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    Borrell: per molti Stati Ue la decisione di firmare il memorandum con la Tunisia è “incomprensibile”

    Bruxelles – Alcuni  Stati membri dell’Ue hanno espresso “incomprensione” per la scelta della presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, di stringere un patto sulle migrazioni con la Tunisia.
    Queste osservazioni sono state espresse all’Alto rappresentate per la Politica Estera Josep Borrell sia a voce sia per iscritto, spiega lui stesso in una lettera datata 7 settembre e visionata dal Guardian.
    “Come sai… a luglio, diversi Stati membri hanno espresso la loro incomprensione riguardo all’azione unilaterale della Commissione per la conclusione di questo [memorandum] e le loro preoccupazioni riguardo ad alcuni dei suoi contenuti“, ha scritto Borrell in una lettera a Olivér Várhelyi, il commissario europeo per le Politiche di Vicinato. “Dopo la riunione del Consiglio Affari Esteri del 20 luglio – insiste Borrell – alcuni Stati membri ti hanno comunicato queste preoccupazioni con procedura scritta”.
    Il patto, firmato a luglio con la Tunisia dalla Von der Leyen, dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni, e dal primo ministro olandese, Mark Rutte, mira ad arginare la migrazione verso l’Europa dalla Tunisia, una delle rotte più battute per i trafficanti di esseri umani, dopo che la Libia era diventata troppo pericolosa anche per le bande criminali organizzate, ricorda il quotidiano britannico.
    Borrell ricorda al collega che i ministri degli Affari Esteri hanno “osservato che la Commissione non ha seguito le fasi corrette della procedura di adozione”, non ha cioè portato il testo all’approvazione preventiva dei governi di tutti i Ventisette, e che quindi il memorandum d’intesa non può essere “considerato un modello valido per accordi futuri”.
    In quella che il Guardian definisce “una bordata contro Meloni e Rutte”, Borrell ha scritto che “la partecipazione ai negoziati e alla cerimonia di firma di un numero limitato di capi di governo dell’Ue non compensa l’equilibrio istituzionale tra il Consiglio e la Commissione”.

    L’alto rappresentante per la Politica estera dell’Unione lo sottolinea in una lettera (inviata dieci giorni prima della visita di von der Leyen ieri a Lampedusa) al collega responsabile per le Politiche di vicinato Olivér Várhelyi

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    Il dialogo Pristina-Belgrado è incagliato sull’Associazione delle municipalità a maggioranza serba in Kosovo

    Bruxelles – Un compromesso fallito, almeno per il momento. Perché la partita a scacchi che l’Ue sta giocando contemporaneamente con il Kosovo e con la Serbia – complessa, lunga e a tratti estenuante – va impostata sulla costanza e sull’uso bilanciato di promesse, minacce e ricompense, accettando qualche passo falso. Ma abbandonare il tavolo non è possibile, o si rischia di abbandonare a se stessa una regione in cui solo 25 anni fa è andato in scena uno dei conflitti etnici più violenti della recente storia europea. “Il tempo sta scadendo e alla fine quelli che soffrono di più per l’incapacità dei loro leader di rispettare la parola data sono proprio i cittadini” di Serbia e Kosovo, è il duro commento dell’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, al termine dell’ultimo round di alto livello del dialogo Pristina-Belgrado: “È una cosa particolarmente grave in un momento, poi, in cui l’Ue procede verso l’allargamento ed entrambi i leader dichiarano di voler essere membri dell’Unione, Serbia e Kosovo rischiano di essere lasciati indietro“.
    È questo il riassunto di una giornata di colloqui complessi oggi (14 settembre) a Bruxelles – alla presenza del presidente serbo, Aleksandar Vučić, e del primo ministro kosovaro, Albin Kurti – con il focus sull’implementazione dell’accordo per la normalizzazione dei rapporti tra i due Paese balcanici, dopo l’ultimo incontro di quasi tre mesi fa occupato dalla crisi nel nord del Kosovo. “È da un anno che abbiamo iniziato le discussioni e sei mesi da quando le abbiamo finalizzate”, ha ricordato Borrell, con riferimento all’accordo di Bruxelles del 27 febbraio (che ha definito gli impegni specifici per Serbia e Kosovo) e l’intesa sull’allegato di implementazione raggiunta a Ohrid il 18 marzo. A oggi “solo tre elementi sono stati affrontati“, ovvero la dichiarazione sulle persone scomparse, l’annuncio sul comitato di monitoraggio congiunto e la presentazione della bozza sull’Associazione delle municipalità a maggioranza serba in Kosovo. Ma è proprio questo il punto su cui è ancora incagliato il dialogo Pristina-Belgrado: l’Accordo di Bruxelles del 2013 mai implementato sulla comunità nel Paese a cui dovrebbe essere garantita autonomia su tutta una serie di materie amministrative. L’implementazione del “punto più sostanziale” dell’intesa raggiunta tra febbraio e marzo “non è ancora iniziata e parla chiaro sull’impegno delle parti per normalizzare le relazioni, o meglio sull’assenza di impegno“, è il duro commento dell’alto rappresentante Borrell: “L’assenza di azione è una violazione dei rispettivi obblighi e promesse”.
    Da sinistra: l’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, e il primo ministro del Kosovo, Albin Kurti (14 settembre 2023)
    L’istituzione dell’Associazione delle municipalità a maggioranza serba in Kosovo “è un vecchio obbligo per le parti ed é sempre stato un elemento-chiave per il processo di normalizzazione delle relazioni”. Il fallimento di oggi è legato ai “ripetuti sforzi per un compromesso”, rispetto a due interlocutori “partiti dagli estremi opposti”. Il presidente serbo “vuole l’istituzione dell’Associazione prima di impegnarsi nei suoi obblighi”, mentre il premier kosovaro “parte prima dagli aspetti politici”, ovvero la “formalizzazione del riconoscimento de facto” della sovranità del suo Paese (che ha dichiarato l’indipendenza unilaterale da Belgrado nel 2008). È per questo motivo che l’alto rappresentante Borrell e il rappresentante speciale per il dialogo Pristina-Belgrado, Miroslav Lajčák, hanno proposto “quello che consideriamo l’unico e migliore compromesso possibile a oggi” secondo Bruxelles e i partner statunitensi: un processo che permetta di “portare avanti le due istanze in parallelo”. Do ut des, senza progressi da una parte non si procede dall’altra. Mentre il presidente Vučić “ha accettato la proposta” – anche se arrivato a Bruxelles con una sua – “sfortunatamente dopo un lungo incontro il premier Kurti non era pronto per procedere“, ha spiegato Borrell: “Abbiamo provato con forza, ma non siamo riusciti a superare le differenze”.
    Da sinistra: l’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, e il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić (14 settembre 2023)
    Tutto questo ha un impatto concreto sul campo. “Non c’è stato nessun progresso sulle tensioni nel nord del Kosovo“, ha tagliato corto l’alto rappresentante Ue, ribadendo che “entrambe le parti devono prendere misure decise per evitare un’ulteriore escalation e permettere che nuove elezioni locali si svolgano immediatamente”. Proprio sulle controverse elezioni in quattro comuni – Zubin Potok, Zvečan, Leposavić e Kosovska Mitrovica – si è soffermato il capo della diplomazia comunitaria: “Non possiamo rimanere seduti ad aspettare un’altra crisi, le nuove elezioni possono passare sia dalle dimissioni dei sindaci sia dalla raccolta di firme da parte dei cittadini“. Mentre il governo di Pristina si sta indirizzando verso la seconda via – “più lenta e non certa” – da Bruxelles l’indicazione è chiara: “Le dimissioni sono il modo più rapido e migliore per permettere nuove elezioni”. Allo stesso tempo “i cittadini serbo-kosovari devono mostrare uno spirito costruttivo e impegnarsi in modo incondizionato al processo elettorale“, ovvero – rispetto a quanto accaduto ad aprile – “devono partecipare, altrimenti quanto fatto sarebbe senza scopo”. Il rischio di uno slittamento dell’appuntamento elettorale ripetuto è “una nuova escalation che continuerà a incombere” sulla delicatissima partita a scacchi dell’Ue con la Serbia e con il Kosovo.
    Le tensioni tra Serbia e Kosovo
    Il circolo di tensione non ancora risolto tra i due Paesi è iniziato lo scorso 26 maggio, con lo scoppio di violentissime proteste nel nord del Kosovo da parte della minoranza serba a causa dell’insediamento dei neo-eletti sindaci di Zubin Potok, Zvečan, Leposavić e Kosovska Mitrovica. Proteste che si sono trasformate il 29 maggio in una guerriglia che ha coinvolto anche i soldati della missione internazionale Kfor a guida Nato (30 sono rimasti feriti, di cui 11 italiani). Una situazione deflagrata dalla decisione del governo Kurti di forzare la mano e far intervenire le forze speciali di polizia per permettere l’ingresso nei municipi ai sindaci eletti lo scorso 23 aprile in una tornata particolarmente controversa: l’affluenza al voto è stata tendente all’irrisorio – attorno al 3 per cento – a causa del boicottaggio di Lista Srpska, il partito serbo-kosovaro vicino al presidente serbo Vučić e responsabile anche dell’ostruzionismo per impedire ai sindaci di etnia albanese (a parte quello di Mitrovica, della minoranza bosniaca) di assumere l’incarico. Dopo il dispiegamento nel Paese balcanico di 700 membri aggiuntivi del contingente di riserva Kfor e una settimana di apparente stallo, nuove proteste sono scoppiate a inizio giugno per l’arresto di due manifestanti accusati di essere tra i responsabili delle violenze di fine maggio e per cui la polizia kosovara viene accusata di maltrattamenti in carcere.
    Scontri tra i manifestanti serbo-kosovari e i soldati della missione Nato Kfor a Zvečan, il 29 maggio 2023 (credits: Stringer / Afp)
    A gravare su una situazione già tesa c’è stato un ulteriore episodio che ha infiammato i rapporti tra Pristina e Belgrado: l’arresto/rapimento di tre poliziotti kosovari da parte dei servizi di sicurezza serbi lo scorso 14 giugno. Un evento per cui i due governi si sono accusati a vicenda di sconfinamento delle rispettive forze dell’ordine, in una zona di confine tra il nord del Kosovo e il sud della Serbia scarsamente controllata dalla polizia kosovara e solitamente usato da contrabbandieri che cercano di evitare i controlli di frontiera. Dopo settimane di continui appelli alla calma e alla de-escalation non ascoltati né a Pristina né a Belgrado, per Bruxelles si è resa necessaria una nuova soluzione ‘tampone’, ovvero convocare una riunione d’emergenza con il premier Kurti e il presidente Vučić per cercare delle vie percorribili per ritornare fuori dalla “modalità gestione della crisi” e rimettersi sul percorso della normalizzazione dei rapporti intrapreso tra Bruxelles e Ohrid. A pochi giorni dalla riunione a Bruxelles del 22 giugno è arrivata la scarcerazione dei tre poliziotti kosovari da parte della Serbia, ma per il momento non è stato deciso nulla sulle nuove elezioni nel nord del Kosovo.
    La questione delle tensioni tra Pristina e Belgrado è finita anche nelle conclusioni del Consiglio Europeo del 29-30 giugno, quando i leader Ue hanno condannato “i recenti episodi di violenza nel nord del Kosovo” e hanno chiesto “un’immediata attenuazione della situazione, sulla base degli elementi chiave già delineati dall’Unione Europea il 3 giugno 2023″ (riferimento alla dichiarazione dell’alto rappresentante Borrell sulle violenze di inizio mese). Entrambe le parti sono state invitate a “creare le condizioni per elezioni anticipate in tutti e quattro i comuni del nord del Kosovo“, con la minaccia velata che “la mancata attenuazione delle tensioni avrà conseguenze negative”. A causa del mancato “atteggiamento costruttivo” da parte di Pristina per la de-escalation della tensione, Bruxelles ha imposto a fine giugno misure “temporanee e reversibili” contro il Kosovo, che prevedono anche la sospensione del lavoro degli organi dell’Accordo di stabilizzazione e associazione. Per eliminare queste misure (“non sanzioni”, come ricorda Bruxelles) è stata concordata il 12 luglio una tabella di marcia con quattro tappe, che Pristina sta implementando ancora a fatica.
    Come si è arrivati a questo complesso 2023
    Il primo ministro del Kosovo, Albin Kurti, con le nuove targhe l’immatricolazione di tutti i veicoli nel Paese (credits: Afp)
    Ricostruire le tensioni tra Serbia e Kosovo è come affrontare un domino. Per ogni tessera caduta bisogna risalire a quella precedente, caduta a sua volta per colpa di un’altra più dietro. Dopo le due riunioni estive del 2021 tra il premier Kurti e il presidente Vučić a Bruxelles mediate dall’Ue, a metà settembre dello stesso anno è scoppiata per la prima volta nel nord del Kosovo la cosiddetta ‘battaglia delle targhe‘ tra i due Paesi, scatenata dalla decisione del governo di Pristina di imporre il cambio delle targhe ai veicoli serbi in entrata nel territorio kosovaro. La questione è stata momentaneamente risolta grazie alla mediazione Ue, ma l’assenza di una soluzione definitiva ha poi infiammato la seconda metà del 2022. A fine luglio sono comparsi blocchi stradali e barricate delle frange più estremiste della minoranza serbo-kosovara e due riunioni fallimentari tra Vučić e Kurti a Bruxelles non hanno portato a nessuno sbocco politico.
    La situazione si è però aggravata ancora di più il 5 novembre, con le dimissioni di massa di sindaci, consiglieri, parlamentari, giudici, procuratori, personale giudiziario e agenti di polizia dalle rispettive istituzioni nazionali in protesta contro il piano graduale per l’applicazione delle regole sulla sostituzione delle targhe serbe e contro quella che Lista Srpska ha definito una “violazione del diritto internazionale e dell’Accordo di Bruxelles” del 2013. Tra i dimissionari c’erano anche i sindaci di Kosovska Mitrovica, Zubin Potok, Zvecan e Leposavić e per questo motivo si è reso necessario tornare alle urne nelle quattro città: in programma inizialmente per il 18 dicembre, sono state poi rinviate al 23 aprile. Parallelamente è stata raggiunta una soluzione di compromesso sulle targhe nella notte tra il 23 e il 24 novembre tra il leader serbo e quello kosovaro, anche se prima del vertice Ue-Balcani Occidentali del 6 dicembre a Tirana si è registrato un altro episodio di tensione politica tra Pristina e Belgrado, sempre legata alla questione del nord del Kosovo.
    Le barricate ai valichi di frontiera nel nord del Kosovo a dicembre 2022
    Il presidente serbo ha minacciato di boicottare il vertice di Tirana a causa della nomina di Nenad Rašić come ministro per le Comunità e il ritorno dei profughi all’interno del governo kosovaro: Rašić è il leader del Partito Democratico Progressista, formazione serba ostile a Belgrado e concorrente di Lista Srpska il cui leader, Goran Rakić, si è dimesso dal ministero riservato alla minoranza serba nel Paese a inizio novembre. A pochi giorni dal vertice Ue-Balcani Occidentali, il 2022 si è chiuso con una nuova escalation di tensione ai valichi di frontiera nel nord del Kosovo, dopo la decisione di Pristina di inviare alcune centinaia di forze di polizia per sopperire alla mancanza di agenti dimessisi sempre a novembre. Le barricate delle frange serbo-kosovare più estremiste sono state smantellate solo dopo alcune settimane grazie allo sforzo diplomatico dei partner europei e statunitensi. L’appuntamento alla nuova crisi doveva attendere solo cinque mesi.

    Trovi ulteriori approfondimenti sulla regione balcanica nella newsletter BarBalcani ospitata da Eunews

    Nulla di fatto al nuovo round di colloqui di alto livello mediato dall’alto rappresentante Ue, Josep Borrell. Scontro tra il presidente serbo, Aleksandar Vučić, che vuole l’immediata istituzione della comunità, e il premier kosovaro, Albin Kurti, che esige prima il riconoscimento de-facto

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    La strigliata di Borrell alla Georgia su status di candidato Ue, polarizzazione politica e propaganda russa

    Bruxelles – Il primo viaggio in Georgia come alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza in uno dei momenti più delicati della storia recente del Paese. “La Georgia appartiene alla famiglia europea, ho deciso di recarmi di persona per confermarlo”, ha esordito così Josep Borrell nel corso della conferenza stampa di oggi (8 settembre) a Tbilisi, al termine del primo incontro con il primo ministro georgiano, Irakli Garibashvili, per mettere in fila le priorità per l’avvicinamento del Paese all’Unione Europea e fare un bilancio dei progressi ma soprattutto delle criticità da dover risolvere.
    Da sinistra: il primo ministro della Georgia, , e l’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell (7 settembre 2023)
    “Qui si vedono dimostrazioni di appartenenza chiara all’Unione Europea“, ha voluto sottolineare l’alto rappresentante Borrell, facendo riferimento a “oltre l’80 per cento di supporto della popolazione, ma anche le tantissime bandiere Ue per le strade, ce ne sono più qui che a Bruxelles”. Da mesi sono costanti le richieste di “rappresentanti della società civile e forze politiche” per la concessione dello status di candidato all’adesione Ue, in particolare dalla presidente della Repubblica, Salomé Nino Zourabichvili, di fronte agli eurodeputati a Bruxelles. Tuttavia, la candidatura”è un impegno serio, non è qualcosa che i Paesi hanno diritto di ottenere a prescindere”, e tutto il processo è “basato sul merito, con riforme serie e adesione ai valori europei”. Borrell ha voluto essere sincero: “C’è ancora molto lavoro da fare”, in particolare sulle 12 priorità definite nel parere della Commissione.
    A questo proposito nella presentazione orale dello scorso giugno sullo stato delle riforme, l’esecutivo comunitario ha rilevato che Tbilisi ha completato 3 priorità su 12: quella sull’uguaglianza di genere e sulla lotta contro la violenza di genere, quella sull’implementazione delle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo nei tribunali nazionali e quella sulla nomina di un difensore d’ufficio nei processi. In altre 7 priorità sono stati registrati alcuni progressi: impegno contro la polarizzazione politica, funzionamento delle istituzioni pubbliche e del sistema elettorale, adozione delle riforme giudiziarie, rafforzamento delle agenzie anti-corruzione, lotta contro la criminalità organizzata, rafforzamento della difesa dei diritti umani e coinvolgimento della società civile nel processo decisionale. Solo progressi limitati nella de-oligarchizzazione, mentre nessun progresso sul pluralismo dei media e gli standard sui procedimenti contro i proprietari dei media. “Il duro lavoro non serve a compiacere Bruxelles” – ha messo in chiaro Borrell – “si tratta di migliorare la vita dei cittadini georgiani, tenendo fede alle grandi aspirazioni europee della popolazione”.
    Di qui il secondo richiamo dell’alto rappresentante, alla “unità nazionale, tutti devono lavorare in modo costruttivo” per mettere fine alla “polarizzazione dello scenario politico”. La ricetta di Borrell (ripetuta sempre uguale più volte) è: “Maggioranza inclusiva, opposizioni collaborative, partito al potere impegnato a lavorare per rendere questa cooperazione effettiva”. Da questa riduzione della tensione passerà proprio la strada verso l’Ue, altrimenti il rischio è di “perdere questa opportunità storica”. Da Bruxelles non c’è nessuna volontà a interferire in “questioni interne”, ha assicurato Borrell, sottolineando che “siete voi che dovete lavorare all’unità”. Tuttavia una questione di particolare preoccupazione – proprio perché riguarda direttamente l’Unione Europea – è quella sollevata dalle recenti tensioni politiche in Georgia a proposito dell’avvio della procedura di impeachment della presidente Zourabichvili da parte del partito al governo Sogno Georgiano (di cui il premier Garibashvili è esponente), a causa dei recenti viaggi della leader a Berlino, Bruxelles e Parigi: “La procedura rischia di aumentare la polarizzazione politica, tutte le istituzioni devono lavorare insieme per superarla”, è l’esortazione di Borrell.
    Ultima, ma non certo per importanza, la questione dell’allineamento di Tbilisi alla politica estera dell’Unione, in particolare sulla questione delle sanzioni internazionali contro la Russia. “Apprezziamo la posizione chiara della Georgia nei forum internazionali”, ha ribadito l’alto rappresentante Ue, che ha però biasimato la ripresa dei voli con la Russia: “C’è molto ancora da fare, è quello che ci aspettiamo da un Paesi che aspira a diventare membro Ue”. La questione dei rapporti con Mosca – molto controverso in un Paese che è stato invaso nel 2008 proprio dall’esercito russo per garantire il separatismo delle autoproclamate Repubbliche dell’Ossezia del Sud e dell’Abkhazia – riguarda anche la propaganda e la disinformazione russa, con un esempio sibillino fatto proprio da Borrell all’indirizzo del premier georgiano: “È assurdo pensare che l’Ue voglia usare la Georgia per aprire un secondo fronte nella guerra russa, è una narrativa falsa per avvelenare l’atmosfera”. Ecco perché Bruxelles supporta “media indipendenti e società civile per prevenire la manipolazione delle informazioni”. Supporto che si estende anche all’integrità e alla sovranità della Georgia, a fronte di un 20 per cento del territorio al momento non sotto il controllo dello Stato centrale: “Abbiamo un rappresentante speciale per questa regione e una missione di monitoraggio Ue dedicata da 15 anni”, con “60 milioni di euro in arrivo attraverso l’European Peace Facility per aumentare la resistenza e la capacità del vostro esercito”.
    La situazione politica in Georgia
    Per l’Unione Europea la Georgia rimane uno dei Paesi partner più complessi da gestire, a causa dello scollamento tra una popolazione a stragrande maggioranza filo-Ue e un governo quantomeno controverso sulle tendenze filo-russe (anche se poi ha fatto richiesta di aderire all’Unione per i timori sollevati dall’espansionismo del Cremlino). Tra le notizie che hanno sollevato più preoccupazioni a Bruxelles va ricordata la ripresa dei voli tra Georgia e Russia dopo la decisione di Mosca di eliminare il divieto in vigore, ma anche l’avvicinamento del premier Garibashvili – che da ancora membro osservatore del Partito del Socialismo Europeo ha partecipato alla convention di quest’anno dei conservatori europei e statunitensi a Budapest – all’omologo ungherese, Viktor Orbán, e alle sue politiche autoritarie e anti-Lgbtq+.
    Le proteste pro-Ue dei manifestanti georgiani a Tbilisi, 7 marzo 2023 (credits: Afp)
    La richiesta della Georgia di aderire all’Ue è arrivata il 3 marzo 2022, a una settimana dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina. Mentre il 17 giugno il gabinetto von der Leyen ha dato la luce verde alle richieste di Ucraina e Moldova, alla Georgia è stata indicata la necessità di lavorare su una serie di priorità. La decisione ufficiale è arrivata al Consiglio Europeo del 23 giugno, che ha approvato la linea tracciata dalla Commissione: Kiev e Chișinău sono diventati Paesi candidati, Tbilisi ha ricevuto solo la “prospettiva europea”. A causa di questo ‘fallimento’, nella capitale georgiana si sono svolte due grandi manifestazioni pro-Ue: una ‘marcia per l’Europa’ per ribadire l’allineamento del popolo ai valori dell’Unione e una richiesta di piazza di dimissioni del governo. I tratti comuni di queste manifestazioni sono state le bandiere – bianca e rossa delle cinque croci (nazionale) e con le dodici stelle su campo blu – cartelli con rivendicazioni europeiste e l’inno georgiano intervallato dall’Inno alla Gioia.
    Sei mesi fa sono scoppiate dure proteste popolari contro un controverso progetto di legge sulla ‘trasparenza dell’influenza straniera’ di filo-russa memoria, voluta proprio dal premier Garibashvili per registrare tutte le organizzazioni che ricevono più del 20 per cento dei loro finanziamenti dall’estero come ‘agente straniero’ (in modo simile a quanto in vigore in Russia dal primo dicembre dello scorso anno). Dopo l’approvazione in prima lettura da parte del Parlamento decine di migliaia di cittadini georgiani sono scesi in piazza con le bandiere della Georgia e dell’Unione Europea – gridando slogan come Fuck Russian law e tappezzando la città di insulti a Putin – sostenuti sia dalle istituzioni comunitarie sia dalla presidente Zourabichvili. Dopo due giorni di proteste ininterrotte il partito Sogno Georgiano ha ritirato il progetto di legge, ma senza sconfessare la propria iniziativa. Il fondatore del partito al potere è l’oligarca Bidzina Ivanishvili, che compare nella risoluzione non vincolante del Parlamento Europeo in cui è richiesto alla Commissione di imporre nei suoi confronti sanzioni personali.

    L’alto rappresentante Ue in visita nel Paese per ribadire che “appartiene alla famiglia europea”. Ma nel confronto con il premier Irakli Garibashvili sono emerse le maggiori criticità: procedura di impeachment alla presidente Zourabichvili, unità politica e aggiramento delle sanzioni

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    Cresce la preoccupazione Ue per le condizioni del presidente del Niger Bazoum. L’Ecowas prepara l’intervento armato

    Bruxelles – Quando sono passate due settimane dal colpo di Stato in Niger, cresce la preoccupazione delle istituzioni comunitarie per le condizioni di detenzione dell’ormai ex-presidente del Paese, Mohamed Bazoum, e della sua famiglia, tenuti ostaggi dei golpisti e sottoposti a un trattamento durissimo. “Secondo le ultime informazioni sono stati privati di cibo, cure mediche ed elettricità per diversi giorni“, è l’allarme sollevato oggi (11 agosto) dall’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, che continua a esigere dalla giunta militare nigerina il loro “rilascio immediato e incondizionato”.
    L’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, dopo un incontro con il presidente del Niger, Mohamed Bazoum, a Niamey (5 luglio 2023)
    Per Bruxelles c’è ancora spazio di mediazione dopo il golpe militare dello scorso 26 luglio, ma la liberazione del presidente Bazoum – democraticamente eletto due anni fa – è la conditio sine qua non: “Ha dedicato la sua esistenza a migliorare la vita quotidiana del popolo nigerino, non c’è alcuna giustificazione per un simile trattamento“, è la netta condanna dell’alto rappresentante Borrell. A dimostrare che per l’Ue non è ancora arrivato il momento di gettare la spugna è la decisione di non procedere all’evacuazione totale della presenza diplomatica comunitaria. Come reso noto a Eunews da fonti interne alla Commissione, la situazione viene monitorata “minuto per minuto” ma la presenza nel Paese dell’Africa occidentale “rimarrà”, sia con la delegazione Ue sia con la missione civile Eucap Sahel Niger. Oltre a permettere “su base volontaria” di lasciare la capitale Niamey al personale diplomatico e a sospendere la cooperazione in materia di sicurezza di Eucap Sahel Niger, non sono previste ulteriori misure di emergenza, anche se la situazione è molto fluida e potrebbe cambiare nel giro di ore o giorni.
    A sinistra: il presidente attuale della Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale (Ecowas) e della Nigeria, Bola Tinubu, alla riunione d’emergenza del 10 agosto 2023 (credits: Kola Sulaimon / Afp)
    Perché è sempre più evidente il contrasto tra il Niamey e la Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale (Ecowas), l’accordo economico e di sicurezza regionale siglato da 16 Paesi (Benin, Burkina Faso, Capo Verde, Costa d’Avorio, Gambia, Ghana, Guinea, Guinea-Bissau, Liberia, Mali, Mauritania, Niger, Nigeria, Senegal, Sierra Leone e Togo). Dopo l’ultimatum scaduto domenica (6 agosto) rivolto ai golpisti a Niamey – che minacciava l’uso della forza se Bazoum non fosse stato liberato e reinsediato come presidente – alla sessione di emergenza tenutasi ieri (10 agosto) è stata decisa la “mobilitazione immediata delle forze di emergenza” per “ripristinare l’ordine costituzionale nella Repubblica del Niger”. Non si tratta di un intervento militare immediato, nonostante le inclinazioni più interventiste dell’attuale presidente del blocco e leader della Nigeria, Bola Tinubu: “Diamo la priorità alle negoziazioni diplomatiche e al dialogo, ma non c’è nessuna opzione che scartiamo, compreso l’uso della forza”. Il tutto sembra lasciare spazio a ulteriori tentativi di negoziati, sia per i tempi che richiede una mobilitazione di forze di emergenza (diverse settimane) sia per il rischio insito in una soluzione armata: in caso di un attacco da parte dell’Ecowas a Niamey non è da escludere che i golpisti decidano di vendicarsi uccidendo il presidente deposto.
    Cosa sta succedendo in Niger
    Lo scorso 26 luglio la Guardia presidenziale del Niger ha circondato il palazzo presidenziale e gli edifici di diversi ministeri a Niamey, arrestando il presidente Bazoum (in carica dal 2021), la sua famiglia e i membri dell’entourage. Lo stesso capo di quello che poi si è ribattezzato Consiglio nazionale per la salvaguardia del Paese (Cnsp), Abdourahmane Tchiani, si è autoproclamato nuovo leader del Paese: i golpisti hanno ordinato la sospensione di tutte le istituzioni, la chiusura delle frontiere aeree e terrestri e il coprifuoco notturno. Anche l’esercito del Niger – addestrato dall’Ue attraverso il partenariato militare Eumpm Niger per la lotta al terrorismo – si è unito alla Guardia Presidenziale per “preservare l’unità” nazionale. Con un decreto annunciato nella tarda serata lunedì (7 agosto) la giunta ha nominato l’ex-ministro delle Finanze, Ali Mahamane Lamine Zeine, come primo ministro di transizione, mentre ieri (10 agosto) la giunta militare ha formato un governo composto da 21 ministri.
    In meno di due anni si sono susseguiti diversi colpi di Stato nei Paesi dell’Africa occidentali – in Mali, Guinea e Burkina Faso – le cui rispettive giunte militari oggi al potere hanno minacciato di difendere i golpisti in Niger in caso di un attacco armato da parte delll’Ecowas (che al momento ha imposto sanzioni economiche e chiuso le frontiere con il Niger, mentre la Nigeria ha tagliato le forniture di elettricità al Paese confinante a nord). Per l’Unione Europea Niamey era considerato un alleato-chiave soprattutto per la lotta contro il terrorismo di matrice islamista e in ottica di partenariato sulla migrazione. “La nostra partnership con il Niger è solida e non smette di rinforzarsi in tutti i settori: sicurezza, sviluppo, educazione, transizione energetica”, aveva dichiarato il 5 luglio scorso l’alto rappresentante Borrell dopo un incontro con Bazoum a Niamey. Dal 26 luglio tutti i fondi comunitari per la cooperazione con Niamey sono stati sospesi, compresi quelli mobilitati attraverso l’European Peace Facility per “rafforzare le capacità militari delle forze armate nigerine al fine di difendere l’integrità territoriale e la sovranità del Niger”.

    L’alto rappresentante Josep Borrell denuncia che il leader nigerino e la sua famiglia sono stati privati da giorni di cibo e cure mediche: “Rilascio immediato e incondizionato”. La Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale approva la mobilitazione di una forza d’intervento

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    Altri 19 anni di carcere per l’oppositore russo Navalny. Bruxelles condanna il Cremlino

    Bruxelles – Altri 19 anni di carcere per il principale oppositore del regime di Putin. Il tribunale della sezione penale dove è già incarcerato a Melekhovo, a pochi chilometri da Mosca, ha condannato oggi (4 agosto) Alexei Navalny a scontare altri 19 anni di carcere, come conseguenza a sei diverse accuse, tra cui incitamento e finanziamento di attività estremiste e creazione di un’organizzazione estremista.
    Navalny, diventato celebre in occidente per il tentativo (vano) del Cremlino di avvelenarlo ad agosto 2020, dopo aver fatto ritorno in Russia sta già scontando condanne per oltre 11 anni. Da Bruxelles è arrivata la ferma condanna alla sentenza, denunciando anche il fatto che le udienze si siano svolte in un ambiente chiuso, inaccessibile alla sua famiglia e agli osservatori, in una colonia penale a regime rigoroso fuori Mosca”, ha commentato in una dichiarazione l’alto rappresentante Ue per la politica estera e di sicurezza, Josep Borrell, definendo Navalny “l’ennesimo esempio della continua repressione sistematica da parte delle autorità russe”.
    Nella dichiarazione il capo della diplomazia europea ribadisce il suo invito alla Russia a rilasciare Navalny “immediatamente e senza condizioni”. Dal 2020 sono state imposte sanzioni contro persone ed entità responsabili dell’avvelenamento, dell’arresto arbitrario, dell’accusa e della condanna di Navalny. Il 20 luglio scorso il Consiglio ha adottato ulteriori misure nei confronti di 11 persone e 5 entità responsabili di gravi violazioni dei diritti umani in Russia, anche in relazione al caso dell’oppositore russo in prigione.
    Ha poi ribadito la “profonda preoccupazione per le segnalazioni di maltrattamenti ripetuti, misure disciplinari ingiustificate e illegali e vessazioni equivalenti a torture fisiche e psicologiche da parte delle autorità carcerarie nei confronti di Navalny. La leadership politica della Russia è responsabile della sua sicurezza e salute, di cui sarà tenuta a rendere conto”. In un tweet anche il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, ha condannato la sentenza definendola provocatoriamente “verdetto farsa” e dichiarandola “inaccettabile”. Per Michel “questa condanna arbitraria è la risposta al suo coraggio di parlare in modo critico contro il regime del Cremlino”.

    The latest verdict in yet another sham trial against Alexey @navalny is unacceptable. This arbitrary conviction is the response to his courage to speak critically against the Kremlin’s regime.
    I reiterate the EU’s call for the immediate and unconditional release of Mr. Navalny.
    — Charles Michel (@CharlesMichel) August 4, 2023

    Il tribunale della sezione penale dove è già incarcerato a Melekhovo, a pochi chilometri da Mosca, ha condannato oggi il principale oppositore di Putin, Alexei Navalny, a scontare altri 19 anni di carcere. Da Bruxelles la condanna per il Cremlino

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    Armi, beni ‘duali’, aviazione: l’Ue allinea le sanzioni alla Bielorussia a quelle contro la Russa

    Bruxelles – Russia e Bielorussia, due facce di una stessa medaglia fin qui trattate in modo diverso ma che l’Ue adesso decide di considerare allo stesso modo. Il Consiglio dell’Ue vara una stretta sanzionatoria che allinea le misure restrittive contro Mosca a quelle contro Minsk, con l’obiettivo chiudere gli spazi utili ad aggirare le decisioni a dodici stelle. Al fine di evitare che una nazione possa fornire all’altra beni che sono sottoposti al blocco delle esportazioni, i Ventisette estendono il divieto di vendita verso la Bielorussia di tutta una serie di beni e tecnologie altamente sensibili che contribuiscono al miglioramento militare e tecnologico del Paese alleato con la Federazione russa.
    Anche nei confronti della Bielorussia scatta il “divieto esteso” di esportazione di beni e tecnologie a duplice uso o ‘duali’ (vale a dire uso civile ma con potenziale impiego militare), come previsto nell’11esimo pacchetto di sanzioni contro Mosca. Vuol dire stop a droni, sensori, laser, valvole, programmi informativi, materiale elettronico. Stop anche all’esportazione di merci utilizzate dalla Russia per la sua guerra di aggressione contro l’Ucraina, quali dispositivi a semiconduttore, circuiti integrati elettronici, apparecchiature di produzione e collaudo, macchine fotografiche e componenti ottici. Niente più vendite al governo di Minsk e alle sue imprese di tecnologie adatte all’uso nell’industria aeronautica e spaziale, compresi motori di aeromobili. Anche questa una misura che si allinea all’11esimo pacchetto di sanzioni Ue contro la Russia. A tutto questo si aggiunge anche la messa al bando di vendita, fornitura, trasferimento o esportazione di armi da fuoco, loro parti e componenti essenziali e munizioni.
    “Adottiamo ulteriori misure contro il regime bielorusso in quanto complice della guerra di aggressione illegale e non provocata della Russia contro l’Ucraina”, scandisce Josep Borrell, Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza dell’Ue.
    L’Unione europea in realtà colpisce Alexander Lukashenko e il suo Paese due fronti. Vengono inasprite anche le sanzioni contro la Bielorussia per il deterioramento interno. Borrell denuncia le “continue violazioni sistematiche, diffuse e gravi dei diritti umani e alla brutale repressione contro tutti i segmenti della società bielorussa” da parte di quello che l’Alto rappresentante non esita a definire “un regime illegittimo“. Un riferimento alle contestate elezioni del 9 agosto 2020 di cui l’Ue non riconosce l’esito.
    Misure restrittive scattano contro nei confronti di 38 persone e 3 entità bielorusse “responsabili di gravi violazioni dei diritti umani, che contribuiscono alla repressione della società civile e delle forze democratiche, nonché di coloro che beneficiare e sostenere il regime di Lukashenko”. I nuovi elenchi includono funzionari penitenziari considerati responsabili della tortura e del maltrattamento di detenuti, inclusi prigionieri politici, propagandisti di spicco, nonché membri del ramo giudiziario coinvolti nel perseguire e condannare oppositori democratici, membri della società civile e giornalisti.

    Borrell: “Bielorussia complice nella guerra in Ucraina”. La decisione per evitare che le misure anti-Putin siano aggirate

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    Putin e “le nuove dipendenze” con i prezzi bassi del grano. Borrell avverte le potenze G20 e chiede una risposta unitaria

    Bruxelles – Un appello ai ministri degli Esteri delle 20 più importanti economie al mondo per convincere Putin a riaprire i negoziati con l’Ucraina sull’esportazione di cereali attraverso il Mar Nero. E’ in una lettera datata lunedì (31 agosto) che l’alto rappresentante Ue per la politica estera e di sicurezza, Josep Borell, ha invitato i suoi omologhi dei Paesi in via di sviluppo e del G20 a fare pressione sul Cremlino per riprendere l’Iniziativa del Mar Nero per i cereali – scaduta il 17 luglio e non rinnovata da Mosca – e ad astenersi dal prendere di mira le infrastrutture agricole dell’Ucraina.
    “Il principale beneficiario del blocco dell’iniziativa del grano sul Mar Nero è la Russia e il suo settore agricolo, che beneficerà ulteriormente dell’aumento dei prezzi dei prodotti alimentari e aumenterà la propria quota di mercato nel mercato globale dei cereali, limitando fortemente la capacità di esportazione del suo principale concorrente”, mette in guardia il capo della diplomazia europea nella lettera vista da Eunews, in cui ricorda che, secondo i dati disponibili, “dal primo luglio 2022 al 30 giugno 2023, le esportazioni di grano della Russia dovrebbero raggiungere circa 45 milioni di tonnellate, oltre il 10 per cento in più rispetto alla media degli anni precedenti”. Lo stesso aumento dei ricavi si stima sulle esportazioni russe di fertilizzanti, che “sono aumentati del 150 per cento nel 2022, grazie all’aumento dei prezzi”.
    Questa lettera, spiega a Eunews un portavoce dell’esecutivo comunitario, si inscrive nel tentativo di sensibilizzazione che l’Ue sta cercando di fare nei confronti dei Paesi terzi, a sostegno degli sforzi condotti dalle Nazioni Unite e dalla Turchia per riprendere l’attuazione dell’Iniziativa del Mar Nero per i cereali e per “contrastare la disinformazione russa sulla sicurezza alimentare globale” e sull’impatto delle sanzioni dell’UE, soprattutto in vista dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite che si terrà a settembre. Borrell ricorda nel documento ancora che mentre “il mondo affronta l’interruzione delle forniture e l’aumento dei prezzi, la Russia si rivolge ora ai Paesi vulnerabili con offerte bilaterali di spedizioni di grano a prezzi scontati, fingendo di risolvere un problema che ha creato lei stessa”.
    Il riferimento dell’alto rappresentante è al fatto che il presidente russo Vladimir Putin la scorsa settimana ha proposto ai leader africani di sostituire le esportazioni di grano ucraino verso l’Africa. Per Borrell si “tratta di una politica cinica che usa deliberatamente il cibo come arma per creare nuove dipendenze, esacerbando le vulnerabilità economiche e l’insicurezza alimentare globale”. L’appello alla comunità internazionale è quello a parlare con una voce “chiara e unitaria”, che potrebbe portare il Cremlino a riconsiderare di “riprendere la sua partecipazione a questa iniziativa vitale”. Borrell chiude la lettera invitando gli omologhi a sollecitare la Russia a tornare ai negoziati e ad astenersi dal prendere di mira le infrastrutture agricole dell’Ucraina.

    Il capo della diplomazia europea scrive una lettera agli omologhi dei Paesi G20 e avverte che offrendo grano a buon mercato Mosca vuole “creare nuove dipendenze esacerbando le vulnerabilità economiche e l’insicurezza alimentare globale”. L’appello a coordinarsi e convincere Putin a rientrare nell’Iniziativa del grano sul Mar Nero

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    Uranio e influenza in Africa, il dilemma Ue del Niger tra interessi russi e cinesi

    Bruxelles – Democrazia, diritti, e poi l’uranio. Le instabilità in Niger possono di mettere in difficoltà il mercato dell’energia nucleare dell’Unione europea, che proprio dal Niger acquista uranio grezzo per i propri reattori. Per ora si rassicura, e si escludono impatti negativi dal colpo di Stato nel Paese dell’Africa occidentale. “Non c’è alcun rischio di approvvigionamento”, sostiene il portavoce della Commissione europea, Adalbert Jahnz. “Le imprese hanno sufficienti scorte di uranio naturale per mitigare qualsiasi rischio di approvvigionamento a breve termine e per il medio e lungo termine ci sono abbastanza depositi sul mercato mondiale per coprire il fabbisogno dell’Ue”.
    C’è però una questione geo-politica in ballo, fatta di energia nucleare, risorse, e presenza europea nell’area. Fin qui il Niger è stato il forniture numero uno dell’uranio nella sua forma grezza. La relazione della Commissione europea sul mercato di uranio, con dati aggiornati al 2021, afferma che “analogamente agli anni precedenti, Niger, Kazakistan e Russia sono stati i primi tre paesi a fornire uranio naturale all’Ue nel 2021, fornendo il 66,94% del totale”. Il Niger da solo, è arrivato a rappresentare un quarto dell’import complessivo a dodici stelle (24,26%). Non un fornitore marginalcina e, dunque. Alla luce delle relazioni sempre più delicate e complesse con la Russia quale risultato dell’aggressione all’Ucraina, l’Ue ha bisogno di ridurre le dipendenze con la federazione russa e un deterioramento ulteriore della situazione in Niger potrebbe indurre a rivedere la domanda di uranio.
    La Commissione Ue per ora intendere rimanere presente nel Paese. Evacuazione del personale e chiusura delle sedi di rappresentanza non sono prese in considerazione, perché andare via vorrebbe dire lasciare mano libera ad altri attori, a cominciare da quello cinese. Dopo la Francia la Repubblica popolare è il secondo più grande investitore straniero.
    Pechino è presente in Niger dal 1974, e ha dato nuovi impulsi alle relazioni bilaterali dagli inizi degli anni Duemila. Ha iniziato ad investire in infrastrutture (strade, ospedali, telecomunicazioni), scambi culturali (borse di studio per nigerini in Cina), a garantire sostegni umanitari contro disastri naturali. In cambio ha ottenuto diritto di esplorazione petrolifera e di uranio. Il progetto dell’oleodotto di circa 675 chilometri per la connessione Niger-Benin è possibile grazie a PetroChina, il colosso petrolifero cinese. Mentre Cnnc, la società di Stato attiva nel settore del nucleare, ha già avuto modo di lavorare col governo di Niamey per lo sviluppo del giacimento di Azelik.
    A livello globale il Niger rifornisce appena il 5% circa dell’uranio mondiale, ma è un fornitore leader per l’Ue. Sottrarre quote di mercato agli europei sarebbe per la Cina, già allo stato attuale fornitore principale di tutto ciò che serve all’Ue in termini di materie prime per la transizione sostenibile, un ulteriore colpo alle ambizioni di indipendenza e potenza europea.
    L’instabilità politica rischia però di complicare anche i piani cinesi, e non a caso anche la Cina segue con attenzione gli sviluppi nel Paese africano invitando a una soluzione. Per quanto a Bruxelles si cerchi di minimizzare e si ostenti sicurezza, in gioco c’è molto. Perché l’Ue ha deciso che il nucleare è ‘green’, non inserendolo la tecnologia nella tassonomia, l’insieme dei criteri che servono a determinare la sostenibilità di attività e prodotti. L’Ue ha bisogno dell’uranio per il suo nucleare, e il suo principale fornitore adesso offre meno garanzie.
    C’è anche l’aspetto russo della questione nigerina. L’uranio è certamente una questione ‘calda’ per l’Ue, ancora troppo legato alla Russia per ciò che serve per le centrali attive in Europa, soprattutto nei Paesi membri del quadrante nord-orientale. Alternative al combustibile russo è qualcosa di tutt’altro che semplice, e l’Ue non può permettersi di finire nuovamente nelle braccia del Cremlino. Ma da anni Mosca agisce nel continente africano, attraverso forniture di armi, accordi di cooperazione militare. Il controllo del continente sta diventando sempre più strategico, per via della sue ricchezze naturali in termini di risorse e materie prime. Governi ‘amici’ fanno l’interesse della partita in atto.
    La presenza del gruppo Wagner è stata accertata in almeno cinque Paesi africani (Libia, Mali, Sudan, Repubblica centrafricana, Mozambico). Si teme che il gruppo para-militare possa diventare una presenza forte anche in Niger. Analisti ricordano l’esempio del Mali, dove la Russia ha saputo inserirsi perché più accomodante rispetto alle richieste e alla condizioni poste dagli europei. “Ci sono già segnali che l’Ue potrebbe affrontare un dilemma simile in Niger“, avvertiva un anno fa, a giugno 2022, il think-tank pan-europeo Ecfr.
    C’è dunque la possibilità che il confronto tra Europa e Russia non si consumi solo sul fronte ucraino. La destabilizzazione del Niger gioca a favore di Mosca, più che dell’Europa, che nel Niger contava e conta anche per la gestione dei flussi migratori. All’incrocio di diverse rotte migratorie, il Niger ha rafforzato la sua politica di lotta alla migrazione irregolare con il sostegno dell’Ue, nell’ambito del nuovo partenariato dell’Ue con i Paesi terzi. Ora tutto questo rischia di saltare.
    A Bruxelles c’è già chi fa i conti con le tensioni e le incertezze nel Paese. In Parlamento Ue si inizia a riconoscere che il golpe “rischia di destabilizzare ulteriormente il Paese, oltre a problemi esistenti come l’instabilità regionale, la proliferazione di gruppi jihadisti violenti, un’ondata di rifugiati e sfollati interni”. In questo clima “il colpo di stato, salutato da Yevgeny Prigozhin, il capo di Wagner, potrebbe aumentare l’influenza della Russia sul Paese“.
    Una presa d’atto anche in Commissione, con l’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza dell’Ue, Josep Borrell, che punta il dito contro Mosca. In Niger, scrive sul suo blog, “l‘unica interferenza di cui possiamo parlare oggi è quella dei militari che rovesciano un Presidente eletto e quella di una Russia imperialista che vuole usare questi regimi come pedine nella sua partita a scacchi mondiale” in cui l’Europa ha molto da perdere. Attacca frontalmente anche il leader del Cremlino. “Da diversi anni la Russia di Vladimir Putin alimenta questi colpi di stato con la sua falsa propaganda e approfitta dell’instaurazione di questi regimi militari con le sue milizie private”. Accuse e toni che confermano l’importanza della posta in gioco. L’Ue si vede scalzata dall’Africa, e non solo dal Niger e dalle sue forniture di uranio.

    Per la Commissione ciò che serve al nucleare europeo non è a rischio ma in gioco c’è molto di più, con la presenza di Mosca e Pechino tutt’altro che marginale