ma sembra verosimile che i quasi tre milioni di elettori del primo turno seguiranno le indicazioni dell’ormai ex-candidato comune. Ad accomunarli ci sono gli stessi sentimenti di odio sia nei confronti delle persone migranti arrivate dalla Siria, sia nei confronti della minoranza curda, che hanno fatto propendere la scelta del candidato sconfitto al primo turno più per Erdoğan che per Kılıçdaroğlu.
    Nei giorni successivi al voto del 14 maggio il candidato estromesso dalla corsa a due di domenica prossima ha incontrato il presidente in carica che, secondo quanto riportato in conferenza stampa, condivide la sua visione di “prendere tutte le misure per rimpatriare i migranti” nel più breve tempo possibile. Buona parte della campagna elettorale è stata giocata proprio sul tema della gestione degli oltre tre milioni di cittadini siriani rifugiati in Turchia dopo lo scoppio della guerra civile del 2011. Erdoğan ha promesso che incoraggerà il rimpatrio di almeno un milione di persone e negli ultimi giorni Kılıçdaroğlu l’ha seguito su questa strada di consenso elettorale, nella speranza di strappare voti al leader dell’Akp su questo tema, ma non è sembrato sufficientemente credibile agli occhi dei nazionalisti. Un’altra questione di non poco conto è quella delle accuse dell’ex-Alleanza Ata alla cosiddetta ‘Tavola dei Sei’ – il patto tra sei partiti di opposizione per esprimere un candidato comune – di sostenere il movimento politico-militare curdo del Pkk (Partito dei lavoratori del Kurdistan), a causa del sostegno dal Partito della Sinistra Verde (Ysp), di orientamento filo-curdo.
    Il primo turno delle elezioni in Turchia
    Da sinistra: il presidente della Turchia, Recep Tayyip Erdoğan, il presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, e la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen
    Al primo turno delle elezioni presidenziali in Turchia la presenza Oğan è stata decisiva per portare gli elettori di nuovo alle urne per il ballottaggio tra Erdoğan e Kılıçdaroğlu. Dopo un recupero quasi clamoroso rispetto ai sondaggi elettorali, il presidente in carica è andato molto vicino a farsi eleggere già il 14 maggio, conquistando il 49,5 per cento delle preferenze, mentre lo sfidante dell’opposizione si è fermato al 44,89, ben sotto le aspettative. Il candidato dell’Alleanza Ata ha incassato un 5,17 per cento, che ha significato diventare l’ago della bilancia per il secondo turno, mentre lo 0,43 è andato al candidato del Partito della Patria Muharrem İnce, il cui nome è rimasto sulle schede nonostante il ritiro dalla corsa elettorale a due giorni dall’appuntamento elettorale.
    Da Bruxelles i leader delle istituzioni comunitarie non si sono esposti – dopo aver chiesto trasparenza e incisività alle elezioni – sottolineando più il successo della tornata elettorale in termini di affluenza (attorno al 90 per cento). “È molto importante sottolineare il processo democratico, ora dobbiamo aspettare il risultato del secondo turno”, è stato il commento post-voto del presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel. A fargli eco la numero uno della Commissione Ue, Ursula von der Leyen: “La Turchia è un partner importante, abbiamo visto un’affluenza enorme a queste elezioni e questa è davvero un’ottima notizia, perché è un segno che i cittadini turchi danno valore alle istituzioni democratiche”.

    Il candidato ultra-nazionalista sconfitto al primo turno delle elezioni presidenziali ha sciolto le riserve, chiedendo ai sostenitori di votare il presidente in carica. Ridotte al minimo le possibilità dell’opposizione unita guidata da Kemal Kılıçdaroğlu di raggiungere la maggioranza assoluta

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    La Turchia andrà al ballottaggio. Erdoğan non supera il 49,3 per cento e rischia la rimonta dello sfidante Kılıçdaroğlu

    Bruxelles – L’appuntamento con la storia per la Turchia è rimandato di un altro paio di settimane. Il primo turno delle elezioni presidenziali non ha consegnato un vincitore e il prossimo 28 maggio gli elettori saranno chiamati a tornare alle urne per scegliere il nuovo presidente della Repubblica. Il ballottaggio sarà tra il leader in carica, Recep Tayyip Erdoğan, e il candidato dell’opposizione unita, l’economista Kemal Kılıçdaroğlu.
    Sostenitori del presidente Recep Tayyip Erdoğan ad Ankara (credits: Adem Altan / Afp)
    Come da previsioni al primo turno di ieri (14 maggio) si è confermato lo scenario più verosimile, ovvero un testa a testa tra i due candidati più forti ma senza che nessuno dei due sia riuscito a superare la soglia del 50 per cento dei voti necessari per farsi eleggere già presidente. Erdoğan in realtà ci è andato molto vicino, fermandosi al 49,37 per cento delle preferenze, secondo quanto riporta l’agenzia di stampa Anadolu. Sotto le aspettative Kılıçdaroğlu, che ha visto il proprio margine di scarto sul presidente in carica erodersi nelle ultime settimane e al primo turno ha incassato il 44,99 per cento dei voti degli elettori. Il restante 5,64 per cento è andato al candidato del Partito della Patria Muharrem İnce (0,43) – il cui nome, nonostante il ritiro di venerdì scorso (11 maggio) dalla corsa elettorale, è rimasto sulle schede – e all’indipendente Sinan Oğan sostenuto dall’Alleanza Ata (5,21). Mancano però ancora i voti dei residenti all’estero, sui quali c’è molta incertezza e sui quali Erdoğan ancora riserva qualche speranza.
    Al secondo turno del 28 maggio sarà decisivo l’indirizzo dei voti di chi ha sostenuto Oğan – che si è riservato qualche giorno per prendere una decisione sul sostegno a uno dei due candidati – ma non è da escludere che il testa a testa tra Erdoğan e Kılıçdaroğlu spinga gli elettori incerti a fare una scelta di campo che rispecchi un giudizio sul presidente in carica e la richiesta di rinnovamento  in Turchia: “Erdoğan non ha ottenuto il voto di fiducia del popolo, il desiderio di cambiamento nella società è superiore al 50 per cento“, ha rivendicato in un discorso pre-voto lo sfidante dell’opposizione.
    Manifesti elettorali di Recep Tayyip Erdoğan (a sinistra) e di Kemal Kılıçdaroğlu (a destra) in occasione delle elezioni presidenziali in Turchia (credits: Ozan Kose / Afp)
    Se è vero che il leader conservatore nel 2018 aveva vinto al primo turno con il 52,6 per cento dei voti, è innegabile che nelle ultime settimane abbia recuperato in modo consistente rispetto ai sondaggi che lo davano attorno al 45 per cento, staccato di 10 punti dallo sfidante. A giocare a favore del presidente della Turchia è stata la tenuta nelle roccaforti nel sud del Paese colpite dal terremoto dello scorso 6 febbraio: nonostante le previsioni di un calo dei consensi a causa della gestione quantomeno discutibile delle conseguenze del sisma e per la rete clientelare e di corruzione che ha portato al collasso di intere città, alla fine Erdoğan si è assicurato ovunque il 60 per cento (o più) dei voti.
    Parallelamente alle presidenziali in Turchia si sono svolte anche le elezioni parlamentari. I conservatori del Partito della Giustizia e dello Sviluppo (Akp) di Erdoğan hanno raccolto sì il maggior numero di voti (35 per cento), ma sono molto distanti dal risultato del loro leader. Nel nuovo Parlamento perderanno 28 seggi (267 su 600) rispetto alla legislatura appena conclusasi, ma grazie all’alleanza con altri tre partiti con cui il presidente ha governato negli ultimi cinque anni si dovrebbe formare senza grossi problemi una nuova maggioranza di 323 deputati. In ogni caso quello di ieri è stato il secondo peggior risultato nella storia dell’Akp, dopo il 34,2 per cento del 2002: da allora in nessuna elezione per il rinnovo della Grande Assemblea Nazionale i conservatori erano mai scesi sotto l’asticella del 40 per cento.

    Chi è lo sfidante di Erdoğan al ballottaggio in Turchia
    Al ballottaggio del 28 maggio l’opposizione unita in Turchia si giocherà il tutto per tutto contro Erdoğan puntando sul candidato comune Kılıçdaroğlu e sulla convinzione che i sondaggi della vigilia sull’esito di un testa a testa tra i due saranno riconfermati anche alle urne. Mai come in questa tornata storica l’opposizione ha cercato di trovare una quadra per sfidare il presidente al potere da 20 anni esatti (dal 2003 al 2014 come primo ministro, dal 2014 a oggi come capo di Stato). I sei partiti di opposizione si sono uniti nella cosiddetta ‘Tavola dei Sei’ e hanno nominato come proprio candidato alla presidenza della Repubblica il leader del Partito popolare repubblicano (Chp), il principale partito d’opposizione fondato nel 1923 dal primo presidente turco, Kemal Atatürk.
    l leader del Partito popolare repubblicano (Chp) e candidato presidente della Turchia, Kemal Kılıçdaroğlu (credits: Yasin Akgul / Afp)
    Per Kılıçdaroğlu, politico 73enne noto per l’onestà e la frugalità a livello comunicativo e per le vittorie del suo partito a Istanbul e Smirne alle amministrative del 2019, l’ostacolo maggiore rimane sempre l’estrema varietà della coalizione di partiti che lo supporta, che va dal centrosinistra alla destra nazionalista. Un altro fattore di rischio di fronte all’elettorato è il fatto che a tenere uniti questi partiti c’è poco se non il tentativo di mettere fuori gioco proprio il leader conservatore dell’Akp, anche se in campagna elettorale Kılıçdaroğlu ha puntato molto l’attenzione sulla piattaforma di riforme che metterà in cantiere in caso di elezione, tra cui compare l’abolizione del presidenzialismo (la figura del primo ministro è stata abolita nel 2018). Come evidenziato da alcuni analisti, una vittoria di Kılıçdaroğlu potrebbe significare anche un ritorno in Turchia a una maggiore disciplina fiscale, più trasparenza sul rispetto delle regole di mercato e riforme nel settore energetico, considerata la presenza nella coalizione di politici riformatori come il leader del leader del Partito per la democrazia e il progresso (Deva), Ali Babacan, ministro dell’Economia tra il 2002 e il 2007, degli Esteri dal 2007 al 2009 e capo negoziatore per l’adesione della Turchia all’Ue tra il 2005 e il 2009.

    Al primo turno di voto il presidente in carica non ottiene la maggioranza assoluta necessaria per la riconferma e sarà sfidato il 28 maggio dall’opposizione unita sotto il nome di Kemal Kılıçdaroğlu. Sarà decisiva la distribuzione dei voti del terzo candidato sconfitto, Sinan Oğan, ma si attende ancora los crutinio dei voti dei residenti all’estero

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    L’Ue esce allo scoperto sulle imminenti elezioni in Turchia: “Ci aspettiamo trasparenza, inclusività e standard democratici”

    Bruxelles – L’attore geopolitico più coinvolto dalle elezioni in Turchia, che non si sbilancia ma allo stesso tempo è direttamente interessato dall’esito dell’imminente tornata elettorale, finalmente esce allo scoperto. “La Turchia è un partner importante in molti campi per l’Unione Europea, seguiamo il ciclo elettorale nel Paese da molto vicino e ci aspettiamo trasparenza, inclusività e allineamento agli standard democratici“, è il commento a tre giorni dal voto per le presidenziali e parlamentari in Turchia da parte del portavoce del Servizio Europeo per l’Azione Esterna (Seae), Peter Stano.
    Manifesti elettorali di Recep Tayyip Erdoğan (a sinistra) e di Kemal Kılıçdaroğlu (a destra), in vista delle elezioni presidenziali in Turchia (credits: Ozan Kose / Afp)
    Rispondendo alle domande della stampa di Bruxelles, il portavoce ha messo in chiaro che l’Unione attende il risultato del primo turno di domenica (14 maggio), anche se la questione più cruciale è il rispetto degli standard per elezioni libere e trasparenti: “Tutte le parti devono rispettare la legge e la volontà dei cittadini, è importante che sia garantita la pluralità e la libertà dei media, ma anche un uguale trattamento per tutti i partiti politici e i candidati“, ha puntualizzato Stano. Un messaggio che arriva alla vigilia di un momento epocale per la storia recente turca, da cui emergerà il nome del futuro presidente della Repubblica: o, ancora una volta, Recep Tayyip Erdoğan, o lo sfidante che potrebbe incarnare il rinnovamento politico, l’economista Kemal Kılıçdaroğlu. L’Ue non prevede “nessuna missione di osservazione elettorale in Turchia”, è quanto precisato dal portavoce del Seae, anche se Bruxelles accoglie “con favore” l’invito delle autorità turche all’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce): “È un passo importante perché dimostra la volontà di assicurare la trasparenza del voto“.
    Gli sfidanti alle presidenziali 2023 in Turchia
    Il presidente della Turchia è eletto direttamente con il sistema del doppio turno. Se nessun candidato conquista la maggioranza semplice (più del 50 per cento dei voti) al primo turno, si svolge un ballottaggio tra i due candidati più votati. Gli aspiranti presidenti devono avere almeno 40 anni e devono aver completato l’istruzione superiore. Qualsiasi partito che abbia ottenuto il 5 per cento dei voti nelle precedenti elezioni parlamentari può presentare un candidato, si possono formare alleanze e schierare candidati comuni, mentre gli indipendenti possono candidarsi solo se raccolgono 100 mila firme.
    La presidenziali del 2023 sono considerate una sfida politica e personale tra Erdoğan e Kılıçdaroğlu. Da una parte c’è il presidente e leader conservatore del Partito della Giustizia e dello Sviluppo (Akp) al potere da 20 anni esatti – dal 2003 al 2014 come primo ministro, dal 2014 a oggi come capo di Stato – dall’altra lo sfidante outsider, un politico 73enne noto per la sua onestà e frugalità a livello comunicativo – ma non solo – e per le vittorie del suo Partito popolare repubblicano (Chp) a Istanbul e Smirne nel 2019.
    A sostegno di Kılıçdaroğlu si è formata la cosiddetta ‘Tavola dei Sei’, un patto tra sei partiti di opposizione per esprimere un candidato comune, che può essere al contempo l’elemento di forza e quello di debolezza per il leader del Chp. Lo sfidante di Erdoğan ha proposto una piattaforma di riforme in cui spicca l’abolizione del presidenzialismo (la figura del primo ministro è stata abolita nel 2018 proprio dal leader dell’Akp), ma allo stesso tempo la coalizione che lo sostiene spazia dal centrosinistra alla destra nazionalista e l’unico elemento che davvero sembra tenerla unita è il tentativo di estromettere Erdoğan dal potere. D’altro canto Erdoğan è indebolito da due fattori che pesano su una fetta consistente dell’elettorato. L’inflazione galoppante da mesi sta mettendo in crisi la classe media, mentre a livello di opinione pubblica il presidente turco ha faticato a difendersi dalle critiche sulla gestione del terremoto dello scorso 6 febbraio che ha causato oltre 50 mila morti: al centro delle polemiche c’è l’abusivismo edilizio nelle zone colpite dal sisma reso possibile dalla rete clientelare e di corruzione che fa capo al partito di Erdoğan, considerato uno degli elementi che ha più favorito il collasso di intere città nel sud del Paese.
    Sul piano dei sondaggi pre-elezioni questo si è tradotto in un crollo dei consensi per Erdoğan, anche se nelle ultime settimane si è evidenziato un recupero rispetto alle proiezioni che davano Kılıçdaroğlu in vantaggio con oltre il 55 per cento delle preferenze. Considerata la presenza di altri due candidati minori – Muharrem İnce del Partito della Patria e l’indipendente Sinan Oğan sostenuto dall’Alleanza Ata – alle presidenziali più decisive della storia recente della Turchia lo scenario più verosimile è una sfida al secondo turno tra Erdoğan e Kılıçdaroğlu, in programma il 28 maggio. Questo solo se i due candidati più forti non si troveranno da soli a sfidarsi già domenica: İnce ha annunciato oggi il ritiro dalla corsa elettorale e non è da escludere che Oğan faccia lo stesso a stretto giro.

    Il portavoce del Servizio Europeo per l’Azione Esterna, Peter Stano, ha chiarito che Bruxelles seguirà “da molto vicino” le presidenziali che vedono la sfida tra Erdoğan e il candidato delle opposizioni unite Kılıçdaroğlu: “Tutte le parti devono rispettare la legge e la volontà dei cittadini”

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    Se il sultano cade. L’Ue osserva le presidenziali in Turchia, tra Erdoğan e il rinnovamento di Kılıçdaroğlu

    Bruxelles – Il momento è di quelli storici, forse epocali. Sia per la Turchia, sia per l’Unione Europea. Fra una settimana, sabato 14 maggio, i cittadini turchi saranno chiamati alle urne per eleggere il presidente della Repubblica per i prossimi cinque anni, in una sfida tra l’uomo forte di Ankara, Recep Tayyip Erdoğan, e lo sfidante che incarna il rinnovamento della politica nazionale secondo le opposizioni, l’economista Kemal Kılıçdaroğlu. Un testa a testa che anche per Bruxelles avrà un impatto significativo. Dal quasi scontato doppio turno di elezioni (che si concluderà il 28 maggio) emergerà l’attore politico con cui sviluppare i futuri rapporti: o un prosieguo delle relazioni tese degli ultimi anni su diversi fronti, o una speranza di riavvicinamento e distensione diplomatica.
    Il leader del Partito popolare repubblicano (Chp) e candidato presidente della Turchia, Kemal Kılıçdaroğlu (credits: Yasin Akgul / Afp)
    Per sfidare il presidente al potere da 20 anni esatti (dal 2003 al 2014 come primo ministro, dal 2014 a oggi come capo di Stato), sei partiti di opposizione si sono uniti nella cosiddetta ‘Tavola dei Sei’ e hanno espresso un candidato comune. Si tratta del leader del Partito popolare repubblicano (Chp), il principale partito d’opposizione fondato nel 1923 dal primo presidente turco, Kemal Atatürk. Per Kılıçdaroğlu, politico 73enne noto per la sua onestà e frugalità a livello comunicativo e per le vittorie del suo partito a Istanbul e Smirne nel 2019, l’ostacolo maggiore potrebbe essere l’estrema varietà della coalizione di partiti che lo supporta – che va dal centrosinistra alla destra nazionalista – e dal fatto che a tenerli uniti è soprattutto il tentativo di mettere fuori gioco il leader conservatore del Partito della Giustizia e dello Sviluppo (Akp). In ogni caso va segnalata la piattaforma di riforme che lo sfidante di Erdoğan ha proposto, tra cui compare l’abolizione del presidenzialismo (la figura del primo ministro è stata abolita nel 2018).
    Dall’altra parte dello spettro politico il presidente Erdoğan è indebolito da due fattori che hanno colpito la Turchia nell’ultimo anno: l’inflazione galoppante sta mettendo in crisi la classe media da mesi, e le critiche dell’opinione pubblica nazionale allo stesso leader turco (cosa non scontata in un Paese guidato da un regime sempre più autoritario) per la gestione del terremoto dello scorso 6 febbraio che ha causato oltre 50 mila morti. La rete clientelare e di corruzione che ha permesso l’abusivismo edilizio nelle zone colpite dal sisma è stata considerata uno degli elementi di maggiore responsabilità per il collasso di intere città come Adana. Tutto questo si è tradotto in un evidente crollo dei consensi per Erdoğan – che nel 2018 aveva vinto al primo turno con il 52,6 per cento dei voti – anche se non ancora sufficiente per evitare un testa a testa al ballottaggio e un possibile recupero da parte di uno dei politici più instancabili in campagna elettorale (fino a poche settimane fa Kılıçdaroğlu guidava i sondaggi con oltre il 55 per cento delle preferenze).
    Manifesti elettorali di Recep Tayyip Erdoğan (a sinistra) e di Kemal Kılıçdaroğlu (a destra), in vista delle elezioni presidenziali in Turchia (credits: Ozan Kose / Afp)
    Il presidente della Turchia è eletto direttamente con il sistema del doppio turno: se nessun candidato conquista la maggioranza semplice (più del 50 per cento dei voti) al primo, si svolge un ballottaggio tra i due candidati più votati. Gli aspiranti presidenti devono avere almeno 40 anni e devono aver completato l’istruzione superiore, mentre qualsiasi partito che abbia ottenuto il 5 per cento dei voti nelle precedenti elezioni parlamentari può presentare un candidato (si possono formare alleanze e schierare candidati comuni, gli indipendenti possono candidarsi se raccolgono 100 mila firme). Considerata la presenza di altri due candidati minori – Muharrem İnce del Partito della Patria e l’indipendente Sinan Oğan sostenuto dall’Alleanza Ata – alle elezioni presidenziali più decisive della storia recente della Turchia lo scenario più verosimile è una sfida al secondo turno tra Erdoğan e Kılıçdaroğlu, in programma il 28 maggio.
    Il controverso rapporto Ue-Turchia sotto Erdoğan
    Non solo per la Turchia, ma anche per l’intera Unione Europea si tratta di un passaggio politico che potrebbe segnare una svolta forse irripetibile per i rapporti con Ankara. Ancora non si sa quale sarà la posizione di una eventuale leadership di Kılıçdaroğlu sui dossier aperti con Bruxelles, anche e soprattutto considerate le posizioni non proprio sovrapponibili della coalizione elettorale ‘Tavola dei Sei’ che lo sostiene. Ma di certo c’è quello che potrebbe continuare a replicarsi in caso di rielezione di Erdoğan. In particolare negli ultimi anni le relazioni con l’uomo forte di Ankara – definito due anni fa dall’allora premier italiano Mario Draghi “dittatore” – sono diventate sempre più tese, anche se la posizione e l’importanza geopolitica della Turchia hanno sempre costretto o quantomeno spinto i Ventisette a non chiudere al dialogo.
    La dimostrazione più evidente è stato il congelamento dei capitoli negoziali per l’adesione della Turchia all’Unione Europea, avviati nel 2005 e da anni “a un punto morto” per i “continui gravi passi indietro su democrazia, Stato di diritto, diritti fondamentali e indipendenza della magistratura”, aveva sottolineato ancora nel 2020 il commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi. C’è poi la questione della delimitazione delle aree marittime nel Mediterraneo, con la Turchia di Erdoğan che dal 2019 continua a mettere in discussione i confini greci – e di conseguenza le frontiere esterne dell’Unione – a sud dell’isola di Creta. L’ultimo episodio di tensione risale all’ottobre dello scorso anno, quando Ankara ha siglato un nuovo accordo preliminare sull’esplorazione energetica con la Libia. Nel contesto mediterraneo si inserisce anche la controversia diplomatica più che quarantennale sulla divisione dell’isola di Cipro, dove solo la Turchia riconosce l’autoproclamata Repubblica Turca di Cipro del Nord e dal 2017 sono fermi i tentativi di compromesso.
    Da sinistra: la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, il presidente del Consiglio Europe, Charles Michel, e il presidente della Turchia, Recep Tayyip Erdoğan, ad Ankara (6 aprile 2021)
    Altra questione di non poca rilevanza, che riguarda sia la politica interna sia quella estera di Erdoğan, è il tema della repressione della minoranza curda e del veto sull’adesione della Svezia alla Nato, almeno fino a quando non si adeguerà alle richieste sull’estradizione dei membri del movimento politico-militare curdo del Pkk (Partito dei lavoratori del Kurdistan). L’intransigenza del leader turco ha indispettito non poco i leader dell’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord (che ha sede proprio a Bruxelles) e dei Paesi membri Ue, che hanno visto sfumare l’ingresso congiunto di Svezia e Finlandia nell’Alleanza nello stesso giorno (il 4 aprile 2023). Sul tema dei diritti umani c’è poi la questione della gestione delle persone migranti dirette verso l’Europa: se nel marzo 2016 l’Ue ha stretto un accordo con la Turchia per bloccare e accogliere sul suo territorio i rifugiati siriani in fuga dalla guerra in cambio di finanziamenti comunitari, in diverse occasioni la Grecia ha lanciato dure accuse ad Ankara per violazioni dell’accordo stesso e sta implementando una politica di costruzione di barriere fisiche alla frontiera per impedire gli ingressi irregolari.
    Ultimo, ma non per importanza diplomatica, quello che è passato alle cronache politiche come ‘Sofagate’. Il 6 aprile 2021 la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, e del Consiglio Europeo, Charles Michel, si erano recati ad Ankara in visita istituzionale per rilanciare il dialogo Ue-Turchia. Ma l’accoglienza al palazzo presidenziale per la numero uno dell’esecutivo comunitario era stata tutt’altro che piacevole e rispettosa: mentre al leader del Consiglio è stata riservata una sedia accanto a Erdoğan, von der Leyen si era dovuta accomodare – con evidente imbarazzo e disappunto – su un sofà, appunto. Uno sgarbo istituzionale arrivato a poche settimane dalla decisione del presidente di ritirarsi dalla Convenzione di Istanbul contro la violenza sulle donne, che ancora una volta aveva evidenziato tutta la tensione nei rapporti tra Bruxelles e Ankara. Episodi e politiche che potrebbero essere relegati nel passato della Turchia, se gli elettori sceglieranno il rinnovamento politico di Kılıçdaroğlu – anche se incerto – alla continuità di Erdoğan.

    Il 14 maggio gli elettori turchi saranno chiamati a votare al primo turno di una delle tornate più decisive degli ultimi anni. Potrebbe essere arrivato al termine il potere ventennale del presidente che ha reso tesi i rapporti tra Ankara e Bruxelles, tra migrazione, energia, Nato e ‘Sofagate’

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    Via libera dalla Turchia all’ingresso della Finlandia nella Nato. La Svezia rimane ancora alla finestra

    Bruxelles – Dentro la Finlandia, ancora attesa per la Svezia. I due Paesi scandinavi, che quasi un anno fa hanno impresso una svolta strategica storica per le rispettive politiche di sicurezza nazionale, alla fine non concluderanno mano nella mano il processo di adesione all’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord (Nato), come per mesi sperato e dichiarato pubblicamente. Perché per Helsinki è arrivato in una settimana il doppio via libera all’ingresso nella Nato prima dall’Ungheria e poi dalla Turchia – gli unici due dei 30 Paesi membri che ancora non avevano ratificato il protocollo di adesione – mentre per Stoccolma la situazione è ancora di stallo e, per il momento, non si vede una via d’uscita.
    “Tutti i 30 membri della Nato hanno ratificato l’adesione della Finlandia”, ha annunciato nella tarda serata di ieri (30 marzo) il presidente finlandese, Sauli Niinistö, rivolgendo un ringraziamento “per la fiducia e il sostegno, saremo un alleato forte e capace, impegnato nella sicurezza dell’Alleanza”. Una dichiarazione arrivata a stretto giro rispetto al voto della Grande Assemblea Nazionale Turca (il Parlamento monocamerale della Turchia), che ha ratificato all’unanimità il protocollo di adesione del Paese scandinavo. Il via libera da Ankara è arrivato dopo mesi di temporeggiamento – il protocollo di adesione di Finlandia e Svezia è stato firmato il 5 luglio dello scorso anno – dal momento in cui i due Paesi hanno portato avanti insieme la candidatura e nelle intenzioni del segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, l’allargamento si sarebbe dovuto realizzare come pacchetto unico entro il Summit di Vilnius del prossimo 11-12 luglio.
    La firma del memorandum d’intesa Nato tra Turchia, Svezia e Finlandia a Madrid (28 giugno 2022)
    Ma Turchia e Ungheria (quest’ultima ha ratificato il 27 marzo il protocollo di adesione di Helsinki) hanno tenuto e continuano a tenere bloccata la Svezia, anche se per ragioni differenti, e di fatto hanno costretto gli altri membri dell’Alleanza ad accettare lo ‘spacchettamento’ per la Finlandia: come precisato dal segretario generale Stoltenberg, il Paese diventerà “fra pochi giorni” il 31esimo membro della Nato. Stoccolma rimane ancora in attesa della fine del costante ricatto in merito all’estradizione dei membri del movimento politico-militare curdo del Pkk (Partito dei lavoratori del Kurdistan), legato anche a questioni di politica interna. Di fronte al rischio di perdere per la prima volta in 20 anni il potere alle cruciali elezioni del 14 maggio, il presidente Recep Tayyip Erdoğan non avrebbe nessun interesse nello sbloccare le trattative con la Svezia prima di essersi assicurato la riconferma, dal momento in cui l’intransigenza sulla questione curda rimane uno dei temi centrali della sua leadership politica. Per l’Ungheria invece lo stallo è motivato dal contrasto diplomatico tra i due Paesi membri Ue (fino a luglio la Svezia detiene la presidenza di turno del Consiglio dell’Ue) per le critiche di Stoccolma sull’erosione dello Stato di diritto determinato dal governo di Viktor Orbán, come ha messo in chiaro il portavoce dell’esecutivo ungherese.
    “La Finlandia è al fianco della Svezia ora e in futuro e ne sostiene l’adesione”, ha ribadito con forza la prima ministra finlandese, Sanna Marin, che domenica (2 aprile) dovrà affrontare un delicatissimo appuntamento elettorale in patria. Anche il segretario generale della Nato Stoltenberg si attende di “accogliere il prima possibile la Svezia come membro a pieno diritto della famiglia Nato”, dal momento in cui “tutti gli alleati sono d’accordo che una conclusione rapida” del processo di ratifica per Stoccolma “è nell’interesse di tutti“. Tutti, meno Turchia e Ungheria, per il momento.

    #Finland 🇫🇮 will formally join our Alliance in the coming days. Their membership will make Finland safer & #NATO stronger. I look forward to also welcoming #Sweden 🇸🇪 as a full member of the NATO family as soon as possible.
    —@jensstoltenberg pic.twitter.com/ueaOwWdLaX
    — Oana Lungescu (@NATOpress) March 31, 2023

    Come si entra nella Nato
    Per diventare membro della Nato, un Paese deve inviare una richiesta formale, precedentemente approvata dal proprio Parlamento nazionale. A questo punto si aprono due fasi di discussioni con l’Alleanza, che non necessariamente aprono la strada all’adesione: la prima, l’Intensified Dialogue, approfondisce le motivazioni che hanno spinto il Paese a fare richiesta, la seconda, il Membership Action Plan, prepara il potenziale candidato a soddisfare i requisiti politici, economici, militari e legali necessari (sistema democratico, economia di mercato, rispetto dello Stato di diritto e dei diritti fondamentali, standard di intelligence e di contributo alle operazioni militari, attitudine alla risoluzione pacifica dei conflitti). Questa seconda fase di discussioni è stata introdotta nel 1999 dopo l’ingresso nella Nato di Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca, per affrontare il processo con aspiranti membri con sistemi politici diversi da quelli dei Paesi fondatori dell’Alleanza, come quelli ex-sovietici.
    La procedura di adesione inizia formalmente con l’applicazione dell’articolo 10 del Trattato dell’Atlantico del Nord, che prevede che “le parti possono, con accordo unanime, invitare ad aderire ogni altro Stato europeo in grado di favorire lo sviluppo dei principi del presente Trattato e di contribuire alla sicurezza della regione dell’Atlantico settentrionale”. La risoluzione deve essere votata all’unanimità da tutti i Paesi membri. A questo punto si aprono nel quartier generale della Nato a Bruxelles gli accession talks, per confermare la volontà e la capacità del candidato di rispettare gli obblighi previsti dall’adesione: questioni politiche e militari prima, di sicurezza ed economiche poi. Dopo gli accession talks, che sono a tutti gli effetti una fase di negoziati, il ministro degli Esteri del Paese candidato invia una lettera d’intenti al segretario generale dell’Alleanza.
    Il processo di adesione si conclude con il Protocollo di adesione, che viene preparato con un emendamento del Trattato di Washington, il testo fondante dell’Alleanza. Questo Protocollo deve essere ratificato da tutti i membri, con procedure che variano a seconda del Paese: in Italia è richiesto il voto del Parlamento riunito in seduta comune, per autorizzare il presidente della Repubblica a ratificare il trattato internazionale. Una volta emendato il Protocollo di adesione, il segretario generale della Nato invita formalmente il Paese candidato a entrare nell’Alleanza e l’accordo viene depositato alla sede del dipartimento di Stato americano a Washington. Al termine di questo processo, il candidato è ufficialmente membro dell’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord.

    Dopo mesi di temporeggiamento anche la Grande Assemblea Nazionale Turca ha ratificato il protocollo di adesione di Helsinki all’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord. Stoccolma bloccata sia da Ankara per la questione estradizioni, sia dall’Ungheria di Viktor Orbán

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    Le istituzioni Ue ad Ankara per discutere con le autorità turche sull’organizzazione della Conferenza dei donatori

    Bruxelles – Ad Ankara, per impostare sul campo le direttrici principali dello sforzo di solidarietà internazionale a sostegno delle popolazioni di Turchia e Siria colpite dalle scosse di terremoto in un febbraio devastante. Il commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi, e il ministro svedese per la Cooperazione internazionale allo sviluppo e presidente di turno del Consiglio dell’Ue, Johan Forssell, hanno viaggiato oggi (22 febbraio) nella capitale turca per una serie di incontri con i membri dell’esecutivo di Recep Tayyip Erdoğan, con l’obiettivo di preparare con coerenza la Conferenza internazionale dei donatori in programma il prossimo 16 marzo a Bruxelles.
    Il commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi, e il ministro svedese per la Cooperazione internazionale allo sviluppo e presidente di turno del Consiglio dell’Ue, Johan Forssell, a confronto con i membri del governo della Turchia ad Ankara (23 febbraio 2023)
    “Siamo tutti scioccati dall’orrore che la Turchia sta attraversando, siamo qui per aiutare, perché siamo amici e alleati”, ha messo in chiaro il commissario Várhelyi, parlando alla stampa al termine degli incontri guidati dal ministro degli Esteri turco, Mevlüt Çavuşoğlu: “La nostra generazione non ha mai visto una distruzione del genere, la situazione è peggiore di quanto pensassimo” e per questo motivo “dobbiamo aiutare il popolo turco e siriano in questa tragedia”. Sul breve termine Bruxelles si è già mobilitata dal primo giorno attraverso il Meccanismo di protezione civile dell’Ue: “Ventuno Stati membri hanno inviato in Turchia team di ricerca e soccorso, un aereo per l’evacuazione medica e squadre mediche, mentre in 18 hanno fornito alloggi ed attrezzatura medica”. A ciò si aggiungono i 5,5 milioni di euro in aiuti umanitari, che però sono “solo la prima risposta immediata a chi soffre ogni giorno”, ha confermato il commissario Várhelyi.
    I due rappresentanti delle istituzioni comunitarie si sono detti d’accordo che è necessario “fare significativamente di più per alleviare le sofferenze causate dal terremoto” e, da quanto emerge dalle parole del commissario ungherese, questo “richiederà operazioni di ricostruzione enormi, che forse non abbiamo mai visto prima”. Per questo motivo è iniziato ad Ankara il confronto con i vari ministeri coinvolti. Con il titolare dell’Industria e della tecnologia, Mustafa Varank, è stato discusso di sostegno per le piccole e medie imprese e il settore privato, “compresa l’economia verde”, gli sforzi per affrontare l’assistenza e i soccorsi di emergenza e piani per la ricostruzione. Con il ministro delle Finanze, Nureddin Nebati, è stata affrontata la situazione macroeconomica e finanziaria post-terremoto e la valutazione dei “bisogni post-catastrofe”, con un occhio rivolto alle “possibili collaborazioni per la Conferenza dei donatori”. Come confermato dal ministro Forssell, “gli incontri di oggi sono stati fondamentali per l’organizzazione” della riunione di alto livello del 16 marzo.
    Adana, Turchia (credits: Can Erok / Afp)
    A proposito della Conferenza dei donatori che si svolgerà a Bruxelles, il ministro svedese ha confermato che “sarà uno dei molti modi per l’Ue di manifestare l’ulteriore supporto” alle popolazioni di Turchia e Siria e che “è in cima alle priorità dell’agenda della presidenza svedese“. La decisione di mobilitare la comunità internazionale è stata presa a Stoccolma “nei primi giorni dopo il sisma e la Commissione Europea ha risposto subito positivamente” durante la conversazione telefonica tra il premier svedese, Ulf Kristersson, e la presidente dell’esecutivo Ue, Ursula von der Leyen, ha precisato Forssell.
    Tutti i Ventisette e i Paesi vicini, membri e agenzie delle Nazioni Unite, istituzioni finanziarie internazionali e altre parti interessate saranno invitati una conferenza “non solo necessaria, ma anche utile, oggi abbiamo discusso su come svilupparla al meglio”, gli ha fatto eco il commissario Várhelyi. Attraverso la mobilitazione internazionale per i bisogni immediati e la ricostruzione “non potremo coprire tutto, ma almeno una parte significativa” e l’Unione non diminuirà il suo impegno: “Siamo pronti a fare tutto ciò che in nostro potere per ricostruire nuove case, ospedali, scuole e perché la vita normale possa tornare” nelle zone colpite dal sisma, ha concluso il commissario Várhelyi, con una promessa ad Ankara: “Richiederà tempo e sarà costoso, ma ci muoveremo velocemente e in modo flessibile per iniziare il lavoro sul campo”.

    Il commissario per la Politica di vicinato, Olivér Várhelyi, e il ministro svedese per la Cooperazione internazionale allo sviluppo, Johan Forssell, hanno ascoltato le richieste per la ricostruzione delle aree colpite dal terremoto in vista della riunione di alto livello a Bruxelles il 16 marzo

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    Si terrà il 16 marzo a Bruxelles la Conferenza dei donatori a supporto dei terremotati in Turchia e Siria

    Bruxelles – Mentre continua senza sosta l’invio di aiuti umanitari a Turchia e Siria attraverso il Meccanismo di protezione civile dell’Ue, le istituzioni comunitarie hanno fissato la data dell’appuntamento-chiave per raccogliere fondi per il sostegno immediato e il coordinamento della ricostruzione delle aree colpite dal terremoto del 6 febbraio, che ha causato la morte di oltre 45 mila persone nei due Paesi. Il prossimo 16 marzo a Bruxelles si terrà la Conferenza dei donatori, organizzata dalla presidenza di turno del Consiglio dell’Ue in collaborazione con la Commissione, per portare allo stesso tavolo “Paesi Ue e vicini, membri delle Nazioni Unite, istituzioni finanziarie internazionali e parti interessate” a partecipare a questo sforzo di solidarietà a sostegno delle popolazioni terremotate.
    Antiochia, Turchia (credits: Sameer Al-Doumy)
    A renderlo noto sono state entrambe le istituzioni Ue, a partire dal ministro degli Esteri e presidente di turno del Consiglio dell’Ue, Tobias Billström, facendo ingresso questa mattina (20 febbraio) al Consiglio Affari Esteri: “Vogliamo fare tutto il possibile” per fornire “supporto addizionale per alleviare le terribili conseguenze di questo terremoto”. Il ministro svedese ha precisato di aspettarsi “un’alta partecipazione e anche di raccogliere più soldi possibile” nel corso di una Conferenza il cui obiettivo – come ha spiegato la portavoce dell’esecutivo comunitario Dana Spinant – è quello di “raccogliere risorse e coordinare la risposta a supporto della ricostruzione nelle aree colpite in entrambi i Paesi”.
    Della volontà di organizzare una Conferenza dei donatori si era a conoscenza da qualche giorno a Bruxelles, quando la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, e il primo ministro della Svezia, Ulf Kristersson, ne avevano discusso nel corso di una conversazione telefonica. Ma ancora non erano stati forniti dettagli sulla data. La conferenza di alto livello sarà presieduta dal commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi, e dal ministro svedese per la Cooperazione internazionale allo sviluppo, Johan Forssell. “Stiamo inviando un messaggio alle popolazioni della Turchia e della Siria, l’Ue sosterrà le vostre comunità perché nessuno dovrebbe essere lasciato solo quando una tragedia come questa colpisce un popolo”, aveva sottolineato la presidente von der Leyen, anticipando la decisione di organizzare una Conferenza dei donatori.
    La mobilitazione Ue a sostegno di Turchia e Siria
    Jindires, Siria (credits: Afp)
    In parallelo al Consiglio Affari Esteri di oggi si è svolta anche una nuova riunione del meccanismo integrato di risposta politica alle crisi (Ipcr) dell’Ue “per affrontare la situazione a seguito del sisma in Turchia e Siria”, ha fatto sapere la presidenza di turno svedese del Consiglio dell’Ue. I Ventisette hanno fatto il punto “sul sostegno dell’Ue e degli Stati membri, al fine di coordinare gli sforzi per soddisfare le esigenze immediate e affrontare i colli di bottiglia“. In vista della Conferenza del 16 marzo, la riunione di oggi tra le istituzioni Ue, le autorità turche e l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) “ha fornito un aggiornamento della situazione sul campo”, in particolare sull’assistenza attraverso il Meccanismo di protezione civile dell’Ue.
    A proposito del Meccanismo di protezione civile dell’Ue, a sostegno della Turchia si sono mobilitati 21 Stati europei – Albania, Austria, Belgio, Bulgaria, Croazia, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Italia, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Paesi Bassi, Polonia, Romania, Repubblica Ceca, Slovenia, Slovacchia, Spagna e Svezia – con squadre mediche e milioni di articoli, come attrezzature per rifugi, stufe, generatori, mobili, attrezzature mediche, kit igienici, cibo e indumenti caldi. In totale per Ankara sono stati stanziati 5,5 milioni di euro di aiuti umanitari, ma anche duemila tende e ottomila letti attraverso la riserva rescEu ospitata dalla Romania e 500 unità abitative di soccorso dotate di 2.500 letti dalla riserva ospitata dalla Svezia. Per la Siria si sono mobilitati 12 Paesi europei – Austria, Bulgaria, Cipro, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Italia, Lettonia, Romania, Slovenia e Norvegia – attraverso gli hub di Beirut e Gaziantep (Turchia) e l’Unione ha stanziato 10 milioni di euro in aiuti umanitari per offrire un rapido soccorso alle vittime del sisma.

    La Commissione Europea e la presidenza di turno svedese del Consiglio dell’Ue ospiteranno la riunione aperta ai Ventisette, Paesi vicini, Nazioni Unite, istituzioni finanziarie e tutte le parti interessate a “raccogliere fondi e coordinare la risposta per la ricostruzione” post-sisma

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    L’Ue ha inviato squadre di soccorso da 13 Paesi membri per aiutare Turchia e Siria nel dopo terremoto

    Bruxelles – C’è anche l’Italia tra i Paesi membri Ue che stanno sostenendo l’azione di supporto di Bruxelles a Turchia e Siria per affrontare le conseguenze del terremoto di magnitudo 7.8 sulla scala Richter, il primo di uno sciame sismico che da questa mattina (6 febbraio) ha colpito i due Paesi. “La situazione sta evolvendo velocemente e la nostra reazione è in aggiornamento, ma sono 13 gli Stati membri che hanno già offerto aiuto alla Turchia e alla Siria“, ha spiegato il portavoce della Commissione Ue responsabile per gli Aiuti umanitari e la gestione delle crisi, Balazs Ujvar, precisando alla stampa l’intervento dell’Unione attraverso il Meccanismo di protezione civile dell’Ue.
    I danni del terremoto del 6 febbraio 2023 ad Adana, Turchia (credits: Can Erok / Afp)
    Dopo il primo terremoto di questa mattina nella regione di Gaziantep (sud della Turchia) sono state “rapidamente mobilitate dieci squadre di ricerca e soccorso urbano da Bulgaria, Croazia, Francia, Grecia, Paesi Bassi, Polonia, Repubblica Ceca e Romania per sostenere i primi soccorritori sul campo”, mentre “Italia, Malta, Slovacchia, Spagna e Ungheria hanno offerto le loro squadre di soccorso“, è stata la riposta immediata dell’alto rappresentate Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, e il commissario europeo per la Gestione delle crisi, Janez Lenarčič, al “potente terremoto, uno dei più forti nella regione da oltre 100 anni”.
    Dopo la richiesta di attivazione del Meccanismo di protezione civile Ue da parte di Ankara, Bruxelles ha non solo mobilitato le squadre di ricerca e soccorso, ma ha anche messo a disposizione il sistema satellitare Copernicus “per fornire servizi di mappatura di emergenza”, mentre sul fronte siriano l’Unione “è pronta a sostenere le persone colpite attraverso i suoi programmi di assistenza umanitaria”. Mentre ancora i mezzi di soccorso stanno coordinando le operazioni nelle regioni di confine tra i due Paesi, la Turchia conta più di mille vittime e la Siria almeno ottocento, mentre il bilancio dei feriti è oltre i cinquemila. “Il sostegno dell’Europa è già in arrivo e siamo pronti a continuare ad aiutare in ogni modo possibile”, ha assicurato la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, esprimendo la “piena solidarietà con le popolazioni dopo il terremoto mortale che le ha colpite”.
    La presidenza di turno svedese ha poi convocato questa sera una riunione dell’Ipcr (i Dispositivi integrati per la risposta politica alle crisi) per coordinare le misure di sostegno dell’Ue in risposta al terremoto, in stretta collaborazione con la Commissione europea.
    Insieme alla numero uno della Commissione anche gli altri vertici delle istituzioni comunitarie hanno espresso la vicinanza dell’Unione ad Ankara e Damasco. “Le mie più sentite condoglianze alle numerose famiglie che hanno perso la vita e auguro una rapida guarigione ai feriti”, è stato il commento del presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel: “L’Ue è pienamente solidale con voi”. Gli ha fatto eco la presidente del Parlamento Ue, Roberta Metsola: “L’Europa è al fianco del popolo turco e siriano in questo momento di difficoltà”, in particolare per “le persone intrappolate, i feriti e tutti i soccorritori che stanno facendo del loro meglio per salvare vite umane”.

    Deeply saddened after the terrible earthquake at the Turkish-Syrian border.
    My thoughts are with those killed, those trapped, those injured & with all rescuers doing their utmost to save lives.
    Europe stands with the people of Türkiye & Syria at this moment of distress 🇪🇺🇹🇷🇸🇾
    — Roberta Metsola (@EP_President) February 6, 2023

    Il Meccanismo di protezione civile Ue contro il terremoto (e altri disastri)
    Il Meccanismo di protezione civile Ue è stato istituito nel 2001 dalla Commissione ed  è il mezzo attraverso cui i 27 Paesi membri e altri 8 Stati partecipanti (Albania, Bosnia ed Erzegovina, Islanda, Macedonia del Nord, Montenegro, Norvegia, Serbia e Turchia) possono rafforzare la cooperazione per la prevenzione, la preparazione e la risposta ai disastri, in particolare quelli naturali. Una o più autorità nazionali possono richiedere l’attivazione del Meccanismo quando un’emergenza supera le capacità di risposta dei singoli Paesi colpiti, come fatto questa mattina dalla Turchia. La Commissione coordina la risposta di solidarietà degli altri partecipanti con un unico punto di contatto – per evitare la duplicazione degli sforzi – e contribuisce ad almeno a tre quarti dei costi operativi degli interventi di ricerca e soccorso e di lotta agli incendi.
    Il Meccanismo comprende un pool europeo di protezione civile Ue, formato da risorse pre-impegnate dagli Stati aderenti, che possono essere dispiegate immediatamente all’occorrenza. Il centro di coordinamento della risposta alle emergenze è il cuore operativo ed è attivo tutti i giorni 24 ore su 24. A questo si aggiunge la riserva rescEu, una flotta di aerei ed elicotteri antincendio (oltre a ospedali da campo e stock di articoli medici per le emergenze sanitarie) per potenziare le componenti della gestione del rischio di catastrofi. Nell’estate 2022 Bruxelles ha finanziato anche il mantenimento di una flotta antincendio rescEu aggiuntiva in stand-by, messa a disposizione da Italia, Croazia, Francia, Grecia, Spagna e Svezia, e la riserva medica di attrezzature e dispositivi di protezione in Belgio, Croazia, Danimarca, Germania, Grecia, Paesi Bassi, Romania, Slovenia, Svezia e Ungheria. Dallo scorso 17 gennaio è anche iniziata la fase di sviluppo in Finlandia della riserva strategica contro incidenti chimici, biologici, radiologici e nucleari (Cbrn).

    Nella notte tra domenica 5 e lunedì 6 febbraio uno sciame sismico di magnitudo 7,8 sulla scala Richter. Bruxelles ha attivato il Meccanismo di protezione civile dell’Ue (coinvolta anche l’Italia) e il sistema Copernicus per la mappatura d’emergenza