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    Da UE, USA e Regno Unito 8,5 miliardi di dollari per sostenere la decarbonizzazione del Sudafrica

    Bruxelles – Unione Europea, Stati Uniti, Regno Unito, Francia e Germania si sono uniti in un partenariato da almeno 8,5 miliardi di dollari (7,5 miliardi di euro) per aiutare il Sudafrica nella decarbonizzazione della propria economia. L’annuncio è arrivato oggi (2 novembre) a margine della Conferenza sul clima delle Nazioni Unite (COP26) in corso a Glasgow: il budget iniziale di 8,5 miliardi di dollari attraverso meccanismi di finanziamento, prestiti agevolati, investimenti e strumenti a rischio condiviso servirà per aiutare il Paese ad aggiornare i suoi impegni sulla riduzione di CO2, con particolare attenzione al sistema elettrico.
    L’obiettivo è quello di riuscire a sbloccare altri investimenti dal settore privato. Le previsioni dei 5 Paesi occidentali stimano che il partenariato preverrà fino a 1-1,5 miliardi di tonnellate di emissioni nei prossimi 20 anni e aiuterà il Sudafrica ad abbandonare in maniera definitiva il carbone. “Il Sudafrica accoglie con favore l’impegno assunto nella Dichiarazione politica a sostegno dell’attuazione del nostro contributo determinato a livello nazionale, che rappresenta l’ambizioso sforzo del nostro Paese per sostenere la battaglia globale contro il cambiamento climatico”, ha commentato il capo di Stato della Repubblica del Sudafrica, Cyril Ramaphosa. A sostegno della transizione del Paese “attendiamo con impazienza una partnership a lungo termine che possa fungere da modello appropriato di sostegno per l’azione per il clima dai Paesi sviluppati a quelli in via di sviluppo”.
    “Questa partnership è una novità globale e potrebbe diventare un modello su come supportare la giusta transizione in tutto il mondo”, ha aggiunto la presidente della Commissione, Ursula von der Leyen. “Unendo le forze, possiamo accelerare l’eliminazione graduale del carbone nei paesi partner, sostenendo al contempo le comunità vulnerabili che dipendono da esso. Garantire una transizione giusta è una priorità per l’UE, sia in patria che all’estero”.

    A margine della COP26 di Glasgow, Bruxelles insieme a Francia, Germania, Regno Unito e USA lancia un’iniziativa finanziaria per la transizione energetica del Paese. Il presidente Ramaphosa: “Serve sostegno a lungo termine all’azione per il clima delle economie in via di sviluppo”

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    Carburante, cibo e costruzioni: la crisi di approvvigionamenti del Regno Unito nel dopo Brexit

    Bruxelles – La BP plc, società britannica leader del settore energetico, ha annunciato la chiusura temporanea di più di un terzo dei suoi punti di distribuzione di benzina per esaurimento delle scorte. A partire da domenica, milioni di cittadini del Regno Unito si sono recati a fare scorte di carburante in seguito all’annuncio del governo della sospensione delle leggi sulla competitività del mercato, temendo un rapido aumento dei prezzi.
    Ma il carburante non è l’unico cruccio del governo britannico. Molti supermercati rischiano di rimanere sprovvisti di prodotti caseari e carne. Anche le materie del settore edilizio scarseggiano, a partire da legname e cemento. A completare il quadro le prospettive di un Natale senza giocattoli. Una tempesta perfetta dovuta alla congiuntura di elementi nazionali e globali.
    Nel Regno Unito non è finito il carburante, ma chi lo trasporta
    Come ribadito dal primo ministro Boris Johnson, la crisi del carburante ha poco a che vedere con l’esaurimento delle riserve nazionali. Il problema è il trasporto dalle raffinerie ai siti di distribuzione. La crisi, quella vera, è quella del trasporto su gomma.
    L’entrata in vigore di Brexit, dunque l’uscita del Regno Unito dal mercato unico europeo, ha complicato enormemente (e reso più costose) le procedure doganali per i guidatori di camion. Al contempo molti dei camionisti residenti nel Paese sono stati costretti a trasferirsi in altri Paesi, o lo hanno scelto perché attratti da migliori prospettive economiche.
    A spingere i lavoratori del trasporto fuori dall’Isola britannica è stato anche il COVID. Molti di quelli con cittadinanza straniera sono tornati in patria durante i primi tempi della pandemia, spesso senza tornare. Le procedure di quarantena e l’isolamento in seguito a contatti con positivi hanno fatto il resto – problemi che si riscontrano anche in altri Stati europei. Si stima che oggi il settore sia sotto organico di almeno 100.000 lavoratori.
    Il governo Johnson ha proposto di utilizzare l’esercito per sopperire alla mancanza di mano d’opera. Al momento i militari sono in stato di allerta, ma non sono ancora stati impiegati. Contemporaneamente è stata avviata la procedura per la facilitazione dei visti di lavoro per i guidatori di camion. Specie la seconda misura è stata criticata perché sottodimensionata: Londra vuole concedere appena 5000 visti (temporanei), il cinque per cento della richiesta effettiva.
    Un Natale senza latte e carne?
    Le crisi del trasporto ha colpito anche l’approvvigionamento alimentare. Anche in questo caso i prodotti più colpiti – latticini e carne – non si stanno esaurendo, ma manca il tramite che li porti dal produttore ai luoghi di acquisto, oltre che la forza lavoro. Sia il settore caseario che dell’allevamento del Regno impiegano tradizionalmente mano d’opera immigrata.
    Le peculiarità dei prodotti in questione complicano la crisi. I derivati del latte devono essere consumati in breve tempo per evitare che vadano a male. Discorso simile, anche se meno drastico, vale per la carne. La paura di trovarsi senza cibo per le feste natalizia potrebbe dare il via ad acquisti compulsivi da parte dei consumatori, che esaurirebbero le scorte dei supermercati in ancora meno tempo.
    Nel Regno Unito non manca solo il carburante: la crisi di giocattoli, macchine e edilizia
    A pesare sugli altri prodotti che rischiano lo “shortage” è soprattutto il contraccolpo della pandemia. Il settore dei microchip soffre da inizio 2020 di scarsità cronica di materia prima, difficoltà di esportazione e tensioni geopolitiche trai principali attori del settore.
    La scarsità dei wafer di silicio, insieme alla spinta alla digitalizzazione, ha portato i produttori a investire nel settore elettronico, lasciando a secco i produttori di macchine. Il rischio è di un circolo vizioso: il mercato dell’auto si indebolisce e per i produttori di microchip diventa sempre meno conveniente fare da fornitori per l’automotive. Nel Regno Unito sono già iniziate a diminuire le nuove vetture messe in vendita, con conseguente aumento dei prezzi delle auto di seconda mano.
    Anche il comparto dei giocattoli sconta la crisi del trasporto globale. In questo caso sono le spedizioni via mare a essere determinanti per rifornire il Regno Unito dei giochi per bambini – circa il 70% della produzione proviene dalla Cina e dal sud est asiatico. Oggi in Asia mancano container e le procedure sanitarie aumentano enormemente i tempi morti delle navi prima dell’ingresso nei porti. Il risultato è che i costi di spedizione sono aumentati fino a dieci volte.
    Non si salvano i materiali dell’industria edilizia. La crisi delle catene di approvvigionamento e l’uscita dal mercato unico hanno determinato un aumento dei prezzi ancora maggiore che nel resto del Continente. I prezzi delle costruzioni sono saliti di circa il 20% e il razionamento dei materiali ha portato a ritardi sull’arrivo delle commesse nell’ordine di 5-6 mesi.

    L’uscita del Regno Unito dal mercato unico europeo ha complicato enormemente (e reso più costose) le procedure doganali per i guidatori di camion, e tanti se ne sono andati per via del COVID

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    La Corte europea dei diritti umani ha condannato la Russia per l’assassinio di Litvinenko

    Bruxelles – È il governo russo il responsabile dell’assassinio dell’ex-spia dei servizi segreti russi (ex KGB e FSB) Aleksander Litvinenko. Lo ha stabilito della Corte europea dei diritti umani con una sentenza emessa oggi (martedì 21 settembre), che ha riconosciuto Mosca colpevole dell’avvelenamento dell’uomo con polonio 210, avvenuto nel 2006 sul territorio del Regno Unito.
    “Esiste un forte sospetto che, nell’avvelenare Litvinenko, Andrey Lugovoy e Dmitriy Kovtun abbiano agito in qualità di agenti dello Stato russo”, si legge nella sentenza. Inoltre, “senza alcuna giustificazione, la Russia non ha fornito il materiale richiesto, necessario per l’indagine sul caso”. La Corte con sede a Strasburgo ha deciso che Mosca dovrà versare 100 mila euro per danni morali alla moglie di Litvinenko e altri 22.500 per le spese legali.
    Il ricorso alla Corte europea dei diritti umani era stato presentato proprio da Marina Litvinenko, conosciuta come Maria Anna Carter da quando lei e il marito acquisirono la cittadinanza britannica nel 2006 (dopo aver ottenuto il diritto di asilo). Litvinenko aveva lavorato per i servizi di sicurezza sovietici e russi e nel 1998 aveva accusato pubblicamente i suoi superiori di aver organizzato un piano per assassinare il milionario Boris Berezovsky. Dopo essere stato licenziato, era fuggito dal Paese. Litvinenko era stato successivamente coinvolto nella denuncia di casi di corruzione e di legami con la criminalità organizzata da parte dei servizi segreti russi.
    Tra la metà di ottobre e l’inizio di novembre del 2006, gli ex-colleghi Lugovoy e Kovtun si recarono tre volte a Londra per incontrare Litvinenko. Come dimostrato da successive indagini britanniche, in ogni occasione portarono con loro polonio 210, una sostanza altamente radioattiva. Il 2 novembre Litvinenko fu ricoverato in ospedale, con sospetti immediati di avvelenamento attraverso agenti radioattivi. L’ex-KGB morì tre settimane più tardi, il 23 novembre: la causa del decesso fu riconosciuta in una sindrome acuta da radiazioni, causata da livelli molto alti di polonio 210 ingerito attraverso un composto solubile.
    “Al di là di ogni ragionevole dubbio”, la Corte con sede a Strasburgo ha considerato “accertato” che l’assassinio è stato eseguito da Lugovoy e Kovtun: “L’operazione pianificata e complessa che coinvolgeva l’approvvigionamento di un raro veleno mortale, gli accordi di viaggio e i ripetuti e prolungati tentativi di somministrare il veleno” indicano che “l’obiettivo dell’operazione era Litvinenko”, si legge nella sentenza. Per quanto riguarda il fatto che i due agenti dei servizi segreti russi abbiano agito per conto del governo russo, la Corte europea dei diritti umani ha ritenuto che “non ci sono prove che entrambi avessero una ragione personale” per uccidere l’uomo. Al contrario, “se avessero agito per proprio conto, non avrebbero avuto accesso all’isotopo radioattivo usato per avvelenarlo”.
    Durissime le reazioni russe alla sentenza della Corte europea dei diritti umani. “Cerca di contribuire alla diffusione della russofobia in Europa“, ha attaccato la portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova, che ha anche insinuato che “la sentenza stessa inoltre solleva molte domande”. Per il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, le conclusioni della Corte sono “infondate”, dal momento in cui “è improbabile che abbia l’autorità o le capacità tecnologiche per avere informazioni sulla questione”.

    L’avvelenamento dell’ex-agente del KGB con polonio 210 era avvenuto nel 2006 nel Regno Unito. La sentenza ha riconosciuto i due esecutori dell’omicidio come “agenti dello Stato russo”, privi di ragioni personali per ucciderlo

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    Brexit, pressing britannico vuol rinegoziare il periodo di grazia nel Mare d’Irlanda. Ma per l’UE “il Protocollo non si tocca”

    Bruxelles – La guerra delle salsicce ricomincia. Il 30 settembre scade la proroga dell’Unione Europea al periodo di grazia per il commercio nel Mare d’Irlanda e Londra è già in pressing. Il governo guidato da Boris Johnson è intenzionato a rinegoziare la durata della concessione temporanea ai controlli dei certificati sanitari per il commercio di generi alimentari refrigerati dalla Gran Bretagna all’Irlanda del Nord da parte delle autorità UE (che nel contesto post-Brexit sono necessari per mantenere integro il Mercato Unico sull’isola d’Irlanda).
    Il consigliere britannico per la Sicurezza nazionale, David Frost, ha annunciato ieri (6 settembre) di voler continuare a commerciare “sulla base delle pratiche attuali”, senza fissare una data di scadenza per la concessione temporanea. In realtà questo periodo di grazia sta assumendo i contorni di un tentativo di rinegoziare l’intero Protocollo sull’Irlanda del Nord dell’accordo di recesso tra UE e Regno Unito, siglato per garantire l’unità sull’isola. Lo stallo “fornirà spazio per ulteriori discussioni con Bruxelles”, ha spiegato Frost, in particolare sulle “profonde differenze” delle parti in merito all’accordo di divorzio.
    La richiesta di una “revisione totale” dell’accordo è stata già respinta a fine luglio dalla Commissione Europea. Anche questa volta la porta è rimasta chiusa: “Prendiamo atto della dichiarazione, ma non accetteremo una rinegoziazione del Protocollo“, si legge nella nota dell’esecutivo UE. “Continuiamo a sottolineare che l’accordo di recesso è un accordo internazionale e il Protocollo ne è parte integrante”. Gli sforzi di Bruxelles vanno nella direzione di identificare “soluzioni a lungo termine, flessibili e pratiche”, con l’obiettivo di “affrontare le questioni relative all’attuazione pratica del Protocollo” che stanno vivendo cittadini e imprese dell’Irlanda del Nord. Tuttavia, Unione Europa e Regno Unito sono “legalmente vincolati ad adempiere ai loro obblighi ai sensi dell’accordo“.
    Il periodo di grazia era entrato in vigore provvisoriamente all’inizio di quest’anno, con la firma dell’accordo di commercio e di cooperazione (TCA), e sarebbe dovuto scadere il primo aprile. Solo la proroga concessa dalle autorità europee il 30 giugno aveva momentaneamente risolto il conflitto diplomatico nato dalla decisione unilaterale di Downing Street di estendere il periodo di grazia fino a fine di ottobre.
    La porta sulla rinegoziazione dell’accordo rimane sigillata, ma l’Unione sembra voler evitare lo scontro frontale con Downing Street. Lo dimostra il fatto che la procedura d’infrazione avviata lo scorso 15 marzo per le presunte violazioni del Protocollo sull’Irlanda del Nord da parte di Londra è rimasta congelata (è stata momentaneamente sospesa lo scorso 28 luglio). “La Commissione si riserva i suoi diritti per quanto riguarda le procedure d’infrazione”, specifica la nota del gabinetto guidato da Ursula von der Leyen. Tuttavia, “per ora non stiamo passando alla fase successiva” all’invio della lettera di costituzione in mora.

    🇪🇺🇬🇧 Statement by @EU_Commission following today’s announcement by the UK government regarding the operation of the Protocol on Ireland / Northern Ireland 👇https://t.co/VMO4cDKzHM pic.twitter.com/JcIlGCZFLn
    — Daniel Ferrie 🇪🇺 (@DanielFerrie) September 6, 2021

    Il consigliere per la Sicurezza nazionale Frost ha annunciato che il commercio tra Gran Bretagna e Irlanda del Nord deve continuare “sulla base delle pratiche attuali”. Bruxelles si oppone al disimpegno sull’accordo di recesso

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    Brexit, Londra ci riprova: chiesta una rinegoziazione del Protocollo sull’Irlanda del Nord. Porta chiusa dall’UE

    Bruxelles – Ci risiamo. A nemmeno un mese dalle concessioni dell’Unione Europea a Londra sull’estensione del periodo di grazia per il commercio nel Mare d’Irlanda fino al 30 settembre (doveva scadere lo scorso primo aprile), Downing Street alza la posta e chiede a Bruxelles un “nuovo equilibrio” nell’attuazione del Protocollo sull’Irlanda del Nord all’interno del quadro dell’Accordo di recesso tra UE e Regno Unito.
    Dal 30 giugno ci si chiedeva cosa significasse l’avvertimento del consigliere britannico per la Sicurezza nazionale, David Frost, sulla necessità di “un’attuazione pragmatica e proporzionata dell’intesa” per arrivare a una soluzione permanente con i Ventisette. Ora è chiaro: se non saranno saranno riviste le regole sul commercio tra Gran Bretagna e Irlanda del Nord, la minaccia è di annullare unilateralmente l’intero Accordo di recesso. “Non possiamo andare avanti così”, è stato il commento di Frost ieri (mercoledì 21 luglio) di fronte ai deputati britannici. “Non c’è niente di insolito nel rinegoziare un trattato”, ha aggiunto, dal momento in cui “l’accordo non sta funzionando come ci aspettavamo“.
    Non stupisce che per Londra il “nuovo equilibrio” punti a eliminare la supervisione dell’Unione Europea sull’Accordo di recesso e sul transito di beni nell’Irlanda del Nord (volto a mantenere integro il Mercato Unico sull’isola d’Irlanda). Frost ha puntualizzato che “c’è un’opportunità per trovare un accordo con l’UE attraverso i negoziati“, ma che se dovessero fallire il Regno Unito avrà “una giustificazione per invocare l’articolo 16 del Protocollo” (che permette alle parti di rinunciare ai suoi termini se nella pratica si rivelano dannosi).
    L’improvvisa offerta del governo presieduto da Boris Johnson ha trovato le porte sbarrate a Bruxelles, nel frattempo impegnato a rinegoziare il futuro di Gibilterra. “Non accetteremo una rinegoziazione del Protocollo“, ha tagliato corto il vicepresidente della Commissione UE per le Relazioni interistituzionali e le prospettive strategiche, Maroš Šefčovič. “Il rispetto degli obblighi legali internazionali è di fondamentale importanza”, anche se questo non ha fermato l’Unione Europea dal cercare “soluzioni pratiche e flessibili” come quella dello scorso 30 giugno “per superare le difficoltà che i cittadini dell’Irlanda del Nord stanno incontrando”.
    Preso atto della dichiarazione di Frost, il vicepresidente dell’esecutivo UE ha intimato il “rispetto del Protocollo” che “ha lo scopo di mantenere la pace sull’isola d’Irlanda”. Lo spiraglio lasciato aperto da Šefčovič riguarda solo “l’azione congiunta negli organismi paritetici” e il confronto su nuove “soluzioni creative”. Su tutto il resto, Bruxelles fa muro e a poco più di due mesi dall’entrata in vigore dell’accordo commerciale e di cooperazione con il Regno Unito già si inizia a parlare di annullamento dell’Accordo di recesso.

    Il “no grazie” è stato ribadito anche dalla presidente dell’esecutivo UE, Ursula von der Leyen, dopo una conversazione telefonica con il premier britannico Johnson: “L’Unione continuerà a essere creativa e flessibile nel quadro del Protocollo, ma non lo rinegozieremo“, ha risposto al Command paper di Downing Street inerente al Protocollo sull’Irlanda del Nord. “Dobbiamo garantire insieme stabilità e prevedibilità sull’isola”.

    Il Regno Unito chiede un “nuovo equilibrio” sull’Accordo di recesso, altrimenti minaccia di annullarlo unilateralmente. Il vicepresidente della Commissione Šefčovič respinge l’offerta e intima il rispetto degli “obblighi legali internazionali”

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    Brexit, quanto costa un divorzio: le stime dell’UE si scontrano con le previsioni del Regno Unito

    Bruxelles – Una delle regole universali non scritte è che i divorzi costano, praticamente sempre. E non solo tra persone, ma anche tra Stati. Lo dimostra l’ultimo terreno di scontro tra Unione Europea e Regno Unito: il conto della Brexit, che per Londra potrebbe essere più salato del previsto.
    Stando ai conti annuali del 2020 pubblicati dalla Commissione Europea, l’importo che il Regno Unito dovrà pagare come quota di debiti e passività dell’UE durante i 47 anni di adesione (pagamento di progetti infrastrutturali, pensioni e indennità di malattia per i funzionari europei) si attesta a 47,5 miliardi di euro. Di questa somma, la prima tranche da 6,8 miliardi è prevista entro la fine dell’anno.
    Sono invece diverse invece le previsioni di Downing Street. Basandosi sulle indicazioni del 2018 dell’Office for Budget Responsibility (ente pubblico non dipartimentale finanziato dal Tesoro britannico), i costi previsti erano stati fissati a 41,4 miliardi di euro. Tuttavia, già durante i negoziati sulla Brexit, si era presentata la possibilità di una lievitazione della spesa: come riporta The Guardian, i funzionari incaricati delle trattative con l’Unione avevano pesato l’uscita del Regno Unito tra i 40,7 e i 45, 4 miliardi di euro (35-39 miliardi di sterline).
    Per onor del vero, le stime di Bruxelles sono ancora provvisorie e devono essere prima approvate dalla Corte dei conti europea. Ma secondo uno dei revisori, l’irlandese Tony Murphy, l’importo indicato dall’esecutivo UE quasi sicuramente è corretto: “Non è stato ancora completato il lavoro di revisione”, ha sottolineato all’emittente nazionale RTÉ News, “ma a tutti gli effetti i dati pubblicati dalla Commissione possono essere considerati definitivi“.
    Da Londra un portavoce del governo britannico ha messo le mani avanti, dichiarando che “questa è solo una stima contabile e non riflette l’importo esatto che il Regno Unito dovrebbe pagare all’UE“. A dare parzialmente ragione alla posizione del governo Johnson è il fatto che una parte della quota si compone di passività (comprese pensioni e assicurazioni di malattia per funzionari, ex-commissari ed eurodeputati): queste potrebbero non concretizzarsi mai, nel caso in cui i destinatari dei prestiti comunitari non si rivelino inadempienti.
    Di sicuro, se sarà confermato dai revisori UE, c’è una quota di 36 miliardi di euro destinata al pagamento delle infrastrutture e dei progetti sociali dell’Unione, concordati dai precedenti governi britannici. E già il divorzio inizia a presentare il suo conto salato.

    In base ai conti annuali 2020, la Commissione UE ha fissato a 47,5 miliardi l’importo che Londra dovrà pagare come quota di debiti e passività. Un conto più salato di quanto Downing Street avesse previsto dal 2018 a oggi

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    Brexit, approvato l’accordo UE sulla libera circolazione di dati con il Regno Unito. C’è “clausola di decadenza” di 4 anni

    Bruxelles – Sono state adottate oggi (lunedì 28 giugno) dalla Commissione Europea le decisioni di adeguatezza per la libera circolazione di dati con il Regno Unito, in seguito a un processo di valutazione degli standard britannici per la tutela della privacy durata quattro mesi. Le due decisioni, una ai sensi del regolamento generale sulla protezione dei dati (GDPR) e l’altra per la direttiva sull’applicazione della legge (LED), garantiranno flussi liberi di dati personali tra le due sponde della Manica.
    Con l’approvazione dell’accordo UE sulla libera circolazione dei dati tra Bruxelles e Londra sarà facilitata la “corretta attuazione” dell’Accordo commerciale e di cooperazione UE-Regno Unito (TCA), come viene sottolineato in una nota dell’esecutivo UE. Ma allo stesso tempo sono incluse “forti garanzie in caso di divergenza futura”, come la clausola di decadenza che limita la durata della decisione di adeguatezza a quattro anni. In virtù di questa clausola, la Commissione continuerà a monitorare la situazione giuridica nel Regno Unito e “potrebbe intervenire in qualsiasi momento“, se Londra si discosterà dal livello di protezione attualmente in vigore.
    L’adozione preliminare delle due decisioni era arrivata il 19 febbraio scorso, quando il gabinetto von der Leyen aveva presentato la sua valutazione del livello di protezione dei dati da parte del Regno Unito “sostanzialmente equivalente” a quello del GDPR. La bozza era stata poi analizzata prima dal Comitato europeo per la protezione dei dati (EDPB), che aveva dato il via libera con riserva, e in seguito da un comitato composto dai rappresentanti dei Paesi membri. Nelle decisioni pubblicate oggi viene precisato che il sistema britannico “continua a essere basato sulle stesse regole applicate quando il Regno Unito era uno Stato membro dell’UE” e che Londra ha “pienamente incorporato i principi, i diritti e gli obblighi del GDPR e della direttiva sull’applicazione della legge nel proprio sistema giuridico post-Brexit”.
    Per quanto riguarda i chiarimenti richiesti dall’EDPB, la Commissione Europea ha precisato che “per motivi di sicurezza nazionale, il sistema del Regno Unito prevede solide garanzie“. In particolare, “la raccolta di dati da parte delle autorità di intelligence è soggetta alla preventiva autorizzazione di un organo giudiziario indipendente” e che “chiunque ritenga di essere stato oggetto di sorveglianza illecita può rimettersi all’Investigatory Powers Tribunal“. Inoltre, il Regno Unito è soggetto alla giurisdizione della Corte europea dei diritti dell’uomo e alla Convenzione del Consiglio d’Europa per la protezione delle persone rispetto al trattamento automatizzato dei dati personali“, l’unico trattato internazionale vincolante in materia di privacy.
    Per il momento i trasferimenti di dati ai fini del controllo dell’immigrazione nel Regno Unito sono esclusi dall’ambito delle decisioni di adeguatezza, in attesa della valutazione interna di una recente sentenza della Corte d’appello di Inghilterra e Galles su alcune restrizioni del diritto di privacy in questo ambito. “La Commissione valuterà nuovamente la necessità di tale esclusione una volta che la situazione sarà stata risolta ai sensi del diritto britannico”, specifica la nota.

    Con l’adozione delle due decisioni si adeguatezza si chiude il processo di valutazione degli standard britannici per la tutela della privacy. La Commissione potrà intervenire “in qualsiasi momento”, se Londra si discosterà dal livello di protezione attuale

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    COVID, leader G7 pronti a chiedere all’Oms un’indagine trasparente sulle origini della pandemia

    Bruxelles – Le sette economie (occidentali) più grandi al mondo pronte a discutere di lotta globale al Coronavirus e ripresa economica, di come affrontare al meglio le crisi del futuro ma anche a guardare al passato, per capire come questa pandemia è scoppiata. “Ci serve tutta la trasparenza possibile per imparare la lezione. Capire l’origine della diffusione del Coronavirus è della massima importanza per capire come affrontarne le conseguenze”, spiegano all’unisono i presidenti di Commissione e Consiglio europeo – Ursula von der Leyen e Charles Michel – in una conferenza stampa questa mattina (10 giugno) per presentare le priorità dell’UE al vertice G7 che partirà domani in Cornovaglia, a Carbis Bay (11-13 giugno).
    I leader di Italia, Canada, Francia, Germania, Giappone, Regno Unito, Stati Uniti e Unione Europea si incontreranno in presenza per la prima volta sotto la guida di Londra e del premier Boris Johnson, che nel 2021 è presidente di turno del G7. Focus come sempre su Salute globale e ripresa economica dalla crisi, ma anche impegno globale sul cambiamento climatico, la riaffermazione dei valori democratici in chiave anti-Russia e Cina, la ricerca di stabilità e sui passi avanti compiuti sulla tassazione globale.
    Joe Biden
    La pandemia slitterà in cima all’agenda, con tre priorità: la campagna per una distribuzione globale dei vaccini anche ai Paesi che non li producono e non possono permettersi di comprarli ai prezzi pagati dall’UE (“le economie del G7 sono anche i più grandi produttori di vaccini al mondo”, ricorda Michel), capire come rendersi più resilienti alle future crisi globali e, infine, la richiesta all’Organizzazione mondiale della Sanità (OMS) di una indagine trasparente e decisiva per capire il perché dello sviluppo del virus, che da oltre un anno attanaglia l’Europa e il mondo. La richiesta mette d’accordo tutti e sette i leader e segue la decisione del presidente americano, Joe Biden, di allargare l’inchiesta sulla pandemia. Non è difficile immaginare che si voglia smentire chi sostiene la tesi di una fuga del virus dal laboratorio cinese di Wuhan, da dove la pandemia ha avuto inizio. “Gli investigatori hanno bisogno dell’accesso completo a tutto ciò che è necessario per trovare davvero l’origine di questa pandemia”, ha spiegato von der Leyen.
    Tempo per un primo approccio tra UE e amministrazione di Biden anche sulla questione vaccini e sospensione dei brevetti, che sarà discussa a luglio in sede di Organizzazione mondiale del commercio. Al 10 giugno “più del 50% degli europei adulti ha ricevuto almeno un’iniezione e 100 milioni di europei sono completamente vaccinati”. Un traguardo raggiunto senza mai smettere di esportare, vuole sottolineare la presidente della Commissione fornendo qualche cifra: 700 milioni di dosi prodotte, 350 milioni di dosi esportate in 90 paesi.
    L’invito anche agli altri partner del G7 a mostrare apertura in questo senso, verso le esportazioni delle dosi in più. Si discuterà inoltre di come aumentare la capacità tecnologica e produttiva in Africa ma anche America Latina, spiega Michel. Secondo i due presidenti dell’UE, l’aumento della capacità produttiva è fondamentale non solo per affrontare il coronavirus, ma anche per prepararli alle prossime crisi e allo sviluppo di tecnologie adeguate per affrontarle. Non solo origine del virus, spazio anche per discutere di come meglio affrontare il futuro per le prossime crisi. I leader faranno un punto sul trattato per le future pandemie proposto dal presidente del Consiglio europeo e a cui per ora hanno aderito 60 Paesi, spiega Michel.

    Lotta globale alla pandemia, politica estera, cambiamento climatico e progressi sulla tassazione globale: queste le priorità dei leader di Italia, Canada, Francia, Germania, Giappone, Regno Unito, Stati Uniti e Unione Europea che si incontreranno dall’11 al 13 giugno in Cornovaglia