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    COP26: il carbone frena le ambizioni di Glasgow, accordo sul clima al ribasso. L’UE: “Il lavoro non è finito”

    Bruxelles – Due settimane di negoziati intensi per arrivare a un accordo che va indiscutibilmente nella giusta direzione, ma non entusiasma proprio tutti. La Conferenza sul clima delle Nazioni Unite (COP26) si è chiusa sabato sera (13 novembre) con la firma di un Patto per il clima di Glasgow, in cui gli oltre 190 Paesi partecipanti si sono impegnati a rafforzare i propri obiettivi di riduzione delle emissioni al 2030 e a rivederli ogni anno a partire dal 2022 per “mantenere vivo” l’obiettivo di circoscrivere la temperatura globale entro i 1,5°C, in linea con quanto prescritto ormai sei anni fa dagli accordi di Parigi.
    Oggi le stime degli esperti parlano di una rotta globale che porterebbe a una temperatura compresa tra 1,8°C e 2,4°C, per questo nelle conclusioni i Paesi si sono impegnati a rivedere ogni anno (e non più ogni cinque, come accade ora) le loro traiettorie con un nuovo processo di revisione, per mantenersi sulla buona strada per 1,5°C di riscaldamento. Il tassello più rivoluzionario e allo stesso tempo più deludente per il mondo ambientalista dell’accordo di Glasgow è però il riferimento al carbone, tra i combustibili fossili il più inquinante e responsabile di circa il 40 per cento delle emissioni di CO2.
    L’accordo di Glasgow è considerato positivo a metà perché per la prima volta in un patto internazionale sul clima delle Nazioni Unite i Paesi si impegnano a “ridurre gradualmente” la parte di loro energia prodotta dal carbone, ma il testo finale è stato in parte annacquato all’ultimo quando l’India, sostenuta dalla Cina e da altri Paesi in via di sviluppo più dipendenti dal carbone, si è opposta alla dicitura “eliminazione graduale”, spingendo per sostituirla con un impegno più tiepido a “ridurre gradualmente” (“phase down”) il loro uso di energia prodotta da carbone. Il compromesso sul carbone è un netto passo avanti in termini di impegni rispetto a quanto le grandi potenze globali erano riuscite a ottenere, anche nel quadro dei negoziati G20, ma manca anche di un chiaro riferimento temporale a quando l’impegno dovrebbe attuarsi.
    Alok Sharma
    Ai Paesi è servito un giorno in più per chiudere l’accordo, facendo concludere il vertice sabato invece che venerdì. Il presidente della COP26, il britannico Alok Sharma, si è detto “profondamente dispiaciuto” per come si sono conclusi gli eventi, ma era necessario preservare l’accordo nel suo insieme e dunque arrivare a un compromesso con quelle economie che non si ritengono pronte ad abbandonare completamente l’uso del carbone per produrre energia. “I testi approvati sono un compromesso. Riflettono gli interessi, le condizioni, le contraddizioni e lo stato della volontà politica nel mondo di oggi”, ha ammesso anche Antonio Guterres, Segretario generale delle Nazioni Unite al termine della COP. “Fanno passi importanti, ma purtroppo la volontà politica collettiva non è bastata a superare alcune profonde contraddizioni”.
    Passi avanti si sono registrati sulla finanza climatica, ovvero il tentativo di ridurre il divario finanziario tra Paesi ricchi e poveri per la lotta ai cambiamenti climatici e anche l’adattamento ad essi (ad esempio la costruzione di infrastrutture protettive). Tutti i Paesi sviluppati si sono impegnati a raddoppiare la quota collettiva dei finanziamenti per l’adattamento entro il 2025 e a raggiungere l’obiettivo di 100 miliardi di dollari ai Paesi poveri “il prima possibile”. Le stime presentate proprio in occasione della COP26 dicono che l’impegno per 100 miliardi non sarà raggiungibile prima del 2023, con circa 3 anni di ritardo sulla tabella di marcia.
    In ultimo, ma non da meno, dopo due tentativi falliti alle precedenti COP di Katowice e Madrid, i Paesi hanno concluso un accordo sul regolamento dell’accordo di Parigi, compreso l’insieme delle regole (l’articolo 6 rimasto incompleto) che disciplina i mercati globali del carbonio e sugli obblighi di trasparenza e rendicontazione delle emissioni di CO2.
    Le reazioni europee
    Ursula von der Leyen
    L’Unione Europea – tra le potenze partecipanti più ambiziose in termini climatici – è contenta a metà di quanto raggiunto a Glasgow dopo due intense settimane di negoziati. “La COP26 è un passo nella giusta direzione. I 1,5 gradi Celsius rimangono a portata di mano; ma il lavoro è tutt’altro che finito”, riassume la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, in una nota che fa seguito alla sigla del patto climatico. “Il minimo che possiamo fare ora è attuare le promesse di Glasgow il più rapidamente possibile e poi puntare più in alto”, aggiunge, dando appuntamento a tutti alla prossima COP che si terrà in Egitto nel 2022. L’augurio che “ci metta saldamente sulla buona strada per i1,5 gradi”.
    Pur non essendo un accordo perfetto, “mantiene vivo l’obiettivo di limitare il riscaldamento globale a 1,5 gradi. Ora, le promesse devono essere mantenute e gli impegni consegnati rapidamente. La lotta al cambiamento climatico non può subire ulteriori ritardi”, ha ammonito in un tweet il presidente dell’Europarlamento, David Sassoli.

    Although not perfect, #COP26 Glasgow keeps the goal of limiting global warming to 1.5 degrees alive. Now, promises must be kept and commitments delivered on quickly. The fight against climate change cannot suffer any further delay.
    — David Sassoli (@EP_President) November 14, 2021

    Presente a Glasgow nella seconda settimana di lavori (8-12 novembre) anche una delegazione di eurodeputati. Per il francese Pascal Canfin (Renew Europe) – capo delegazione e presidente della commissione Ambiente (ENVI) – “l’accordo alla COP26 presenta alcuni buoni passi avanti sull’obiettivo di raccogliere 100 miliardi di dollari per i paesi in via di sviluppo vulnerabili e la coalizione per fermare il finanziamento pubblico di nuovi progetti di combustibili fossili all’estero. Tuttavia, dobbiamo ammettere che l’accordo si basa sul minimo comune denominatore. La priorità ora per tutti i più grandi emettitori è quella di condividere tabelle di marcia concrete e credibili verso emissioni nette zero”.
    Gli impegni collaterali alla COP26
    A margine delle discussioni vere e proprie della COP26, si sono tenute varie riunioni collaterali che hanno portato ad alleanze o impegni all’unanimità tra gruppi ristretti di Paesi. La COP26 si è aperta con un impegno di oltre 100 Paesi a fermare la deforestazione entro il 2030, compresi quelli come Brasile, Canada, Colombia e Russia che contano l’85 per cento delle aree forestali del mondo. Molti critici mettono in evidenza che l’impegno non è vincolante e che questa promessa era già stata fatta nel 2014 e gli obiettivi per il 2020 di ridurre il tasso di deforestazione al 50 per cento sono stati mancati con un enorme margine di difetto.
    Venticinque Paesi – compresa l’Italia – si sono impegnati poi a porre fine al finanziamento diretto internazionale con fondi pubblici per i sussidi ai fossili entro il 2022 e 103 Paesi hanno sottoscritto il Global Methane Pledge, l’alleanza lanciata da USA e UE per ridurre le emissioni globali di metano del 30 per cento entro il 2030. Segnali positivi (anche se poco concreti) di un avvicinamento tra Cina e USA, che hanno siglato un accordo per lavorare insieme sulla questione climatica. Nulla di molto concreto, ma è un segnale positivo che i due maggiori emettitori al mondo (rispettivamente il 31 e il 14 per cento delle emissioni al mondo) abbiano intenzione di discutere di prima, nonostante i loro rapporti diplomatici tesi.

    Luci e ombre di un compromesso che va senza dubbio nella giusta direzione, ma che in molti si aspettavano più ambizioso. Von der Leyen: “Il minimo ora è attuare le promesse di Glasgow il più rapidamente possibile e puntare più in alto”

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    Da UE, USA e Regno Unito 8,5 miliardi di dollari per sostenere la decarbonizzazione del Sudafrica

    Bruxelles – Unione Europea, Stati Uniti, Regno Unito, Francia e Germania si sono uniti in un partenariato da almeno 8,5 miliardi di dollari (7,5 miliardi di euro) per aiutare il Sudafrica nella decarbonizzazione della propria economia. L’annuncio è arrivato oggi (2 novembre) a margine della Conferenza sul clima delle Nazioni Unite (COP26) in corso a Glasgow: il budget iniziale di 8,5 miliardi di dollari attraverso meccanismi di finanziamento, prestiti agevolati, investimenti e strumenti a rischio condiviso servirà per aiutare il Paese ad aggiornare i suoi impegni sulla riduzione di CO2, con particolare attenzione al sistema elettrico.
    L’obiettivo è quello di riuscire a sbloccare altri investimenti dal settore privato. Le previsioni dei 5 Paesi occidentali stimano che il partenariato preverrà fino a 1-1,5 miliardi di tonnellate di emissioni nei prossimi 20 anni e aiuterà il Sudafrica ad abbandonare in maniera definitiva il carbone. “Il Sudafrica accoglie con favore l’impegno assunto nella Dichiarazione politica a sostegno dell’attuazione del nostro contributo determinato a livello nazionale, che rappresenta l’ambizioso sforzo del nostro Paese per sostenere la battaglia globale contro il cambiamento climatico”, ha commentato il capo di Stato della Repubblica del Sudafrica, Cyril Ramaphosa. A sostegno della transizione del Paese “attendiamo con impazienza una partnership a lungo termine che possa fungere da modello appropriato di sostegno per l’azione per il clima dai Paesi sviluppati a quelli in via di sviluppo”.
    “Questa partnership è una novità globale e potrebbe diventare un modello su come supportare la giusta transizione in tutto il mondo”, ha aggiunto la presidente della Commissione, Ursula von der Leyen. “Unendo le forze, possiamo accelerare l’eliminazione graduale del carbone nei paesi partner, sostenendo al contempo le comunità vulnerabili che dipendono da esso. Garantire una transizione giusta è una priorità per l’UE, sia in patria che all’estero”.

    A margine della COP26 di Glasgow, Bruxelles insieme a Francia, Germania, Regno Unito e USA lancia un’iniziativa finanziaria per la transizione energetica del Paese. Il presidente Ramaphosa: “Serve sostegno a lungo termine all’azione per il clima delle economie in via di sviluppo”

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    COP26, oltre 100 Paesi nell’alleanza UE-USA per ridurre le emissioni di metano. Cina e Russia si chiamano fuori

    Bruxelles – Non solo anidride carbonica al centro della Conferenza sul clima delle Nazioni Unite (COP26) in corso a Glasgow. Ci sono oltre 100 Paesi al mondo pronti a sostenere l’iniziativa congiunta dell’Unione Europea e degli Stati Uniti per ridurre le emissioni del metano del 30 per cento entro il 2030, dai livelli del 2020.
    L’alleanza Bruxelles-Washington era stata annunciata lo scorso 17 settembre, con il sostegno di una manciata di Paesi (Italia, Argentina, Ghana, Indonesia, Iraq, Messico e Regno Unito). Oggi (2 novembre) la partnership è stata ufficializzata a margine della COP26 con il sostegno di 103 firmatari oltre all’UE e agli Stati Uniti, che rappresentano il 70 per cento dell’economia globale. Tra gli ultimi ad aggiungersi in ordine di tempo c’è il Brasile, ma mancano all’appello ancora alcuni tra i primi emettitori di metano al mondo, Cina, Russia e India, che per ora hanno deciso di non sottoscrivere l’alleanza. Il disimpegno non stupisce, l’apertura di ieri della COP26 ha mostrato chiaramente la difficoltà dei negoziati con India e Cina per fissare un impegno temporale per la riduzione dei gas inquinanti.
    Il metano resta uno dei principali gas che contribuiscono al surriscaldamento del pianeta: rispetto alle emissioni di CO2 ha la capacità di intrappolare più calore, ma si decompone nell’atmosfera più rapidamente, quindi impegnarsi per tagliare queste emissioni dovrebbe avere un impatto più rapido sul riscaldamento globale. Di gran parte del metano presente in atmosfera (circa il 70 per cento) è responsabile l’azione dell’uomo, soprattutto tra agricoltura, rifiuti ed energia.
    A metà ottobre, già 30 Paesi avevano aderito all’impegno. In poche settimane il lavoro diplomatico di USA e UE è riuscito nell’intento di portare a bordo circa la metà dei 30 principali emettitori di metano al mondo. L’inviato speciale USA per il clima John Kerry e il vicepresidente esecutivo Frans Timmermans “hanno lavorato intensamente per ottenere sostegno”, ha ricordato in conferenza stampa a Glasgow Ursula von der Leyen, al fianco del presidente statunitense Joe Biden nell’annunciare la nascita di questo impegno. Prende vita come impegno “a margine” della COP26 ma in realtà l’ampia adesione da parte dei partecipanti lo renderà uno degli accordi da ricordare della Conferenza di Glasgow.
    La presidente della Commissione Europea ha dettagliato i piani di Bruxelles per affrontare le emissioni di metano, il cui maggior potenziale di riduzione “è senza dubbio nel settore dell’energia”. Per questo, a dicembre svelerà il suo piano d’azione per “regolare le emissioni di metano, introdurremo nuove regole per misurare, riportare e verificare le emissioni e individuare e prevenire le perdite di gas”. Anche per gli USA si preannunciano cambiamenti, Biden ha reso nota l’intenzione di proporre due nuove iniziative per ridurre le perdite di metano nei gasdotti e negli oleodotti esistenti e “per ridurre le perdite, anche potenzialmente pericolose, nei gasdotti naturali”.

    Impegno a ridurre le emissioni del 30 per cento entro il 2030, da cui ancora restano fuori alcune grandi economie inquinanti. Von der Leyen a Glasgow: “A dicembre proporremo nuove regole per il metano nell’UE”

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    COP26, Johnson: nuove tecnologie per dimezzare le emissioni di CO2 al 2030

    Bruxelles – ‘Ripulire’ i cinque principali settori ad alta impronta di carbonio, quelli che insieme contribuiscono al 50% delle emissioni globali di anidride carbonica, tra i principali fattori del surriscaldamento del pianeta. La comunità internazionale riunita a Glasgow per la conferenza delle Nazioni Unite sul clima (COP26) tenta di riscrivere le regole del gioco, con il Regno Unito che rivendica un ruolo guida in tal senso. Sul tavolo negoziale è arrivata la proposta per dimezzare le emissioni di CO2 a firma del primo ministro britannico Boris Johnson. Si tratta di un’agenda di contrasto ai cambiamenti climatici che passa per l’utilizzo di nuove soluzioni a basso impatto ambientale nei comparti energia, trasporto su strada, acciaio, idrogeno e agricoltura.
    Londra propone un piano internazionale per fornire tecnologia pulita e conveniente ovunque entro il 2030, sostenuta e sottoscritta da “oltre 40 leader mondiali”, fa sapere la delegazione britannica. Tra gli aderenti  Stati Uniti, India, UE, Cina, economie in via di sviluppo e alcuni dei paesi più vulnerabili ai cambiamenti climatici, che insieme rappresentano oltre il 70 per cento dell’economia mondiale e di ogni regione .
    In base all’agenda Paesi e aziende si coordineranno per “accelerare drasticamente” lo sviluppo e l’impiego di nuovi modelli produttivi. Si punta ad energia pulita per tutti, al fine di soddisfare il proprio fabbisogno energetico in modo efficiente entro la fine del decennio. In secondo luogo i veicoli dovranno diventare “la nuova normalità”, accessibile in tutte le regioni. Ancora, nel settore siderurgico si vuole un uso efficiente e una produzione di acciaio a emissioni quasi zero. Cambiamenti anche per quanto riguarda l’idrogeno: si vuole quello rinnovabile a prezzi accessibili disponibile a livello globale. Infine si vuole un settore primario in grado di adattarsi alle sfide poste dai cambiamenti del clima.
    Tutto questo si traduce in iniziative internazionali per accelerare l’innovazione e ampliare le industrie verdi. Si tratta di in particolare di regole comuni internazionali, non solo per aree geografiche od organizzazioni. Il piano britannico suggerisce di “allineare politiche e standard”, e apre a cooperazione internazionale nel settore della ricerca industriale attraverso maggiori “sforzi di ricerca e sviluppo”.
    Riuscire in questi cinque settori, stimano i britannici, potrebbe creare 20 milioni di nuovi posti di lavoro a livello globale e aggiungere oltre 16 trilioni di dollari (cioè 16 milioni di milioni) sia nelle economie emergenti che in quelle avanzate. 
    “Facendo della tecnologia pulita la scelta più conveniente, accessibile e attraente, il punto di partenza predefinito in quelli che sono attualmente i settori più inquinanti, possiamo ridurre le emissioni in tutto il mondo”, sostiene Johnson. Il premier britannico sostiene convintamente che i Glasgow Breakthroughs, nome dato da Londra alla sua proposta per dimezzare le emissioni di CO2, “daranno una spinta in avanti, in modo che entro il 2030 le tecnologie pulite possano essere godute ovunque, non solo riducendo le emissioni ma anche creando più posti di lavoro e maggiore prosperità”.

    Il premier vuole velocizzare lo sviluppo di tecnologia pulita nei comparti energia, trasporto su strada, acciaio, idrogeno e agricoltura. Fondamentali regole e alleanze internazionali

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    COP26, da oltre 100 leader globali l’impegno a fermare la deforestazione entro il 2030

    Bruxelles – Da Italia, Francia, Germania e ancora Indonesia, Brasile e Turchia. Sono oltre 100 i leader globali che ieri (primo novembre) nel quadro della COP26 di Glasgow si sono impegnati a lavorare insieme per arrestare e invertire la deforestazione e il degrado del suolo entro il 2030. Il primo risultato concreto della Conferenza sul clima delle Nazioni Unite che ha preso il via domenica (31 ottobre) nella città scozzese e sottoscritto nella Dichiarazione dei leader di Glasgow sulle foreste e l’uso del suolo.
    L’accordo è destinato a far parlare di sé: sia per la sua portata – le oltre 100 firme alla dichiarazione sono di Paesi, come il Brasile e l’Indonesia, che insieme rappresentano oltre l’86 per cento delle foreste mondiali – sia perché di fatto non è un impegno vincolante per nessuno dei governi, e quindi rischia di restare solo un buon proposito. Solo nel 2014, al vertice sul clima di New York, quasi 200 parti tra governi, aziende e ONG si erano impegnati a dimezzare la deforestazione entro il 2030 e azzerarla entro il 2050.
    La piattaforma di monitoraggio Global Forest Watch stima solo nel 2020 la perdita di 258mila chilometri quadrati di foreste nel mondo, sintomo che per ora quegli impegni sono caduti nel vuoto. La rilevanza delle foreste nella lotta al riscaldamento terrestre è nota: sono in grado di assorbire le emissioni di anidride carbonica dall’atmosfera e gli impediscono di riscaldare la temperatura della terra. Sono “il polmone del pianeta”, scrive su twitter il premier britannico Boris Johnson su twitter salutando questa mattina l’accordo.

    Forests are the lungs of our planet.
    Today @COP26, over 100 leaders representing 85% of the world’s forests will take landmark action to end deforestation by 2030.
    With this pledge, we have a chance to end humanity’s long history as nature’s conqueror, and become its custodian.
    — Boris Johnson (@BorisJohnson) November 2, 2021

    Dopo l’impegno di ieri, oggi sono state dettagliate le iniziative governative e private per aiutare a raggiungere questo obiettivo di deforestazione. A sostegno di questo obiettivo saranno mobilitati circa 19 miliardi di dollari (circa 16 miliardi di euro) tra finanziamenti pubblici e privati. Una nota della presidenza britannica della COP26 ne spiega nel dettaglio la composizione: 12 paesi donatori si sono impegnati a fornire 12 miliardi di dollari di finanziamenti pubblici per il clima dal 2021 al 2025 attraverso la “Global Forest Finance Pledge”. L’Unione Europea – come annunciato da Ursula von der Leyen alla vigilia della partenza per il G20 di Roma – ha donato un miliardo di euro a questa causa, per l’azione nei paesi in via di sviluppo, compreso il ripristino di terreni degradati, la lotta agli incendi e la promozione dei diritti dei popoli indigeni e delle comunità locali.
    Ursula von der Leyen
    “Forniremo un miliardo di euro per l’impegno globale per le foreste”, ha annunciato la presidente della Commissione Europea oggi a Glasgow. “Di questi, 250 milioni di euro saranno destinati specificamente all’impegno nel bacino del Congo”. Sono i consumatori europei a non voler acquistare prodotti “responsabili della deforestazione o del degrado forestale”, ha aggiunto.Almeno 7,2 miliardi di dollari arriveranno dal settore privato.
    Un gruppo ristretto di 28 governi – tra cui l’Unione Europea e l’Italia – hanno firmato inoltre una dichiarazione specifica su foreste, agricoltura e commercio di materie prime (FACT), dedicata a rendere il commercio sostenibile e ridurre la pressione sulle foreste dovuta ad agricoltura e catene di approvvigionamento. E’ noto che la causa principale della deforestazione è dovuta alla volontà dei governi di abbattere gli alberi per lasciare spazio a coltivazioni e aree di allevamento intensivo. Olio di palma, soia, cacao e carne bovina: l’UE stessa è uno dei principali importatori al mondo, dopo la Cina, di materie prime legate alla deforestazione tropicale e sta lavorando internamente per una nuova legislazione che riduca l’impatto sulle foreste all’estero dei prodotti che vengono poi immessi sul mercato europeo.
    Timori di attivisti e ONG verdi che anche questo impegno resti lettera morta ce ne sono. Non passa inosservato che tra i firmatari ci sia anche il Brasile del leader populista Jair Bolsonaro, al centro di molte polemiche per aver aumentato a dismisura la deforestazione della foresta amazzonica, arrivando a un picco da oltre 10 anni.

    Tra il 2021 e il 2025 oltre 16 miliardi di euro, tra finanziamenti pubblici e privati, a sostegno dell’obiettivo. Tra i firmatari oltre all’Italia e l’Unione Europea anche il Brasile di Bolsonaro, al centro di polemiche per la deforestazione della foresta amazzonica. Roma e Bruxelles si impegnano anche per ridurre la pressione agricola e commerciale sul suolo

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    Mediterraneo orientale, presto un cavo sottomarino tra Grecia ed Egitto

    Bruxelles – Per la prima volta nel Mediterraneo orientale, un cavo elettrico sottomarino collegherà Africa ed Europa. Oggi 14 ottobre il ministro dell’Ambiente e dell’Energia greco Konstantinos Skrekas e il ministro dell’Energia elettrica egiziano Mohamed Shaker firmeranno ad Atene un memorandum d’intesa, che potrà poi diventare un accordo intergovernativo.
    La grande infrastruttura consentirà all’Egitto di esportare il suo surplus di energia elettrica pulita, derivante in massima parte dalla diga di Assuan, e di accreditarsi come hub energetico dell’intero Mediterraneo allargato. Per facilitarne il finanziamento, il governo di Kyriakos Mitsotakis chiederà di inserire il cavo nei progetti di interesse comune (PCI) dell’Unione europea. L’energia egiziana non sarà importata dalla sola Atene, ma anche da altri Paesi dell’Unione. Oltre alla Grecia, nel progetto è coinvolta anche Cipro. Sabato 16 ottobre il ministro Shaker sarà a Nicosia per firmare un accordo simile a quello greco con la ministra dell’Energia cipriota Natasa Pilides, mentre martedì 19 ottobre i tre ministri si vedranno tutti insieme. L’idea nel prossimo futuro è quella di collegare le reti elettriche dei tre Paesi, che già cooperano su molti temi.
    Grecia, Cipro ed Egitto condividono la preoccupazione per il crescente attivismo della Turchia nella regione. In particolare, Ankara avanza pretese sui ricchi giacimenti di gas che secondo Nicosia ricadono nella propria zona economica esclusiva (ZEE), oltre ad aver iniziato esplorazioni ritenute illegali da Atene davanti alle isole greche dell’Egeo. In Libia la Turchia ha sostenuto militarmente il governo di Fayez al-Serraj in cambio di una revisione favorevole ad Ankara della ZEE libica, mentre l’Egitto è uno storico sponsor del generale della Cirenaica Khalifa Haftar. Sempre in tema di zone economiche esclusive, Grecia ed Egitto hanno firmato nell’agosto 2020 un accordo che ridefinisce le rispettive ZEE. Nel giungo 2021, la storica visita del primo Ministro greco Mitsotakis al Cairo e ad Alessandria. La cooperazione tra le due sponde del Mediterraneo è sempre più stretta.

    Atene e il Cairo firmano un memorandum d’intesa per la costruzione di un nuovo cavo sottomarino per l’esportazione dell’energia egiziana. Il 16 ottobre sarà firmato un simile accordo con Cipro. Dietro la collaborazione la comune rivalità con la Turchia

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    Ungheria e Ucraina “litigano” per il gas russo, mentre l’UE cerca di mediare

    Bruxelles – E’ scontro aperto tra Ungheria e Ucraina sul gas russo, mentre la Commissione Europea cerca di fare da mediatore. La compagnia energetica ungherese MVM ha formalizzato lunedì 27 settembre un contratto di acquisto di quindici anni con la compagnia russa Gazprom per la fornitura di gas naturale, senza passare attraverso l’Ucraina. Le intenzioni del premier Viktor Orban erano già note dalla fine di agosto, e una volta concretizzate hanno spinto Kiev, che teme di perdere milioni di euro in pagamenti in quanto “Paese di transito”, a rivolgersi direttamente alla Commissione Europea, definendo quella dell’Ungheria una “decisione puramente politica ed economicamente irragionevole”.
    Mosca ha sempre trasportato il gas principalmente attraverso il territorio dell’Ucraina, solo da qualche anno – in particolare dopo le frizioni che hanno seguito l’annessione illegale della Crimea nel 2014 – ha iniziato a diversificare le esportazioni per limitare il peso strategico dell’Ucraina anche nell’UE. Il contratto siglato sarà in vigore dal primo ottobre e prevede la fornitura di 4,5 miliardi di metri cubi di gas in Ungheria ogni anno: 3,5 miliardi attraverso la Serbia e un miliardo attraverso l’Austria. Nessuna provocazione politica, ha assicurato ieri in conferenza stampa il ministro degli Esteri ungherese Peter Szijjarto, dichiarando che per l’Ungheria, la “sicurezza energetica è una questione di sicurezza, di sovranità ed economia più che una questione politica”.

    A Kiev non è bastato e il ministro dell’Energia ucraino, German Galushchenko, ha incontrato ieri la commissaria europea per l’Energia, Kadri Simson, per discutere anche di questo. “Un incontro costruttivo”, dice a Eunews un portavoce della Commissione. Costruttivo anche se l’UE non ha grande margine di manovra per il momento per intervenire. L’Esecutivo ha iniziato ad esaminare le conseguenze del contratto, ma dal momento che l’accordo non è stato firmato direttamente dalle autorità ungheresi, ma dalla compagnia energetica MVM, una prima valutazione del contratto spetta alle autorità ungheresi. Solo dopo le conclusioni, Bruxelles può chiedere di visionare il contratto in caso di un sospetto di minaccia all’approvvigionamento energetico dell’Unione europea o del territorio. “Il ministro Galushchenko ha sollevato la questione, presentandoci la posizione dell’Ucraina”, prosegue il portavoce, ma Bruxelles ha un ruolo solo in caso di mancata sicurezza dell’approvvigionamento.
    La commissaria Simson ha anche ribadito “la nota posizione della Commissione” secondo cui “consideriamo l’Ucraina un Paese di transito affidabile” per il trasporto di forniture energetiche. Secondo il portavoce, il bilaterale si è concentrato anche sulle riforme in corso in Ucraina sia nel mercato dell’elettricità che in quello del gas: si porta avanti il dialogo per la sincronizzazione con la rete elettrica europea, con l’adozione di una “tabella di marcia sulle fasi e i parametri di riferimento per essere soddisfatte fino al completamento”. Il commissario e il ministro si sono confrontati, infine, sui modi per promuovere la transizione verso l’energia pulita dell’Ucraina e sullo stato di avanzamento dei programmi per migliorare la sicurezza delle centrali nucleari. 

    Budapest firma un contratto di quindici anni con la russa Gazprom per la fornitura di gas senza passare per l’Ucraina. Kiev si rivolge a Bruxelles, che per ora alza le mani

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    Norvegia al voto: la scelta tra transizione green e sicurezza economica

    Bruxelles – Si chiudono oggi 13 settembre alle 21 le urne in Norvegia per il rinnovo dello Storting, il Parlamento unicamerale del Paese. La primo ministro Erna Solberg, in carica dal 2013 e leader del partito di centro-destra Høyre, rischia di non essere riconfermata, in un’elezione che si gioca principalmente sul tema della transizione ecologica.
    Il dibattito elettorale
    Come negli altri Stati scandinavi, in Norvegia la questione ambientale è particolarmente sentita dalla popolazione: il 95 per cento dell’energia viene prodotto con l’idroelettrico e 7 automobili vendute su 10 sono elettriche. Tuttavia l’economia del Paese si basa quasi interamente sull’esportazione di petrolio e gas naturale, di cui è il maggior produttore dell’Europa Occidentale. Il settore dei combustibili fossili impiega oltre 200mila persone, più del 7 per cento della forza lavoro nazionale. Come gestire la futura transizione ecologica è dunque il maggior punto di divisione tra le forze politiche, con i conservatori di Høyre che sono fortemente contrari a uno stop all’esplorazione e alla produzione di idrocarburi, preoccupati per le ricadute economiche e occupazionali. Su posizioni simili il centro-sinistra laburista e i centristi di SP, oltre che la destra populista di FrP. Al contrario, tutti i partiti di sinistra a partire dai Verdi premono per uno stop immediato all’esplorazione e per la fine della produzione di combustibili fossili entro i prossimi 15-20 anni.
    Altro tema divisivo sono i rapporti con l’Unione Europea. Oslo non è membro dell’UE, ma aderisce a Schengen e allo Spazio Economico Europeo (SEE). Laburisti e Høyre sono favorevoli all’appartenenza del Paese alla SEE, mentre la sinistra e i centristi sono più euroscettici. In particolare, il carismatico leader di SP Trygve Slagsvold Vedum si è battuto affinché il comparto della regolamentazione del settore energetico torni ad essere interamente nelle mani del governo norvegese.
    Sondaggi e prospettive
    I sondaggi vedono in prima posizione il partito laburista (AP), con un consenso stimato intorno al 24 per cento. Il suo leader Jonas Gahr Støre, già ministro degli Esteri tra il 2005 e il 2012, è dunque il favorito per diventare il prossimo capo del governo. Al contrario, in caso di vittoria del centrodestra Erna Solberg (soprannominata “Iron Erna” per via della sua ammirazione per Margaret Thatcher) diventerebbe la prima premier della storia norvegese ad essere eletta per tre mandati consecutivi. Tuttavia, le rilevazioni non le sorridono. Nonostante una buona popolarità personale, il suo partito Høyre sarebbe inchiodato al 19 per cento dei consensi. A complicare la situazione, il rischio che gli alleati liberali di Venstre e cristiano-democratici di KrF non superino la soglia di sbarramento fissata al 4 per cento. Decisivo potrebbe essere il ruolo dei centristi di SP, che con un seguito stimato intorno al 13 per cento rappresentano il vero ago della bilancia di queste elezioni. 

    Più frammentata la situazione alla sinistra di AP. Sinistra Socialista (SV), Verdi (MDG) e Partito Rosso (R) sono tutti ostili al SEE e favorevoli allo stop delle esplorazioni di idrocarburi, ma si dividono sulla visione economica, con i rossi che hanno una dottrina dichiaratamente marxista. A completare il quadro politico la destra libertaria e populista del Partito del Progresso (FrP), che nonostante un seguito più che discreto dovrebbe essere esclusa dalla formazione del prossimo governo. Il leader laburista Gahr Støre ha dichiarato di augurarsi di riuscire a formare una coalizione progressista con i centristi e Sinistra Socialista. Non sarà semplice, le distanze sul tema energetico sono ampie e la strada per il nuovo governo, complici la frammentazione politica e la legge elettorale proporzionale, risulta essere tutta in salita.

    Elezioni a Oslo: il centrodestra rischia di perdere la guida del governo dopo 8 anni. Favoriti i laburisti. Il Paese, grande produttore di petrolio, alla prova della transizione green