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    Le forniture di aiuti umanitari nel Nagorno-Karabakh sono finalmente riprese. L’Ue esorta a “regolarizzare il passaggio”

    Bruxelles – Dopo mesi di stallo e di completa chiusura dei rifornimenti umanitari, gli oltre 120 mila abitanti del Nagorno-Karabakh possono tornare a sperare in un flusso costante di cibo e farmaci, gas e acqua potabile. “Accogliamo con favore il passaggio simultaneo di carichi umanitari attraverso Lachin e Ağdam“, è il commento soddisfatto del presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, alla notizia di oggi pomeriggio (18 settembre) dell’ingresso di camion del Comitato internazionale della Croce Rossa carichi di aiuti umanitari nella regione separatista a maggioranza armena sul territorio dell’Azerbaigian: “Questo passaggio deve essere regolarizzato“.
    Il primo convoglio umanitario a fare ingresso nell’enclave a maggioranza cristiana nel sud-ovest dell’Azerbaigian (a maggioranza musulmana) era arrivato martedì scorso (12 settembre) ma dal territorio azero attraverso la rotta Ağdam-Askeran. Altri convogli francesi e armeni erano rimasti invece finora bloccati, nonostante l’accordo del 9 settembre tra il governo azero e quello armeno per riaprire il corridoio di Lachin. Per questo motivo il leader del Consiglio Ue aveva chiesto “a tutte le parti interessate di dare prova di responsabilità e flessibilità” nel “facilitare la riapertura dell’unica via di accesso all’Armenia e al mondo esterno per decine di migliaia di abitanti dell’autoproclamata Repubblica dell’Artsakh. Dopo la svolta di oggi – che mette forse fine a una crisi che va avanti da nove mesi – per Bruxelles “è essenziale avviare colloqui tra Baku e gli armeni del Nagorno-Karabakh sui loro diritti e la loro sicurezza“, ha messo in chiaro Michel, anticipando che “l’Ue è pronta a sostenere”.
    L’Unione Europea è diventata da un anno e mezzo il principale mediatore tra il primo ministro dell’Armenia, Nikol Pashinyan, e il presidente dell’Azerbaigian, Ilham Aliyev, e si spiega così l’entusiasmo di Bruxelles nel vedere i primi segnali di distensione tra due Paesi caucasici. “Accogliamo la consegna di aiuti umanitari della Croce Rossa attraverso Lachin e Ağdam agli armeni del Nagorno-Karabakh”, ha ribadito il portavoce del Servizio europeo per l’azione esterna (Seae), Peter Stano. Quello che le istituzioni comunitarie ora si aspettano è “garantire forniture regolari alla popolazione”, spingere per un “dialogo significativo” tra Baku e i separatisti e soprattutto “diminuire le tensioni sulla linea di contatto e sul confine internazionale“. La crisi dura da mesi e il dispiegamento di truppe azere lungo il confine armeno ha aumentato i timori per lo scoppio di un nuovo conflitto tra Baku e Yerevan per il controllo del Nagorno-Karabakh.
    La tensione in Nagorno-Karabakh
    Da sinistra: il presidente dell’Azerbaigian, Ilham Aliyev, il presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, e il primo ministro dell’Armenia, Nikol Pashinyan
    Tra i due Paesi caucasici la guerra congelata va avanti dal 1992, con scoppi di violenze armate ricorrenti. Il più grave degli ultimi anni è stato quello dell’ottobre del 2020: in sei settimane di conflitto erano morti quasi 7 mila civili, prima del cessate il fuoco che ha imposto all’Armenia la cessione di ampie porzioni di territorio nel Nagorno-Karabakh. Dopo un anno e mezzo la situazione è tornata a scaldarsi a causa di alcune sparatorie alla frontiera a fine maggio 2022, quando è diventato sempre più evidente che la tensione sarebbe tornata a salire. La priorità dei colloqui di alto livello stimolati dal presidente del Consiglio Europeo è stata posta sulla delimitazione degli oltre mille chilometri di confine. Tuttavia, mentre a Bruxelles si sta provando da allora a trovare una difficilissima soluzione a livello diplomatico, da settembre sono riprese le ostilità tra Armenia e Azerbaigian, con reciproche accuse di bombardamenti alle infrastrutture militari e sconfinamenti di truppe di terra.
    La mancanza di un monitoraggio diretto della situazione sul campo da parte della Russia – che fino allo scoppio della guerra in Ucraina era il principale mediatore internazionale – ha portato alla decisione di implementare una missione Ue. Dopo il compromesso iniziale con Yerevan e Baku raggiunto il 6 ottobre a Praga in occasione della prima riunione della Comunità Politica Europea, 40 esperti Ue sono stati dispiegati lungo il lato armeno del confine fino al 19 dicembre dello scorso anno. Una settimana prima della fine della missione l’Azerbaigian ha però bloccato in modo informale – attraverso la presenza di pseudo-attivisti ambientalisti armati – il corridoio di Lachin e da allora sono in atto forti limitazioni del transito di beni essenziali come cibo e farmaci, gas e acqua potabile. Gli unici a poterla percorrere sono i soldati del contingente russo di mantenimento della pace e il Comitato internazionale della Croce Rossa.
    Soldati dell’Azerbaigian al posto di blocco sul corridoio di Lachin (credits: Tofik Babayev / Afp)
    A seguito dell’aggravarsi della situazione nel corridoio di Lachin, il 23 gennaio è arrivata la decisione del Consiglio dell’Ue di istituire la missione civile dell’Unione Europea in Armenia (Euma) nell’ambito della politica di sicurezza e di difesa comune, con l’obiettivo di contribuire alla stabilità nelle zone di confine e garantire un “ambiente favorevole” agli sforzi di normalizzazione dei due Paesi caucasici. Ma la tensione è tornata a crescere lo scorso 23 aprile, con la decisione di Baku di formalizzare la chiusura del collegamento strategico attraverso un posto di blocco, con la giustificazione di voler impedire la rotazione dei soldati armeni nel Nagorno-Karabakh “che continuano a stazionare illegalmente nel territorio dell’Azerbaigian”. Da Bruxelles è arrivata la condanna dell’alto rappresentate Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, prima della ripresa delle discussioni a maggio e un nuovo round di negoziati di alto livello tra Michel, Aliyev e Pashinyan il 15 luglio.
    L’alternarsi di sforzi diplomatici e tensioni crescenti sul campo ha portato a uno degli episodi più allarmanti per gli osservatori Ue presenti dallo scorso 20 febbraio in Armenia per contribuire alla stabilità nelle zone di confine. Il 15 agosto una pattuglia della missione Euma è rimasta coinvolta in una sparatoria dai contorni non meglio definiti (entrambe le parti, armena e azera, si sono accusate a vicenda), senza nessun ferito. L’evento aveva provocato qualche imbarazzo a Bruxelles, dopo che Yerevan aveva dato la notizia secondo cui l’esercito azero aveva “scaricato il fuoco contro gli osservatori dell’Ue”. Sulla stessa pagina X della missione civile Ue in Armenia era apparso un post (poi cancellato) con un perentorio “falso”, ma poche ore più tardi è stato pubblicato l’aggiornamento di rettifica che ha dato ragione ai portavoce armeni, almeno nella parte in cui è stata confermata la presenza della pattuglia europea durante gli spari, senza nessun riferimento alla responsabilità azera.

    Il presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, ha accolto la notizia del passaggio di convogli attraverso il corridoio di Lachin, che collega l’Armenia alla regione separatista passando dal territorio dell’Azerbaigian: “Oa è essenziale avviare colloqui sui loro diritti e la loro sicurezza”

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    L’Ue guarda con speranza ai primi convogli umanitari arrivati in Nagorno-Karabakh: “Sia riaperto il corridoio di Lachin”

    Bruxelles – Forse qualcosa si sta davvero sbloccando, o almeno questa è la speranza dell’Unione Europea. Dopo che martedì (12 settembre) ha fatto ingresso nel Nagorno-Karabakh un primo convoglio umanitario proveniente dal territorio azero, per Bruxelles potrebbe essere arrivato il momento di dare una spallata decisiva per risolvere la situazione in uno dei punti più delicati nei rapporti tra Armenia e Azerbaigian: il corridoio di Lachin. “Ci aspettiamo che crei uno slancio per la ripresa di regolari consegne umanitarie alla popolazione locale“, è quanto si legge in una nota del Consiglio Europeo.
    È proprio il leader dell’istituzione comunitaria, Charles Michel, il più impegnato negli ultimi mesi per implementare soluzioni per la de-escalation delle tensioni armate e della situazione umanitaria degli armeni del Nagorno-Karabakh, anche attraverso una serie di conversazioni telefoniche con il premier dell’Armenia, Nikol Pashinyan, e il presidente dell’Azerbaigian, Ilham Aliyev, e con un confronto con il presidente della Turchia, Recep Tayyip Erdoğan, a margine del G20 a Nuova Delhi. “La situazione sul campo si sta deteriorando rapidamente, è fondamentale garantire la fornitura di prodotti essenziali” ai cittadini dell’autoproclamata Repubblica dell’Artsakh (Nagorno-Karabakh), è l’esortazione del Consiglio Ue, che guarda all’apertura della rotta Ağdam-Askeran come un “passo importante” che dovrebbe “facilitare la riapertura anche del corridoio di Lachin”. Ovvero dell’unica via di accesso all’Armenia e al mondo esterno per gli oltre 120 mila abitanti del Nagorno-Karabakh: “Chiediamo a tutte le parti interessate di dare prova di responsabilità e flessibilità”.
    Altri convogli francesi e armeni sono ancora bloccati, nonostante sabato scorso (9 settembre) il governo azero avesse annunciato un accordo con quello armeno per riaprire il corridoio di Lachin. “Questa difficile situazione sul terreno è durata troppo a lungo” e Bruxelles mette in chiaro che gli sforzi ora devono essere incanalati nel “trovare soluzioni sostenibili e reciprocamente accettabili per garantire l’accesso umanitario, anche in vista della stagione autunnale e invernale”. Sforzi sostenuti dal rappresentante speciale dell’Ue per il Caucaso meridionale e Georgia, Toivo Klaar, la cui presenza nella regione permette alle istituzioni comunitarie di ribadire la “ferma convinzione che il corridoio di Lachin debba essere sbloccato”, parallelamente con “altre vie di approvvigionamento”. Queste esortazioni si riassumono nella richiesta netta da parte del Consiglio Ue di far seguire ai primi segnali di apertura “passi più concreti nei prossimi giorni e settimane” nel processo di pace tra Armenia e Azerbaigian. La guerra congelata tra i due Paesi caucasici va avanti dal 1992, con scoppi di violenze armate ricorrenti. Il più grave degli ultimi anni è stato quello dell’ottobre del 2020: in sei settimane di conflitto erano morti quasi 7 mila civili, prima del cessate il fuoco che ha imposto all’Armenia la cessione di ampie porzioni di territorio nel Nagorno-Karabakh
    La mediazione Ue sul Nagorno-Karabakh
    Da sinistra: il presidente dell’Azerbaigian, Ilham Aliyev, il presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, e il primo ministro dell’Armenia, Nikol Pashinyan
    La mediazione di Bruxelles con il premier armeno Pashinyan e il presidente azero Aliyev è diventata sempre più frequente dopo le sparatorie alla frontiera tra i due Paesi di fine maggio 2022, quando è diventato sempre più evidente che la tensione sarebbe tornata a salire. La priorità dei colloqui di alto livello è stata posta – e lo è tutt’ora – sulla delimitazione degli oltre mille chilometri di confine. Tuttavia, mentre a Bruxelles si sta provando da allora a trovare una difficilissima soluzione a livello diplomatico, da settembre sono riprese le ostilità tra Armenia e Azerbaigian, con reciproche accuse di bombardamenti alle infrastrutture militari e sconfinamenti di truppe di terra.
    La mancanza di un monitoraggio diretto della situazione sul campo da parte della Russia – che fino allo scoppio della guerra in Ucraina era il principale mediatore internazionale – ha portato alla decisione di implementare una missione Ue. Dopo il compromesso iniziale con Yerevan e Baku raggiunto il 6 ottobre a Praga in occasione della prima riunione della Comunità Politica Europea, 40 esperti Ue sono stati dispiegati lungo il lato armeno del confine fino al 19 dicembre dello scorso anno. Una settimana prima della fine della missione l’Azerbaigian ha però bloccato in modo informale – attraverso la presenza di pseudo-attivisti ambientalisti armati – il corridoio di Lachin e da allora sono in atto forti limitazioni del transito di beni essenziali come cibo e farmaci, gas e acqua potabile. Gli unici a poterla percorrere sono i soldati del contingente russo di mantenimento della pace e il Comitato internazionale della Croce Rossa.
    Soldati dell’Azerbaigian al posto di blocco sul corridoio di Lachin (credits: Tofik Babayev / Afp)
    A seguito dell’aggravarsi della situazione nel corridoio di Lachin, il 23 gennaio è arrivata la decisione del Consiglio dell’Ue di istituire la missione civile dell’Unione Europea in Armenia (Euma) nell’ambito della politica di sicurezza e di difesa comune, con l’obiettivo di contribuire alla stabilità nelle zone di confine e garantire un “ambiente favorevole” agli sforzi di normalizzazione dei due Paesi caucasici. Ma la tensione è tornata a crescere lo scorso 23 aprile, con la decisione di Baku di formalizzare la chiusura del collegamento strategico attraverso un posto di blocco, con la giustificazione di voler impedire la rotazione dei soldati armeni nel Nagorno-Karabakh “che continuano a stazionare illegalmente nel territorio dell’Azerbaigian”. Da Bruxelles è arrivata la condanna dell’alto rappresentate Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, prima della ripresa delle discussioni a maggio e un nuovo round di negoziati di alto livello tra Michel, Aliyev e Pashinyan il 15 luglio.
    L’alternarsi di sforzi diplomatici e tensioni crescenti sul campo ha portato a uno degli episodi più allarmanti per gli osservatori Ue presenti dallo scorso 20 febbraio in Armenia per contribuire alla stabilità nelle zone di confine. Il 15 agosto una pattuglia della missione Euma è rimasta coinvolta in una sparatoria dai contorni non meglio definiti (entrambe le parti, armena e azera, si sono accusate a vicenda), senza nessun ferito. L’evento aveva provocato qualche imbarazzo a Bruxelles, dopo che Yerevan aveva dato la notizia secondo cui l’esercito azero aveva “scaricato il fuoco contro gli osservatori dell’Ue”. Sulla stessa pagina X della missione civile Ue in Armenia era apparso un post (poi cancellato) con un perentorio “falso”, ma poche ore più tardi è stato pubblicato l’aggiornamento di rettifica che ha dato ragione ai portavoce armeni, almeno nella parte in cui è stata confermata la presenza della pattuglia europea durante gli spari, senza nessun riferimento alla responsabilità azera.

    Il Consiglio Europeo accoglie il primo sblocco positivo di uno stallo che dura dal 12 dicembre dello scorso anno: “Ora è importante trovare soluzioni sostenibili per garantire l’accesso umanitario” in vista dell’inverno. Ma continua a preoccupare la situazione di tensione sul campo

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    Il partito al governo in Georgia ha avviato la procedura di impeachment contro la presidente per i suoi viaggi nell’Ue

    Bruxelles – Non trova pace la Georgia sul piano politico, a pochi mesi da quello che potrebbe essere l’appuntamento decisivo per le speranze del Paese caucasico di fare il primo passo verso l’ingresso nell’Unione Europea. Il partito al governo Sogno Georgiano ha avviato la procedura di impeachment contro la presidente della Repubblica, Salomé Nino Zourabichvili, per una serie di viaggi nell’Ue che rappresenterebbero – secondo l’accusa – una violazione dei poteri della capa di Stato secondo la Costituzione nazionale. Al centro delle recenti visite di Zourabichvili a Berlino e a Bruxelles c’era proprio la raccolta di sostegno per la concessione dello status di Paese candidato all’adesione Ue per la Georgia, ma l’autonomia della presidente ha scatenato la dura reazione del controverso partito attualmente al potere.
    La presidente della Georgia, Salomé Nino Zourabichvili, alla sessione plenaria del Parlamento Europeo (31 maggio 2023)
    “Chiudere un occhio su gravi violazioni della Costituzione mina lo Stato di diritto di un sistema costituzionale democratico”, è l’attacco del presidente di Sogno Georgiano, Irakli Kobakhidze, che venerdì (primo settembre) ha annunciato di essere pronto ad avviare la procedura di impeachment per rivelare che “ancora una volta l’agenda comune dell’opposizione radicale e di Zourabichvili è diretta contro gli interessi della Georgia, compreso lo status di candidato” all’adesione all’Unione. La violazione “in modo flagrante” della Costituzione riguarderebbe la decisione della numero uno del Paese caucasico di effettuare una serie di viaggi diplomatici all’estero senza consultarsi con il governo, gli ultimi dei quali tra il 31 agosto e il primo settembre a Berlino (con il presidente tedesco, Frank-Walter Steinmeier) e a Bruxelles (con il leader del Consiglio Ue, Charles Michel). All’orizzonte c’è un cruciale Consiglio Europeo di dicembre, in cui i leader dei Ventisette dovranno decidere se concedere a Tbilisi lo status di candidato all’adesione, dopo aver ricevuto a ottobre il parere della Commissione Ue nel Pacchetto sull’Allargamento annuale.
    Il ruolo della figura presidenziale in Georgia è perlopiù cerimoniale, ma dallo scorso anno Zourabichvili si è ritagliata uno spazio sempre più ampio di autonomia nello spingere gli interessi filo-Ue di Tbilisi e proponendosi come punto di riferimento dell’opposizione popolare a un partito considerato – con tutte le eccezioni del caso in un Paese in cui la prospettiva di adesione Ue e Nato è scritta nella Costituzione – su molti aspetti filo-russo. Lo ha dimostrato sia nel rifiuto di firmare una controversa legge sugli agenti stranieri a inizio marzo (poi ritirata per la reazione di piazza di centinaia di migliaia di cittadini georgiani) sia nel suo appassionato discorso alla sessione plenaria del Parlamento Europeo a fine maggio, quando ha chiesto a Bruxelles di garantire alla Georgia lo status di candidato all’adesione Ue entro la fine del 2023 come “riconoscimento delle lotte del nostro popolo, dell’identità e dell’importanza dell’Ue”. Secondo quanto reso noto al termine del confronto tra Michel e Zourabichvili – in cui sono stati discussi gli “sviluppi più ampi” nel Caucaso meridionale della guerra russa in Ucraina – il numero uno del Consiglio Europeo ha non solo “ribadito l’impegno dell’Ue a sostenere la Georgia nel suo percorso europeo”, ma ha anche “elogiato l’impegno personale della presidente georgiana” in questo senso: “È stato particolarmente apprezzato il ruolo da lei svolto nel contribuire al controllo legislativo, nell’esercitare il suo diritto di grazia, che ha contribuito alla depolarizzazione, e la sua forte attenzione politica all’agenda Ue-Georgia”.
    Da sinistra: il primo ministro della Georgia, Irakli Garibashvili, e il presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel (14 giugno 2023)
    Non è per niente chiaro come il comportamento della presidente “si oppone direttamente agli sforzi del governo georgiano per ricevere tale status” di candidato all’adesione Ue, come recita l’accusa di Sogno Georgiano. Lo stesso leader del partito ha però ammesso che l’impeachment “è impossibile nella situazione politica attuale”, dal momento in cui è necessario l’appoggio dei due terzi del Parlamento nazionale (di 150 seggi) e perciò “senza i voti dell’opposizione radicale non ha alcuna prospettiva di esecuzione”. Questo non ha tuttavia impedito l’avvio della procedura presso la Corte Costituzionale e l’invio di una lettera in cui viene negata l’autorizzazione a tenere in futuro altri incontri diplomatici alla presidente georgiana nata a Parigi nel 1952. La mossa politica di Sogno Georgiano potrebbe avere conseguenze pesanti su ciò che Michel ha definito “un’opportunità storica da non perdere”, ovvero la prospettiva europea a fronte di “riforme necessarie” da implementare su giustizia, deoligarchizzazione, lotta alla corruzione e pluralismo dei media”, ma soprattutto per “la depolarizzazione e la costruzione di una cultura politica inclusiva”.
    La situazione politica a Tbilisi
    Con il passare dei mesi e degli avvicendamenti politici a Tbilisi è sempre più evidente che per l’Unione Europea la Georgia rimane uno dei Paesi partner più complessi da gestire, a causa dello scollamento tra una popolazione a stragrande maggioranza filo-Ue e un governo quantomeno controverso sulle tendenze filo-russe (anche se poi ha fatto richiesta di aderire all’Unione per i timori sollevati dall’espansionismo del Cremlino). Tra le notizie che hanno sollevato più preoccupazioni a Bruxelles va ricordata la ripresa dei voli tra Georgia e Russia dopo la decisione di Mosca di eliminare il divieto in vigore, ma anche l’avvicinamento del premier Irakli Garibashvili (che da ancora membro osservatore del Partito del Socialismo Europeo ha partecipato alla convention di quest’anno dei conservatori europei e statunitensi a Budapest) all’omologo ungherese, Viktor Orbán, e alle sue politiche autoritarie e anti-Lgbtq+.
    Le proteste pro-Ue dei manifestanti georgiani a Tbilisi, 7 marzo 2023 (credits: Afp)
    La richiesta della Georgia di aderire all’Ue è arrivata il 3 marzo 2022, a una settimana dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina. Mentre il 17 giugno il gabinetto von der Leyen ha dato la luce verde alle richieste di Ucraina e Moldova, alla Georgia è stata indicata la necessità di lavorare su una serie di priorità. La decisione ufficiale è arrivata al Consiglio Europeo del 23 giugno, che ha approvato la linea tracciata dalla Commissione: Kiev e Chișinău sono diventati Paesi candidati, Tbilisi ha ricevuto solo la “prospettiva europea”. A causa di questo ‘fallimento’, nella capitale georgiana si sono svolte due grandi manifestazioni pro-Ue: una ‘marcia per l’Europa’ per ribadire l’allineamento del popolo ai valori dell’Unione e una richiesta di piazza di dimissioni del governo. I tratti comuni di queste manifestazioni sono state le bandiere – bianca e rossa delle cinque croci (nazionale) e con le dodici stelle su campo blu – cartelli con rivendicazioni europeiste e l’inno georgiano intervallato dall’Inno alla Gioia.
    Sei mesi fa sono poi scoppiate dure proteste popolari contro un controverso progetto di legge sulla ‘trasparenza dell’influenza straniera’ di filo-russa memoria, voluta proprio dal premier Garibashvili per registrare tutte le organizzazioni che ricevono più del 20 per cento dei loro finanziamenti dall’estero come ‘agente straniero’ (in modo simile a quanto in vigore in Russia dal primo dicembre dello scorso anno). Dopo l’approvazione in prima lettura da parte del Parlamento decine di migliaia di cittadini georgiani sono scesi in piazza con le bandiere della Georgia e dell’Unione Europea – gridando slogan come Fuck Russian law e tappezzando la città di insulti a Putin – sostenuti sia dalle istituzioni comunitarie sia dalla presidente Zourabichvili. Dopo due giorni di proteste ininterrotte il partito Sogno Georgiano ha ritirato il progetto di legge, ma senza sconfessare la propria iniziativa. Il fondatore del partito al potere è l’oligarca Bidzina Ivanishvili, che compare nella risoluzione non vincolante del Parlamento Europeo in cui è richiesto alla Commissione di imporre nei suoi confronti sanzioni personali.
    La Georgia verso il Consiglio Ue di dicembre
    In vista del Consiglio Europeo di dicembre in cui il dossier allargamento sarà prioritario sul tavolo dei 27 leader, la Commissione ha anticipato per la prima volta il suo consueto Pacchetto Allargamento con una presentazione orale dello stato di avanzamento delle riforme in Ucraina, Moldova e Georgia. Secondo quanto illustrato dal commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi, lo scorso 22 giugno, al momento Tbilisi ha completato 3 priorità su 12: quella sull’uguaglianza di genere e sulla lotta contro la violenza di genere, quella sull’implementazione delle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo nei tribunali nazionali e quella sulla nomina di un difensore d’ufficio nei processi. In altre 7 priorità sono stati registrati alcuni progressi: impegno contro la polarizzazione politica, funzionamento delle istituzioni pubbliche e del sistema elettorale, adozione delle riforme giudiziarie, rafforzamento delle agenzie anti-corruzione, lotta contro la criminalità organizzata, rafforzamento della difesa dei diritti umani e coinvolgimento della società civile nel processo decisionale. Solo progressi limitati nella de-oligarchizzazione, mentre nessun progresso sul pluralismo dei media e gli standard sui procedimenti contro i proprietari dei media.
    Ora l’attenzione è tutta rivolta all’esito delle valutazioni della Commissione e alla decisione del Consiglio di dicembre sul percorso di allineamento di Tbilisi alle priorità per la candidatura all’adesione Ue. In caso di nuovo responso negativo si potrebbe assistere ad ancora più rabbia sociale contro il governo e al rischio di un crescente risentimento verso Bruxelles, con conseguenze al momento non prevedibili sull’appuntamento elettorale per il rinnovo del Parlamento georgiano nel 2024.

    Le recenti visite a Berlino e Bruxelles di Salomé Nino Zourabichvili per raccogliere sostegno sulla concessione dello status di Paese candidato all’adesione Ue ha scatenato la dura reazione del partito Sogno Georgiano, che accusa la leader di violare la Costituzione con la sua autonomia

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    Una data per l’allargamento Ue ai Balcani Occidentali. Michel: “Entrambe le parti devono essere pronte entro il 2030”

    Bruxelles – Ora la data è fissata, anche se la questione davvero complessa sarà convincere gli attuali 27 Paesi membri Ue a navigare tutti nella stessa direzione. “Se vogliamo essere credibili mentre prepariamo la nostra agenda strategica, dobbiamo parlare di tempistiche: credo che dobbiamo essere pronti, da entrambe le parti, ad allargarci entro il 2030“. Parola del presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel. Al Bled Strategic Forum (in Slovenia), la conferenza internazionale annuale che ospita i leader dell’Europa centrale e sudorientale, il numero uno dell’istituzione comunitaria ha messo sul tavolo ciò che fino a due anni fa – prima dello stravolgimento della guerra russa in Ucraina e delle conseguenze geopolitiche che ha scatenato – non si poteva nemmeno nominare, ovvero una data-limite entro cui aver compiuto tutti i passi necessari per l’allargamento Ue ai Balcani Occidentali.
    Al vertice Ue-Balcani Occidentali del 2021 – svoltosi allora per pura coincidenza proprio in Slovenia – non era passata la richiesta di Lubiana di inserire nel testo della dichiarazione il 2030 come “data ultima su cui basare il calendario dei negoziati”, mentre oggi (28 agosto) a Bled proprio il presidente del Consiglio Ue ha fornito un’indicazione temporale precisa che coincide con la fine del decennio. “L’Europa deve mantenere le sue promesse“, iniziate ufficialmente al vertice di Salonicco del 2003. Come ricordato la scorsa settimana alla cena informale di Atene, “la lentezza di questo cammino ha deluso molti, sia nella regione sia nell’Ue” e per Michel “è tempo di sbarazzarsi delle ambiguità e affrontare le sfide con chiarezza e onestà”. Perché i Balcani Occidentali – Albania, Bosnia ed Erzegovina, Kosovo, Macedonia del Nord, Montenegro e Serbia – sono una regione “nel cuore dell’Europa, circondata dall’Ue” e per i Ventisette è arrivato il momento di un cambio di paradigma: “Ci accontentiamo di un’Unione che si limita a gestire le crisi o vogliamo essere un attore globale che plasma il futuro? Vogliamo essere più influenti per dare forma a un mondo migliore”. E questo riguarda anche la sfida dell’allargamento Ue: “Lo dobbiamo fare sia per noi sia per i futuri Stati membri, sì, è così che dovremmo chiamare così i Paesi che hanno confermato la prospettiva europea“.
    Mantenere le promesse significa spingere un processo di allargamento Ue che “non è più un sogno”, considerato quanto accaduto al Consiglio Europeo di giugno 2022: “Abbiamo conferito lo status di candidati all’Ucraina e alla Moldova, lo stesso attende la Georgia quando avrà completato i passi necessari”. Anche se “c’è ancora molto lavoro da fare” per i Sei balcanici la strada è più tracciata, con obiettivi che possono essere fissati a rialzo: “Il prossimo budget pluriennale Ue dovrà includere obiettivi comuni, servirà per spingere le riforme e generare interesse negli investimenti”. Sarà un tema di confronto tra i Ventisette ai prossimi Consigli di ottobre e dicembre, ma anche in occasione del nuovo vertice Ue-Balcani Occidentali che “si terrà a dicembre a Bruxelles e servirà per affiancare il Consiglio Europeo”. A questo punto però si attendono soprattutto proposte concrete su quello che più di un anno fa lo stesso Michel aveva presentato come “un processo più rapido, graduale e reversibile” all’allargamento Ue e che oggi è stato riproposto: “Un’integrazione dei Paesi candidati all’adesione in campi specifici, con vantaggi tangibili una volta che sono rispettate le condizioni di base“. Per esempio, “partecipare allo specifico Consiglio una volta che sono conclusi i negoziati in quel capitolo negoziale”.
    Il presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, al Bled Strategic Forum (28 agosto 2023)
    A fare i “compiti a casa” per raggiungere l’obiettivo 2030 sull’allargamento Ue dovranno essere sia i Paesi dei Balcani Occidentali sia l’Unione Europea. Per i primi sarà necessario continuare sulla strada delle riforme e dello Stato di diritto, ma anche ricordando che “non c’è cooperazione senza riconciliazione, non c’è spazio per i conflitti del passato all’interno dell’Ue“. Un avvertimento colto soprattutto da Serbia e Kosovo, anche considerato come Michel ha continuato il suo discorso: “L’ideale sarebbe un ingresso contemporaneo, ma i futuri Stati membri si trovano in fasi diverse” e per evitare stalli da parte dei primi privati “una soluzione potrebbe essere aggiungere la cosiddetta clausola di fiducia nei Trattati di adesione, per garantire che i Paesi che hanno appena aderito non possano bloccare quelli futuri”. Parallelamente anche i Ventisette devono prepararsi all’allargamento Ue e “non riformarci prima sarebbe uno sbaglio enorme”. Perché non sarà indifferente l’impatto su “politiche, programmi e fondi, il budget dovrà aiutare tutti”, ma anche il processo decisionale “ha mostrato alcune falle”. Ed è qui che rientra superamento del voto all’unanimità, su cui Michel si è tolto qualche sassolino dalla scarpa: “Abolirla completamente significherebbe gettare il bambino con l’acqua sporca, perché l’unità è al centro della forza dell’Ue”. E perciò bisognerà piuttosto ragionare su “come e quando utilizzare” sia la maggioranza qualificata sia “l’astensione costruttiva”.
    Il panel dei leader dei Balcani Occidentali al Bled Strategic Forum (28 agosto 2023)
    Fiduciosi ma cauti i sei leader dei Paesi balcanici, intervenuti in un panel dedicato al Bled Strategic Forum. “Non credo che saremo dentro l’Ue nel 2030, ma se ci saranno passi in avanti sarà ottimo“, è l’augurio del primo ministro dell’Albania, Edi Rama. Per l’omologo montenegrino, Dritan Abazović, “il 2030 è troppo distante, noi sappiamo bene cosa vogliamo”. Il premier macedone, Dimitar Kovačevski, ha invece fatto notare che “c’è frustrazione per i blocchi che arrivano uno dopo l’altro per questioni domestiche” degli Stati membri. La presidente del Consiglio dei ministri della Bosnia ed Erzegovina, Borjana Krišto, ha voluto mettere in chiaro che “nonostante siamo uno Stato complesso a livello di eticità ed entità, speriamo di iniziare quanto prima i negoziati” per l’adesione. Duro scambio di battute tra i premier di Kosovo, Albin Kurti, e Serbia, Ana Brnabić, sulla normalizzazione dei rapporti tra Pristina e Belgrado, anche se il focus singolarmente rimane sull’accesso all’Unione. “Ci sono piccoli passi concreti perché si uniscano alla maggioranza dei Paesi membri”, è il commento del primo sul non-riconoscimento dell’indipendenza di Pristina da parte di Cipro, Grecia, Romania, Spagna e Slovacchia. “C’è molto euroscetticismo in Serbia, perché ormai sono passati 10 anni dall’avvio dei negoziati”, ha commentato la premier Brnabić, sottolineando un elemento spesso poco considerato quando si parla dei Balcani Occidentali: “Noi siamo Paesi europei e siamo al centro del continente, questo non è un allargamento ma un’inclusione“.
    A che punto è l’allargamento Ue
    Sui sei Paesi dei Balcani Occidentali che hanno iniziato il lungo percorso per l’adesione Ue, quattro hanno già iniziato i negoziati di adesione – Albania, Macedonia del Nord, Montenegro e Serbia – uno ha ricevuto lo status di Paese candidato – la Bosnia ed Erzegovina – e l’ultimo ha presentato formalmente richiesta ed è in attesa del responso dei Ventisette – il Kosovo. Per Tirana e Skopje i negoziati sono iniziati nel luglio dello scorso anno, dopo un’attesa rispettivamente di otto e 17 anni, mentre Podgorica e Belgrado si trovano a questo stadio rispettivamente da 11 e nove anni. Dopo sei anni dalla domanda di adesione Ue, il 15 dicembre dello scorso anno anche Sarajevo è diventato un candidato a fare ingresso nell’Unione, mentre Pristina è nella posizione più complicata, dopo la richiesta formale inviata alla fine dello scorso anno: dalla dichiarazione unilaterale di indipendenza da Belgrado nel 2008 cinque Stati membri Ue non lo riconoscono come Stato sovrano e parallelamente sono si sono inaspriti i rapporti con Bruxelles dopo le tensioni diplomatiche con la Serbia di fine maggio.
    I negoziati per l’adesione della Turchia all’Unione Europea sono stati invece avviati nel 2005, ma sono congelati ormai dal 2018 a causa dei dei passi indietro su democrazia, Stato di diritto, diritti fondamentali e indipendenza della magistratura. Nel capitolo sulla Turchia dell’ultimo Pacchetto annuale sull’allargamento presentato nell’ottobre 2022 è stato messo nero su bianco che “non inverte la rotta e continua ad allontanarsi dalle posizioni Ue sullo Stato di diritto, aumentando le tensioni sul rispetto dei confini nel Mediterraneo Orientale”. Al vertice Nato di Vilnius a fine giugno il presidente turco, Recep Tayyip Erdoğan, ha cercato di forzare la mano, minacciando di voler vincolare l’adesione della Svezia all’Alleanza Atlantica solo quando Bruxelles aprirà di nuovo il percorso della Turchia nell’Unione Europea. Il ricatto non è andato a segno, ma il dossier su Ankara è tornato sul tavolo dei 27 ministri degli Esteri Ue del 20 luglio.
    Lo stravolgimento nell’allargamento Ue è iniziato quattro giorni dopo l’aggressione armata russa quando, nel pieno della guerra, l’Ucraina ha fatto richiesta di adesione “immediata” all’Unione, con la domanda firmata il 28 febbraio 2022 dal presidente Zelensky. A dimostrare l’irreversibilità di un processo di avvicinamento a Bruxelles come netta reazione al rischio di vedere cancellata la propria indipendenza da Mosca, tre giorni dopo (3 marzo) anche Georgia e Moldova hanno deciso di intraprendere la stessa strada, su iniziativa rispettivamente del primo ministro georgiano, Irakli Garibashvili, e della presidente moldava Sandu. Il Consiglio Europeo del 23 giugno 2022 ha approvato la linea tracciata dalla Commissione nella sua raccomandazione: Kiev e Chișinău sono diventati il sesto e settimo candidato all’adesione all’Unione, mentre a Tbilisi è stata riconosciuta la prospettiva europea nel processo di allargamento Ue. Dall’inizio dell’anno sono già arrivate le richieste dall’Ucraina e dalla Georgia rispettivamente di iniziare i negoziati di adesione e di diventare Paese candidato “entro la fine del 2023”.

    Al Bled Economic Forum il presidente del Consiglio Europeo ha anticipato i temi di confronto sull’assorbimento dei “futuri Paesi membri” al prossimo vertice con i Sei balcanici in programma a Bruxelles a dicembre: date-limite, ‘clausola di fiducia’ e riforme dell’Unione (unanimità inclusa)

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    “Obiettivo allargamento e rafforzamento dell’Ue”. Bruxelles ribadisce la duplice linea nel confronto con i Paesi partner

    Bruxelles – Un incontro informale per ribadire che la strada dei Paesi che hanno fatto richiesta di adesione è tracciata verso l’ingresso, ma che l’allargamento Ue è legato in ogni caso al rafforzamento dell’Unione stessa. Le modalità per renderlo realtà sono tutte da tracciare – considerate anche le difficoltà nel ragionare sulla riforma dei Trattati – ma per il presidente del Consiglio Ue, Charles Michel, è fuori discussione che “l’obiettivo non è solo l’allargamento, ma anche il rafforzamento dell’Ue“. È il riassunto di una cena informale svoltasi ieri sera (21 agosto) ad Atene per iniziativa del premier greco, Kyriakos Mitsotakis, a 20 anni dal vertice di Salonicco in cui per la prima volta veniva messa nero su bianco l’inevitabilità della strada verso l’adesione Ue dei Balcani Occidentali. Con lo scoppio della guerra russa in Ucraina altri tre Paesi attendono lo stesso destino, ma gli ultimi due decenni e tre allargamenti hanno messo in luce la necessità per l’Unione di riorganizzarsi e rinnovarsi.
    Il presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, e il primo ministro della Grecia, Kyriakos Mitsotakis, ad Atene (21 agosto 2023)
    “Il dibattito sull’allargamento è molto vivo e dobbiamo sfruttare questo slancio“, ha messo in chiaro lo stesso Michel al termine dell’incontro con i leader di Bosnia ed Erzegovina, Kosovo, Macedonia del Nord, Montenegro, Serbia, Moldova e Ucraina, oltre a quelli di quattro Paesi membri Ue interessati da vicino dal processo: Bulgaria, Croazia, Romania e Slovenia. Come spiegano fonti Ue, i punti principali emersi durante la cena hanno riguardato il sostegno “incrollabile” alla sovranità e all’integrità territoriale dell’Ucraina, ma anche l’allargamento Ue stesso, considerato “una strada a doppio senso” in cui i Paesi candidati “devono riformarsi” ma anche l’Ue “deve prepararsi” a questi ingressi. Un riferimento implicito al difficilissimo tema della riforma dei Trattati e del superamento del voto all’unanimità in seno al Consiglio, per ampliare le aree in cui si vota a maggioranza qualificata anche su politica estera e fiscalità. Parallelamente “l’allargamento rimane una priorità assoluta per l’Ue, uno strumento forte per promuovere la pace, la sicurezza e la prosperità nel nostro continente”, ha ribadito Michel: “Dobbiamo trovare la strada da percorrere per trasformare questa visione dell’Europa in realtà“.
    Diversi i temi sul tavolo ad Atene. Le stesse fonti Ue fanno riferimento alle discussioni volte a risolvere le controversie bilaterali, “in particolare quelle relative ai diritti delle minoranze”. Anche se non esplicitata, la questione ha riguardato più di recente i rapporti tra Grecia e Albania, il cui premier Edi Rama non è stato invitato ieri per le tensioni causate dalla detenzione dallo scorso 14 maggio del sindaco di etnia greca della città albanese Himarë, Fredi Beleri. Il primo cittadino della cittadina costiera è stato arrestato per una presunta compravendita di voti e da tre mesi è in atto un braccio di ferro diplomatico tra il governo Rama e il governo Mitsotakis: il primo accusa Atene di voler influenzare un’indagine indipendente, il secondo punta il dito contro Tirana per quella che considera una detenzione motivata politicamente. A proposito di controversie bilaterali, la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, si è congratulata con il premier macedone, Dimitar Kovačevski, per la presentazione degli emendamenti costituzionali in Parlamento sulle minoranze etniche nel Paese: “Spero che tutti i partiti lo sostengano per far progredire il percorso europeo della Macedonia del Nord“.
    La presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, e il presidente dell’Ucraina, Volodymyr Zelensky, ad Atene (21 agosto 2023)
    Un altro tema caldo ad Atene è stato quello delle tensioni tra Kosovo e Serbia e la ripresa del dialogo mediato da Bruxelles. La numero uno dell’esecutivo comunitario ha discusso con entrambi i leader – il premier kosovaro, Albin Kurti, e il presidente serbo, Aleksandar Vučić – sulla necessità di “un impegno costruttivo per smorzare la situazione nel nord del Kosovo” dopo gli scontri violenti di fine maggio e i continui scontri diplomatici di giugno. La presidente von der Leyen ha chiesto in particolare al premier Kurti di “attuare gli accordi sulla normalizzazione delle relazioni tra Kosovo e Serbia” come parte del piano per la de-escalation concordato con Bruxelles. Con il presidente Vučić si è invece concentrata sui “progressi della Serbia nel suo percorso verso l’Ue”, in particolare sull’integrazione e l’allineamento delle due parti “di fronte alla guerra russa contro l’Ucraina“. E proprio a proposito del sostegno a Kiev, von der Leyen ha discusso ad Atene con il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, sia del “continuo sostegno” – che ha visto ad Atene nuovi confronti sugli F-16 – sia dell’assistenza economica e del lavoro per “portare il grano ucraino sui mercati mondiali”. Ultimo, ma non per importanza il percorso di adesione Ue di Kiev, a meno di due mesi dalla pubblicazione dell’annuale Pacchetto di allargamento Ue (sulla base della presentazione orale dello stato di avanzamento delle riforme in Ucraina, Moldova e Georgia).
    A che punto è l’allargamento Ue
    Lo stravolgimento nell’allargamento Ue è iniziato quattro giorni dopo l’aggressione armata russa quando, nel pieno della guerra, l’Ucraina ha fatto richiesta di adesione “immediata” all’Unione, con la domanda firmata il 28 febbraio dal presidente Zelensky. A dimostrare l’irreversibilità di un processo di avvicinamento a Bruxelles come netta reazione al rischio di vedere cancellata la propria indipendenza da Mosca, tre giorni dopo (3 marzo) anche Georgia e Moldova hanno deciso di intraprendere la stessa strada, su iniziativa rispettivamente del primo ministro georgiano, Irakli Garibashvili, e della presidente moldava Sandu. In soli quattro giorni (7 marzo) gli ambasciatori dei 27 Stati membri riuniti nel Comitato dei rappresentanti permanenti del Consiglio (Coreper) hanno concordato di invitare la Commissione a presentare un parere su ciascuna delle domande di adesione presentate dai tre Paesi richiedenti, da trasmettere poi al Consiglio per la decisione finale sul primo step del processo di allargamento Ue.
    Prima di dare il via libera formale, un mese più tardi (8 aprile) a Kiev la presidente dell’esecutivo comunitario von der Leyen ha consegnato al presidente Zelensky il questionario necessario per il processo di elaborazione del parere della Commissione. Lo stesso ha fatto il commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi, a margine del Consiglio Affari Esteri a Lussemburgo l’11 aprile. Meno di settanta giorni dopo, il 17 giugno il gabinetto von der Leyen ha dato la luce verde a tutti e tre i Paesi, specificando che Ucraina e Moldova meritavano subito lo status di Paesi candidati, mentre la Georgia avrebbe dovuto lavorare su una serie di priorità. La decisione ufficiale è arrivata al Consiglio Europeo del 23 giugno, che ha approvato la linea tracciata dalla Commissione: Kiev e Chișinău sono diventati il sesto e settimo candidato all’adesione all’Unione, mentre a Tbilisi è stata riconosciuta la prospettiva europea nel processo di allargamento Ue. Dall’inizio di quest’anno sono già arrivate le richieste dall’Ucraina e dalla Georgia rispettivamente di iniziare i negoziati di adesione e di diventare Paese candidato “entro la fine del 2023”.
    Sui sei Paesi dei Balcani Occidentali che hanno iniziato il lungo percorso per l’adesione Ue, quattro hanno già iniziato i negoziati di adesione – Albania, Macedonia del Nord, Montenegro e Serbia – uno ha ricevuto lo status di Paese candidato – la Bosnia ed Erzegovina – e l’ultimo ha presentato formalmente richiesta ed è in attesa del responso dei Ventisette – il Kosovo. Per Tirana e Skopje i negoziati sono iniziati nel luglio dello scorso anno, dopo un’attesa rispettivamente di otto e 17 anni, mentre Podgorica e Belgrado si trovano a questo stadio rispettivamente da 11 e nove anni. Dopo sei anni dalla domanda di adesione Ue, il 15 dicembre dello scorso anno anche Sarajevo è diventato un candidato a fare ingresso nell’Unione, mentre Pristina è nella posizione più complicata, dopo la richiesta formale inviata alla fine dello scorso anno: dalla dichiarazione unilaterale di indipendenza da Belgrado nel 2008 cinque Stati membri Ue non lo riconoscono come Stato sovrano (Cipro, Grecia, Romania, Spagna e Slovacchia) e parallelamente sono si sono inaspriti i rapporti con Bruxelles dopo le tensioni diplomatiche con la Serbia di fine maggio.
    I negoziati per l’adesione della Turchia all’Unione Europea sono stati invece avviati nel 2005, ma sono congelati ormai dal 2018 a causa dei dei passi indietro su democrazia, Stato di diritto, diritti fondamentali e indipendenza della magistratura. Nel capitolo sulla Turchia dell’ultimo Pacchetto annuale sull’allargamento presentato nell’ottobre 2022 è stato messo nero su bianco che “non inverte la rotta e continua ad allontanarsi dalle posizioni Ue sullo Stato di diritto, aumentando le tensioni sul rispetto dei confini nel Mediterraneo Orientale”. Al vertice Nato di Vilnius a fine giugno il presidente turco, Recep Tayyip Erdoğan, ha cercato di forzare la mano, minacciando di voler vincolare l’adesione della Svezia all’Alleanza Atlantica solo quando Bruxelles aprirà di nuovo il percorso della Turchia nell’Unione Europea. Il ricatto non è andato a segno, ma il dossier su Ankara è tornato sul tavolo dei 27 ministri degli Esteri Ue del 20 luglio.

    Ad Atene è andata in scena la cena informale tra i vertici delle istituzioni comunitarie e i leader dei Balcani Occidentali, Ucraina e Moldova. Per il presidente del Consiglio Ue, Charles Michel, il dibattito sull’adesione di nuovi membri “è molto vivo e dobbiamo sfruttare questo slancio”

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    Una cena ad Atene con i leader dei Paesi candidati, a 20 anni da Salonicco. La Grecia torna al centro dell’allargamento Ue

    Bruxelles – Vent’anni dopo, la Grecia vuole tornare protagonista della politica di allargamento Ue. La tavola è apparecchiata per l’appuntamento che questa sera (21 agosto) porterà ad Atene i vertici delle istituzioni comunitarie e i leader dei Paesi candidati all’adesione all’Unione Europea, con un assente eccellente e una strategia ancora tutta da definire, dopo gli ultimi tre vertici Ue-Balcani Occidentali in meno di due anni e tre richieste di ingresso arrivate a seguito dello scoppio della guerra russa in Ucraina. L’ospite della cena informale – il primo ministro greco, Kyriakos Mitsotakis – ha ricordato che quest’anno cade il ventesimo anniversario di quel cruciale vertice di Salonicco, quando per la prima volta volta i leader degli allora 15 Paesi membri riuniti in Grecia sancivano ufficialmente la rotta per la futura adesione dei Balcani Occidentali.
    La presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, e il primo ministro della Grecia, Kyriakos Mitsotakis
    Alla cena di questa sera saranno presenti i presidenti della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, e del Consiglio Europeo, Charles Michel, insieme con i leader di Bosnia ed Erzegovina, Kosovo, Macedonia del Nord, Montenegro, Serbia, Moldova e Ucraina, oltre a quelli di quattro Paesi membri interessati da vicino dall’allargamento Ue nei Balcani Occidentali e nell’Europa orientale: Bulgaria, Croazia, Romania e Slovenia. Mentre ad Atene dovrebbe recarsi anche il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, a pesare sulla cena è però un assente eccellente tra i Paesi candidati all’adesione Ue: il premier albanese, Edi Rama, non invitato all’evento a causa delle recenti tensioni tra Atene e Tirana per la detenzione dallo scorso 14 maggio del sindaco di etnia greca della città albanese Himarë, Fredi Beleri. Il primo cittadino della cittadina costiera è stato arrestato per una presunta compravendita di voti, ma da tre mesi è in atto un braccio di ferro diplomatico con il governo Mitsotakis, accusato di voler influenzare un’indagine indipendente. Atene rietine che l’arresto sia motivato politicamente e potrebbe utilizzare la leva dell’adesione all’Ue come strumento di ricatto verso Tirana per mettere fine a quella che il governo greco considera una “violazione dei diritti umani”. Al posto di Rama – il politico più influente in Albania, padrone di casa dell’ultimo vertice Ue-Balcani Occidentali – alla cena di questa sera era stato invitato il presidente albanese, Bajram Begaj (il cui ruolo è principalmente cerimoniale). Invito comunque declinato per “impegni precedentemente presi”.
    La foto di famiglia del vertice Ue-Balcani Occidentali del 6 dicembre 2022 a Tirana, Albania
    Attraverso il braccio di ferro con l’Albania e con la decisione di convocare tutti i leader – delle istituzioni comunitarie e dei Paesi partner – ad Atene per una cena informale, la Grecia di Mitsotakis sta cercando di rimettersi al centro del progetto di allargamento Ue e soprattutto della stabilità, pace e sicurezza energetica nella penisola balcanica. Era il 21 giugno 2003 quando i leader Ue dichiaravano a Salonicco che “il futuro dei Balcani è all’interno dell’Unione Europea” e decidevano di tenere vertici periodici sui Balcani Occidentali per accelerare questo processo. Vent’anni più tardi i progressi si registrano a singhiozzo e il rischio di perdere la fiducia di popolazioni europeiste accompagna puntualmente ogni appuntamento politico sulla questione.
    La cena di questa sera sarà un’altra occasione per un confronto informale sul percorso di adesione dei Paesi partner, che precede la pubblicazione dell’annuale Pacchetto di allargamento Ue (atteso per ottobre) e arrivato a due mesi dalla presentazione orale dello stato di avanzamento delle riforme in Ucraina, Moldova e Georgia. Al Consiglio Europeo di dicembre dovrà essere deciso se avviare i negoziati di adesione con le prime due (più la Bosnia ed Erzegovina) e se concedere lo status di Paese candidato alla terza. “Dobbiamo avvicinare i nostri amici, gli aspiranti membri dell’Ue, molto più rapidamente“, ha commentato su X la presidente von der Leyen al suo arrivo ad Atene, promettendo che “continueremo ad abbattere le barriere tra le nostre regioni”.
    A che punto è l’allargamento Ue nei Balcani Occidentali
    Sui sei Paesi dei Balcani Occidentali che hanno iniziato il lungo percorso per l’adesione Ue, quattro hanno già iniziato i negoziati di adesione – Albania, Macedonia del Nord, Montenegro e Serbia – uno ha ricevuto lo status di Paese candidato – la Bosnia ed Erzegovina – e l’ultimo ha presentato formalmente richiesta ed è in attesa del responso dei Ventisette – il Kosovo. Per Tirana e Skopje i negoziati sono iniziati nel luglio dello scorso anno, dopo un’attesa rispettivamente di otto e 17 anni, mentre Podgorica e Belgrado si trovano a questo stadio rispettivamente da 11 e nove anni. Dopo sei anni dalla domanda di adesione Ue, il 15 dicembre dello scorso anno anche Sarajevo è diventato un candidato a fare ingresso nell’Unione, mentre Pristina è nella posizione più complicata, dopo la richiesta formale inviata alla fine dello scorso anno: dalla dichiarazione unilaterale di indipendenza da Belgrado nel 2008 cinque Stati membri Ue non lo riconoscono come Stato sovrano (Cipro, Grecia, Romania, Spagna e Slovacchia) e parallelamente sono si sono inaspriti i rapporti con Bruxelles dopo le tensioni diplomatiche con la Serbia di fine maggio.
    Il processo di allargamento Ue in cui sono impegnati i sei Paesi dei Balcani Occidentali inizia con la presentazione da parte di uno Stato extra-Ue della domanda formale di candidatura all’adesione, che deve essere presentata alla presidenza di turno del Consiglio dell’Unione Europea. Per l’adesione all’Unione è necessario prima di tutto superare l’esame dei criteri di Copenaghen (stabiliti in occasione del Consiglio Europeo nella capitale danese nel 1993 e rafforzati con l’appuntamento dei leader Ue a Madrid due anni più tardi). Questi criteri si dividono in tre gruppi di richieste basilari che l’Unione rivolge al Paese che ha fatto richiesta di adesione: Stato di diritto e istituzioni democratiche (inclusi il rispetto dei diritti umani e la tutela delle minoranze), economia di mercato stabile (capacità di far fronte alle forze del mercato e alla pressione concorrenziale) e rispetto degli obblighi che ne derivano (attuare efficacemente il corpo del diritto comunitario e soddisfare gli obiettivi dell’Unione politica, economica e monetaria).
    Ottenuto il parere positivo della Commissione, si arriva al conferimento dello status di Paese candidato con l’approvazione di tutti i membri dell’Unione. Segue la raccomandazione della Commissione al Consiglio Ue di avviare i negoziati che, anche in questo caso, richiede il via libera all’unanimità dei Paesi membri: si possono così aprire i capitoli di negoziazione (in numero variabile), il cui scopo è preparare il candidato in particolare sull’attuazione delle riforme giudiziarie, amministrative ed economiche necessarie. Quando i negoziati sono completati e l’allargamento Ue è possibile in termini di capacità di assorbimento, si arriva alla firma del Trattato di adesione (con termini e condizioni per l’adesione, comprese eventuali clausole di salvaguardia e disposizioni transitorie), che deve essere prima approvato dal Parlamento Europeo e dal Consiglio all’unanimità.

    Il premier greco, Kyriakos Mitsotakis, ha invitato anche i vertici delle istituzioni comunitarie alla discussioni informale con i partner sulle prospettive di adesione dei Balcani Occidentali, Ucraina e Moldova. Giallo sull’assenza del premier albanese, Edi Rama, per le recenti tensioni bilaterali

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    Quindici anni dopo. L’Ue sempre al fianco della Georgia contro la Russia per riconquistare l’integrità territoriale

    Bruxelles – Era il 7 agosto 2008 e, in un certo senso, la Russia forniva già un’anteprima di quello che avrebbe fatto qualche anno più tardi sul territorio dell’Ucraina. Sono passati esattamente 15 anni da quando i carri armati russi entravano in Georgia per mettere a tacere con la forza le rivendicazioni di Tbilisi sui due territori separatisti sostenuti dal Cremlino – l’Abkhazia a nord-ovest e l’Ossezia del Sud (per i georgiani Samkhret Oseti) nel nord – ma per l’Unione Europea non è un’opzione far venire meno il supporto all’alleato caucasico nel ribadire ogni giorno la propria sovranità e integrità territoriale. “Il sostegno dell’Ue alla Georgia rimane saldo, siamo al fianco del coraggioso popolo georgiano che ha scelto un percorso pro-Ue e pro-Nato“, ha scritto questa mattina il presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, su X (piattaforma precedentemente conosciuta come Twitter), ricordando l’anniversario di una delle pagine più controverse della storia recente europea.
    Scritte contro la Russia durante le proteste a Tbilisi il 7 marzo 2023
    Perché 15 anni fa il mondo è rimasto quasi inerme di fronte all’invasione armata di un Paese sovrano, durata solo cinque giorni per il cessate il fuoco invocato dai georgiani per scongiurare il peggio, ovvero l’occupazione militare russa della capitale Tbilisi. Al contrario di quanto accaduto dal 24 febbraio 2022 in Ucraina, dai Paesi membri Ue e dagli Stati Uniti non era arrivato nessun sostegno alla Georgia né l’isolamento della Russia, ma esclusivamente un impegno diplomatico da parte dell’allora presidente di turno francese del Consiglio dell’Ue, Nicolas Sarkozy, per negoziare le condizioni del cessate il fuoco. Da allora – ma più verosimilmente proprio dal 24 febbraio dello scorso anno – a Bruxelles la musica è cambiata e per Tbilisi è pieno il sostegno alla sovranità e all’integrità territoriale, ma anche al cammino di avvicinamento all’Unione Europea iniziato a tutti gli effetti dopo pochi giorni dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina.
    Dal 2008 “le vite georgiane sono sotto la minaccia di una pesante presenza militare russa nelle regioni occupate”, ha attaccato sempre oggi il commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi, chiedendo nuovamente a Mosca di “rispettare i suoi obblighi internazionali”. Sullo stesso tono l’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, che in una nota ha ribadito come “l’impegno dell’Unione Europea per la risoluzione pacifica del conflitto in Georgia è più forte che mai“. Il punto di partenza è proprio l’accordo in sei punti del 12 agosto 2008, violato dalla Russia con la “continua presenza militare” nelle due regioni separatiste: “Persistono gli ostacoli al ritorno degli sfollati interni e dei rifugiati nei loro luoghi di origine”, a cui si sommano “restrizioni alla libertà di movimento e detenzioni illegali”, ha ribadito Borrell. La presenza di 200 osservatori civili della Missione di monitoraggio Eumm in Georgia – il cui mandato è stato rinnovato fino a dicembre 2024 – “ha contribuito alla stabilizzazione e alla sicurezza”, dal momento in cui quella dell’Ue rimane “l’unica missione internazionale sul campo per facilitare una vita sicura e normale per le comunità locali che vivono su entrambi i lati delle linee di confine amministrativo con l’Abkhazia e l’Ossezia del Sud”.
    Tbilisi, Georgia (agosto 2023)
    Dopo i conflitti degli anni Novanta con le due regioni separatiste (1991-1992 in Ossezia del Sud e 1991-1993 in Abkhazia) a seguito dell’indipendenza della Georgia nel 1991 dall’Unione Sovietica, sul terreno la situazione è rimasta di fatto congelata per 15 anni, con le truppe della neonata Federazione Russa a difendere i secessionisti all’interno del territorio rivendicato. Il tentativo di riaffermare il controllo di Tbilisi sulle due regioni nell’estate del 2008 – voluto dall’allora presidente Mikheil Saakashvili – determinò il 7 agosto una violenta reazione russa non solo nel respingere l’offensiva dell’esercito georgiano, ma portando anche all’invasione del resto del territorio nazionale con carri armati e incursioni aeree. La guerra durò solo cinque giorni, ma le città di Zugdidi, Gori, Senaki e Poti (a ridosso delle due autoproclamate Repubbliche separatiste) rimasero occupate per settimane dall’esercito invasore anche dopo il cessate il fuoco. Non solo, da allora la Russia di Vladimir Putin riconosce l’indipendenza di Abkhazia e Ossezia del Sud e ha dislocato migliaia di soldati nei due territori per aumentare la propria sfera d’influenza nella regione della Ciscaucasia, in violazione degli accordi del 12 agosto.
    L’attacco della Russia alla Georgia nel 2008 fu determinato anche da motivazioni strategiche e politiche. Dopo la cosiddetta ‘Rivoluzione delle rose’ del 2003 con cui Saakashvili ha pacificamente preso il potere e iniziato un decennio di rinascita economica e sociale, Tbilisi ha sancito nella propria Costituzione nazionale l’aspirazione alla candidatura sia all’Unione Europea sia alla Nato. Una decisione che ha reso ancora più tese le relazioni con Mosca, nonostante gli stretti rapporti commerciali ed economici, e che ha portato a un primo risultato tangibile con la richiesta di adesione all’Ue il 3 marzo 2022. Tuttavia, in linea con il parere della Commissione, al vertice dei leader del 23 giugno è stato deciso di garantire non lo status di Paese candidato ma la “prospettiva europea” e da allora è iniziato il lavoro per l’allineamento alle priorità definite da Bruxelles. Lo scorso 22 giugno la Commissione ha delineato in un rapporto orale i progressi compiuti sullo stato di avanzamento delle riforme: su 12 priorità, al momento solo 3 sono state completate. L’appuntamento è ora per ottobre con l’annuale Pacchetto sull’allargamento Ue, ma la presidente della Georgia, Salomé Zourabichvili, alla sessione plenaria di maggio dell’Eurocamera ha chiesto di concedere entro il 2023 lo status di Paese candidato come “riconoscimento delle lotte del nostro popolo, dell’identità e dell’importanza dell’Ue”.
    Il difficile cammino della Georgia verso l’Ue
    Per l’Unione Europea la Georgia rimane uno dei Paesi partner più complessi da gestire, a causa dello scollamento tra una popolazione a stragrande maggioranza filo-Ue e un governo quantomeno controverso sulle tendenze filo-russe (anche se poi ha fatto richiesta di aderire all’Unione per i timori sollevati dall’espansionismo del Cremlino concretizzatosi il 24 febbraio 2022 in Ucraina). Tra le notizie che hanno sollevato più preoccupazioni a Bruxelles va ricordata la ripresa dei voli tra Georgia e Russia dopo la decisione di Mosca di eliminare il divieto in vigore, ma anche il ritiro del partito al potere a Tbilisi, Sogno Georgiano, come membro osservatore del Partito del Socialismo Europeo (Pes) a causa dell’avvicinamento del premier Irakli Garibashvili (che ha partecipato alla convention dei conservatori europei e statunitensi a Budapest) all’omologo ungherese, Viktor Orbán.
    A cavallo della decisione di Bruxelles di giugno 2022 di non concedere ancora alla Georgia lo status di candidato all’adesione, a Tbilisi si sono svolte due grandi manifestazioni pro-Ue: una ‘marcia per l’Europa’ per ribadire l’allineamento del popolo georgiano ai valori dell’Unione e una richiesta di piazza di dimissioni del governo per aver fallito l’obiettivo sulla candidatura all’adesione. I tratti comuni di queste manifestazioni sono state le bandiere – bianca e rossa delle cinque croci (nazionale) e con le dodici stelle su campo blu (dell’Ue) – cartelli con rivendicazioni europeiste e l’inno georgiano intervallato dall’Inno alla Gioia (quello ufficiale dell’Unione Europea). Ora l’attenzione è tutta rivolta all’esito delle valutazioni della Commissione e alla decisione del Consiglio di dicembre sul percorso di allineamento di Tbilisi alle priorità per la candidatura all’adesione Ue. In caso di nuovo responso negativo si potrebbe assistere ad ancora più rabbia sociale contro il governo e al rischio di un crescente risentimento verso Bruxelles, con conseguenze al momento non prevedibili sull’appuntamento elettorale per il rinnovo del Parlamento georgiano nel 2024.
    Le proteste dei manifestanti georgiani a Tbilisi contro il progetto di legge sulla “trasparenza dell’influenza straniera”, 7 marzo 2023 (credits: Afp)
    Non va dimenticato che solo cinque mesi fa sono scoppiate dure proteste popolari contro un controverso progetto di legge sulla ‘trasparenza dell’influenza straniera’ di filo-russa memoria, voluta proprio dal premier Garibashvili per registrare tutte le organizzazioni che ricevono più del 20 per cento dei loro finanziamenti dall’estero come ‘agente straniero’ (in modo simile a quanto in vigore in Russia dal primo dicembre dello scorso anno). Dopo l’approvazione in prima lettura da parte del Parlamento decine di migliaia di cittadini georgiani sono scesi in piazza con le bandiere della Georgia e dell’Unione Europea – gridando slogan come Fuck Russian law e tappezzando la città di insulti a Putin – sostenuti sia dalle istituzioni comunitarie sia dalla presidente Zourabichvili. Dopo due giorni di proteste ininterrotte il partito Sogno Georgiano ha ritirato il progetto di legge, ma senza sconfessare la propria iniziativa. Il leader del partito al potere è l’oligarca Bidzina Ivanishvili, che compare nella risoluzione non vincolante del Parlamento Europeo in cui è richiesto alla Commissione di imporre nei suoi confronti sanzioni personali.

    “Siamo al fianco del coraggioso popolo georgiano che ha scelto un percorso pro-Ue e pro-Nato”, ribadisce il leader del Consiglio, Charles Michel, ricordando l’anniversario dell’invasione russa del Paese caucasico a sostegno delle Repubbliche separatiste dell’Abkhazia e dell’Ossezia del Sud

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    Michel: “Summit Ue-Celac ogni due anni”

    Bruxelles – Imprimere un cambiamento nelle relazioni tra Unione europea e Paesi dell’America latina e dei caraiibi. Il forum Ue-Celac deve tenersi con cadenza regolare, perché “le sfide che siamo chiamati ad affrontare sono urgenti e complesse”, sottolinea il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, e dunque, “non possiamo permetterci di aspettare altri otto anni per un vertice” tra i leader delle due aree del mondo. Servono, e Michel lo propone ai capi di Stato e di governo riuniti a Bruxelles, “vertici più regolari, ogni due anni, e un meccanismo di coordinamento permanente garantiranno progressi coerenti”.
    A dettare un nuovo corso non è solo l’insieme degli interessi di un’Europa desiderosa di vedere la propria politica di sostenibilità accettata e promossa ovunque, nuove relazioni commerciali, nuove collaborazioni in materia di energia. E’ un ordine internazionale diverso. C’è un mondo cambiato, rispetto all’ultimo summit Ue-Celac. C’è stata una crisi pandemica, e “tra oggi e il 2015 c‘è un’altra grande differenza”, non può fare a meno di sottolineare Michel in riferimento al conflitto russo-ucraino.
    “Mentre parliamo, un membro permanente del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite sta attaccando un paese vicino”, ricorda non a caso, visto che tra i Paesi del centro-sudamerica non tutti hanno sottoscritto le risoluzioni Onu di condanna nei confronti di Mosca (Brasile e Messico si astennero). “La guerra illegale della Russia contro l’Ucraina è una tragedia per l’Ucraina e per il mondo, con conseguenze devastanti per la sicurezza alimentare, i prezzi dell’energia e l’economia globale”.
    A proposito di economia, Michel ricorda che “i leader qui oggi rappresentano un miliardo di persone e oltre il 20 per cento del Prodotto interno lordo mondiale“. Cifre che danno la dimensione della forza che i due blocchi (27 Stati Ue e 33 Paesi centro-sudamericani) possono avere se dovessero di marciare compatti, come richiesto dal presidente del Consiglio europeo.

    Il presidente del Consiglio europeo suggerisce di rendere più strutturato e più regolare il rapporto con i 33 Paesi dell’America centrale e dei Caraibi. “Non possiamo permetterci di attendere otto anni”