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    Un progetto geopolitico minato dall’interno. Perché l’Ue deve cambiare passo sull’allargamento

    Bruxelles – Il futuro è un passo, ma in mezzo c’è l’ostacolo di un Consiglio Europeo a oggi ostaggio delle decisioni di un solo leader, il premier ungherese Viktor Orbán. La situazione evidenzia non solo l’importanza dell’allargamento Ue sul piano geostrategico – in particolare dopo lo scoppio della guerra russa in Ucraina – ma soprattutto le difficoltà attuali dell’Unione di portare a compimento le promesse decennali ai Paesi candidati realizzando contemporaneamente una riforma interna per non snaturare l’Unione con il potenziale ingresso di 10 nuovi Stati membri nel futuro a medio/lungo termine.La presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen (8 novembre 2023)La necessità di focalizzarsi con più serietà sulla questione dell’allargamento Ue è emersa con urgenza dopo i fatti del 24 febbraio 2022 e con le richieste di Ucraina, Moldova e Georgia di aderire all’Unione. L’offensiva russa ha dimostrato i rischi di un continente in balia di un progetto imperialista da parte del Cremlino, che sarebbe interessato sia all’annessione degli ex-Paesi sovietici, sia alla destabilizzazione con una guerra ibrida a quello che rappresenta da sempre il buco nero dell’integrazione europea: i sei Paesi dei Balcani Occidentali (Albania, Bosnia ed Erzegovina, Kosovo, Macedonia del Nord, Montenegro e Serbia), che in varie forme e a diversi stadi si sono tutti già incamminati da anni sulla strada dell’adesione all’Ue. In altre parole, il progetto di “pace, democrazia e stabilità sul continente” rappresentato dall’Unione Europea – come continuano a ripetere tutti i leader delle istituzioni comunitarie – non può concretizzarsi se i Paesi che hanno fatto richiesta di aderire continueranno a essere ignorati, dal momento in cui la frustrazione di politici e cittadini (a stragrande maggioranza europeisti) li spingerà a cercare supporto in regimi autocratici come quello russo. Il mancato allineamento della Serbia alle misure restrittive contro Mosca e il secessionismo serbo-bosniaco contro Sarajevo sono stati un chiaro campanello d’allarme.C’è da riconoscere che la spinta all’allargamento Ue non è solo una questione di rispetto delle promesse o anti-Russia, ma è diventata anche una vera e propria priorità dell’Unione sul piano politico ed economico. Lo dimostra in primis la serie di pacchetti da miliardi di euro in investimenti diretti e indiretti a sostegno di tutti i partner più stretti – da quelli per la sopravvivenza finanziaria dell’Ucraina a quello di crescita economica per i Balcani Occidentali, oltre al supporto contro la crisi energetica. E poi non va dimenticato il nuovo obiettivo al 2030 annunciato a fine agosto dal presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, che ha fornito (anche in modo controverso) una data entro cui tutti siano pronti per l’allargamento Ue, dentro e fuori l’Unione. Seppur contestando implicitamente la definizione di un obiettivo temporale in un processo “basato sul merito”, anche la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, ha fatto un passo in avanti nel suo ultimo discorso sullo Stato dell’Unione a settembre, collegando in modo esplicito il processo di allargamento Ue alla riforma dei Trattati su cui si fonda l’Ue.Il presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel (28 agosto 2023)È qui che si entra nel ventre molle dell’Unione, quello di un processo che rigeneri l’Unione rendendola all’altezza delle sfide future. Sulla base di una proposta franco-tedesca particolarmente articolata, i 27 leader Ue hanno iniziato al Consiglio informale di Granada a discutere di un’agenda strategica in tre punti – priorità future, sistema decisionale e modalità di finanziamento comune – che inevitabilmente tiene insieme allargamento Ue e riforma del Trattati. Oltre alle discussioni servirebbe ora un’azione urgente, perché le richieste di adesione sono già sul tavolo e richiedono una risposta immediata. Tra le altre cose, la riforma interna non potrebbe prescindere dall’abbandono dell’unanimità e del diritto di veto in Consiglio, perché non è immaginabile un’Unione a 32 (con i candidati che hanno già avviato i negoziati di adesione), a 35 (con anche quelli che hanno ricevuto lo status di Paese candidato) o 37 (con tutti dentro, compresi Kosovo e Georgia), in cui un solo Paese può tenere in stallo tutto il sistema decisionale comune.La riforma dovrà però essere concordata da tutti gli attuali membri dell’Unione ed è questo il punto in cui al momento tutto il palco rischia di cadere. Per questioni di fondi da redistribuire tra più Paesi (soprattutto quelli di coesione e dell’agricoltura) e consapevolezza che senza il diritto di veto il peso di ogni singola capitale vale meno (in altri termini, verrebbe meno la possibilità di ‘ricattare’ Bruxelles per ottenere qualcosa in cambio dell’unanimità), alcuni tra i Ventisette non mostrano alcun interesse ad allinearsi a questa ambizione comunitaria, da cui dipende lo stesso processo di allargamento Ue. In particolare l’Ungheria di Orbán ha scelto una posizione apertamente ostruzionista nei confronti dell’avvio dei negoziati di adesione all’Ucraina e al proseguo del finanziamento a Kiev, come una sorta di vendetta per il congelamento di quasi 30 miliardi di euro in fondi Ue per il mancato rispetto dello Stato di diritto. Il rischio concreto ora è che non solo non arrivi il via libera del Consiglio Europeo in programma domani e dopodomani (14-15 dicembre) ai negoziati con l’Ucraina, ma che tutto il processo di allargamento Ue si incagli nella settimana più decisiva degli ultimi anni.A che punto è l’allargamento UeSui sei Paesi dei Balcani Occidentali che hanno iniziato il lungo percorso per l’adesione Ue, quattro hanno già iniziato i negoziati di adesione – Albania, Macedonia del Nord, Montenegro e Serbia – uno ha ricevuto lo status di Paese candidato – la Bosnia ed Erzegovina – e l’ultimo ha presentato formalmente richiesta ed è in attesa del responso dei Ventisette – il Kosovo. Per Tirana e Skopje i negoziati sono iniziati nel luglio dello scorso anno, dopo un’attesa rispettivamente di otto e 17 anni, mentre Podgorica e Belgrado si trovano a questo stadio rispettivamente da 11 e nove anni. Dopo sei anni dalla domanda di adesione Ue, il 15 dicembre dello scorso anno anche Sarajevo è diventato un candidato a fare ingresso nell’Unione, mentre Pristina è nella posizione più complicata, dopo la richiesta formale inviata alla fine dello scorso anno: dalla dichiarazione unilaterale di indipendenza da Belgrado nel 2008 cinque Stati membri Ue – Cipro, Grecia, Romania, Spagna e Slovacchia – continuano a non riconoscerlo come Stato sovrano.Lo stravolgimento nell’allargamento Ue è iniziato quattro giorni dopo l’aggressione armata russa quando, nel pieno della guerra, l’Ucraina ha fatto richiesta di adesione “immediata” all’Unione, con la domanda firmata il 28 febbraio 2022 dal presidente Zelensky. A dimostrare l’irreversibilità di un processo di avvicinamento a Bruxelles come netta reazione al rischio di vedere cancellata la propria indipendenza da Mosca, tre giorni dopo (3 marzo) anche Georgia e Moldova hanno deciso di intraprendere la stessa strada. Il Consiglio Europeo del 23 giugno 2022 ha approvato la linea tracciata dalla Commissione nella sua raccomandazione: Kiev e Chișinău sono diventati il sesto e settimo candidato all’adesione all’Unione, mentre a Tbilisi è stata riconosciuta la prospettiva europea nel processo di allargamento Ue. Nel Pacchetto Allargamento Ue 2023 la Commissione ha raccomandato al Consiglio di avviare i negoziati di adesione con Ucraina e Moldova – anche con la Bosnia ed Erzegovina quando sarà raggiunta la conformità ai criteri di adesione – e di concedere alla Georgia lo status di Paese candidato.I negoziati per l’adesione della Turchia all’Unione Europea sono stati invece avviati nel 2005, ma sono congelati ormai dal 2018 a causa dei dei passi indietro su democrazia, Stato di diritto, diritti fondamentali e indipendenza della magistratura. Nel capitolo sulla Turchia dell’ultimo Pacchetto annuale sull’allargamento presentato nell’ottobre 2022 è stato messo nero su bianco che “non inverte la rotta e continua ad allontanarsi dalle posizioni Ue sullo Stato di diritto, aumentando le tensioni sul rispetto dei confini nel Mediterraneo Orientale”. Al vertice Nato di Vilnius a fine giugno il presidente turco, Recep Tayyip Erdoğan, ha cercato di forzare la mano, minacciando di voler vincolare l’adesione della Svezia all’Alleanza Atlantica solo quando Bruxelles aprirà di nuovo il percorso della Turchia nell’Unione Europea. Il ricatto non è andato a segno, ma il dossier su Ankara è stato affrontato in una relazione strategica apposita a Bruxelles.Come si aderisce all’Unione EuropeaIl processo di allargamento Ue inizia con la presentazione da parte di uno Stato extra-Ue della domanda formale di candidatura all’adesione, che deve essere presentata alla presidenza di turno del Consiglio dell’Unione Europea. Per l’adesione all’Unione è necessario prima di tutto superare l’esame dei criteri di Copenaghen (stabiliti in occasione del Consiglio Europeo nella capitale danese nel 1993 e rafforzati con l’appuntamento dei leader Ue a Madrid due anni più tardi). Questi criteri si dividono in tre gruppi di richieste basilari che l’Unione rivolge al Paese che ha fatto richiesta di adesione: Stato di diritto e istituzioni democratiche (inclusi il rispetto dei diritti umani e la tutela delle minoranze), economia di mercato stabile (capacità di far fronte alle forze del mercato e alla pressione concorrenziale) e rispetto degli obblighi che ne derivano (attuare efficacemente il corpo del diritto comunitario e soddisfare gli obiettivi dell’Unione politica, economica e monetaria).Ottenuto il parere positivo della Commissione, si arriva al conferimento dello status di Paese candidato con l’approvazione di tutti i membri dell’Unione. Segue la raccomandazione della Commissione al Consiglio Ue di avviare i negoziati che, anche in questo caso, richiede il via libera all’unanimità dei Paesi membri: si possono così aprire i capitoli di negoziazione (in numero variabile), il cui scopo è preparare il candidato in particolare sull’attuazione delle riforme giudiziarie, amministrative ed economiche necessarie. Quando i negoziati sono completati e l’allargamento Ue è possibile in termini di capacità di assorbimento, si arriva alla firma del Trattato di adesione (con termini e condizioni per l’adesione, comprese eventuali clausole di salvaguardia e disposizioni transitorie), che deve essere prima approvato dal Parlamento Europeo e dal Consiglio all’unanimità.Per i Balcani Occidentali è previsto un processo parallelo – e separato – ai negoziati di adesione all’Unione, che ha comunque un impatto sull’allargamento Ue. Il processo di stabilizzazione e associazione è finalizzato ad aiutare i partner balcanici per un’eventuale adesione, attraverso obiettivi politici ed economici che stabilizzino la regione e creino un’area di libero scambio. Dopo la definizione di un quadro generale delle relazioni bilaterali tra l’Unione Europea e il Paese partner, la firma dell’Accordo di stabilizzazione e associazione offre la prospettiva futura di adesione.Trovi ulteriori approfondimenti sulla regione balcanica nella newsletter BarBalcani ospitata da Eunews

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    I leader Ue incontrano quelli di Serbia e Kosovo: “Mettete in opera gli accordi di Bruxelles”

    Bruxelles – Qualche soddisfazione dopo i colloqui c’è, a voce i leader dell’Unione europea la mostrano, ma nei documenti ufficiali emerge la fragilità della situazione tra Serbia e Kosovo.Ieri (26 ottobre), in occasione della prima giornata del Consiglio europeo, si è tenuto un incontro tra il primo ministro Albin Kurti (Kosovo) e il presidente Aleksandar Vučić (Serbia), con alcuni leader europei. Presenti il presidente della Francia Emmanuel Macron, il cancelliere tedesco Olaf Scholz e la presidente del Consiglio italiano Giorgia Meloni, insieme al presidente del Consiglio europeo Charles Michel, l’Alto rappresentante Josep Borrell e l’Alto rappresentante speciale per il dialogo Pristina-Belgrado Miroslav Lajčák. “La bozza di statuto che abbiamo presentato e che appoggiamo pienamente comprende un modo moderno ed europeo di affrontare la delicata questione della tutela delle minoranze in linea con le migliori pratiche e standard europei, all’interno dei parametri definiti dalle Parti”, si legge nella dichiarazione congiunta diffusa questa sera. Ma c’è anche la richiesta, reiterata, che il Kosovo avvii la procedura per la creazione dell’Associazione dei Comuni a maggioranza serba nei suoi confini, come previsto dalla bozza di Statuto, e che la Serbia proceda al riconoscimento del piccolo Stato.Il presidente francese questa sera incontrando i giornalisti sembra soddisfatto della posizione dei leader della Serbia e del Kosovo: “Abbiamo ottenuto un impegno dalle due parti molto chiaro: mettere in opera gli accordi di Bruxelles e l’attuazione di un’associazione di municipalità serbe (a maggioranza serba nel Kosovo, ndr.) il prima possibile”. Accordi, questi, raggiunti nell’aprile 2013 con lo scopo di normalizzare i rapporti tra i due Stati.“Entrambi vogliono far parte dell’Unione europea, pertanto devono diventare dei vicini migliori“, ha sottolineato Scholz. Che guarda alla situazione con ottimismo: “Il concetto di avere un’associazione di municipalità a maggioranza serba nel Kosovo sarà attuato”, ha dichiarato oggi (27 ottobre), alla fine del Consiglio europeo. “La questione è garantire un futuro ai cittadini e le cittadine in Kosovo e in Serbia, in prospettiva pacifica”, ha aggiunto il cancelliere. “La fase di attuazione dovrebbe procedere con l’adempimento parallelo dei rispettivi obblighi da parte di entrambe le Parti, in modo graduale, sulla base del principio che entrambe le Parti devono fare qualcosa per ottenere qualcosa. L’attenzione dovrebbe ora concentrarsi sull’avanzamento della piena attuazione dell’accordo senza precondizioni o ritardi“, si legge ancora nella dichiarazione congiunta.Anche Michel ha mostrato un apprezzamento verso l’apertura al dialogo di Vučić e Kurti: “La questione principale riguardo l’incontro di ieri è l’impegno espresso dai due leader a mettere in atto gli accordi che sono sul tavolo”, ha dichiarato al termine del Consiglio europeo. Ribadendo, però, che l’Europa è ferma sulle sue richieste: “Noi chiediamo istantaneamente che questi accordi siano attuati, perché siamo convinti che sia il cammino verso la normalizzazione”. Meloni ha invece affidato a una nota diffusa da palazzo Chigi la sua posizione: “Il presidente ha reiterato il continuo e convinto sostegno del Governo italiano al percorso europeo di Serbia e Kosovo e di tutti gli altri Paesi dei Balcani occidentali, nell’ottica di una necessaria riunificazione del Continente europeo“.Ma dai documenti ufficiali sembrano trapelare più timori. “Il Consiglio europeo è profondamente preoccupato per la situazione della sicurezza nel nord del Kosovo. Condanna fermamente il violento attacco contro la polizia del Kosovo il 24 settembre 2023 – si legge nelle conclusioni finali a firma dei Ventisette -. L‘Unione europea si aspetta che i responsabili siano arrestati e consegnati rapidamente alla giustizia e che la Serbia cooperi pienamente e adotti tutte le misure necessarie al riguardo”.La richiesta unanime degli Stati membri è che Pristina e Belgrado allentino la tensione e garantiscano lo svolgimento di nuove elezioni nel nord del Kosovo il prima possibile, con la partecipazione attiva dei serbi kosovari. “Il mancato allentamento delle tensioni avrà delle conseguenze. Il Consiglio europeo – afferma il comunicato finale diramato dopo i due giorni di incontro a Bruxelles – si rammarica della mancata attuazione da parte di entrambe le parti dell’accordo sul percorso verso la normalizzazione e del relativo allegato di attuazione, nonché di altri accordi raggiunti nel dialogo facilitato dall’Ue, guidato dall’Alto Rappresentante e sostenuto dal Rappresentante speciale dell’Ue”, si legge nel documento.
    Scholz: “Se vogliono entrare nell’Ue, devono diventare dei vicini migliori”

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    Al Consiglio europeo passa la linea morbida sull’assedio israeliano a Gaza

    Bruxelles – Dopo oltre cinque ore di discussione, i capi di stato e di governo dell’Ue riuniti per il Consiglio europeo sono riusciti a trovare una quadra comune sulla crisi in Medio Oriente. Tanto ci è voluto per limare – e ammorbidire ancora – il linguaggio scelto per la versione finale delle conclusioni del vertice. Nessuna richiesta di cessate il fuoco, passa la linea dell’appello per “corridoi umanitari e pause per necessità umanitarie” a Gaza. E contemporaneamente sparisce la “ferma condanna nei termini di tutte le violenze e ostilità contro tutti i civili”, sostituita dalla “deplorazione per tutte le perdite di vite civili”.Manifestanti chiedono il cessate il fuoco a Gaza (Photo by Kenzo TRIBOUILLARD / AFP)Sembrano dettagli, ma sono fondamentali per carpire il messaggio politico lanciato dai 27 leader Ue. Messaggio arrivato anche alle diverse centinaia di manifestanti che, in solidarietà al popolo palestinese, si sono dati appuntamento in serata a pochi metri dalla sede del Consiglio europeo, nel cuore del quartiere delle istituzioni europee a Bruxelles. I 27 alla fine hanno scelto di alleggerire le critiche sull’eccessivo uso della forza da parte dell’alleato israeliano. “Il Consiglio europeo enfatizza con fermezza il diritto di Israele a difendersi in linea con la legge umanitaria internazionale” e “condanna nei termini più forti possibili Hamas per i suoi attacchi terroristici brutali e indiscriminati”. I leader ribadiscono inoltre l’appello “per il rilascio immediato di tutti gli ostaggi senza condizioni”.Troppo poco sulle vittime palestinesi dei bombardamenti israeliani, che secondo le stime del Ministero della Salute di Gaza – controllato da Hamas – sono già oltre 7 mila: i 27 non vanno oltre “l’importanza di assicurare la protezione di tutti i civili in ogni circostanza e in accordo con il diritto internazionale umanitario”. Per quanto riguarda l’accesso dei convogli di aiuti internazionali a Gaza, l’Ue chiede un “accesso umanitario continuo, rapido, sicuro e senza ostacoli” di “cibo, acqua, assistenza medica, materiale da campo e carburante“. Garantendo però che “tale assistenza non sia abusata dai terroristi”.Il cancelliere tedesco Olaf Scholz al Consiglio europeo, 26/10/23Passa così la linea dei Paesi più vicini a Tel Aviv, tra i quali hanno fatto sentire il proprio peso Germania e Austria. Al suo arrivo a Bruxelles, il cancelliere tedesco Olaf Scholz aveva indicato la sua priorità: “Chiarire ancora una volta il sostegno a Israele contro il brutale attacco di Hamas”, che ha violato “tutti i principi dell’umanità”. Non solo, Scholz si è detto convinto che nelle sue operazioni militari l’esercito israeliano avesse sempre “rispettato le regole del diritto internazionale”. Chiaro il messaggio anche da parte del suo omologo austriaco, Karl Nehammer, che ha dichiarato che “tutte le fantasie sul cessate il fuoco e sulla cessazione delle ostilità hanno portato al rafforzamento di Hamas”.Dall’altra parte c’era più di tutti il primo ministro spagnolo Pedro Sanchez, che ha sposato la linea che è poi quella del segretario generale dell’Onu: Madrid voleva un “cessate il fuoco”, anche se realisticamente lo stesso Sanchez questo pomeriggio aveva ammesso che non sussistevano le condizioni per una tale richiesta. Nel gioco degli equilibri tra le 27 anime dell’Unione europea, Sanchez è stato accontentato su un altro punto: nella versione finale delle conclusioni si accenna al “supporto per organizzare presto una conferenza internazionale di pace“, che è la richiesta fatta a gran voce dal leader socialista spagnolo.
    I 27 leader Ue si incagliano per oltre 5 ore sul linguaggio migliore per non compromettere il diritto di Israele a difendersi. Nessun cessate il fuoco, ma la richiesta di “pause per necessità umanitarie”. E l’appoggio all’appello di Sanchez per una conferenza di pace internazionale

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    Tutto ciò che c’è da sapere sulla proposta franco-tedesca per adeguare l’Unione Europea a un suo futuro allargamento

    Bruxelles – Un lavoro iniziato otto mesi fa sotto gli auspici del presidente francese, Emmanuel Macron, e del cancelliere tedesco, Olaf Scholz, per coniugare due dei temi più caldi per il futuro dell’Unione Europea: l’allargamento Ue e la riforma dei Trattati fondanti della stessa Unione. “Per ragioni geopolitiche, l’allargamento Ue è in cima all’agenda politica, ma l’Unione non è ancora pronta ad accogliere nuovi membri, né dal punto di vista istituzionale né da quello politico“, è quanto mette nero su bianco il Gruppo dei Dodici nel suo rapporto su cui si fonda la proposta franco-tedesca per il rinnovamento dell’Unione Europea e che oggi (19 settembre) è stato presentato a Bruxelles ai ministri degli Affari europei.
    Un report di 58 pagine particolarmente denso, in cui vengono trattate nel dettaglio le priorità imprescindibili dell’Unione – a partire dallo Stato di diritto – le aree di riforma con le rispettive esigenze di modifica dei Trattati – dal processo decisionale in Consiglio al numero di seggi al Parlamento Ue e di membri del Collegio dei commissari – le implicazioni per il bilancio comunitario, la possibile creazione di un’integrazione europea basata su quattro livelli e i principi-guida per il processo di allargamento Ue. “Riconoscendo la complessità di allineare le diverse visioni degli Stati membri sull’Unione Europea, il rapporto raccomanda un processo di riforma e di allargamento Ue flessibile”, si legge nel testo redatto da 12 esperti indipendenti, che mettono in guardia sul fatto che “le istituzioni e i meccanismi decisionali non sono stati concepiti per un gruppo di 37 Paesi“. Ovvero gli attuali 27 membri più i 10 partner che si sono avviati sulla strada dell’adesione: Albania, Bosnia ed Erzegovina, Georgia, Kosovo, Macedonia del Nord, Moldova, Montenegro, Serbia, Turchia e Ucraina.
    La riforma delle istituzioni
    Il punto di partenza è la protezione dello Stato di diritto. In primis rendendo il meccanismo di condizionalità uno strumento contro le violazioni da poter estendere anche a fondi futuri. E come seconda soluzione perfezionare la procedura secondo l’articolo 7 del Trattato sull’Unione Europea (quella che sospende il diritto di voto in Consiglio), introducendo una maggioranza di quattro quinti del Consiglio per farla scattare (al posto di unanimità meno uno) e includendo limiti di tempo per costringere i capi di Stato e di governo a prendere una decisione.
    Tutte le istituzioni comunitarie sono interessate dalla riforma dell’Unione. Il Parlamento manterrebbe il limite di 751 “o meno” eurodeputati (quindi meno rappresentanti per Stato membro), con l’adozione di un nuovo sistema di assegnazione dei seggi, basato su una formula che bilancia il diritto di ogni membro a essere rappresentato e la necessità di ridurre le distorsioni demografiche. Anche per la Commissione si considerano le dimensioni del Collegio, con due opzioni: o una riduzione del numero di commissari (non più uno per Stato membro) o una differenziazione tra “commissari guida” e “commissari”, in cui solo i primi hanno il diritto di voto. Il Consiglio dell’Ue dovrebbe invece essere riorganizzato da un formato a tre a un quintetto di presidenza che copra metà di un ciclo istituzionale (sei mesi per membro). Il Consiglio è l’istituzione più delicata da riformare, con l’idea fondante di “generalizzare il voto a maggioranza qualificata” a tutte le decisioni “politiche”, con salvaguardie come una “rete di sicurezza per la sovranità”, il calcolo delle quote di voto riequilibrato da 65/55 a 60/60 e opt-out per i settori politici interessati.
    Democrazia, poteri e bilancio
    Per salvaguardare la democrazia europea dovranno essere armonizzate le leggi elettorali, “almeno entro il 2029” (per il rinnovo dell’Eurocamera), ma serve una decisione “prima delle prossime elezioni” del 2024 anche sulla nomina del presidente della Commissione: o come accordo inter-istituzionale o come accordo politico. I cittadini dovranno essere coinvolti più da vicino con strumenti partecipativi legati al processo decisionale e a quello di allargamento Ue, mentre un nuovo Ufficio indipendente per la trasparenza e la probità dovrebbe monitorare le attività di tutti gli attori che lavorano nelle – o per le – istituzioni comunitarie. Va a braccetto la questione della definizione delle competenze, con la necessità di “rafforzare le disposizioni su come affrontare gli sviluppi imprevisti”, includendo meglio il Parlamento e creando una Camera congiunta delle più alte giurisdizioni dell’Ue come dialogo non vincolante tra le giurisdizioni europee e quelle degli Stati membri.
    Ma in questo capitolo l’attenzione è tutta rivolta al bilancio comunitario, di fronte a un potenziale aumento dei membri e delle politiche da finanziare collettivamente. Nel prossimo periodo di bilancio (2028-2034) dovrà essere aumentato il budget “sia in termini nominali sia in relazione al Pil”. Serviranno nuove risorse proprie per limitare l’ottimizzazione fiscale, l’elusione e la concorrenza, mentre le decisioni di bilancio dovranno essere prese per maggioranza qualificata (o in alternativa con una cooperazione più intensa tra gruppi più piccoli di Stati membri per finanziare insieme le politiche). Dovrà poi essere condotta una revisione per ridurre o aumentare le dimensioni di determinate aree di spesa e viene sancito il principio secondo cui l’Ue dovrebbe poter emettere debito comune in futuro. Dal 2034 – quando le due scadenze si allineeranno – il ciclo istituzionale avrà il compito di stabilire un nuovo quadro finanziario pluriennale della durata di 5 anni (e non più 7).
    Integrazione differenziata e processo di allargamento Ue
    L’ultima parte del rapporto del Gruppo dei Dodici è legato all’allargamento Ue vero e proprio, ma anche alle forme di integrazione che l’Unione dovrebbe assumere su diversi livelli. Prima di tutto viene considerato come modificare i Trattati, con sei opzioni sul tavolo: attivazione dell’articolo 48 del Tue (procedura di revisione ordinaria), una procedura di revisione semplificata, l’attivazione dell’articolo 49 del Tue (trattati di adesione di nuovi membri che modificano quelli istitutivi), “trattato quadro di allargamento e riforma” redatto dagli Stati membri, coinvolgimento di una Convenzione e – “in caso di stallo” – trattato di riforma supplementare tra gli Stati membri disposti a farlo.
    Alla riforma dei Trattati si accompagna la definizione dei 5 principi di integrazione differenziata all’interno dell’Ue: rispetto dell’acquis comunitario e dell’integrità delle politiche e delle azioni Ue, uso delle istituzioni comunitarie, apertura a tutti i membri, condivisione dei poteri decisionali, dei costi e dei benefici, e avanzamento da parte dei “volenterosi” che vogliano spingere oltre l’integrazione. Mentre agli Stati non cooperativi o non disposti a collaborare vengono offerti opt-out (opzioni di non partecipazione) nel nuovo Trattato – fatto salvo l’acquis comunitario e i valori fondanti – il futuro dell’integrazione europea viene immaginato su quattro livelli distinti: una cerchia interna di membri Schengen, dell’Eurozona e di altre “coalizioni di volenterosi”, l’Unione Europea con membri vecchi e nuovi, i membri associati al Mercato unico (come Norvegia e Svizzera) e – fuori dal perimetro dello Stato di diritto – la Comunità Politica Europea 2.0 che abbia al centro la convergenza geopolitica e strutturata su accordi bilaterali con l’Ue.
    In tutto questo deve rimanere chiaro l’obiettivo di essere pronti per l’allargamento Ue entro il 2030, così come anticipato dal presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel – mentre parallelamente i Paesi candidati dovranno lavorare per soddisfare tutti i criteri di adesione entro la stessa data (e già si sono detti disponibili a farlo). Nel rapporto viene stimolata la nuova leadership politica dopo le elezioni del 2024 a impegnarsi per questo obiettivo e concordare sulla preparazione per l’allargamento Ue entro la fine del decennio. Il discorso riguarda però da vicino anche lo stesso processo di allargamento Ue, a partire dalla suddivisione dei cicli di adesione in gruppi più piccoli di Paesi (ciascuno di questi definito ‘regata’). Nove principi dovrebbero guidare poi le future strategie di allargamento Ue: ‘prima le basi’, geopolitico, risoluzione dei conflitti, supporto tecnico e finanziario aggiuntivo, legittimità democratica, eguaglianza, ‘sistematizzazione’, reversibilità e voto a maggioranza qualificata.

    Riforma delle istituzioni, risorse comuni, integrazione differenziata e nuovo processo di adesione dei candidati. I governi hanno iniziato a discutere sulle proposte del Gruppo dei Dodici per mettere l’Unione nelle condizioni di non farsi trovare impreparata all’appuntamento del 2030

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    Al Vertice Ue von der Leyen promette una proposta per usare gli asset russi congelati per l’Ucraina

    Bruxelles – La Commissione europea presenterà una proposta su come utilizzare i beni russi congelati per la ricostruzione dell’Ucraina. Al Vertice europeo che si è tenuto ieri e oggi (29 e 30 giugno) a Bruxelles “abbiamo discusso degli asset russi congelati e abbiamo intenzione di presentare una proposta. Ci concentreremo prudentemente sugli extra profitti derivanti dalle attività congelate della Banca centrale russa”, ha confermato la  presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, in conferenza stampa al termine della due giorni di Vertice europeo.
    Di approccio prudente parla von der Leyen dal momento che la questione è particolarmente divisiva e complessa, e ci sono opinioni diverse e diverse opzioni sul tavolo su come sfruttarli. Tra queste, l’ipotesi di tassarli, anche se l’idea è di trovare un consenso tale da farlo tutti insieme, a Ventisette. Il tema dell’uso dei proventi ricavati dagli asset russi congelati per contribuire ad aiutare l’Ucraina nella ricostruzione è abbastanza controverso, perché può comportare dei rischi per l’attrattività internazionale dell’euro.
    La Commissione europea sta lavorando a una proposta, dunque. Ma lo fa con prudenza, per cercare una soluzione a 27 che metta d’accordo tutti. Von der Leyen ha fatto il punto su quanto ottenuto sulla Russia durante l’attuale presidenza di Svezia alla guida dell’Ue, che si concluderà tra poche ore per lasciare il posto alla Spagna. “Abbiamo anche compiuto progressi nel sanzionare la Russia. La scorsa settimana abbiamo adottato l’undicesimo pacchetto di sanzioni che mira sostanzialmente a scappatoie e all’elusione delle sanzioni. Sotto la sua Presidenza, abbiamo compiuto solidi progressi in materia di responsabilità, nel nostro lavoro per consegnare alla giustizia i crimini della Russia”. Non cuna proposta, in questo momento, che possa diventare legge” sull’utilizzo degli asset russi congelati per la ricostruzione dell’Ucraina.

    L’annuncio della presidente della Commissione europea al termine del Consiglio europeo

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    Il vertice dei leader Ue dà il via libera alla nuova strategia dell’Unione sulla Cina: de-risking e relazioni equilibrate

    Bruxelles – In un Consiglio Europeo dominato dalla questione migrazione, il capitolo sulla Cina rimane quasi ai margini, almeno se confrontato con le attese fino a un mese fa. Eppure il contenuto è un orientamento strategico dell’Unione non di poco conto, che costituirà per il prossimo futuro la base di partenza su cui impostare qualsiasi discorso e confronto con Pechino: “Nonostante i diversi sistemi politici ed economici, l’Unione Europea e la Cina hanno un interesse comune a perseguire relazioni costruttive e stabili, ancorate al rispetto dell’ordine internazionale basato sulle regole, all’impegno equilibrato e alla reciprocità”, si legge nelle conclusioni del vertice dei leader Ue.
    La presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen (29 giugno 2023)
    Come affermato per la prima volta nel discorso programmatico della presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, sulle direttrici strategiche per il riorientamento dei rapporti Ue-Cina lo scorso 30 marzo, i Ventisette confermano che l’Unione “continuerà a impegnarsi con la Cina per affrontare le sfide globali”, ma soprattutto incoraggia Pechino a “intraprendere azioni più ambiziose in materia di cambiamenti climatici e biodiversità, salute e preparazione alle pandemie, sicurezza alimentare, riduzione delle catastrofi, riduzione del debito e assistenza umanitaria”. La discussione strategica tra i 27 capi di Stato e di governo si è dimostrata un lavoro “rapido” sia nel lavoro per avere “una posizione unica”, ma anche per concordare conclusioni che mettessero in chiaro come Pechino sia “contemporaneamente partner, concorrente e rivale sistemico” e che gli Stati membri devono tenere un “approccio politico multiforme”.
    Questo discorso riguarda prima di tutto l’aspetto economico e commerciale: “L’Unione Europea cercherà di garantire condizioni di parità, in modo che le relazioni commerciali ed economiche siano equilibrate, reciproche e reciprocamente vantaggiose”. L’obiettivo dichiarato è quello di “ridurre le dipendenze e le vulnerabilità critiche, anche nelle catene di approvvigionamento”, così come “diversificare dove necessario e appropriato”. La stella polare – discussa anche nel confronto del 6 aprile a Pechino tra la presidente della Commissione Ue von der Leyen, quello francese, Emmanuel Macron, e quello cinese, Xi Jinping – rimane il fatto che “l’Unione Europea non intende disaccoppiarsi o ripiegarsi su se stessa“. O, come ripete la numero uno dell’esecutivo comunitario, “de-risking, non disaccoppiamento”, che significa “ridurre le vulnerabilità dal punto di vista delle nostre relazioni economiche” come sulle materie prime critiche necessarie per la produzione di tecnologia pulita. Un tema su cui “c’è ampio consenso sia tra i governi Ue sia con i nostri partner G7”, ha messo in chiaro von der Leyen.

    Ue e Cina su politica estera e interna (cinese)
    Ma nelle conclusioni del vertice rientrano anche tematiche di natura puramente politica. In primis quella del controverso rapporto tra Pechino e Mosca, che Bruxelles sta cercando di spezzare per assicurarsi un alleato di peso per spingere la Russia a cessare la sua invasione dell’Ucraina: “In qualità di membro permanente del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, la Cina ha una responsabilità speciale nel sostenere l’ordine internazionale basato sulle regole”, ricordano i leader Ue, facendo riferimento alla “pressione” che Xi Jinping dovrebbe esercitare su Vladimir Putin perché “cessi la sua guerra di aggressione e ritiri immediatamente, completamente e incondizionatamente le sue truppe dall’Ucraina”. Sempre sul piano delle relazioni esterne viene messo nero su bianco il fatto che “i mari della Cina orientale e meridionale sono di importanza strategica per la prosperità e la sicurezza regionale e globale” e che l’Unione “è preoccupata per le crescenti tensioni nello Stretto di Taiwan“. In questo senso il Consiglio “si oppone a qualsiasi tentativo unilaterale di cambiare lo status quo con la forza o la coercizione” e “riconferma la coerente politica di una sola Cina”.
    In ultima istanza non manca il riferimento al rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali, con un riferimento alla ripresa del dialogo sui diritti umani con la Cina. In ogni caso i Ventisette ribadiscono le preoccupazioni per “il lavoro forzato, il trattamento dei difensori dei diritti umani e delle persone appartenenti a minoranze e la situazione in Tibet e nello Xinjiang“, ma anche il rispetto dei “precedenti impegni della Cina in materia di impegni assunti dalla Cina in relazione a Hong Kong”.

    Nelle conclusioni del Consiglio Europeo trova spazio anche il capitolo sulle relazioni con Pechino, sulla base dei risultati del viaggio Macron-von der Leyen del 6 aprile: “È contemporaneamente partner, concorrente e rivale sistemico, serve un approccio politico multiforme”

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    Prima del Consiglio Ue von der Leyen sente i leader di Kosovo e Serbia. Borrell: “Stati membri stanno perdendo la pazienza”

    Bruxelles – Scende in campo la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, per cercare di dare il colpo definitivo ai rischi dell’aumento delle tensioni tra Kosovo e Serbia. “Ho sottolineato l’urgente necessità di una de-escalation e del ritorno al dialogo facilitato dall’Ue sulla normalizzazione delle relazioni con la Serbia”, ha reso noto oggi (27 giugno) in un tweet la stessa numero uno dell’esecutivo comunitario dopo la telefonata con il primo ministro del Kosovo, Albin Kurti, e poco prima di fare lo stesso con il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić. Colloqui che arrivano alla vigilia del Consiglio Europeo del 29-30 giugno, quando i capi di Stato e di governo dei 27 Paesi membri Ue troveranno anche la questione delle violenze degli ultimi mesi nel nord del Kosovo e della tensione tra Pristina e Belgrado sul tavolo delle discussioni.
    La presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, e il primo ministro dell’Albania, Edi Rama (27 giugno 2023)
    È la seconda volta che la presidente von der Leyen affronta la questione da quando il 26 maggio sono scoppiate le violente proteste nel nord del Kosovo che hanno portato a un aggravamento della situazione nella regione. “Le recenti tensioni sono preoccupanti, mi associo agli appelli rivolti a tutte le parti ad abbandonare lo scontro e ad adottare misure urgenti per ristabilire la calma“, aveva messo in chiaro la leader della Commissione presentando il nuovo piano di crescita per i Balcani Occidentali lo scorso 31 maggio. Da allora però è passato quasi un mese e sono stati pochi i segnali di riduzione delle provocazioni tra Pristina e Belgrado. Ma – come ha messo in chiaro l’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, in un punto stampa con il primo ministro dell’Albania, Edi Rama, al termine dell’incontro di oggi – “gli Stati membri stanno perdendo la pazienza davanti a una situazione che continua a deteriorarsi“. Della questione i 27 governi ne hanno discusso ieri (26 giugno) al Consiglio Affari Esteri, trovandosi d’accordo sul fatto che “le parti devono permettere la de-escalation della situazione e trovare una via basata sulla tabella di marcia proposta loro la settimana scorsa” alla riunione di emergenza a Bruxelles.
    A proposito delle discussioni a livello Ue, saranno proprio i 27 capi di Stato e di governo ad affrontare direttamente la questione tra giovedì e venerdì. Come emerge dall’ultima bozza delle conclusioni visionata da Eunews, il Consiglio Europeo “condanna i recenti episodi di violenza nel nord del Kosovo e chiede un’immediata attenuazione della situazione, sulla base degli elementi chiave già delineati dall’Unione europea il 3 giugno 2023″, in riferimento alla dichiarazione dell’alto rappresentante Borrell sulle violenze di inizio mese. La specifica sulla data è una novità rispetto alla prima versione delle conclusioni, ma non è l’unica. Spicca in particolare l’esortazione a entrambe le parti a “creare le condizioni per elezioni anticipate in tutti e quattro i comuni del nord del Kosovo” (Zubin Potok, Zvečan, Leposavić e Kosovska Mitrovica), mentre rimane la minaccia velata che “la mancata attenuazione delle tensioni avrà conseguenze negative”. Uguale il passaggio sulla necessità della ripresa del dialogo facilitato dall’Ue e la “rapida attuazione dell’Accordo sul percorso di normalizzazione e del relativo Allegato di attuazione” (ripetitivamente l’accordo di Bruxelles del 27 febbraio che ha definito gli impegni specifici per Serbia e Kosovo e l’intesa sull’allegato di implementazione raggiunta a Ohrid il 18 marzo). Ma nell’ultima bozza è stato incluso anche l’esplicito riferimento alla “istituzione dell’Associazione/Comunità dei Comuni a maggioranza serba“.
    L’arresto/sequestro di tre poliziotti kosovari dai servizi di sicurezza serbi nell’area di confine tra Serbia e Kosovo (14 giugno 2023)
    Anche il premier albanese Rama da Bruxelles ha messo in guardia sugli “effetti devastanti che un’ulteriore deterioramento della situazione potrebbe avere non solo in Kosovo e Serbia, ma in tutta la regione” dei Balcani Occidentali. Parole di soddisfazione sono state rivolte a Belgrado per aver risolto l’ultimo episodio di tensione – la liberazione di ieri dei tre poliziotti kosovari arrestati/rapiti dalle forze di sicurezza serbe il 14 giugno – ma “ora è tempo per una de-escalation urgente e immediata”, ha rimarcato il primo ministro: “Questa situazione non può impattare in modo negativo la regione, abbiamo molto da fare dopo tanti progressi, non può cadere tutto come un castello di sabbia”. Ecco perché l’idea condivisa da Tirana è quella di “una conferenza di massimo livello con Ue e Stati Uniti, che porti i leader dei due Paesi allo stesso tavolo“, è quanto avanzato da Rama. Da quel tavolo il premier Kurti e il presidente Vučić “non devono andarsene prima di aver trovato un accordo, altrimenti rischieranno di incorrere in conseguenze negative e spiacevoli per tutti”.
    Cosa sta succedendo tra Serbia e Kosovo
    Lo scorso 26 maggio sono scoppiate violentissime proteste nel nord del Kosovo da parte della minoranza serba a causa dell’insediamento dei neo-eletti sindaci di Zubin Potok, Zvečan, Leposavić e Kosovska Mitrovica. Proteste che si sono trasformate il 29 maggio in una guerriglia che ha coinvolto anche i soldati della missione internazionale Kfor a guida Nato (30 sono rimasti feriti, di cui 11 italiani). Una situazione deflagrata dalla decisione del governo Kurti di forzare la mano e far intervenire le forze speciali di polizia per permettere l’ingresso nei municipi ai sindaci eletti lo scorso 23 aprile in una tornata particolarmente controversa: l’affluenza al voto è stata tendente all’irrisorio – attorno al 3 per cento – a causa del boicottaggio di Lista Srpska, il partito serbo-kosovaro vicino al presidente serbo Vučić e responsabile anche dell’ostruzionismo per impedire ai sindaci di etnia albanese (a parte quello di Mitrovica, della minoranza bosniaca) di assumere l’incarico. Dopo il dispiegamento nel Paese balcanico di 700 membri aggiuntivi del contingente di riserva Kfor e una settimana di apparente stallo, nuove proteste sono scoppiate a inizio giugno per l’arresto di due manifestanti accusati di essere tra i responsabili delle violenze di fine maggio e per cui la polizia kosovara viene accusata di maltrattamenti in carcere.
    Scontri tra i manifestanti serbo-kosovari e i soldati della missione Nato Kfor a Zvečan, il 29 maggio 2023 (credits: Stringer / Afp)
    A gravare su una situazione già tesa c’è stato un ulteriore episodio che ha infiammato i rapporti tra Pristina e Belgrado: l’arresto/rapimento di tre poliziotti kosovari da parte dei servizi di sicurezza serbi lo scorso 14 giugno. Un evento per cui i due governi si sono accusati a vicenda di sconfinamento delle rispettive forze dell’ordine, in una zona di confine tra il nord del Kosovo e il sud della Serbia scarsamente controllata dalla polizia kosovara e solitamente usato da contrabbandieri che cercano di evitare i controlli di frontiera. Dopo settimane di continui appelli alla calma e alla de-escalation non ascoltati né a Pristina né a Belgrado, per Bruxelles si è resa necessaria una nuova soluzione ‘tampone’, ovvero convocare una riunione d’emergenza con il premier Kurti e il presidente Vučić per cercare delle vie percorribili per ritornare fuori dalla “modalità gestione della crisi” e rimettersi sul percorso della normalizzazione dei rapporti intrapreso tra Bruxelles e Ohrid. A pochi giorni dalla riunione a Bruxelles del 22 giugno è arrivata la scarcerazione dei tre poliziotti kosovari da parte della Serbia, ma la tensione tra Pristina e Belgrado rimane ancora alta e per il momento non è stato deciso nulla sulle nuove elezioni nel nord del Kosovo.

    La presidente della Commissione Ue ha telefonato al premier kosovaro, Albin Kurti, e al presidente serbo, Aleksandar Vučić, per ribadire “l’urgente necessità di una de-escalation e del ritorno al dialogo”. Nella bozze di conclusioni del vertice dei leader Ue inserito un punto specifico

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    Bufera per le parole dell’ambasciatore cinese in Francia sui Paesi ex-Urss. Relazioni con Pechino al Consiglio Ue di giugno

    Bruxelles – Scoppia la bufera diplomatica nell’Unione Europea sulle parole dell’ambasciatore cinese in Francia, che potrebbe avere ripercussioni pesanti sui rapporti Ue-Cina. “Sono inaccettabili le dichiarazioni” dell’ambasciatore Lu Shaye “che mettono in dubbio la sovranità dei Paesi divenuti indipendenti con la fine dell’Unione Sovietica nel 1991”, ha attaccato l’alto rappresentante per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell: “L’Ue può solo supporre che queste dichiarazioni non rappresentino la politica ufficiale della Cina”. Facendo ingresso questa mattina (24 aprile) al Consiglio Affari Esteri a Lussemburgo, lo stesso Borrell ha spiegato alla stampa che “oggi ne parleremo nel quadro della questione cinese, inizieremo a preparare le discussioni sui rapporti Ue-Cina del Consiglio Europeo di giugno“.
    Il presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, e il presidente della Cina, Xi Jinping
    Le polemiche sono state scatenate da un’intervista del diplomatico cinese al canale francese Lci, che ha messo in questione il fatto che “nel diritto internazionale i Paesi dell’ex-Unione Sovietica non hanno lo status effettivo, perché non esiste un accordo internazionale per materializzare il loro status di Paesi sovrani”. Dai Baltici all’Ucraina, dagli ‘stan’ al Caucaso, per l’ambasciatore Lu sarebbe in questione la sovranità e l’indipendenza di tutti gli Stati che si sono staccati dall’Unione Sovietica all’inizio degli anni Novanta. “La Cina deve rispettare l’Ue e tutti i suoi Stati membri, è cruciale per i nostri buoni rapporti”, è stato il secco commento del ministro degli Esteri italiano, Antonio Tajani, prima del vertice ministeriale a Lussemburgo: “È un Paese-chiave anche per spingere la Russia a lasciare l’Ucraina, ma sono in totale disaccordo con quanto detto dall’ambasciatore cinese”.
    Durissime le reazioni proprio di quei Paesi che per 50 anni hanno subito il giogo dell’Unione Sovietica e che oggi sono parte dell’Unione Europea (Lituania, Lettonia ed Estonia). “Quanto affermato è completamente inaccettabile, i tre Paesi baltici convocheranno gli ambasciatori cinesi per chiedere spiegazioni se la posizione sull’indipendenza è cambiata e per ricordare loro che eravamo Paesi illegalmente occupati dall’Unione Sovietica”, ha attaccato il ministro degli Esteri lituano, Gabrielius Landsbergis. Parole simili a quelle dell’omologo estone, Margus Tsahkna, che ha evidenziato come “ci servono spiegazioni sul perché la Cina ha questa posizione sui Paesi baltici, che sono indipendenti, sovrani e membri di Ue e Nato”. Anche Jan Lipavský, ministro degli Esteri della Repubblica Ceca (Paese del Patto di Varsavia fino al 1991) ha denunciato una dichiarazione che “ci sorprende, perché un rappresentante ufficiale dello Stato cinese dovrebbe sapere come si costruiscono le relazioni internazionali”. Fonti Ue fanno notare che non è comune che diplomatici cinesi si discostino dalla politica ufficiale di Pechino e sarà importante osservare “cosa succede all’ambasciatore” (se sarà richiamato o meno).
    L’alto rappresentante Ue Borrell ha promesso una “forte posizione per chiarire qual è la posizione ufficiale del governo cinese sulla sovranità e l’indipendenza di alcuni Stati membri Ue“, aprendo alle discussioni tra i Ventisette in vista del vertice dei leader del 29-30 giugno, in cui i rapporti Ue-Cina “saranno all’ordine del giorno”, ha precisato il presidente del Consiglio Ue, Charles Michel: “Dovrà rivalutare e ricalibrare la nostra strategia verso Pechino, è una delle questioni più importanti”, è l’esortazione di Borrell.

    I rapporti Ue-Cina tra viaggi, polemiche e strategie
    Le discussioni tra i 27 leader Ue si baseranno su quanto accaduto nell’ultimo mese a Bruxelles e Pechino, ma anche in Francia. È dello scorso 30 marzo il discorso della presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, in cui sono state definite le direttrici strategiche per il riorientamento dei rapporti Ue-Cina, considerato lo squilibrio commerciale con il partner/competitor. Una strategia che si baserà sul de-risking nelle aree in cui non è possibile trovare un’intesa di cooperazione, ma che in ogni caso non implica uno sganciamento di Bruxelles da Pechino. A stretto giro la leader dell’esecutivo comunitario e il presidente francese, Emmanuel Macron, si sono recati in visita a Pechino per discutere di persona delle relazioni Ue-Cina con il leader cinese, Xi Jinping: dalle relazioni economiche alla guerra russa in Ucraina, fino alle tensioni sullo Stretto di Taiwan.
    Proprio il tema del rapporto dei Ventisette con Taiwan – nel caso dell’escalation della tensione con Pechino – ha avvelenato il dibattito interno all’Unione sui rapporti Ue-Cina. A scatenare il vespaio sono state le parole del presidente francese Macron di ritorno dal viaggio a Pechino. “La cosa peggiore sarebbe pensare che noi europei dovremmo essere dei seguaci su questo tema e adattarci al ritmo americano e a una reazione eccessiva della Cina“, è stato il commento dell’inquilino dell’Eliseo, tratteggiando la necessità di una vera autonomia strategica europea (ma non un’equidistanza tra Washington e Pechino). Dopo la divisione tra le opinioni pubbliche nazionali nei 27 Paesi membri Ue sulle dichiarazioni di Macron e su come si dovrebbe raggiungere la chimera dell’autonomia strategica, le discussioni si sono spostate al Parlamento Europeo la scorsa settimana.
    Nel pieno della bagarre tra i gruppi politici alla sessione plenaria a Strasburgo, la presidente von der Leyen e l’alto rappresentante Borrell hanno messo in chiaro che serve unità contro la “politica di divisione e conquista” cinese e che le istituzioni europee si oppongono “fermamente” a qualsiasi cambiamento unilaterale dello status quo, “in particolare attraverso l’uso della forza”. A confermare questa posizione, in un’intervista a Le Journal du Dimanche lo stesso alto rappresentante Ue ha esortato le marine europee a “pattugliare lo Stretto di Taiwan, per dimostrare l’impegno dell’Europa a favore della libertà di navigazione in quest’area assolutamente cruciale” per il commercio globale.

    Il diplomatico ha messo in questione la sovranità di Stati come Baltici e Ucraina secondo il diritto internazionale. “Dichiarazioni inaccettabili, auspichiamo non sia la posizione ufficiale della Cina”, ha attaccato l’alto rappresentante Ue, Josep Borrell, che preparerà le discussioni tra i Ventisette