More stories

  • in

    I progressi a metà del guado. La Commissione Ue presenta il primo stato delle riforme in Ucraina, Moldova e Georgia

    Bruxelles – Il primo rapporto, un inedito che rompe la tradizione dei Pacchetti di allargamento Ue autunnali “su base eccezionale”. È il commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi, a illustrare oggi (22 giugno) alla stampa dopo il Consiglio Affari Generali informale la presentazione orale dello stato di avanzamento delle riforme in Ucraina, Moldova e Georgia, i tre Paesi che per ultimi hanno intrapreso il percorso verso l’adesione all’Unione Europea (candidati i primi due, con la sola prospettiva europea il terzo). “Abbiamo ricevuto una chiara richiesta dai 27 Stati membri per un rapporto orale su come questi Paesi stanno progredendo sulle priorità stabilite dalla Commissione, non l’abbiamo mai fatto e ci focalizziamo solo su queste”, ha messo ben in chiaro lo stesso commissario, spiegando ai giornalisti quanto presentato poche ore prima ai ministri degli Affari europei a Stoccolma.
    Il commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi
    Una richiesta che – come sottolineato dalla ministra svedese e presidente di turno del Consiglio dell’Ue, Jessika Roswall – parte dalla necessità di “iniziare le discussioni su come prepararci per un futuro allargamento”. Ed è per questo che la Commissione Ue ha deciso di sbilanciarsi prima dell’appuntamento atteso per il prossimo mese di ottobre, per “dare un incentivo positivo” ai tre Paesi, ha spiegato Várhelyi: “Hanno fatto molto lavoro, ma molto altro è ancora all’orizzonte e nel Pacchetto allargamento Ue non saranno questi gli unici criteri che prenderemo in considerazione“. A proposito dei criteri presi in considerazione, sono cinque le categorie considerate: nessun progresso (ovvero nessun passo intrapreso), progressi limitati (stadio preliminare), alcuni progressi (diverse riforme, ma alcune importanti ancora mancanti), buoni progressi (almeno metà delle richieste implementate) e completato. Va letto così – o ascoltato, considerato il fatto che si è trattato di un rapporto orale – quanto elencato dal commissario per l’Allargamento: Kiev ha completato 2 priorità su 7, Chișinău 3 su 9 e Tbilisi 3 su 12, ma l’attenzione va rivolta a quanto è “in corso”. Più o meno sulla buona strada.
    Per l’Ucraina sono 7 le priorità identificate, di cui 2 completate già ora: quella sulla riforma di due organi giudiziari (l’alto Consiglio della giustizia e l’alta Commissione per le alte qualifiche dei giudici) e quella sull’area dei media (legislazione “pienamente in linea” con la direttiva Ue sui servizi media). Buoni progressi sono stati identificati nell’ambito delle riforme della Corte Costituzionale (ancora in sospeso per la seconda lettura in Parlamento, per cui potrebbero arrivare emendamenti “entro il 24 giugno”). Per le restanti quattro priorità ci sono alcuni progressi: nell’area dell’anti-corruzione (con la nomina dell’ufficio del procuratore e dell’ufficio nazionale, “ma ora servono misure sistematiche”), nell’area dell’anti-riciclaggio (allineamento agli standard internazionali), nell’area della de-oligarchizzazione (implementazione del piano d’azione) e nell’area della tutela delle minoranze (“in particolare sull’uso delle lingue nella sfera pubblica, nell’amministrazione, nei media e nella stampa).
    Il commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi, e la ministra svedese e presidente di turno del Consiglio dell’Ue, Jessika Roswall
    Per la Moldova sono 9 le priorità identificate, di cui 3 completate: quella sulle riforme giudiziarie (con il Codice elettorale), quella sul rafforzamento del coinvolgimento della società civile nel processo decisionale e quella sulla tutela dei gruppi vulnerabili e contro la violenza di genere. Per quanto riguarda le restanti 6, buoni progressi sono stati registrati in 3 priorità (riforma della giustizia, de-oligarchizzazione e riforme finanziamento dell’amministrazione pubblica) e alcuni progressi in altre 3 (anti-corruzione, lotta contro la criminalità organizzata e anti-riciclaggio). Più complessa la situazione della Georgia, con 3 priorità completate su 12: quella sull’uguaglianza di genere e sulla lotta contro la violenza di genere, quella sull’implementazione delle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo nei tribunali nazionali e quella sulla nomina di un difensore d’ufficio nei processi. In altre 7 priorità sono stati registrati alcuni progressi: impegno contro la polarizzazione politica, funzionamento delle istituzioni pubbliche e del sistema elettorale, adozione delle riforme giudiziarie, rafforzamento delle agenzie anti-corruzione, lotta contro la criminalità organizzata, rafforzamento della difesa dei diritti umani e coinvolgimento della società civile nel processo decisionale. Solo progressi limitati nella de-oligarchizzazione, mentre nessun progresso sul pluralismo dei media e gli standard sui procedimenti contro i proprietari dei media.
    Ucraina, Moldova e Georgia verso l’Ue
    Lo stravolgimento nell’allargamento Ue è iniziato quattro giorni dopo l’aggressione armata russa quando, nel pieno della guerra, l’Ucraina ha fatto richiesta di adesione “immediata” all’Unione, con la domanda firmata il 28 febbraio dal presidente Volodymyr Zelensky. A dimostrare l’irreversibilità di un processo di avvicinamento a Bruxelles come netta reazione al rischio di vedere cancellata la propria indipendenza da Mosca, tre giorni dopo (3 marzo) anche Georgiae Moldova hanno deciso di intraprendere la stessa strada, su iniziativa rispettivamente del primo ministro georgiano Irakli Garibashvili e della presidente moldava Maia Sandu. In soli quattro giorni (7 marzo) gli ambasciatori dei 27 Stati membri riuniti nel Comitato dei rappresentanti permanenti del Consiglio (Coreper) hanno concordatodi invitare la Commissione a presentare un parere su ciascuna delle domande di adesione presentate dai tre Paesi richiedenti, da trasmettere poi al Consiglio per la decisione finale sul primo step del processo di allargamento Ue.
    Prima di dare il via libera formale, un mese più tardi (8 aprile) a Kiev la presidente dell’esecutivo comunitario, Ursula von der Leyen, ha consegnato al presidente Zelensky il questionario necessario per il processo di elaborazione del parere della Commissione, promettendo che sarebbe stata “non come al solito una questione di anni, ma di settimane”. Lo stesso ha fatto il commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi, a margine del Consiglio Affari Esteri a Lussemburgo l’11 aprile. Meno di settanta giorni dopo, il 17 giugno il gabinetto von der Leyen ha dato la luce verde a tutti e tre i Paesi, specificando che Ucraina e Moldova meritavano subito lo status di Paesi candidati, mentre la Georgia avrebbe dovuto lavorare su una serie di priorità. La decisione ufficiale è arrivata al Consiglio Europeo del 23 giugno, che ha approvato la linea tracciata dalla Commissione: Kiev e Chișinău sono diventati il sesto e settimo candidato all’adesione all’Unione, mentre a Tbilisi è stata riconosciuta la prospettiva europea nel processo di allargamento Ue. Dall’inizio di quest’anno sono già arrivate le richieste dall’Ucraina e dalla Georgia rispettivamente di iniziare i negoziati di adesione e di diventare Paese candidato “entro la fine del 2023”.
    Come funziona il processo di allargamento Ue
    Il processo di allargamento Ue inizia con la presentazione da parte di uno Stato extra-Ue della domanda formale di candidatura all’adesione, che deve essere presentata alla presidenza di turno del Consiglio dell’Unione Europea. Per l’adesione all’Unione è necessario prima di tutto superare l’esame dei criteri di Copenaghen (stabiliti in occasione del Consiglio Europeo nella capitale danese nel 1993 e rafforzati con l’appuntamento dei leader Ue a Madrid due anni più tardi). Questi criteri si dividono in tre gruppi di richieste basilari che l’Unione rivolge al Paese che ha fatto richiesta di adesione: Stato di diritto e istituzioni democratiche (inclusi il rispetto dei diritti umani e la tutela delle minoranze), economia di mercato stabile (capacità di far fronte alle forze del mercato e alla pressione concorrenziale) e rispetto degli obblighi che ne derivano (attuare efficacemente il corpo del diritto comunitario e soddisfare gli obiettivi dell’Unione politica, economica e monetaria).
    Ottenuto il parere positivo della Commissione, si arriva al conferimento dello status di Paese candidato con l’approvazione di tutti i membri dell’Unione. Segue la raccomandazione della Commissione al Consiglio Ue di avviare i negoziati che, anche in questo caso, richiede il via libera all’unanimità dei Paesi membri: si possono così aprire i capitoli di negoziazione (in numero variabile), il cui scopo è preparare il candidato in particolare sull’attuazione delle riforme giudiziarie, amministrative ed economiche necessarie. Quando i negoziati sono completati e l’allargamento Ue è possibile in termini di capacità di assorbimento, si arriva alla firma del Trattato di adesione (con termini e condizioni per l’adesione, comprese eventuali clausole di salvaguardia e disposizioni transitorie), che deve essere prima approvato dal Parlamento Europeo e dal Consiglio all’unanimità.
    Per i Balcani Occidentali è previsto un processo parallelo – e separato – ai negoziati di adesione all’Unione, che ha comunque un impatto sull’allargamento Ue. Il processo di stabilizzazione e associazione è finalizzato ad aiutare i partner balcanici per un’eventuale adesione, attraverso obiettivi politici ed economici che stabilizzino la regione e creino un’area di libero scambio. Dopo la definizione di un quadro generale delle relazioni bilaterali tra l’Unione Europea e il Paese partner, la firma dell’Accordo di stabilizzazione e associazione offre la prospettiva futura di adesione.

    Illustrato dal commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi, al Consiglio Affari Generali informale il rapporto orale dello stato di avanzamento dei percorsi verso l’Ue dei tre Paesi. Kiev ha completato 2 priorità su 7, Chișinău 3 su 9 e Tbilisi 3 su 12

  • in

    L’Ue reagisce alla visita del serbo-bosniaco Dodik a Putin: “I nostri alleati non vanno in Russia”

    Bruxelles – È successo di nuovo. In più di un anno di guerra in Ucraina non era mai successo che un leader europeo facesse visita all’autocrate russo, Vladimir Putin, a Mosca. E invece per due volte in otto mesi a rompere l’unità del continente su questo punto è stato Milorad Dodik, presidente della Repubblica Srpska (l’entità a maggioranza serba della Bosnia ed Erzegovina), il più controverso e divisivo politico tra i partner dell’Unione Europea. Un viaggio che rappresenta il culmine di una striscia di provocazioni a Bruxelles, dalle spinte separatiste all’onorificenza a Putin, fino alla legge sugli ‘agenti stranieri’ di ispirazione russa, che rappresenta una sorta di ‘recidiva’ rispetto alla visita al Cremlino del 20 settembre dello scorso anno.
    Da sinistra: il presidente della Republika Srpska, Milorad Dodik, e l’autocrate russo, Vladimir Putin, al Cremlino il 23 maggio 2023 (credits: Alexey Filippov / Sputnik / Afp)
    “Noi pensiamo che la Federazione Russa, che con insistenza si è battuta per un suo quadro di sicurezza e che ha cercato di ottenere tali garanzie, sia stata semplicemente costretta all’operazione militare in Ucraina“, è quanto riporta il Cremlino in una trascrizione delle parole rivolte da Dodik a Putin, durante il colloquio andato in scena al Cremlino nella giornata di ieri (23 maggio). Proprio sulla guerra in Ucraina l’autocrate russo ha rivolto un ringraziamento al leader serbo-bosniaco per aver mantenuto una “posizione neutrale”, impendendo di fatto alla Bosnia ed Erzegovina di allinearsi alle posizioni dell’Ue e alle sanzioni internazionali contro la Russia.
    Proprio su questo punto Dodik si è lamentato con Putin del fatto che “la Repubblica Srpska è soggetta a pressioni da parte di partner occidentali che ci impediscono di svilupparci normalmente”. Nonostante ciò il commercio bilaterale tra l’entità serba in Bosnia e la Russia nel 2022 sarebbe aumentato del 57 per cento rispetto all’anno precedente, in particolare per quanto riguarda le forniture di gas: come la Serbia, anche la Bosnia ed Erzegovina (e di conseguenza la Republika Srpska) riceve gas dal colosso energetico russo Gazprom attraverso il gasdotto BalkanStream (prolungamento del TurkStream tra Russia e Turchia), che passa dalla Bulgaria. Nonostante Sofia non riceva più gas russo da oltre un anno per essersi rifiutata di pagarlo in rubli, non ha mai impedito il transito del flusso verso i due Paesi balcanici. Duro l’attacco da parte di Bruxelles, che ancora una volta ribadisce come “mantenere stretti legami con la Russia è incompatibile con il percorso dell’Ue“. Il portavoce del Servizio Europeo per l’Azione Esterna (Seae), Peter Stano, ha fatto leva su quanto messo in chiaro con tutti i Paesi candidati all’adesione all’Unione – come lo sono la Bosnia ed Erzeogovina e le sue due entità costitutive dal 15 dicembre dello scorso anno: “Le relazioni con la Russia non possono essere business as usual con Putin“.
    Distributore Gazprom in Bosnia ed Erzegovina
    Ecco perché l’Ue si aspetta dai partner che aspirano a fare ingresso nell’Unione “affidabilità per principi, valori, sicurezza e prosperità comuni”, come ricordato dall’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, lunedì (22 maggio) durante la riunione a Bruxelles con ministri degli Esteri di tutti i sei Paesi dei Balcani Occidentali (Albania, Bosnia ed Erzegovina, Kosovo, Macedonia del Nord, Montenegro e Serbia). Anche il commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi, al termine di una riunione a Sarajevo la settimana scorsa con la neo-premier bosniaca, Borjana Krišto, aveva condannato il possibile viaggio di Dodik a Mosca: “Gli alleati dell’Ue non vanno in Russia”. Sulla possibilità di imporre sanzioni contro Dodik o la Republika Srpska, fonti Ue rivelano a Eunews che esiste già da tempo un quadro di misure restrittive pronto per essere applicato, ma per qualsiasi atto concreto serve l’unanimità ed è l’Ungheria a non permettere il via libera. In altre parole, finché Viktor Orbán “gli coprirà le spalle”, Dodik non sarà inserito nella lista delle sanzioni dell’Unione Europea.
    Le provocazioni di Dodik a Bruxelles
    È dall’ottobre del 2021 – ben prima dell’inizio dell’invasione russa in Ucraina – che Dodik è diventato una spina nel fianco dell’Ue, facendosi promotore di un progetto secessionista in Republika Srpska. L’obiettivo è quello di sottrarsi dal controllo dello Stato centrale in settori fondamentali come l’esercito, il sistema fiscale e il sistema giudiziario, a più di 20 anni dalla fine della guerra etnica in Bosnia ed Erzegovina. Il Parlamento Europeo ha evocato sanzioni economiche (le stesse che le fonti precisano essere in stallo) e dopo la dura condanna dei tentativi secessionisti dell’entità a maggioranza serba in Bosnia (con un progetto di legge per l’istituzione di un Consiglio superiore della magistratura autonomo), a metà giugno del 2022 i leader bosniaci si sono radunati a Bruxelles per siglare una carta per la stabilità e la pace, incentrata soprattutto sulle riforme necessarie sul piano elettorale e costituzionale nel Paese balcanico.
    Da sinistra: il presidente della Republika Srpska, Milorad Dodik, e l’autocrate russo, Vladimir Putin, al Cremlino il 20 settembre 2022 (credits: Alexey Nikolsky)
    Alle provocazioni secessioniste si è affiancato dal 24 febbraio dello scorso anno il non-allineamento alla politica estera dell’Unione e alle sanzioni internazionali contro il Cremlino: insieme alla Serbia la Bosnia ed Erzegovina è l’unico Paese europeo a non aver adottato le misure restrittive Ue a causa dell’opposizione della componente serba della presidenza tripartita. Già il 20 settembre dello scorso anno Dodik aveva viaggiato a Mosca per un incontro bilaterale con Putin, dopo le provocazioni ai partner occidentali sull’annessione illegale da parte del Cremlino delle regioni ucraine Donetsk, Luhansk, Kherson e Zaporizhzhia. Provocazioni che sono continuate a inizio gennaio di quest’anno con il conferimento all’autocrate russo dell’Ordine della Republika Srpska (la più alta onorificenza dell’entità a maggioranza serba del Paese balcanico) – come riconoscimento della “preoccupazione patriottica e l’amore” nei confronti delle istanze di Banja Luka – in occasione della Giornata nazionale della Republika Srpska, festività incostituzionale secondo l’ordinamento bosniaco.
    Parallelamente sono continuati i tentativi di imporre un sistema di controllo sui media e la libertà di stampa che ricorda molto da vicino quello russo. A fine marzo l’Assemblea nazionale della Repubblica Srpska ha votato a favore di emendamenti al Codice Penale che reintroducono sanzioni penali per la diffamazione. Il 22 maggio sono scaduti i 60 giorni di consultazione pubblica per l’entrata in vigore degli emendamenti. Allo stesso tempo il governo dell’entità serba della Bosnia ed Erzegovina ha presentato un progetto di legge per istituire un registro di associazioni e fondazioni finanziate dall’estero: il modello è simile a quello adottato a Mosca dal primo dicembre dello scorso anno, che ha ampliato l’utilizzo politico dell’etichetta ‘agente straniero’ già utilizzata dal 2012 per colpire media indipendenti e Ong.

    Il presidente della Republika Srpska, l’entità a maggioranza serba della Bosnia ed Erzegovina, è tornato il primo leader europeo a incontrare a Mosca l’autocrate russo. Fonti Ue riportano a Eunews che a ostacolare l’imposizione di un regime di sanzioni è il veto dell’Ungheria di Viktor Orbán

  • in

    Inizia una nuova era per il Montenegro. Bruxelles indica al nuovo presidente Milatović il lavoro sulle riforme verso l’Ue

    Bruxelles – Il Paese più avanzato sul cammino verso l’adesione all’Unione Europea è entrato in una nuova era politica. Per la prima volta in 32 anni il Montenegro non è né governato né presieduto da Milo Đukanović, padre-padrone dello Stato balcanico prima e dopo l’indipendenza nazionale nel 2006. Dopo il primo turno di due settimane fa, che già aveva indicato l’alta probabilità di un cambio di guardia a Podgorica, il ballottaggio di ieri (2 aprile) ha sancito la vittoria di Jakov Milatović, che diventerà il nuovo presidente del Montenegro a partire dal prossimo 23 maggio.
    Il nuovo presidente del Montenegro, Jakov Milatović (credits: Savo Prelevic / Afp)
    “Entro i prossimi cinque anni porteremo il Montenegro nell’Unione Europea“, ha esultato il neo-presidente dopo la pubblicazione dei risultati del secondo turno di voto, che lo ha visto trionfare con il 60 per cento delle preferenze sullo sfidante ed ex-presidente Đukanović e il 70 per cento di affluenza al voto. Filtra ottimismo anche a Bruxelles, dove il commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi, ha subito commentato la vittoria di Milatović: “Congratulazioni al nuovo presidente, non vedo l’ora di iniziare il lavoro per accelerare le riforme necessarie sul percorso del Montenegro verso l’Ue”.
    Parlando alla stampa europea, il portavoce della Commissione Ue responsabile per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Peter Stano, ha sottolineato che l’esecutivo comunitario è pronto a lavorare con Milatović e “tutti gli attori politici per aiutare il Paese a rimanere saldo nel percorso di adesione Ue e costruire il consenso sull’implementazione delle riforme sullo Stato di diritto e sulla giustizia“. Il supporto di Bruxelles è motivato dal fatto che l’adesione all’Unione è sostenuta dalla “maggioranza schiacciante della popolazione montenegrina” e in questo contesto “la stabilità politica nel Paese è chiave per continuare il percorso” per diventare il 28esimo Stato membro Ue.
    Chi è il nuovo presidente del Montenegro
    L’economista 36enne, che aveva solo cinque anni quando Đukanović salì al potere nel 1991 come primo ministro della Repubblica di Montenegro (allora parte della Repubblica Federale di Jugoslavia), è un personaggio relativamente noto a livello nazionale. Dopo aver lavorato per il gruppo bancario e finanziario sloveno Nlb Group a Podgorica e per Deutsche Bank a Francoforte, nel 2014 è entrato nel team di analisi economica e politica della Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo (Bers) e dal 4 dicembre 2020 al 28 aprile 2022 è stato ministro dell’Economia e dello Sviluppo economico nella grande coalizione anti-Đukanović guidata da Zdravko Krivokapić. Durante l’anno e mezzo di governo Milatović ha presentato insieme al ministro delle Finanze, Milojko Spajić, un programma di riforme economiche intitolato proprio ‘Europe Now’, che comprendeva misure come il taglio dei contributi sanitari e l’aumento del salario minimo a 450 euro.
    I due tecnocrati hanno annunciato la volontà di fondare un nuovo partito di centro-destra liberale, anti-corruzione ed europeista dopo la caduta del governo Krivokapić nel febbraio 2022 – poi effettivamente fondato il 26 giugno – anticipando l’intenzione di collaborare con altre formazioni civiche e di centro, come la coalizione moderata di ‘La pace è la nostra nazione’ (guidata da Montenegro Democratico) e la piattaforma civica ‘Nero su bianco’ dominata dal Movimento Civico Azione Riformista Unita (Ura) del premier dimissionario, Dritan Abazović. Alle amministrative di ottobre nella capitale Podgorica Milatović ha corso come candidato sindaco per Europe Now, piazzandosi al secondo posto. Dopo la squalifica di Spajić da parte della commissione elettorale centrale per il possesso di cittadinanza serba – vietata dalla legge montenegrina per chi vuole correre per la presidenza della Repubblica – si è candidato come sfidante di Đukanović alla prima carica del Paese.
    Festeggiamenti di elettrici filo-serbe in Montenegro dopo la vittoria di Jakov Milatović alle presidenziali del 2 aprile 2023 (credits: Savo Prelevic / Afp)
    “Sarò il presidente di tutti i cittadini, guiderò il Paese verso l’integrazione europea e promuoverò il recupero morale e sociale del Montenegro, depoliticizzando e rafforzando le istituzioni”, ha promesso Milatović. Il nuovo presidente è anche favorevole a relazioni più strette con la vicina Serbia (nonostante nel 2006 abbia votato a favore dell’indipendenza da Belgrado) e non a caso è stato sostenuto esplicitamente dai candidati dei partiti più rappresentati in Parlamento sconfitti al primo turno, sia il leader del partito nazionalista filo-serbo Fronte Democratico, Andrija Mandić, sia quello del partito populista conservatore Montenegro Democratico, Aleksa Bečić. Anche se si tratta della questione più delicata sulla scena politica montenegrina – il co-fondatore di Europe Now Spajić ha svolto attività di lobbying negli Stati Uniti a favore degli interessi della Chiesa serbo-ortodossa nel Paese – le tendenze filo-serbe non necessariamente sono contrarie alla visione europeista delle relazioni internazionali e il processo di adesione all’Ue del Paese balcanico iniziato nel 2012 e ribadito con una nuova iniziativa balcanica non dovrebbe subire contraccolpi.
    La situazione politica in Montenegro
    Per la prima volta in 32 anni sulla scena politica nazionale Đukanović non rivestirà alcun ruolo. Il leader del Partito Democratico dei Socialisti (Dps) è stato premier dal 1991 al 1998 e poi di nuovo dal 2003 al 2006, dal 2008 al 2010 e dal 2012 al 2016, portando anche all’adesione del Montenegro alla Nato (formalmente dal 5 giugno 2017). Tra il 1998 e il 2003 e dal 2018 a oggi ha rivestito il ruolo presidente, in un periodo cruciale per il passaggio della Repubblica da federata con la Serbia a indipendente. I rivali di Đukanović accusano il quasi ex-presidente e il suo partito di corruzione e di legami con la criminalità organizzata, ma anche di aver politicizzato le istituzioni nazionali, con particolare riferimento alla crisi istituzionale aggravatasi negli ultimi mesi dello scorso anno.
    L’ex-presidente del Montenegro, Milo Đukanović, e la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen
    Tutto è legato alla legge sugli obblighi del presidente nella nomina dell’esecutivo, che permetterebbe ai parlamentari di firmare una petizione per la designazione di un primo ministro (con il supporto della maggioranza assoluta, cioè 41), nel caso in cui il presidente si rifiutasse di proporre un candidato. In caso di assenza della maggioranza, lo stesso presidente avrebbe l’obbligo di organizzare un secondo giro di consultazioni con i partiti e proporre un candidato. Al contrario, secondo la Costituzione del Montenegro il presidente ha solo il dovere di organizzare le consultazioni e proporre un premier designato con il sostegno firmato di almeno 41 parlamentari entro un massimo di 30 giorni. Dopo il primo via libera di inizio novembre la tensione è aumentata esponenzialmente fino al voto decisivo di un mese più tardi. Il problema è stata la parallela vacanza di quattro membri (su sette) della Corte Costituzionale, l’unico organismo istituzionale che può valutare nel merito la legge contestata. Dopo mesi di vacanza e di richiami internazionali, lo scorso 27 febbraio l’Assemblea del Montenegro è riuscita a eleggere tre giudici della Corte Costituzionale vacanti (manca ancora il quarto), condizione di base per ripristinare la piena funzionalità dell’istituzione montenegrina.
    Dopo il rifiuto a nominare un nuovo primo ministro, lo scorso 16 marzo Đukanović ha sciolto il Parlamento e ha indetto nuove elezioni anticipate per l’11 giugno. Il risultato delle presidenziali potrebbe ora mettere ancora più in crisi il Partito Democratico dei Socialisti, che ha perso ieri l’ultima leva di potere che ancora deteneva. Dopo il risultato fallimentare delle elezioni politiche dell’agosto 2020 i socialisti hanno perso anche il controllo delle due città più grandi del Paese, Podgorica e Nikšić, alle amministrative dello scorso autunno e dal prossimo 23 maggio non esprimeranno più nemmeno la presidenza della Repubblica. La nuova era per il Montenegro è già iniziata, e il ritorno al voto anticipato per il rinnovo del Parlamento potrebbe essere l’ultima occasione per il padre-padrone della nazione di mantenere ancora la presa sul Paese.

    Il 36enne fondatore di Europe Now è stato eletto leader del Paese balcanico, mettendo fine al potere trentennale del socialista Milo Đukanović. Il sostegno dei partiti filo-serbi non sembra preoccupare la Commissione Ue, considerato il posizionamento europeista del partito

  • in

    Ancora provocazioni della Republika Srpska all’Ue. Sanzioni penali per diffamazione “raggelanti” sulla libertà dei media

    Bruxelles – La solita settimana di ordinaria follia nella Republika Srpska, l’entità a maggioranza serba della Bosnia ed Erzegovina. Dopo l’onorificenza assegnata all’autocrate russo, Vladimir Putin, a inizio gennaio, a Banjka Luka viene presa a modello proprio la limitazione di Mosca alle libertà della stampa e dei media – nazionali e internazionali – con una serie di iniziative legislative chiaramente provocatorie nei confronti dei partner dell’Unione Europea, che da pochi mesi hanno garantito al Paese balcanico lo status di candidato all’adesione.
    “L’Unione Europea si rammarica che l’Assemblea nazionale della Repubblica Srpska abbia votato a favore di emendamenti al Codice Penale che reintroducono sanzioni penali per la diffamazione“, si legge in una nota particolarmente dura del Servizio europeo per l’azione esterna (Seae), ripresa poi dal commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi. Modifiche legislative che “imporrebbero restrizioni inutili e sproporzionate ai media indipendenti e alla società civile”, è la denuncia di Bruxelles contro “un chiaro passo nella direzione sbagliata”, che ha “un effetto raggelante sulla libertà dei media nella Republika Srpska”. Ma non solo: “Mette in discussione l’impegno strategico dei partiti al potere” nell’entità a maggioranza serba “per l’adesione della Bosnia ed Erzegovina all’Unione Europea”.
    Dopo l’adozione degli emendamenti con 48 voti a favore e 21 contrari, l’adozione definitiva della legge avverrà a seguito di un periodo di consultazione pubblica di 60 giorni. Saranno previste multe da 5 mila a 20 mila marchi bosniaci (2.550-10.200 euro) se la diffamazione avviene “attraverso la stampa, la radio, la televisione o altri mezzi di informazione pubblica, durante un incontro pubblico o in altro modo”. Il 22 maggio scadranno i 60 giorni di consultazione pubblica e per le istituzioni comunitarie è prioritario che gli emendamenti vengano ritirati e sia garantita “piena protezione della libertà di espressione e dei media”.
    Il presupposto è che, nella concessione dello status di Paese candidato all’adesione Ue a metà dicembre dello scorso anno, il Consiglio Europeo aveva stabilito questo principio come uno dei passi da compiere in tutte le entità della Bosnia ed Erzegovina, senza il quale non potranno essere avviati i negoziati di adesione. Al contrario, se la legge entrerà in vigore, “significherà un deplorevole e innegabile passo indietro nella tutela dei diritti fondamentali” e, per quanto riguarda il cammino del Paese verso l’Ue, “avrà un forte impatto sull’ambiente della società civile” e “sulla libertà di espressione e dei media”, rispettivamente i punti 11 e 12 delle 14 priorità-chiave della Bosnia ed Erzegovina.
    La legge sugli ‘agenti stranieri’ nella Republika Srpska
    I progetti politici nella Republika Srpska guidata da Milorad Dodik sembrano però andare in tutt’altra direzione. Nella seduta di giovedì scorso (23 marzo), il governo dell’entità serba della Bosnia ed Erzegovina ha presentato un progetto di legge per istituire un registro di associazioni e fondazioni finanziate dall’estero. Nel comunicato pubblicato al termine della seduta, il governo presieduto da Radovan Višković ha reso noto che lo scopo è quello di regolamentare per legge “l’area della pubblicità del lavoro delle organizzazioni non profit, le loro attività politiche, la pubblicazione dei rapporti finanziari, la tenuta dei libri contabili, così come la supervisione della legalità del lavoro e altre disposizioni sul lavoro”. Secondo le autorità di Banja Luka l’assenza di questa legislazione “ha creato i presupposti per il collasso del sistema giuridico e dell’assetto costituzionale della Repubblica Srpska“.
    Cioè che temono le associazione della società civile è che si stia replicando un modello già visto in Russia nell’ultimo decennio. Il progetto di legge ha tratti simili a quello adottato a Mosca dal primo dicembre dello scorso anno, che ha ampliato l’utilizzo politico dell’etichetta ‘agente straniero’ già utilizzata dal 2012 per colpire media indipendenti e Ong. Un’azione simile del governo della Georgia ha scatenato a inizio marzo una durissima reazione della stessa popolazione georgiana, che ha poi costretto il partito al potere a ritirare un progetto di legge in contrasto con i valori dell’Unione Europea sulla libertà di espressione e dei media (anche se, a differenza della Bosnia ed Erzegovina, il Paese del Caucaso meridionale non ha ancora ricevuto lo status di candidato all’adesione Ue). Il rischio è che lo stesso possa replicarsi nei Balcani Occidentali – con l’incertezza di una reazione di piazza – in un Paese dall’instabilità acclarata e in un’entità che non smette di creare problemi ai partner europei.

    Le istituzioni comunitarie attaccano l’Assemblea dell’entità a maggioranza serba in Bosnia ed Erzegovina per gli emendamenti liberticidi al Codice Penale: “Mette in discussione l’adesione del Paese all’Unione”. Ma all’orizzonte c’è anche una legge filo-russa sugli ‘agenti stranieri’

  • in

    Il partito di governo in Georgia ritirerà il progetto di legge sugli agenti stranieri dopo due giorni di proteste

    Bruxelles – Dopo due giorni di proteste e manifestazioni di piazza da parte di decine di migliaia di cittadini, la Georgia sta vivendo la sua Maidan. Come l’Ucraina nel 2014, i georgiani si sono opposti con la forza delle proprie speranze europeiste e con le bandiere dell’Unione Europea a un progetto di legge dai tratti spiccatamente filo-russi. E i risultati si stanno vedendo, con l’annuncio – ancora non formalizzato con un passaggio legale – da parte del partito al governo Sogno Georgiano sul ritiro del controverso progetto di legge sulla “trasparenza dell’influenza straniera”, approvato martedì (7 marzo) dal Parlamento in prima lettura.
    Le proteste dei manifestanti georgiani a Tbilisi contro il progetto di legge sulla “trasparenza dell’influenza straniera”, 7 marzo 2023 (credits: Afp)
    A rendere nota la decisione del governo guidato da Irakli Garibashvili è stato lo stesso partito Sogno Georgiano, con una nota pubblicata in risposta alla seconda serata di proteste davanti alla sede del Parlamento nazionale e all’attenzione dell’opinione pubblica internazionale sempre più marcata, in particolare nell’Unione a cui la Georgia ha chiesto formalmente di aderire il 4 marzo dello scorso anno. Il ritiro della legge “senza condizioni” si è reso necessario secondo il partito di governo per “senso di responsabilità” nei confronti della società georgiana, a fronte di una tensione interna in aumento. Gli esponenti del partito fondato e presieduto dall’oligarca Bidzina Ivanishvili – che compare nella risoluzione non vincolante del Parlamento Europeo sull’imposizione di sanzioni personali – si sono però lamentati del fatto che la proposta è stata etichettata “ingiustamente” come filo-russa e hanno ribadito che, non appena “l’emotività si sarà placata”, spiegheranno ai cittadini l’importanza della legge sulla trasparenza dei finanziamenti esteri.
    Scritte contro la Russia durante le proteste a Tbilisi (7 marzo 2023)
    In sostanza c’è stato l’annuncio di un passo indietro del governo, ma non uno sconfessamento della legge che prevede la registrazione di tutte le organizzazioni che ricevono più del 20 per cento dei loro finanziamenti dall’estero come ‘agente straniero’ (in modo sinistramente simile a quella in vigore in Russia dal primo dicembre dello scorso anno). Ed è per questo motivo che le opposizioni e la società civile georgiana hanno annunciato di voler proseguire le proteste – almeno fino a quando non saranno chiarite le modalità di ritiro del progetto di legge – mentre l’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, ha definito “un buon segno” la decisione del governo, ma “ora devono seguire passi legali concreti“. Lo stesso Borrell ha definito “forte e commoventi” le proteste pacifiche nella capitale Tbilisi: “I georgiani sono scesi in piazza per esprimere la loro aspirazione alla democrazia e ai valori europei”.
    Ad accogliere per prima il ritiro del progetto di legge è stata la delegazione Ue in Georgia, che ha incoraggiato “tutti i leader politici” a “riprendere le riforme europee, in modo inclusivo e costruttivo e in linea con le 12 priorità per ottenere lo status di candidato” all’adesione all’Unione Europea. Se alle parole seguiranno i fatti, “la Georgia può continuare a contare sul nostro sostegno nel suo percorso verso l’Ue”, ha promesso il commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Vàrhelyi.

    Georgians took the streets to express their aspiration for democracy and European values. These peaceful protest were strong and moving to see.
    Announcement to withdraw the draft law on “transparency of foreign influence” is a good sign, now concrete legal steps need to follow. pic.twitter.com/Zi4NJST6iZ
    — Josep Borrell Fontelles (@JosepBorrellF) March 9, 2023

    Il sostegno degli eurodeputati ai manifestanti in Georgia
    I più sensibili alle proteste dei cittadini georgiani sono stati i membri del Parlamento Europeo, in modo trasversale e in particolare nella delegazione italiana. “Una vittoria per la democrazia, le libertà e per l’Europa“, ha esultato il capo-delegazione del terzo polo, Nicola Danti (Italia Viva), “ma non è finita, dobbiamo continuare a sostenere chi vuole il percorso europeista senza abbassare la guardia”. Il collega del gruppo liberale ed ex-premier del Belgio, Guy Verhofstadt, ha sottolineato che le manifestazioni dimostrano “quanto le persone abbiano a cuore la democrazia liberale quando e dove è minacciata”.

    Wow.
    This is how much people really care about liberal democracy whenever and wherever it’s under threat. Full support to democratic Georgia ! 🇪🇺✊🏻 pic.twitter.com/988goSbH2Y
    — Guy Verhofstadt (@guyverhofstadt) March 9, 2023

    Dopo le parole di sostegno della vicepresidente del Parlamento Ue, Pina Picierno, dalle fila del Partito Democratico anche Camilla Laureti ha messo in evidenza come “la forza dell’Europa non sono astratti convegni e seminari”, ma “la forza dell’Europa è essere simbolo e pratica di libertà“, come dimostrano le immagini della donna che sventola in piazza a Tbilisi la bandiera con le dodici stelle su campo blu, non cedendo ai getti dei cannoni ad acqua. Il collega olandese del gruppo dell’Alleanza Progressista dei Socialisti e dei Democratici (S&D) al Parlamento Ue Thijs Reuten ha ribadito che “Georgia è Europa” e che “il popolo georgiano non potrebbe essere più chiaro: no alla legge russa”. Per questo motivo il gruppo S&D ha chiesto di inserire un dibattito alla sessione plenaria della settimana prossima sull’impatto della legge sugli agenti stranieri sulla prospettiva europea di Tbilisi, che sarà discussa nel pomeriggio di martedì (14 marzo) a Strasburgo.
    Dalle fila del gruppo dei Verdi/Ale Ignazio Corrao ha messo in guardia dal “disegno di Putin, il metodo è lo stesso”, come dimostrano le immagini da Tbilisi che “ci riportano indietro negli anni a quello che è successo in Ucraina“. Per questo motivo da Bruxelles arriva “sostegno e solidarietà al popolo georgiano che in questi giorni sta lottando in piazza per il suo futuro”.

    La forza dell’#Europa non sono astratti convegni e seminari.La forza dell’Europa è essere simbolo e pratica di #libertà #Georgia pic.twitter.com/ijKY72QhNf
    — Camilla Laureti (@camillalaureti1) March 9, 2023

    A Bruxelles accolta con favore la decisione di Sogno Georgiano di non dare seguito alla legge sulla ‘trasparenza dell’influenza straniera’, osteggiata dai manifestanti europeisti. L’alto rappresentante Ue Borrell: “È un buon segno, ora devono seguire passi legali concreti”

  • in

    La condanna a 15 anni di carcere per la leader bielorussa Tsikhanouskaya. L’Ue: “Il regime Lukashenko ne risponderà”

    Bruxelles – Il Paese delle condanne già scritte. A soli tre giorni dalla sentenza a 10 anni di carcere per il Premio Nobel per la Pace 2022, Ales Bialiatski, anche la presidente ad interim riconosciuta dall’Ue e leader delle forze democratiche in Bielorussia, Sviatlana Tsikhanouskaya, ha ricevuto la sua condanna – in contumacia – dal regime di Alexander Lukashenko. Quindici anni in prigione, se mai ritornerà nel Paese. O, sarebbe meglio dire, se lo farà mentre l’autoproclamato presidente bielorusso ancora sarà a capo della macchina di repressione dell’opposizione e della libertà di pensiero.
    La presidente ad interim riconosciuta dall’Ue e leader delle forze democratiche nel Paese, Sviatlana Tsikhanouskaya, con la foto del marito Siarhei Tsikhanouski (credits: John Thys / Afp)
    “Quindici anni di carcere, è così che il regime ha ‘premiato’ il mio lavoro per i cambiamenti democratici in Bielorussia“, è quanto rende noto la stessa Tsikhanouskaya da Vilnius (Lituania), città in cui vive da esule da quando è stata costretta a fuggire per non fare la fine dei quasi 1.500 oppositori in carcere per la partecipazione alle manifestazioni pacifiche e la richiesta di democrazia nel Paese. “Oggi non penso alla mia condanna, penso a migliaia di innocenti, detenuti e condannati a pene detentive reali”, ha incalzato la leader dell’opposizione, promettendo di non fermarsi “finché ognuno di loro non sarà rilasciato”. Il processo in contumacia a carico di Tsikhanouskaya era iniziato lo scorso 17 gennaio, con accuse di matrice politica – dall’alto tradimento alla creazione di un’organizzazione estremista. La pena massima prevista dal Codice penale bielorusso era di 15 anni di reclusione, che nel pomeriggio di ieri (6 marzo) è stata effettivamente inflitta alla leader che aveva corso per le elezioni presidenziali del 2020.
    “È una farsa che non ha niente a che fare con la giustizia“, era stato l’avvertimento di Tsikhanouskaya durante la sessione plenaria del Comitato Economico e Sociale Europeo (Cese) dello scorso 22 febbraio. A Minsk è stata modificata la legislazione sulla cittadinanza del 2002 con la possibilità di privare della cittadinanza i bielorussi all’estero condannati per reati di “partecipazione a un’organizzazione estremista” o “grave danno agli interessi della Bielorussia”, anche in assenza dell’imputato a processo. A questo si aggiunge il fatto che il marito della leader dell’opposizione, Siarhei Tsikhanouski – già condannato a 18 anni di reclusione dopo essere stato imprigionato il 29 maggio del 2020 con l’obiettivo di impedirgli di partecipare alle elezioni presidenziali – ha ricevuto un’ulteriore inasprimento della condanna di un anno e mezzo lunedì scorso (27 febbraio): “Vogliono spezzarlo e fare pressione su di me, ma non ce la faranno”.

    15 years of prison.
    This is how the regime “rewarded” my work for democratic changes in Belarus.
    But today I don’t think about my own sentence. I think about thousands of innocents, detained & sentenced to real prison terms.
    I won’t stop until each of them is released. pic.twitter.com/9kQREV0sgl
    — Sviatlana Tsikhanouskaya (@Tsihanouskaya) March 6, 2023

    Le istituzioni Ue contro la Bielorussia di Lukashenko
    Da sinistra: la presidente ad interim riconosciuta dall’Ue e leader delle forze democratiche nel Paese, Sviatlana Tsikhanouskaya, e la presidente del Parlamento Europeo, Roberta Metsola (26 maggio 2022)
    “Prima hanno imprigionato il marito, poi hanno arrestato lei, ora la condannano a 15 anni di carcere in contumacia”, è l’attacco della presidente del Parlamento Ue, Roberta Metsola, al regime di Lukashenko, che “sarà chiamato a risponderne”. Tsihanouskaya “sta pagando le conseguenze della sua lotta per la libertà e la democrazia“, ha incalzato Metsola, che ha promesso di portare avanti “la nostra spinta per una Bielorussia libera”. Da parte della Commissione Ue è stato il titolare per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi, a condannare l’ennesimo “deplorevole segno di come funziona il regime di Lukashenko”, mentre “il popolo bielorusso sa che la libertà prevarrà”.
    Al momento un totale di 195 persone e 35 entità è interessato dalle sanzioni dell’Ue – compreso lo stesso Lukasehnko e il figlio Viktor, consigliere per la Sicurezza Nazionale – sia per la repressione delle manifestazioni pacifiche dopo l’esito truccato delle elezioni presidenziali dell’agosto 2020, sia per la partecipazione ormai attiva all’aggressione armata della Russia all’Ucraina. Da mesi gli eurodeputati chiedono all’esecutivo comunitario di inasprire il regime di misure restrittive contro Lukashenko e la sua cerchia, adeguandolo a quello applicato al regime di Putin. Al momento non ci sono novità dal Berlaymont rispetto alle anticipazioni di metà gennaio della presidente Ursula von der Leyen: “Presenteremo presto una nuova tornata di sanzioni contro la Bielorussia”.

    Comminata la pena massima alla presidente ad interim riconosciuta dall’Ue per capi d’imputazione che vanno dall’alto tradimento alla creazione di un’organizzazione estremista: “È così che il regime ha ‘premiato’ il mio lavoro per i cambiamenti democratici in Bielorussia”

  • in

    Le istituzioni Ue ad Ankara per discutere con le autorità turche sull’organizzazione della Conferenza dei donatori

    Bruxelles – Ad Ankara, per impostare sul campo le direttrici principali dello sforzo di solidarietà internazionale a sostegno delle popolazioni di Turchia e Siria colpite dalle scosse di terremoto in un febbraio devastante. Il commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi, e il ministro svedese per la Cooperazione internazionale allo sviluppo e presidente di turno del Consiglio dell’Ue, Johan Forssell, hanno viaggiato oggi (22 febbraio) nella capitale turca per una serie di incontri con i membri dell’esecutivo di Recep Tayyip Erdoğan, con l’obiettivo di preparare con coerenza la Conferenza internazionale dei donatori in programma il prossimo 16 marzo a Bruxelles.
    Il commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi, e il ministro svedese per la Cooperazione internazionale allo sviluppo e presidente di turno del Consiglio dell’Ue, Johan Forssell, a confronto con i membri del governo della Turchia ad Ankara (23 febbraio 2023)
    “Siamo tutti scioccati dall’orrore che la Turchia sta attraversando, siamo qui per aiutare, perché siamo amici e alleati”, ha messo in chiaro il commissario Várhelyi, parlando alla stampa al termine degli incontri guidati dal ministro degli Esteri turco, Mevlüt Çavuşoğlu: “La nostra generazione non ha mai visto una distruzione del genere, la situazione è peggiore di quanto pensassimo” e per questo motivo “dobbiamo aiutare il popolo turco e siriano in questa tragedia”. Sul breve termine Bruxelles si è già mobilitata dal primo giorno attraverso il Meccanismo di protezione civile dell’Ue: “Ventuno Stati membri hanno inviato in Turchia team di ricerca e soccorso, un aereo per l’evacuazione medica e squadre mediche, mentre in 18 hanno fornito alloggi ed attrezzatura medica”. A ciò si aggiungono i 5,5 milioni di euro in aiuti umanitari, che però sono “solo la prima risposta immediata a chi soffre ogni giorno”, ha confermato il commissario Várhelyi.
    I due rappresentanti delle istituzioni comunitarie si sono detti d’accordo che è necessario “fare significativamente di più per alleviare le sofferenze causate dal terremoto” e, da quanto emerge dalle parole del commissario ungherese, questo “richiederà operazioni di ricostruzione enormi, che forse non abbiamo mai visto prima”. Per questo motivo è iniziato ad Ankara il confronto con i vari ministeri coinvolti. Con il titolare dell’Industria e della tecnologia, Mustafa Varank, è stato discusso di sostegno per le piccole e medie imprese e il settore privato, “compresa l’economia verde”, gli sforzi per affrontare l’assistenza e i soccorsi di emergenza e piani per la ricostruzione. Con il ministro delle Finanze, Nureddin Nebati, è stata affrontata la situazione macroeconomica e finanziaria post-terremoto e la valutazione dei “bisogni post-catastrofe”, con un occhio rivolto alle “possibili collaborazioni per la Conferenza dei donatori”. Come confermato dal ministro Forssell, “gli incontri di oggi sono stati fondamentali per l’organizzazione” della riunione di alto livello del 16 marzo.
    Adana, Turchia (credits: Can Erok / Afp)
    A proposito della Conferenza dei donatori che si svolgerà a Bruxelles, il ministro svedese ha confermato che “sarà uno dei molti modi per l’Ue di manifestare l’ulteriore supporto” alle popolazioni di Turchia e Siria e che “è in cima alle priorità dell’agenda della presidenza svedese“. La decisione di mobilitare la comunità internazionale è stata presa a Stoccolma “nei primi giorni dopo il sisma e la Commissione Europea ha risposto subito positivamente” durante la conversazione telefonica tra il premier svedese, Ulf Kristersson, e la presidente dell’esecutivo Ue, Ursula von der Leyen, ha precisato Forssell.
    Tutti i Ventisette e i Paesi vicini, membri e agenzie delle Nazioni Unite, istituzioni finanziarie internazionali e altre parti interessate saranno invitati una conferenza “non solo necessaria, ma anche utile, oggi abbiamo discusso su come svilupparla al meglio”, gli ha fatto eco il commissario Várhelyi. Attraverso la mobilitazione internazionale per i bisogni immediati e la ricostruzione “non potremo coprire tutto, ma almeno una parte significativa” e l’Unione non diminuirà il suo impegno: “Siamo pronti a fare tutto ciò che in nostro potere per ricostruire nuove case, ospedali, scuole e perché la vita normale possa tornare” nelle zone colpite dal sisma, ha concluso il commissario Várhelyi, con una promessa ad Ankara: “Richiederà tempo e sarà costoso, ma ci muoveremo velocemente e in modo flessibile per iniziare il lavoro sul campo”.

    Il commissario per la Politica di vicinato, Olivér Várhelyi, e il ministro svedese per la Cooperazione internazionale allo sviluppo, Johan Forssell, hanno ascoltato le richieste per la ricostruzione delle aree colpite dal terremoto in vista della riunione di alto livello a Bruxelles il 16 marzo

  • in

    L’Ue è pronta a dispiegare gli agenti Frontex anche lungo le frontiere interne dei Balcani Occidentali

    Bruxelles – Dopo i visti, Frontex. Non bastava l’aver alzato la voce sull’allineamento dei Paesi balcanici alla politica dei visti dell’Ue per tentare di frenare l’arrivo di persone migranti dirette verso l’Unione. Alla vigilia dell’inizio del viaggio della presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, nelle sei capitali dei Balcani Occidentali, l’esecutivo comunitario ha adottato una raccomandazione al Consiglio per autorizzare l’avvio dei negoziati per il potenziamento degli accordi sullo status dell’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera (Frontex) con Albania, Bosnia ed Erzegovina, Montenegro e Serbia,
    In altre parole, con la nuova proposta di quadro giuridico, sarà possibile dispiegare i corpi permanenti di Frontex nella regione, non più solo alle frontiere esterne dell’Ue ma anche alle frontiere interne tra Paesi terzi, garantendo loro poteri esecutivi. A oggi, il dispiegamento degli agenti può avvenire solo alle frontiere degli Stati membri dell’Unione (e senza poteri esecutivi). “I nuovi accordi sullo status sosterranno e rafforzeranno meglio la cooperazione sulla gestione delle frontiere nei Balcani Occidentali”, si legge nel comunicato dell’esecutivo comunitario. La presenza potenziata di Frontex “rafforzerà la capacità dei partner nella gestione della migrazione, nella lotta al contrabbando e nel garantire la sicurezza” lungo le frontiere.
    Gli accordi sullo status di Frontex nell’ambito del precedente mandato dell’Agenzia europea sono stati conclusi con l’Albania nell’ottobre 2018, con il Montenegro nell’ottobre 2019 e con la Serbia un mese più tardi, mentre dal 2017 è in stallo quello con la Bosnia ed Erzegovina, mai firmato dal momento dell’entrata in vigore del regolamento Frontex rivisto. Le raccomandazioni della Commissione dovranno essere adottate dal Consiglio dell’Ue, per autorizzare lo stesso esecutivo ad avviare i negoziati con Tirana, Podgorica, Belgrado e Sarajevo. Questa sera (26 ottobre) invece sarà firmato dalla presidente von der Leyen a Skopje un secondo accordo con la Macedonia del Nord, che permetterà all’Agenzia Ue di dispiegare squadre di gestione delle frontiere, in particolare lungo il confine meridionale con la Grecia.
    “Siamo impegnati a sostenere i nostri partner nei Balcani occidentali e a rafforzare la nostra cooperazione sulla gestione della migrazione in loco“, ha commentato la proposta sul rafforzamento di Frontex nella regione la commissaria per gli Affari interni, Ylva Johansson, puntualizzando la necessità che “le loro frontiere continuino a essere rispettate e protette in linea con le migliori pratiche europee”. Il commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi, ha invece insistito sull’importanza del nuovo pacchetto di assistenza fa 39,2 milioni di euro nell’ambito dello strumento di assistenza pre-adesione (IPA III) per rafforzare la gestione delle frontiere nei Balcani Occidentali: “Intendiamo aumentare i nostri finanziamenti del 60 per cento in totale, fino a raggiungere almeno 350 milioni di euro“.
    Oltre al sostegno di Frontex, i finanziamenti di Bruxelles – arrivati oggi a 171,7 milioni di euro – dovrebbero “sostenere lo sviluppo di sistemi efficaci di gestione della migrazione, tra cui l’asilo e l’accoglienza, la sicurezza delle frontiere e i rimpatri”, ha precisato Várhelyi. In verità serviranno principalmente per l’acquisto di attrezzature specializzate, come sistemi di sorveglianza mobile, droni, dispositivi biometrici, formazione e sostegno ai Centri nazionali di coordinamento e creazione di strutture per “accoglienza e detenzione”, è quanto comunica l’esecutivo Ue.

    La Commissione ha raccomandato al Consiglio autorizzare l’avvio dei negoziati per potenziare gli accordi sullo status dell’Agenzia con Albania, Serbia, Montenegro e Bosnia ed Erzegovina. A oggi i corpi permanenti possono operare (senza poteri esecutivi) solo lungo i confini dei Paesi Ue